26 giugno: memoria di don Lorenzo Milani

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DON LORENZO MILANI. TRA STORIA E MEMORIA.  Don Milani: chi era costui? Uno dei bei libri apparsi sulla figura di don Milani è certamente quello di Giorgio Pecorini, dal titolo: Don Milani! Chi era costui?, edito da Baldini&Castoldi. L’interrogativo manzoniano che fa da titolo al libro è perfettamente appropriato, anche se, come è ovvio, tra Carneade e don Abbondio, da una parte, e don Lorenzo, dall’altra, non c’è proprio nulla in comune. Appropriato perché, a quarantacinque anni dalla morte, non abbiamo ancora una risposta univoca, definitiva, condivisa da tutti. In vita si scontrò con i superiori ecclesiastici e con i tribunali civili che lo processarono per apologia di reato mentre la cultura laica tendeva ad esaltarlo, sia come “prete contro” sia come testimone attivo e propugnatore di una scuola diversa, meno attenta ai Pierini figli di papà e più ai Gianni proletari, emarginati a causa di un ambiente familiare che non li aiutava per nulla a crescere in coscienza, responsabilità, padronanza di parola: fino a fare di lui un precursore del Sessantotto. Oggi la situazione appare in qualche modo rovesciata: dentro il mondo ecclesiale qualcuno parla di farlo diventare santo mentre la cultura laicista tende a mettere in dubbio la validità della sua esperienza e a darne giudizi drasticamente negativi, anche con falsificazioni di dati (si veda, ad esempio, la polemica avviata, qualche anno fa, sulle pagine di Repubblica da Sebastiano Vassalli secondo il quale don Milani fu un “maestro improvvisato e sbagliato”, “manesco e autoritario”, autore di un testo, Lettera ad un professoressa, “più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato. A esso “si deve se migliaia di insegnanti seri e preparati, che avevano quest’unico torto, di voler continuare a fare il loro lavoro si trovarono da un giorno all’altro segnati al dito e braccati dall’ira delle folle”).

 Un profeta che inquieta “Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto. Mi sono attirato contro un mucchio di odio, ma non si può negare che tutto questo ha elevato il livello degli argomenti di conversazione e di passione del mio popolo. Nel popolo di quel mio amico (escluso il periodo strettamente elettorale) si battaglia accanitamente solo per Coppi e per Bartali. Nel mio si battaglia pro o contro un metodo di apostolato, un modo di fare il prete o di affrontare una questione morale o sindacale. Quel mio amico secondo me insegna poco e a pochi, io invece avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco”. Tensione, rigore. Sta qui, soprattutto, la “scomodità” di don Milani che si avverte tutte le volte che si deve parlare o scrivere di lui. E’ scomodo anche perché è un personaggio che misura tutte le nostre immaturità e tutti i nostri ritardi, tutti i nostri compromessi che, a poco a poco, abbiamo chiamato mediazioni, i nostri opportunismi che abbiamo definito sempre più necessari e opportuni. Ma è scomodo perché è uno dei quegli uomini che diventano davvero un aculeo nella nostra coscienza. Ti rendi conto che la “scomodità” proviene da questa sua dedizione così radicale, consumata senza un attimo di sosta fino alla morte. Così scrive in una lettera a don Ezio Palombo: “Ponete in alto il cuore vostro e fate che sia come una fiaccola che arde. Io penso che su questo punto non bisogna avere pietà, di nessuno. La mira altissima, addirittura disumana (perfetti come il Padre!) e la pietà, la mansuetudine, il compromesso paterni, la tolleranza illuminata solo per chi è caduto e se ne rende conto e chiede perdono e vuol riprovare da capo a porre la mira altissima..” Ed ancora: “Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinfacciargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti


innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia Sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo.”

 Oltre il reducismo e il pregiudizio ideologico Leggendo libri e articoli apparsi nel ricordo dei quarantacinque anni della morte del priore di Barbiana si avverte ancora fortemente sia una spessa aria di reducismo sia una forte pregiudiziale ideologica dall’altra. E’ necessario invece trovare le coordinate per cogliere il limite e, insieme, la profezia di don Milani oggi.

 Le scelte di fondo Don Milani è stato certamente un uomo che ha giocato la sua vita sulla cultura. Di famiglia borghese, profondamente intellettuale, imparentata addirittura con il grande Guicciardini. Per don Milani il sapere, il suo sapere, è stato un elemento di discriminazione fondamentale. Eppure è nota la sua profonda avversione con parte del mondo intellettuale e culturale del tempo. Fino ad arrivare, nel 1966, al famoso “blocco continentale”, per il quale, dopo una lettera del cardinal Florit, l’accesso a Barbiana fu chiuso per la maggior parte di intellettuali e gente di cultura. Come mai questa avversione? Era contro la cultura del “salotto”, una cultura che non interroghi la vita, non apra al cambiamento. “Lui detestava il parlare a vuoto, la retorica, il parlarsi addosso degli accademici... che lui finisca nei convegni che non sono finalizzati alla programmazione di azioni concrete per far cambiare le tante ingiustizie che ci sono al mondo, ecco: questo sarebbe il peggior dispetto che gli potremmo fare” (dalla testimonianza di Francuccio Gesualdi, uno dei “ragazzi” di Barbiana). cfr. la bellissima lettera scritta a Francuccio nell’aprile del ’67, due mesi prima di morire: “Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: “Il priore non riceve perché ascoltando un disco”. Vedo invece che non me ne importa nulla. Volevo anche scrivere sulla porta: “I dont’care più”, ma invece me ne care ancora molto, tanto più che domenica mattina quando avevo deciso di chiudere ogni bottega (scolastica e parrocchiale) Dio m’ha mandato Ferruccio e Enzo e una fila d’altri ragazzi di San Donato come per dire che devo seguitare a amare le creature giorno per giorno come fanno le maestre e le puttane”. Ma soprattutto era contro una cultura che non coglieva il volto concreto di quanti fanno più fatica. Una delle lezioni fondamentali di don Milani è che è necessario che i poveri escano dall’astrattezza e ci si misuri con il povero “concreto”, quello dei “trecento metri”. Non a caso, Neera Fallaci ha titolato la sua splendida biografia sul priore di Barbiana “Dalla parte dell’ultimo”. Dell’ultimo, non degli ultimi. Cosa era per lui la cultura? Risponde in Esperienze Pastorali: “La cultura vera quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola” “Non che io abbia della cultura una fiducia magica come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti. E’ che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un catechismo, leggerli e intendere. Dopo poi potranno fare il diavolo che vorranno: buttarli dalla finestra o metterseli in cuore, si arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro. Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola?


 Una pedagogia del “fare” “Il sapere serve solo per darlo. Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”. Non è solo la cultura borghese che ne va di mezzo, ma la stessa cultura classica, col primato della contemplazione e con l’ideale del sapiente. Il pensiero cristiano aveva più volte fatto i conti con questa concezione e aveva trovato per lo più vie di mediazione tra verità e carità, tra contemplazione e azione. Diceva s.Tommaso: “Come illuminare è più che risplendere soltanto, così dare agli altri il frutto della contemplazione è più che contemplare soltanto”. Per don Milani non è questione di gradi: una contemplazione che non sia insegnamento non serve; colui che ha interessi culturali quando è solo non è maestro. I modelli di riferimento sono quelli di Gandhi (di cui oggi ricordiamo i cinquant’anni della morte) che concepisce una famiglia aperta, scuola a tempo pieno nel villaggio e quello del celibato di chi si consacra pienamente alla scuola. Una educazione funzionale, per una “pedagogia del fare”. In una lettera all’amico Gian Paolo Meucci scrive: “Cosa aspetti a chiuderti ad ogni altra attività e scrivere un trattatello elementare, economicissimo e limpidissimo di diritto? Vuoi tu che i poveri regnino presto? Scrivi dunque un libro per loro o un giornale per loro oppure fatti apostolo tra i tuoi compagni laureati cattolici per dare vita ad una grandiosa scuola popolare a Firenze. Non come dono da fare ai poveri, ma come un debito da pagare e un dono da ricevere. Non per insegnare ma solo per dare i mezzi tecnici necessari (cioè la lingua) ai poveri per poter insegnare essi a voi le inesauribili ricchezze di equilibrio, di saggezza, di concretezza, di religiosità potenziale che Dio ha nascosto nel loro cuore quasi per compensarli della sperequazione culturale di cui sono vittime..:” Lo capiranno anche i ragazzi di Barbiana quando si batteranno contro le tentazioni dell’individualismo e perfino del sapere in sé. “Abbiamo scoperto che amare il sapere può anche essere egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo. Per esempio dedicarci all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili”. In fondo, come Paulo Freire, il grande pedagogista brasiliano morto nel mese di maggio lo scorso anno (e dimenticato dai media) anche don Milani faceva coincidere l’evangelizzazione con la coscientizzazione e la coscientizzazione con la scuola, ossia con l’abilitazione al possesso e all’uso della parola. Tutta la sua attività può in tal modo essere letta sia in chiave religiosa che laica. “Anche le lettere ai cappellani e ai giudici sono episodi della nostra vita e servono solo per insegnare ai ragazzi l’arte dello scrivere, cioè di esprimersi, cioè di amare il prossimo, cioè di far scuola” Decisiva diviene quindi la figura del maestro.  Il maestro “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola”. In questa frase vi è, in sintesi, tutto il senso dell’impegno di don Milani. Molti hanno messo in discussione il presunto autoritarismo della scuola di Barbiana, tutta giocata sulla verità e sull’assolutezza del maestro. Don Milani non ha mai negato ciò ma ha sempre ribadito che la sostanza del rapporto gli interessa più dei modi per gestirlo. “Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare.. Però chi era senza basi, lento o svogliato, si sentiva il preferito. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui”. Ancora: “Abbiamo visto anche noi che


con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. E’ quello che non capisce la professoressa, destinataria della famosa Lettera, alla quale i ragazzi ricordano che “non vi è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali”. La concezione dell’educazione, della scuola e del maestro elaborata, vissuta e sperimentata a Barbiana diventa il metro con cui si misurano la funzione della scuola media di stato e il ruolo della professoressa. Da un lato un amore che si fa scuola e una scuola che si fa promotrice di persone: dall’altro una funzione selettiva che si fa istituzione e che rende aridi gli insegnanti facendoli diventare “povere persone”. Come giudicare questo confronto? Come insulto gratuito e provocatorio di chi pretende di comparare due realtà eterogenee o come offerta di un punto di vista nuovo e originale per leggere in filigrana la complessa esperienza scolastica, alla luce di una scuola anomala, non istituzionale, fatta per gli emarginati da un prete precario a tempo pieno? Non è la prima che da esperienze educative anomale vengono idee fondamentali per ripensare la scuola normale. Non si tratta di rimproverare alla scuola normale la mancanza di carismi e di vocazioni ad un servizio totale ed esclusivo, ma di fare un’analisi di funzionalità della scuola in termini obiettivi e di richiamarsi alla Costituzione e alle leggi, analogamente a quello che ha fatto la scuola di Barbiana, che è partita dai poveri.  l’impegno politico Una scuola fatta a misura dei poveri è rivoluzionaria, in un senso che va chiarito. “Chi ama le creature che stanno bene resta apolitico. Non vuole cambiare nulla”. Chi invece ama i poveri vuole il cambiamento: non un cambiamento, qualunque fatto sulla base di una cultura loro estranea. “Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato e condannato con la mente aperta e sveglia, come la può avere solo un povero che è stato a scuola”. Per cui forte era la convinzione che chi non sa di politica è un’analfabeta. Chi non fa politica è un egoista. Politica significa accorgersi che i problemi degli altri sono uguali ai tuoi e darsi da fare per risolverli insieme. Un’educazione che pretendesse di essere “apolitica”, neutrale, asettica, oggettiva, pura, sarebbe in realtà la scuola più ideologica, più bugiarda, più dannosa per il cittadino di oggi e di domani. Coloro che salivano a Barbiana trovavano, appeso al muro della stanza, un cartello con la scritta I CARE, che era il motto, intraducibile, dei giovani americani che si battevano nei campus universitari: “Mi sta a cuore, mi interessa”. Sull’altra parete vi era invece scritto un breve componimento di un bambino cubano: “Yo escribo porque me gusta estudiar. El nino que no estudia non es buen revolucionario”. (Io studio perché mi piace studiare. Il ragazzo che non studia non è un buon rivoluzionario). La passione civile, l’impegno politico, l’amore per le cose serie della vita, lo schierarsi sempre, a qualsiasi costo, contro l’ingiustizia sono lo “statuto” della scuola di Barbiana. “Non vedremo sbocciare dei santi finche non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale”. Perché se è vero che la scuola deve provocare e farsi provocare dalla vita e dalla storia è vero pure che essa non può rimanere indifferente o neutrale. Anche perché la neutralità coincide quasi sempre con la conservazione delle logiche dominanti. “Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Una scuola quindi tesa alla formazione di una coscienza critica (due ore al giorno, a Barbiana, erano spese nella lettura dei giornali), capace di mettere in discussione idee secolari, disponibile (si pensi alla lettera ai giudici!) a ricostruire una memoria storica diversa da quella proposta e consacrata nei tempi. Una scuola che non occulti il conflitto ma, mostrandolo, dia le condizioni per una possibile gestione e un suo superamento. Tutto ciò in modo nonviolento, con un’arma nobile e rivoluzionaria: la parola.  il senso critico.


Egli univa in sé il massimo della fedeltà dogmatica al massimo della ricerca critica. L’ “osa pensare” dell’illuminismo era in lui la condizione stessa della fede cristiana. Ma non solo: Obbedienza, Patria, Guerra, Violenza, Sport, Gerarchia. Pezzo per pezzo don Milani destruttura, frantuma le parole chiave di ogni ideologia. (cfr. il racconto di Silone) Dirà a Pipetta, il giovane comunista: “il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò con te. Io tornerò nella tua casupola piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al Signore crocefisso.. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: beati di fame e sete”. Ma senso critico è anche la fierezza della propria condizione: “Bisogna crescergli il senso della propria superiorità, mettergli in cuore l’orrore di tutto ciò che è borghese” Don Milani ha visto bene nel suo tempo che la classe operaia era tutta protesa verso l’imitazione della classe borghese. L’operaio sentiva fortemente il fascino della borghesia. Qualche anno più tardi Pier Paolo Pasolini sarà un nome che resterà come un sigillo su un processo oramai compiuto: l’omologazione sociale, l’omologazione delle culture. Pensate al valore di questa diagnosi e al fatto che oggi questa deve essere sempre più aggiornata in una prospettiva mondiale: il Sud del mondo imita il Nord. L’omologazione culturale planetaria è in corso. Le differenze fanno fatica a resistere. Tutto ciò che è minoritario viene inghiottito, stritolato, cancellato. La terapia di don Milani era evidente: l’educazione ha un senso se aiuta a far crescere il senso critico, se aiuta il soggetto a prendere coscienza della propria cultura, dei suoi valori originali, della sua altissima dignità e autonomia.  Una scuola capace di formazione All’obiezione fattagli una sera alla scuola popolare da un ragazzo di San Donato che “Qui mi pare che da un discorso si va sempre in un altro e non si fa mai nulla”, don Milani rise e disse: “Chi non si fida di me si levi dai piedi. Non ho interesse a farvi una scuola o un’altra. Impara l’arte e mettila da parte. Nessuno di noi sa il futuro, chi può indovinare cosa gli occorrerà nella vita? E allora qualunque cosa si faccia è tutto buono. Io so che vi occorre solo la lingua e la lingua è fatta delle parole di tutte le materie diverse messe insieme. Se ti insegnassi solo a disegnare saresti una bestia che disegna e non serviresti né a te né a nessuno. Te invece devi diventare un Uomo che disegna”. E’ la formazione, ieri come oggi, che fa la differenza.... E’ la costruzione dell’uomo integrale una chance.. In un tempo di tanti saperi “regionali”...  il valore della parola Mi soffermo un poco sul valore della parola nella concezione educativa di don Milani. I ragazzi di Barbiana così scrivono ai bambini della scuola di Mario Lodi: Il prore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo. Per esempio, dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato e simili. Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari. Ma il priore dice che non potremmo far nulla per il prossimo, in nessun campo, finché non sapremo comunicare. Perciò qui le lingue sono, come numero di ore, la materia principale. Prima l’italiano, perché sennò non si riesce a imparare nemmeno le lingue straniere. Poi più lingue possibili, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare tra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre. Da qui la scelta di mandare i ragazzi all’estero. Francuccio in Algeria, Edoardo in Inghilterra, Michele a Stoccarda... Ma poiché l’esperienza di ognuno sarà sempre necessariamente parziale, occorre che ogni uomo sia reso padrone degli strumenti linguistici, per poter comunicare con gli altri e arricchirsi in tal modo anche della loro esperienza di vita. “La parola è la chiave fatata che apre ogni porta”. La


padronanza del linguaggio va intesa sia in senso quantitativo - “il padrone è padrone perché sa più parole di te” - sia qualitativo - vedere le parole come persone vive, “che hanno una nascita, uno sviluppo, un trasformarsi, un deformarsi”. La lingua è del resto indispensabile anche solo per interpretare la propria esperienza. Non possedere la lingua significa essere “sotto-uomo”. “L’illetterato sarà incoerente anche se ci mette la miglior buona volontà perché spesso gli manca perfino la capacità di intendere i termini del problema che gli si propone. Quasi sempre è incapace di condurre e poi tener presente alla mente un ragionamento filato e elevato”. Il linguaggio è di per sé uno strumento ambiguo. Perché possa servire allo scambio di esperienze deve essere ricco, preciso, oggettivo, capace di descrivere con vivacità e in modo specifico i singoli fatti. Ogni cosa va chiamata col suo nome. Non devono essere usate parole sterilizzate, che non si imprimono nel cuore, e che quindi non lasciano traccia. Come fanno gli organi di stampa, che pure avrebbero il compito di fornire le notizie vere e complete e invece negano al lettore l’incontro coi fatti stessi nella loro nuda realtà. Mai ci parlano ad esempio delle torture che la polizia di De Gaulle usa contro i prigionieri algerini. E invece tutto bisogna dire, con precisione e insistenza, compreso le cose volgari - enculer il torturato, pisciargli in faccia, fargli assaggiare la merde francaise, passargli l’alta tensione pei coglioni” - se vogliamo che ognuno possa aver presenti al cuore i fatti come se li avesse visti. Purtroppo la stampa non vuole che nel lettore resti segno “’d’una incertezza, d’un disagio, d’una sofferenza interiore...” Mai si devono affrontare problemi di così largo respiro e di così complessa soluzione da lasciar nell’animo un’ansia di approfondimento o un’ombra di scoraggiamento. Tutto dev’essere sempre risolto entro i termini dell’articolo e il lettore deve uscire dalla lettura del “suo” giornale, confortato, tranquillizzato, evirato”. I giornali, i libri diventano dunque per l’uomo di cultura un “muro di carta” di cui egli si fa, senza rendersene conto, sempre più prigioniero. “Smetti di leggere, sparisci”: è il consiglio di don Milani a Pierino. E’ il consiglio che per primo don Milani stesso ha seguito.  la scelta della cittadinanza Analfabeta, nel gergo di don Milani, non è soltanto l’uomo che non sa parlare o non sa leggere o non sa scrivere, ma piuttosto l’uomo che non sa come stanno i fatti del mondo, come si trasforma una data realtà, come un popolo possa farsi soggetto della propria liberazione e infine come un cittadino può vivere da soggetto libero all’interno di un popolo libero. E’ il tema della cittadinanza “sovrana”. La capacità cioè di parlare in prima persona, di conoscere e di stare dentro i processi di cambiamento. Quella scelta che padre Balducci collocava nella “terra di nessuno” che è tra teologia e politica, spazio della crisi e coscienza della crisi, luogo etico dove si riconosce l’ordine esistente come ingiusto e si è “prima” degli organismi politici di rappresentanza che dovrebbero cambiarlo: si è in grado di giudicarli, di contestarli, di rifondarli. Cittadinanza intesa peraltro come “disobbedienza obbedientissima” che rispetta rigorosamente le regole della convivenza ma da cittadino sovrano.. che sa che le regole sono regole del conflitto, che lo legittimano e lo autorizzano.

 La provocazione: cosa resta oggi? Padre Balducci, soprattutto all’inizio, era convinto che don Milani se ne fosse andato, usando un’espressione pasoliniana, “quando se ne sono andate le lucciole”, ovvero nel momento in cui la civiltà contadina, la civiltà delle lucciole, volgeva al proprio tramonto. E quindi le sue analisi (sulla cultura contadina, sulla scuola selettiva) rischiavano, per il Balducci degli anni settanta, di apparire lontane e vuote (arriverà a riconoscere la verità di certe analisi solo più tardi). Certo, gli anni sono passati. Pecorini sottolinea giustamente come l’evoluzione cultura di questi trent’anni abbia molto scombinato le tante “barbiane del mondo”, ma non abbia cancellato (nella società delle immagini e dell’iperconsumo) lo svantaggio sociale, l’handicap culturale e linguistico:


solo l’abbia arricchito di forme, codici, alfabeti. Mancano ancora quindi le precondizioni diffuse della democrazie, della “cittadinanza” Infatti... * esiste ancora una percentuale non del tutto irrilevante di insuccessi scolastici, che non consentono una normale fruizione obbligatoria; * gli esiti educativi, sul piano delle capacità fondamentali della persona, appaiono in troppi casi incerti (basti vedere la fine dell’educazione civica..) * la dura selezione che don Milani scorgeva negli anni della scuola media si è trasferita al biennio successivo (“Nel nome del padre”... si perpetuano scelte e lavori dei genitori.. non è, ripetuta, la storia di Pierino e di Gianni?) * la capacità di accoglienza della scuola nei confronti di tutte le condizioni di bisogno e di tutte le varietà di estrazione sociale e culturale è ancora piuttosto ridotta... Ma il “richiamo” di don Milani “funzionerebbe” nelle barbiane metropolitane di oggi, così inconsapevoli della propria minorità, così lontane dal dovere politico dell’acquisire gli strumenti linguistici delle classi dominanti (peraltro sempre meno “diverse” culturalmente); così estranee a quell’idea conflittuale-discorsiva della politica (così lontana da quella mediatica e plebiscitaria di oggi)? Oggi il circuito culturale mi sembra lasciare fuori meno barbiane. Meno passioni politiche. O forse dentro e fuori il circuito ci sono altre istanze politiche, magari difficili da riconoscere; altre forme del consumo, stili di vita e desideri; altre forme del conflitto che esistono e attraverso le città, le periferie, le scuole. E don Lorenzo potrebbe funzionare ancora, nel post-moderno. Lui quasi premoderno... E’ bene infatti non trascurare le possibilità (educative di disobbedienza) dei maestri e delle maestre, negli spazi stretti ma profondi della scuola ma anche del sindacato. Due cose, per finire, credo che vadano salvaguardate comunque.  la forza dell’indignazione e il valore della responsabilità Chi sta a contatto con quanti fanno più fatica ha le orecchie attente alle ingiustizie che attraversano il mondo. Noi ci stiamo un po’ tutti, lentamente, abituando.. Chi si accosta ai testi di don Milani si rende conto che il rispetto della vita, l’amore del prossimo, il primato della coscienza non sono presentati come principi astratti ma come criteri guida che nessun appello all’obbedienza della più autorevole legge e della più autorevole istituzione o persona può cancellare. La miseria non è una fatalità, la guerra non è una fatalità: nessun avvenimento può essere imputabile solo ai capi, ma una serie di azioni, compiute da uomini, di cui ognuno è responsabile “in solido” per la parte che gli tocca... (la statua di Nabucodonosor.. e il senso di responsabilità) Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.

“I trecento metri” “Non si può amare senza perdere la testa”. In una discussione avuta con i ragazzi del Cenacolo, il gruppo fondato negli anni ’50 da padre Balducci, don Milani sosteneva la tesi che la carità fatta a tutti non ha significato, occorre invece occuparsi di quei pochi che abbiamo nel nostro spazio vitale, come lui faceva con i suo i ragazzi. Nel ricordare questo episodio, padre Balducci terminava diceva che per don Milani il mondo finiva a trecento metri. Ecco, l’ho già detto prima ma vale la pena ripeterlo, io credo che, con la solita radicalità urtante di don Milani, vi stia dentro un’altra intuizione: occorre che i poveri escano dall’astrattezza e ci si misuri con il povero “concreto”, quello dei “trecento metri”.


“Se credessi davvero al comandamento che continuamente mi rinfacciano, e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni ad un prete da salotto, cioè da cenacolo misticointellettualascetico, e smetterei di essere quello che sono, cio’ un parroco di montagna che non vede al di là dei suoi parrocchiani... Se offrissi un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri di ascetica, smettere d’esser parte vivente di un popolo di montanari...” “Quei due preti mi domandavano se il mio scopo finale nel far scuole fosse di portarli alla chiesa o no e cosa altro mi potesse interessare al mondo nel far scuola se non questo. E io come potevo spiegare a loro così pii e così puliti che io i miei figlioli li amo, che ho perso la testa per loro, che non vivo che per farli crescere, per farli aprire, per farli sbocciare, per farli fruttare? Come facevo a spiegare che amo i miei parrocchiani più che la chiesa e il papa? E che se un rischio corro per l’anima mia non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto d’amare troppo? E chi non farà scuola così non farà mai vera scuola e è inutile che disquisisca fra scuola confessionale e non confessionale, è inutile che si preoccupi di riempire la sua scuola di immaginette sacre e discorsi edificanti, perché la gente non crede a chi non ama: e è inutile che tenti di allontanare dalla scuola i professori atei perché anche loro non sono creduti dai ragazzi se non li adorano. E chi potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza incorrere nel sesto comandamento se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’Inferno e desideri il Paradiso? Un credente, dunque, che è stato, anzitutto, uomo e sacerdote, maestro e profeta, pronto con la Parola ricevuta a giudicare il mondo, convinto che nella passione di Dio viva quella per l’uomo. Scriverà infatti nel testamento: “Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti con voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto. Un altro abbraccio, vostro Lorenzo”.


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