Proposte sostegno al reddito

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Le proposte di sostegno al reddito Dossier a cura di Vincenzo Menna, Marta Simoni, Elisa Agolini

Dossier n. 3 - Dicembre 2013


Indice Premessa

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Reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza?

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Cosa accade in Europa

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Le proposte in Parlamento

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Le misure di contrasto alla povertĂ previste dal Governo

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Le esperienze a livello locale

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Le proposte di Acli e Caritas e di altri soggetti del terzo settore

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Premessa La povertà è in aumento nel nostro paese. Gli ultimi dati Istat evidenziano come la recessione abbia determinato un aumento significativo dell’intensità del disagio economico: dal 2007 al 2012 il numero di individui in povertà assoluta è raddoppiato da 2,4 a 4,8 milioni. Quasi la metà (2,3 milioni) sono al Sud e di questi poco più di 1 milione sono minori. Aumentano le famiglie che comprano meno: il 65%. Peraltro, le situazioni di povertà assoluta, specie nell’ultimo anno, si sono estese anche a fasce di popolazione che, tradizionalmente, presentano una diffusione del fenomeno molto contenuta grazie al tipo di lavoro svolto o al secondo reddito del coniuge. Sono dunque in difficoltà anche le famiglie che dispongono di redditi da lavoro e di pensione, segno evidente che la crisi colpisce anche i ceti lavoratori. I dati dell’Istat trovano conferma nella recente ricerca che le Acli hanno realizzato sulle dichiarazioni dei redditi presentate ai Caf Acli. Dal primo Rapporto Acli sui redditi di lavoratori e famiglie emerge, infatti, che i redditi dichiarati nel quadriennio 2009-12 sono in calo dell’1,08% a livello complessivo e del 3,1% per quanto riguarda il lavoro dipendente. L’immagine che risulta da questi dati è dunque quella di un Paese unito nella povertà e nell’impoverimento delle famiglie. Un aumento così rilevante delle diseguaglianze sociali è un’ipoteca che grava pesantemente sulle prospettive di ripresa. Per tale ragione, le Acli hanno deciso, in collaborazione con la Caritas Italiana, di elaborare la proposta del Reddito d’inclusione sociale (REIS), da collocare in un piano nazionale contro la povertà. Inoltre, abbiamo aderito insieme a molte altre forze sociali, sindacali istituzionali ad un’Alleanza contro la povertà in Italia. Peraltro, gli stessi mondi impegnati a lanciare la proposta del REIS hanno contribuito al lavoro della Commissione governativa istituita con lo scopo di definire la proposta dell’esecutivo. Tale sinergia non mi sorprende, poiché lo stesso ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Enrico Giovannini, lo scorso 24 luglio in occasione del lancio della proposta sul Reddito d’inclusione sociale, aveva annunciato davanti ai vertici di Acli, Caritas, Cgil, Cisl e di altre organizzazioni che danno vita al Patto contro la povertà, la volontà di procedere in tal senso. Purtroppo, devo rilevare che le risorse destinate alla lotta alla povertà, sulla base dell’emendamento alla legge di stabilità votato dal Senato, sono largamente insufficienti: appena 40 milioni all’anno - contro i 900 che servirebbero per avviare un progetto come il Reddito di inclusione sociale - che oltretutto risultano destinati all’estensione, in via sperimentale e solo in alcune aree metropolitane, della nuova carta acquisti: uno strumento con una sua funzionalità, seppur limitata, ma che da solo non configura minimamente un intervento pianificato e sistematico di contrasto alla povertà. Per finanziare l’avvio di un piano nazionale contro la povertà è indispensabile la definizione di un quadro certo ed adeguato di investimenti senza il quale risulterebbe poco realistico immaginare la costruzione di un sistema locale di servizi idoneo alla lotta contro l’esclusione sociale. Questa costruzione richiede investimenti, sviluppo di competenze e programmazione: gli enti locali, il terzo settore e le organizzazioni sociali impegnate nel territorio potranno realizzarla solo se riceveranno un’appropriata stima economica e previsionale. È necessario che Governo e Parlamento, nella lotta alla povertà, operino un deciso cambio di marcia affinché ci sia una risposta commisurata alla grave emergenza sociale che vive il Paese. Gianni Bottalico 3


Reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza? In questo periodo il tema delle misure di sostegno al reddito è nuovamente al centro del dibattito politico. In proposito si ravvisa, però, una certa varietà lessicale che può generare qualche confusione. Esiste, infatti, una distinzione fondamentale tra reddito di cittadinanza (o reddito di base o universale) e reddito minimo garantito (o d’inserimento), spesso usati impropriamente in modo interscambiabile. Il primo è un reddito incondizionato, universale e illimitato nel tempo, rivolto a tutti gli individui dotati di cittadinanza e di residenza (compresi gli occupati e chi non ha mai lavorato); il secondo è, invece, un reddito condizionato la cui erogazione è soggetta a una serie di criteri definiti in base al reddito, la disponibilità a lavorare o altri ancora. Anche se spesso le due espressioni vengono usate come sinonimi, tra i due tipi di misura esiste dunque una differenza sostanziale: il reddito di cittadinanza viene assicurato vita natural durante ad ogni individuo e a prescindere dalla sua disponibilità a lavorare, il reddito minimo garantito è invece limitato nel tempo e condizionato alla disponibilità del beneficiario di accettare un’offerta di lavoro o a partecipare a programmi di formazione finalizzati al suo reinserimento nel mercato del lavoro. Ad esempio, il disegno di legge sull’introduzione in Italia di un “reddito di cittadinanza” presentato dal Movimento 5 stelle è a tutti gli effetti una misura di sostegno destinata solo a particolari categorie di persone e non a tutti i cittadini a prescindere dal reddito a loro disposizione come indurrebbe a pensare il titolo dato alla proposta presentata in Parlamento. Gli esempi concreti di reddito di cittadinanza attualmente in vigore si contano sulle dita di una mano e l’unico caso propriamente detto il Permanent Fund Dividend Program in Alaska, grazie al quale dal 1982 viene ridistribuita a ogni cittadino residente da almeno un anno una quota del profitto ricavato dalle concessioni petrolifere sotto la forma di vero e proprio dividendo. Altri schemi parziali sono presenti in vari paesi in via di sviluppo, dove si cercano nuove forme di contrasto alla povertà assoluta e alla deprivazione materiale. Ne è un esempio la legge promulgata dal Presidente Lula da Silva in Brasile nel 2004 per l’introduzione progressiva di un reddito di base (il programma Bolsa Família). Per accedere alla Bolsa i soli vincoli da rispettare sono i seguenti: le donne incinte e i bambini in fase di allattamento devono presentarsi per esami medici presso i centri pubblici di assistenza sanitaria; i bambini fino ai 6 anni di età devono essere vaccinati secondo il calendario del Ministero della Sanità; i bambini dai 7 ai 16 anni devono frequentare la scuola, con una percentuale di presenza alle lezioni pari almeno all’85%. C’è consenso tra i ricercatori economici brasiliani rispetto agli effetti positivi del Programma Bolsa Família anche se non mancano i problemi, come l’iscrizione fraudolenta al programma e il rifiuto di offerte lavorative perché accettare un lavoro può significare la perdita del sussidio nel momento in cui il reddito da lavoro supera il tetto di reddito stabilito per accedere al programma. È evidente che un reddito di cittadinanza propriamente detto, per il nostro paese così come per molti altri, non sarebbe economicamente sostenibile, se non a costo di smantellare il welfare pubblico e sostituirlo con servizi privati, dalla scuola alla sanità, che i cittadini pagherebbero proprio con quel trasferimento monetario. Pertanto, quando in Italia si parla di misure di contrasto alla povertà o di sostegno al reddito, si fa riferimento al reddito minimo garantito, al di là delle etichette con cui viene indicato. Il reddito minimo garantito non va confuso nemmeno con alte forme di sostegno destinate solo a determinate categorie di poveri, come la carta acquisti per gli anziani o le famiglie con figli, o la pensione sociale spettante ai disabili o agli anziani poveri. 4


Un altro aspetto che può generare ambiguità, è dato dal fatto che le diverse proposte di sostegno al reddito sono spesso accompagnate da differenti impostazioni “ideologiche” che contrappongono da un lato chi ne sostiene la necessità, in base alla convinzione che il sistema economico non possa più essere in grado di garantire una buona e piena occupazione (per non parlare delle posizioni più radicali che vedono nel reddito minimo di cittadinanza la possibilità di una “liberazione dal lavoro” oppure la possibilità di una radicale trasformazione dei rapporti di forza); dall’altro lato, quanti sono contrari ai trasferimenti monetari come “compensazione” per l’impossibilità di accedere ad un’occupazione, ritenendo che la priorità sia sempre e comunque quella di garantire un lavoro. D’altro canto l’esistenza del welfare e di trasferimenti di reddito rilevanti sono importati fattori al sostegno della domanda aggregata, e quindi al mantenimento di elevati livelli di occupazione. Il che ovviamente non significa coniugare trasferimenti di reddito a chi è al di sotto della soglia di povertà con una maggiore flessibilità del mercato del lavoro volta a favorire l’aumento dell’occupazione.

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Cosa accade in Europa L’Europa fin dal 1992, ovvero dal momento in cui il Consiglio Europeo ha adottato la Raccomandazione 92/441/CEE, ha chiesto agli Stati membri di riconoscere, nell’ambito di un piano di lotta contro l’esclusione sociale, il diritto fondamentale d’ogni individuo a vivere in conformità alla dignità umana; di dare accesso a tale diritto senza limiti temporali e di stabilire una quantità di risorse sufficienti in tale proposito. Ha inoltre cercato di seguire lo sviluppo del processo di attuazione dei sistemi di reddito minimo. L’“appello” del Parlamento Europeo, pur essendo stato lanciato con uno strumento “legislativo” non vincolante come la Raccomandazione, col tempo, è stato accolto dalla quasi totalità degli Stati Europei: in questi 21 anni quasi tutti i paesi dell’Europa a 28 hanno adottato forme di reddito minimo garantito per coloro che sono a rischio di esclusione sociale: giovani in attesa di prima occupazione, disoccupati e persone in condizione di marginalità, attribuendo a ognuno almeno il 60% del reddito medio riferito a ciascun Paese (oltre a misure aggiuntive come aiuti o tariffazioni agevolate per gas, luce, affitti e trasporti o per spese straordinarie e urgenti). Solo il nostro paese, insieme alla Grecia, non si è adeguato alla raccomandazione di Bruxelles sul sostegno pubblico ai disoccupati, nonostante le richieste dell’Unione si siano ripetute nel corso degli anni: dalla Comunicazione della Commissione Ue COM (2006)44, alla raccomandazione 2088/867 CE, fino alla Risoluzione 2010/2039 del Parlamento Ue, che sottolinea “il diritto fondamentale della persona a disporre di risorse e prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana”. Più recentemente, in una lettera che la Bce ha inviato al governo nell’agosto 2011 si chiede di introdurre “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione” e tra i 39 punti della richiesta di chiarimenti del novembre 2011 si legge della necessità di “rivedere il sistema dei sussidi di disoccupazione oggi molto frammentario entro la fine del 2011″. Ancora oggi In Europa non c’è uniformità a questo riguardo: il principio base può essere lo stesso, ma le applicazioni che ne sono state date sono molto diverse, anche se la tendenza generale è quella di legare il sostegno a misure volte a rafforzare il mercato del lavoro in modo da aumentare l’occupazione e ridurre il numero dei beneficiari. Inoltre, nella maggior parte dei casi, il reddito minimo garantito è affiancato da una legge sul salario minimo. In linea generale, in ambito Comunitario, vigono di 3 diversi modelli di reddito minimo: 1) quello centro europeo, che vede paesi come Belgio e Olanda attuare queste forme già dagli anni Settanta del novecento; 2) il modello anglosassone, che ha nella sua specificità le ristrettezze dettate dal means test, che alcuni definiscono forma di controllo vero e proprio sugli individui percettori; 3) quello scandinavo che prevede un ampio ventaglio d’interventi sociali tra i quali il sostegno al reddito è uno dei capisaldi. Ad esempio, in Germania ogni singolo senza reddito ha diritto a circa 380 euro mensili, cui vanno aggiunti l’assistenza sanitaria, sussidi per l’alloggio e il riscaldamento, e il sussidio aggiuntivo per figli a carico (circa 290 euro per ogni figlio tra i 1 e i 18 anni, 250 tra i 6 e i 14 anni, 220 da 0 a 5 anni). La durata è illimitata, a patto che chi è abile al lavoro segua progetti di reinserimento e accetti offerte congrue alla sua formazione. Oltre ai cittadini tedeschi ne hanno diritto gli stranieri 6


provenienti dai paesi dell’Unione che hanno firmato il Social Security Agreement e i rifugiati politici. In Belgio, esiste il minimax, un salario mensile di circa 650 euro per chi è in condizioni di povertà. In Lussemburgo c’è il Revenu minimum guaranti, un riconoscimento individuale erogato “fino al raggiungimento di una migliore condizione personale”. Nei Paesi Bassi ci sono il Beinstand (un diritto individuale e si accompagna al sostegno all’affitto, ai trasporti per gli studenti, all’accesso alla cultura), ma anche il Wik di 500 euro, riservato a permettere agli artisti un minimo di libertà creativa. In Austria c’è il Sozialhilfe, un minimo garantito che viene aggiunto al sostegno per il cibo, il riscaldamento, l’elettricità e l’affitto per la casa. In Norvegia il “reddito minimo di esistenza”, erogato a titolo individuale senza particolari restrizioni e senza limiti di età, è di circa 500 euro mensili, più la copertura delle spese d’alloggio ed elettricità. La Danimarca basa il suo sistema sul pilastro del Kontanthjælp, ovvero dell’assistenza sociale. Il sussidio fornito dal governo è uno dei più ricchi in assoluto: per un individuo maggiore di 25 anni, escluso l’aiuto per l’affitto che viene elargito separatamente, il minimo garantito è di circa 1.300 euro, che possono arrivare fino a circa 1.750 euro per chi ha figli. Va però sottolineato che questo reddito è tassabile ed evidentemente proporzionato al costo della vita danese. Chi beneficia del reddito minimo, a meno di essere stato dichiarato inabile al lavoro, è obbligato a cercare attivamente un’occupazione e ad accettare le offerte consone al proprio curriculum e al proprio percorso formativo. La mancata ottemperanza a tale obbligo comporta la sospensione del diritto al sussidio. Inoltre, se ci si assenta dal posto di lavoro senza giustificati motivi il sussidio viene ridotto in base alle ore d’assenza, in modo da disincentivare comportamenti che vadano a inficiare lo scopo per cui questo sussidio è stato creato. Nel Regno Unito, l’Income-based Jobseeker’s Allowance, garantisce un reddito mensile di circa 300 euro a tempo illimitato, con l’aggiunta di sussidi specifici per i figli a coloro che sono disoccupati o non hanno un lavoro full time (lavorano mediamente per un massimo di 16 ore settimanali). Finché sussistono tali condizioni il sussidio ha durata illimitata e varia nell’importo al variare di età, struttura famigliare, disabilità e risorse a disposizione dei beneficiari. Lo Stato fornisce anche assegni per il mantenimento dei figli e un aiuto nel saldo dell’affitto. Coloro poi che si trovino nella situazione di dover cercare un nuovo lavoro avranno diritto ad un secondo aiuto, dello stesso importo, finché saranno iscritti alle liste di collocamento e daranno prova di cercare attivamente lavoro recandosi ogni quindici giorni in un Jobcenter. In Francia il Revenu Minimum d’Insertion è stato adottato dal 1988 e nel 2009 è stato sostituito dal Revenu de Solidarité Active. Ne ha diritto chi risiede nel paese da più di 5 anni, ha più di 25 anni, chi è più giovane ma ha un figlio a carico o 2 anni di lavoro sul curriculum. Un singolo percepisce circa 460 euro mensili, una coppia con 2 figli circa 960 euro. Il sussidio, che dura 3 mesi e può essere rinnovato, aumenta con l’aumentare del numero di figli. Perché il sostegno non si trasformi in un disincentivo al lavoro, il beneficiario deve dimostrare di cercare attivamente un’occupazione, partecipare a programmi di formazione e l’importo del beneficio è modulare: man mano che cresce il reddito da lavoro, diminuisce il sussidio, ma in questo modo il reddito disponibile aumenta. Di fronte a tale ricognizione, sia pur parziale, degli strumenti di sostegno al reddito adottati dai diversi Stato Membri, è evidente il ritardo del nostro paese da quell’Europa che ha affrontato il tema della protezione sociale e del reddito garantito fin dall’inizio degli anni ’90. 7


Certamente, anche molte delle forme di protezione sociale adottate all’estero non vanno lette come la panacea di tutti i mali, ma sono perfettibili e al proprio interno presentano alcune contraddizioni. Ad esempio, il fatto che molti di questi modelli di sostegno prevedono l’obbligo per i beneficiari ad accettare qualsiasi lavoro pena la sospensione del benefit, ha come conseguenza quella di allargare la fascia di lavori a bassa qualificazione. Bisogna comunque ribadire che il sostegno al reddito è una misura che permette ai cittadini di affrontare la propria quotidianità in modo meno pressante e vessatorio. Consente, infatti, a chi boccheggia al di sotto della soglia di povertà di superarla e contribuisce ad alleviare le difficili condizioni, anche psicologiche, in cui si trova chi è senza lavoro o di chi, pur lavorando, non ha risorse sufficienti per una vita dignitosa.

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Le proposte in Parlamento Nonostante la UE solleciti da anni gli Stati a introdurre un il reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri, solo in questo ultimo periodo in Italia si è riaperto un dibattito in merito all’istituzione di un sostegno pubblico a quanti vivono una condizione d’indigenza. In 15 anni sono stati fatti diversi tentativi: nel 1998, il primo governo Prodi con Decreto Legislativo 18 giugno 1998, n. 237, istituì il Reddito Minimo di Inserimento, introdotto in Finanziaria per il 1998 e sperimentato su piccola scala – in una quarantina di comuni – in vista di una auspicabile generalizzazione del programma alla scala nazionale. In seguito venne progressivamente smantellato, fintantoché il governo Berlusconi smise di finanziarlo nel 2003. Quattro anni dopo, il secondo governo Prodi ne annunciò la reintroduzione, tuttavia il Reddito Minimo di Inserimento non è stato più finanziato. Attualmente, in Parlamento giacciono le proposte del Pd, di Sel e quella del M5S, che hanno presentato tre diversi disegni di legge per l’istituzione di nuovi strumenti di inclusione sociale e di lotta alla povertà per i cittadini oggi più esposti agli effetti della crisi economica-finanziaria in corso. La proposta del PD, “Istituzione del reddito minimo di cittadinanza”, prevede per disoccupati, inoccupati, lavoratori precariamente occupati e persone prive di lavoro un contributo di 500 euro mensili, da incrementare di 1/3 per ogni componente del nucleo familiare a carico del beneficiario. Possono averne diritto i maggiorenni, con un Isee non superiore ai 6.880 euro annui e che posseggono solo la prima casa. Ne hanno diritto anche gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia da almeno 3 anni. Il reddito dura un anno ed è rinnovabile per un ulteriore anno. L’erogazione è sospesa nel caso in cui il beneficiario venga assunto con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o anche determinato, e dal secondo anno il contributo può essere trasformato in dote salariale per l’azienda che assume. La proposta di SEL prevede un beneficio di 600 euro mensili per tutti coloro che abbiano un reddito personale imponibile non superiore ad ottomila euro, sono residenti in Italia da almeno 24 mesi e iscritti nelle liste di collocamento dei Centri per l’impiego. Il sussidio, che scade ogni anno, può essere rinnovato, e andrebbe ricalcolato in base al numero di familiari a carico. Perde il diritto al contributo chi viene assunto con contratto a tempo indeterminato, chi svolge un’attività lavorativa autonoma o chi rifiuti una proposta di lavoro adatta alle sue competenze. La proposta del M5S prevede un sussidio di cui può beneficiare chiunque abbia perso il lavoro e chi, pur lavorando, non riesca a superare la soglia di povertà: nel primo caso verrà erogato il contributo massimo di 600 euro; nel secondo caso lo Stato provvederà ad integrare il reddito fino a quota 600. L’importo sarà calcolato sulla base del nucleo familiare e l’aiuto è erogato ad ogni membro. I centri per l’impiego offriranno a chi è disoccupato fino a tre offerte di lavoro adatte al suo curriculum e al terzo rifiuto si perde il diritto al reddito.

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Le Misure di contrasto alla povertà previste dal Governo Nel mese di giugno 2013 una Commissione appositamente istituita presso il Ministero del Lavoro e presieduta dal Viceministro Maria Cecilia Guerra ha elaborato, con il contributo di docenti universitari, l’ipotesi di uno strumento chiamato Sia, “Sostegno per l'inclusione attiva”: una nuova misura nazionale di contrasto alla povertà assoluta e all’esclusione sociale nel quale sono confluite alcune delle principali proposte provenienti dal mondo dell’associazionismo e dal terzo settore. Al centro della proposta non vi è il cittadino, ma la famiglia: riguarderebbe nuclei familiari che vivono sotto la soglia di povertà assoluta e che necessitano di un integrazione al reddito. L’idea dello strumento è quella di integrare il reddito di tutte le famiglie povere, in cambio di un patto di inserimento con i beneficiari. L’obiettivo del SIA è, infatti, quello di permettere a tutti l’acquisto di un paniere di beni e servizi ritenuto decoroso sulla base degli stili di vita prevalenti. Il sostegno economico non è però incondizionato: il beneficiario s’impegna a perseguire concreti obiettivi d’inclusione sociale e lavorativa. Come aveva anticipato a settembre il Ministro Enrico Giovannini nel corso del suo intervento di presentazione del SIA, la nuova misura, sia pur in seguito al maxiemendamento, è stata parzialmente introdotta nella legge di stabilità. La sua applicazione avverrà, tuttavia, in via sperimentale solo in alcune grandi aree metropolitane. Secondo le stime il costo del SIA, a pieno regime, si aggirerebbe intorno ai sette miliardi di euro. Tale cifra permetterebbe a tutte le famiglie di uscire dalla soglia di povertà assoluta. Proprio in virtù di questo costo elevato, il Sia non era stato previsto nel Ddl Stabilità. Tuttavia, con il maxiemendamento, è previsto lo stanziamento di quaranta milioni l’anno (120 milioni in tre anni), da recuperare dal contributo di solidarietà sulle pensioni d’oro: il 6% dalle pensioni 14 volte sopra il minimo (a partire da circa 90 mila euro); il 12% da quelle tra 14 e 20 volte il minimo (128 mila euro); il 18% tra 20 e 30 volte il minimo (193 mila euro). Le risorse che arriveranno saranno destinate alla carta acquisti ma anche a forme d’inclusione dei poveri, primo passo verso l’introduzione di un reddito minimo.

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Le esperienze a livello locale A livello locale, le politiche di lotta alla povertà sono state sperimentate in diverse regioni, ma sono poche le iniziative che si sono consolidate dando attuazione a un coerente, progressivo impegno sul versante della lotta alla povertà. Dopo la sperimentazione del RMI a livello nazionale, diverse Regioni si sono attivate con l’introduzione di misure di contrasto alla povertà che abbinassero i contributi economici a programmi di inserimento sociale e/o lavorativo: le Province Autonome di Trento (l.p. 14/1991 e successive modifiche) e Bolzano (l.p. 13/1991 e successive modifiche), la Valle d’Aosta (l.r. n. 19/1994 e successive modifiche), la Basilicata (Programma di promozione della cittadinanza Solidale - l.r. n. 3/2005), la Campania (Reddito di cittadinanza - l.r. n. 2/2004), il Friuli Venezia Giulia (Reddito di base per la cittadinanza - l.r. 6/2006, art. 59; F.do per il contrasto ai fenomeni di povertà e disagio sociale - l.r. 9/2008, art. 9) e il Lazio (Reddito Minimo garantito – l.r. 4/2009). Molto più circoscritte a livello territoriale, seppur comunque assimilabili all’esperienza nazionale, sono state la vicenda veneta e quella siciliana. Il Veneto (Reddito di Ultima istanza - DGR 1294/2004, DGR 2643/2007) ha finanziato il proseguo della sperimentazione nazionale del RMI al Comune di Rovigo, mentre nel 2006 la Regione Sicilia ha finanziato i cosiddetti “cantieri di servizio” (cantieri Servizi - l.r. n. 5/2005), cioè il sostegno economico di lavori socialmente utili destinati agli ex-beneficiari del RMI nazionale. Tuttavia, gli interventi realizzati si caratterizzano per un’estrema eterogeneità, per tipologia, per destinatari a cui si rivolgono, per entità degli stanziamenti, e per una forte polarizzazione tra un’assistenza economica tout court, decisamente prevalente, e percorsi di inserimento sociale e lavorativo di categorie molto marginali. Sono poche le esperienze che hanno dato prova di efficacia nel contrasto alla povertà, e alcune si sono concluse dopo poco tempo, talvolta per motivi politici o per mancanza di risorse. Senza considerare che, di fatto, in molti casi, l’intervento è consistito in trasferimento monetario, in cifra fissa, e quindi neppure correlato ai fabbisogni delle famiglie povere. Inoltre, la percentuale di beneficiari rispetto ai richiedenti ammissibili è stata decisamente bassa. Probabilmente, ad oggi, la sperimentazione più significativa e longeva è quella del Reddito di garanzia della Provincia Autonoma di Trento: è previsto un trasferimento monetario che porta a 6.500 euro annui il reddito disponibile equivalente (in base all’Icef, l’indicatore della situazione economica familiare trentino), accompagnato da azioni di integrazione sociale e di attivazione al lavoro. Introdotto nel 2009, il reddito di garanzia è ormai in atto da tre anni e mezzo. Recentemente, di fronte al perdurare della crisi economica e l’aumento vertiginoso delle situazioni di povertà nei territori, la Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, ha sottolineato la necessità che il Governo intervenga con un piano organico di interventi centrati sulla difesa della dignità delle persone e sugli investimenti per lo sviluppo umano, ferma restando la disponibilità delle regioni a lavorare per costruire proposte e percorsi condivisi tra istituzioni e il vasto mondo del terzo settore e del sociale. Anche l’ANCI chiede alla politica un progetto nazionale pluriennale di contrasto alla povertà per garantire il diritto ai cittadini di poter accedere almeno al minimo vitale. Un sostegno che superi l’ottica assistenziale alle singole persone per mettere al centro dell’attenzione il nucleo familiare e che porti chi è assistito a tornare indipendente dal sussidio attraverso progetti personalizzati. 11


Le proposte di Acli e Caritas e di altri soggetti del terzo settore Le Acli, in collaborazione con la Caritas Italiana, hanno presentato a luglio una proposta di Reddito d’inclusione sociale (REIS), da collocare in un piano nazionale contro la povertà. La proposta, elaborata da un gruppo di lavoro coordinato dal professor Gori dell’Università Cattolica di Milano, intende fornire risposta all’assenza nel nostro Paese di adeguate politiche per contrastare la povertà assoluta. Il modello di riferimento è quello opposto allo statalismo e all’assistenzialismo: si propone un sistema basato sulla sussidiarietà e sul protagonismo dei territori e dei soggetti beneficiari degli interventi di sostegno che incoraggi ed incentivi chi è in difficoltà ad essere il principale artefice della propria ripresa. Il REIS prevede un percorso graduale, fattibile e sostenibile economicamente per introdurre una misura capace di rispondere efficacemente alle carenze del nostro paese in materia. Il REIS, costituisce un livello essenziale delle prestazioni ai sensi dell’art 117 della Costituzione, ed è destinato alle famiglie in povertà assoluta (2012 erano il 6,8% dei nuclei in Italia), comprese quelle di origine straniera se regolarmente residenti in Italia da almeno 12 mesi. Per avviare un progetto come il Reddito di inclusione sociale si stima uno stanziamento di 900 milioni da recuperare con modalità oggetto di varie ipotesi. Il REIS in sintesi: Utenti

Tutte le famiglie in povertà assoluta legittimate a vario titolo alla presenza sul territorio italiano e regolarmente residenti nel paese da almeno dodici mesi.

Importo

La differenza tra il reddito familiare e la soglia Istat di povertà assoluta.

Variazioni geografiche

Le soglie d’accesso e gli importi variano secondo il costo della vita delle diverse aree del paese (nord/centro/sud) ed alla dimensione del comune (piccolo/medio/grande).

Servizi alla persona

Al trasferimento monetario si accompagna l’erogazione di servizi: servizi per l’impiego, contro il disagio psicologico e/o sociale, per esigenze di cura e altro Il Reis viene gestito a livello locale grazie all’impegno condiviso di Comuni, Terzo Settore, servizi per formazione/impiego e altri soggetti. Il Comune ha il ruolo di regia e il Terzo Settore co-progetta insieme ad esso, esprimendo le proprie competenze in tutte le fasi dell’intervento.

Welfare mix

Lavoro

Livelli essenziali

Tutti i membri della famiglia tra 18 e 65 anni ritenuti abili al lavoro devono attivarsi in tale direzione. Si tratta di cercare un lavoro, dare disponibilità a iniziare un’occupazione offerta dai Centri per l’impiego e a frequentare attività di formazione o riqualificazione professionale. Il Reis costituisce il primo livello essenziale delle prestazioni nelle politiche sociali.

Le Acli hanno inoltre promosso l’Alleanza contro la Povertà in Italia, un insieme molto rappresentativo di soggetti sociali, sindacali, del terzo settore, istituzionali che intende 12


promuovere adeguate politiche contro la povertà assoluta. Tutti gli aderenti all’Alleanza stanno lavorando per arrivare a presentare una proposta organica che, partendo da un lavoro di revisione del REIS, conduca alla predisposizione di uno strumento di contrasto alla povertà assoluta da presentare al Governo. Un’altra proposta di riforma delle politiche socio-assistenziali è quella è stata sviluppata da Ars, associazione non profit, con la collaborazione dell’Irs e del Capp dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e presentata in occasione del convegno Costruiamo il welfare di domani. In risposta all’urgenza di individuare politiche efficaci e sostenibili di contrasto alla povertà in Italia, è proposto un programma, chiamato “Reddito Minimo di Inserimento” (RMI). La misura prevede un mix di erogazione monetaria e servizi di natura socio-assistenziale e si rivolge a tutte le famiglie residenti in Italia, italiane e straniere. L’intervento suggerito andrebbe a integrare i redditi di tutte le famiglie in condizione di povertà fino a consentire loro di raggiungere la “soglia” della povertà assoluta. Il trasferimento monetario continuerebbe ad essere corrisposto con l’appoggio dell’Inps su base mensile per un anno - con possibilità di rinnovo - previa verifica della permanenza dei requisiti economico-patrimoniali e socio-anagrafici delle famiglie. Gli Ambiti Territoriali si occuperebbero invece di curare, attraverso specifici protocolli d’intesa, i rapporti con gli attori del territorio deputati all’avvio ed alla realizzazione dei percorsi di inclusione lavorativa e sociale (terzo settore, Centri per l’Impiego, ecc.) e definiscono, di concerto con i suddetti soggetti, gli obblighi e gli impegni per i beneficiari. Il finanziamento delle erogazioni economiche del RMI a regime avrebbe un costo addizionale di 5,8 miliardi di euro, in uno scenario di “contesto economico normale” che riflette la distribuzione del reddito anteriore alla fase attuale di grave crisi economica; mentre crescerebbe a 7,2 miliardi di euro sulla base dei dati sulla povertà assoluta di fonte Istat relativi al 2012.

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