D.R.: “L’incontro di stasera è un incontro particolarissimo e importante, un incontro a cui abbiamo tenuto molto noi delle Acli. E’ l’incontro con un cristiano, un vescovo, che proviene dal vicino Oriente, o meglio dalla Mesopotamia, la regione che fa parte della Mezzaluna fertile. La Mesopotamia è la terra tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate; una terra che richiama alla mente Sumeri, Assiri, Babilonesi; una terra che ha visto, sin dall’inizio della vicenda cristiana, uomini e donne testimoni di Gesù. Evangelizzati, dice la Storia, dall’apostolo Tommaso. Una terra che ha visto una comunità cristiana che è dovuta passare, e che passa tuttora, attraverso la prova di una testimonianza che ha spesso i contorni di una persecuzione, e qualche volta del martirio; cominciata con i Persiani, poi con gli Arabi, i Mongoli, poi con gli Ottomani, con le vicissitudini di cui ancora sentiamo parlare ogni tanto. Una comunità, come spesso capita, dimenticata dai media, se non per il rimbalzo mediatico; ma troppo spesso dimenticata anche dai cristiani. Per cui noi siamo davvero molto grati a monsignor Louis Sako, vescovo di Kirkuk, città nel Nord del Paese, a 250 chilometri circa dalla capitale Baghdad - uno dei centri petroliferi più importanti della regione – siamo grati davvero di cuore a monsignor Sako per aver accettato di venire. Ringraziamo anche Maria Chiara, piccola sorella di Charles de Focault che ha reso possibile la presenza di monsignor Sako a Bergamo. Monsignor Sako è nativo di Musul, l’antica Ninive, ma è anche vescovo di una chiesa, quella Caldea, tra le più antiche. Il rito caldeo è uno dei cinque riti della cristianità orientale; una Chiesa la cui liturgia, la liturgia giudeo-cristiana, risale al III secolo; una Chiesa in cui, nella liturgia, si usa l’arabo ma anche l’aramaico, la lingua di Gesù. Quindi capite stasera il senso dell’incontro con questa Chiesa, con una teologia - come spesso capita in Oriente -, che custodisce il senso del mistero, e dà un rilievo particolare alla resurrezione e allo Spirito Santo: non a caso la Chiesa Caldea è stata sin dall’inizio una Chiesa missionaria sulla Via della Seta. Da questa regione sono partiti per raccontare la buona notizia, in India, nelle Filippine, in Cina. Avevano, sin dall’inizio, il senso profondo della fede cristiana, e al tempo stesso la capacità di inculturare la fede cristiana dentro i contesti nuovi dove il Vangelo veniva raccontato. Si tratta di un mondo, un pezzo di storia, un polmone di Chiesa con cui dovremo confrontarci molto più spesso di quanto non facciamo.
Lei, monsignor Sako, viene dall’Iraq; dal marzo 2003 pareva che la pax americana portasse equilibrio nella regione. In realtà pare che così non sia successo. Cominci a dirci, qual è la situazione dell’Iraq di oggi?” Mons. L.S: “Grazie infinite. Grazie a voi, che siete venuti a sentire un po’ la situazione dei cristiani in Iraq e di tutti gli iracheni. Siamo grati per questa solidarietà e vicinanza. Durante l’antico regime abbiamo avuto tre guerre, senza ragione. La guerra con l’Iran, 8 anni e 1 milione di morti, poi la guerra con il Kuwait e gli americani, subendo 12 anni di embargo economico. L’Iraq è un Paese molto ricco, c’è il petrolio, c’è l’acqua, c’è l’agricoltura, il turismo. Durante l’antico regime c’era sicurezza tutto era controllato, ma non c’era libertà. Vi era una dittatura assoluta, i cristiani lavoravano con il presidente Saddam per via della loro lealtà, per la loro morale, e anche oggi tutti i responsabili cercano collaboratori cristiani, perché hanno fiducia in loro. Dopo la caduta del regime, tutti abbiamo pensato che avremmo avuto (e gli Americani hanno fatto tutta una grande propaganda) democrazia, libertà, sviluppo economico, progresso ecc. Ma ad oggi non c’è nulla, solo la libertà. C’è tanta libertà, è vero, ma uno dei grandi problemi del mondo arabo e musulmano è questa stessa libertà. Questi Paesi non sono formati a una libertà responsabile, a una libertà che prende anche l’altro in considerazione. Inoltre sono stati commessi tanti errori; hanno lasciato le frontiere aperte, senza controllo, e dunque tutti questi combattenti, i mujaheddin, sono entrati, non per aiutare gli iracheni a formare un Paese democratico e libero, ma per creare problemi. Hanno lasciato le ex caserme saccheggiate, hanno sciolto l’esercito. Quando i mujaheddin, i combattenti islamisti sono venuti, hanno trovato collaboratori iracheni con soldi. Dunque si sono uniti in gruppo per creare problemi, per attaccare, rapire, far esplodere e uccidere non solo americani, ma anche tanti iracheni. Adesso c’è un governo, che non è del tutto formato, per ragioni di settarismo – sciiti, sunniti, curdi, arabi, turkmeni – e questo non succedeva prima. La religione all’inizio era proibita, nelle scuole e nelle moschee, e i membri del partito non dovevano praticare la rivoluzione. Adesso tutto è diverso: il governo ha formato la polizia, l’esercito, ma non è all’altezza di controllare tutto il paese. Gli iracheni sono 27 milioni, le province sono diciotto; la popolazione è un mosaico di etnie e religioni. Servirebbe un esercito molto forte, e una polizia professionale, ma per questo ci vuole tempo. Anche la democrazia e la libertà sono parole che la gente, generalmente, non capisce perché la democrazia, con la religione, non va; nell’Islam la religione è lo Stato, è
tutto un sistema, non è possibile separare ambedue. Come funziona la democrazia? Bisogna separare la religione dallo Stato, dalla politica e questo non è facile, ci vuole tempo. Dunque è una situazione molto critica, precaria: c’è un’attesa ma c’è anche una speranza. Prima i cristiani erano un milione, più o meno; adesso siamo 500.000, la metà soltanto. L’altra metà è partita, ha avuto paura; dal 2003 ad oggi, 54 chiese sono state attaccate e 905 cristiani uccisi. Non tutti uccisi perché cristiani, ma nelle strade, quando c’è un’esplosione, ci sono anche cristiani. Abbiamo fiducia nel popolo iracheno, perché non tutti i musulmani sono terroristi: la popolazione è molto semplice e gentile, c’è dialogo della vita di tutti i giorni e tutti vanno al lavoro insieme, tutti hanno studiato insieme, e le case sono vicine all’arcivescovato. C’è un rapporto sincero, ma il crescente fondamentalismo musulmano è preoccupante. Si dice che la politica, sporca, è al servizio del popolo, invece è al servizio dei politici. Questi fondamentalisti vogliono fare dell’Iraq, e non solo, Stati islamici secondo la legge musulmana del VII secolo; non c’è stato aggiornamento in tutto questo tempo. Lo dico sempre, da cristiano: anche noi cristiani eravamo così ma siamo cambiati, cambiate anche voi, anche voi potete cambiare. C’è un futuro ma bisogna prepararlo”. D.R.: “Quando, il 20 marzo 2003, c’è stata l’invasione americana, venne giustificata dalla presenza di armi di distruzione di massa, che in realtà non furono mai trovate. Però in questo modo vennero rese evidenti le ragioni dell’invasione, e le ragioni del conflitto che erano altre. Qual è il peso del petrolio nel conflitto?” Mons. L.S.: “A dir la verità, siamo delusi dall’Occidente. Anche quando crede di proteggere le minoranze. Non abbiamo fiducia perché la politica occidentale cerca sempre l’interesse economico, il petrolio, il denaro. Adesso l’Occidente è in Libia. Quanti sono i morti? E quanti altri saranno morti? Non si sa, perché è impossibile passare, magicamente, dalla dittatura, dal totalitarismo, alla democrazia. Per preparare la gente, e formarla, ci vuole tempo; ci vuole educazione, nei media, nelle scuole, con programmi ecc. Siamo sicuri che gli Americani, e anche molti europei, siano venuti per i loro interessi, e non per salvare cristiani o iracheni. Purtroppo siamo sempre assimilati a loro, ma noi non abbiamo niente a che fare con loro. I musulmani hanno capito adesso che i cristiani non hanno a che fare con questa politica occidentale, con la guerra in Afghanistan, la guerra in Iraq, adesso la guerra in Libia. Anche questa
Primavera araba, in che direzione va? Tutti questi giovani non hanno una guida, una leadership; i partiti islamici sono più forti e organizzati di questi giovani. Qualsiasi alibi è buono per fare una guerra: è facile trovare delle scuse, a partire dalle armi di distruzione di massa. Una guerra è sempre un male, un grande male; ci sono altri modi per cambiare questi regimi, se si vuole il bene di questi popoli, senza ricorrere alla guerra o alle armi. Nelle guerre chi paga è il popolo, sono questi innocenti. Dicono che in Iraq si conta circa un milione di vedove”. D.R.: “Temete il ritiro americano?”. Mons. L.S.: “Sì, certo. Adesso gli americani vanno via: ma che cosa hanno fatto finora? Non hanno ricostruito il Paese, l’esercito e la polizia non possono anche controllare le frontiere e la sicurezza. Temiamo che si possa arrivare alla guerra civile e l’Iraq sarà, in questo caso, diviso: sunniti, sciiti, curdi”. D.R.: “Di fatto, ciò che chiamiamo Iraq è adesso diviso in tre grandi aree: l’area del Sud, dove la maggioranza è sciita, stimabile intorno al 65%, il Centro, che è di maggioranza sunnita, intorno al 30%, poi la zona curda, divisa tra arabi e curdi. Peraltro, non siete distanti dall’Iran. Si sente, nella vostra area, l’influenza dell’Iran, di un Iran dotatosi di un governo sciita?”. Mons. L.S.: “La storia dell’Iraq è da sempre legata alla storia dell’Iran dal punto di vista religioso e anche culturale. E oggi anche dal punto di vista politico. Gli sciiti di tutto il mondo hanno i loro santuari in Iraq e hanno una loro gerarchia: c’è un’autorità, a differenza dei sunniti che sono un po’ come i protestanti. E’ un regime, quello in Iran, teocratico, basato sulla figura degli ayatollah, e la maggioranza di questi ha studiato nelle scuole dell’Iraq; per questo ritengo che si tratti di un influsso molto grande. E se gli americani vanno via, forse noi abbiamo paura che vengano gli sciiti. Così come Turchia e Arabia Saudita: in questi Paesi regionali la religione è entrata nel campo politico e sociale e tutto è un po’ sentimentale in questi Paesi. Lì c’è il collettivismo, mentre da noi c’è il turismo; noi non possiamo vivere senza famiglia. D.R.: “Lei diceva prima della difficoltà di arrivare alla democrazia. L’Occidente ha usato spesso la propaganda dell’esportazione
dell’economia in quelle terre. Lei sostiene che ci vorrà un processo lungo”. Mons. L.S.: “Io penso che l’Iraq sia il Paese più preparato alla democrazia, dato che per 35 anni è stato un Paese laico e secolare. Gli iracheni sono, per natura, moderati e aperti. Nella regione, però, le costituzioni degli Stati, la base delle legislazioni, sono regolamentate dalla legge musulmana; già all’inizio c’è una contraddizione tra Islam e democrazia. Bisogna formare gruppi politici dalla formazione molto solida, così forte da preparare l’avvenire, ma penso che i partiti musulmani non lo permetteranno. L’Islam, ora, è più integralista perché ha paura di perdere la sua identità. Come creare una democrazia? Per i musulmani, l’Occidente è corrotto, è ateo in tutti quei programmi che si vedono alla televisione o su internet, non ha più religione. Temono che se penetrasse da noila cultura occidentale, l’Islam sarebbe finito. Allora sono aggressivi e invocano un guerra santa. Per creare una democrazia, ci vuole molto tempo, ci vuole un’educazione, formazione, dei giovani; non imporre così con forza, con le armi, una democrazia come quella occidentale. Al Sinodo del Medio Oriente ho detto che è possibile una laicità positiva, rispettando tutte le religioni, ma dove tutti sono uguali davanti alla legge, senza religioni di Stato”. D.R.: “Nel corso della storia come è stato il vostro rapporto con i musulmani? In fondo è da 1400 anni che vivete insieme”. Mons. L.S.: “Abbiamo avuto un modo di convivere buono, ma condizionato; abbiamo avuto anche paura, ma non come oggi. C’era un’autorità che governava, il califfo o il re quale Capo dello Stato, ma oggi la situazione è molto caotica, sia in Iraq che negli altri Paesi. Dove vanno? Non c’è una visione, non ci sono piani, non si sa cosa vogliono questi giovani, e che tipo di regime vogliono. Chi potrà governare? L’esercito? Loro? I capi religiosi, o intellettuali? Il problema dell’identità è stato creato con la globalizzazione, è un errore. C’è stata molta propaganda e la gente ha avuto paura. Vacilla l’identità personale in nome di una universale: questo vale sia per i cristiani che per gli altri. La globalizzazione poteva riguardare il settore commerciale, ma estesa ad altri ambiti sta creando dei problemi”.
D.R.: “Torno ancora sull’Islam. Charles de Focault scrive di essere stato colpito, e incantato, dalla passione e dalla fede dei musulmani, che lungo il suo peregrinare in Maghreb ha incontrato. Lei che viene da una vita trascorsa accanto ai musulmani, qual è la provocazione positiva che le viene dall’Islam?”. Mons. L.S.: “E’ un fenomeno sociale, quasi tutti vanno alla moschea; hanno rispetto profondo per Dio e per il mistero e questo rispetto ci colpisce molto. D’altra parte cosa gli resta di questa religione? E’ una religione molto povera, la loro preghiera dura cinque minuti”. D.R.: “Uno dei pilastri è il digiuno, cosa che noi facciamo, forse il Mercoledì delle Ceneri, e forse il Venerdì Santo. Voi cristiani come vi rapportate al digiuno?” Mons. L.S.: “E’ un momento importante, il digiuno non è solo per il digiuno, ma è un tempo forte per pensare a sé stessi. Che senso ha la mia vita? Io sono un essere umano, non devo vivere in una maniera egoista, ma devo pensare a tutti quelli che soffrono, hanno fame e non hanno niente da mangiare. E’ sempre legato agli altri”. D.R.: “Quanti giorni di digiuno avete?” Mons. L.S.: “La prima settimana e la settimana centrale della Quaresima, e la Settimana Santa. Ma non dipende dalla quantità, ma dallo spirito. Per i musulmani è vero che è molto duro: spesso sono 17 ore, ma per loro è un’espressione di umiltà davanti a Dio. Il problema è questi momenti diventano poi un momento politico: tutti i guai che si sentono accadono nel Ramadan. Il mese scorso hanno attaccato due chiese a Kirkuk, a pochi giorni dal Ramadan”. D.R.: “Lei sostiene spesso che il martirio è il carisma della chiesa caldea. Quindi possiamo pensare a un’equivalenza tra chiesa caldea e chiesa martire?”. Mons. L.S.: “Questa è la nostra storia. Il nostro patriarca, il cardinale, porta sempre un abito rosso, simbolo del martirio. Agli inizi del Cristianesimo in Iraq, quando il Cristianesimo è entrato in Iran per opera dell’apostolo Tommaso, di passaggio verso l’India, l’impero persiano, i magi, hanno perseguitato i Cristiani per cinque secoli; poi quando l’Islam è
venuto, tanti sono morti per le loro fedi. I Mongoli hanno provato, all’inizio, a diventare cristiani, poi hanno cambiato idea e hanno perseguitato i cristiani. Oggi abbiamo 905 cristiani uccisi, e tanti confessori della fede hanno sofferto, tra torture e patimenti. Sono andato a trovare un medico, tenuto per un mese senza mangiare e poi gettato in strada, in seguito a torture, metà morto e metà vivo: era un martire, che cosa altrimenti? Un chierichetto di tredici anni della cattedrale è stato rapito, gli è stato chiesto di convertirsi all’Islam. Mai, perché Gesù ha detto: “Colui che mi rinnega davanti agli uomini mi rinnega davanti al cielo”. Io non lo nego, fate di me ciò che volete. In maniera miracolosa, gli americani sono passati di lì e hanno trovato questo ragazzo e lo hanno liberato. Dunque ci sono tanti confessori. La fedeltà, che sia nella religione, nella fede, o nel matrimonio, o anche nella Chiesa, non è una parola per un giorno, un gioco, ma è per tutta la vita. E’ un sacrificio, io sono pronto a morire, non ho mai paura. Io quando esco non sono sicuro di ritornare, ma mai ho avuto paura; perché avere paura? Se crediamo dobbiamo credere; la fede non è un’ideologia, è un atto di amore. Io riconosco in colui che credo una persona, sono legato a lui con amore e fedeltà. Io penso che i cristiani di Occidente debbano imparare da questi cristiani perseguitati. Ogni 15 minuti un cristiano è martirizzato: c’è una sola fede, ma ci sono molti fedeli e ognuno ha la sua espressione. Anche la fede musulmana ha un’espressione. Gesù parla della buona novella: “Voi siete figli di Dio. Dio è il vostro Padre; voi siete figli e fratelli. Andate, con tanta gioia, e vivete questa figliazione e fraternità”. L’espressione è diversa, non la fede”. D.R.: “Lei gira con una scorta?”. Mons. L.S.: “No, mai. Forse sono l’unico. Talvolta l’autista è impegnato, e quindi guido anche. Parlo molto con i musulmani e, durante il Ramadan, offro una cena a 200 persone. Ma adesso non posso più perché, quando ne invito 200, ne arrivano 500. Abbiamo offerto medicine a molti ospedali, abbiamo stampato il calendario per tutto il mese del Ramadan, con l’orario del digiuno e delle preghiere, e hanno apprezzato questi gesti. Abbiamo fatto anche preghiere comuni, nelle cattedrali, e per la prima volta la preghiera è universale; ho fatto una selezione dei salmi, perché non tutti si possono pregare, e tutti avevano il testo e pregavano con noi. Alla fine del mese di maggio, mese del Rosario, ho fatto una preghiera comune, invitando tanti musulmani: la chiesa era piena, c’erano anche il sindaco, i
leader politici e le donne musulmane e abbiamo pregato insieme per la Vergine Maria. Ho chiesto a un imam di leggere e di cantare; la preghiera universale è stata recitata da due ragazze, una cristiana e una musulmana. Possiamo aiutare questa gente ad aprirsi, noi possiamo fare tanto e non dobbiamo avere paura”. D.R.: “Tenete conto Monsignor Sako è stato insignito di numerosi premi internazionali proprio per la sua battaglia, non solo per i diritti umani in Iraq, ma per il dialogo interreligioso tra cristiani e musulmani. E’ uno che si è battuto e si batte. Devo dire che mi colpisce molto, quando lo leggo, quando dice che il dialogo deve avvenire nella verità, come a dire che ci può essere un dialogo formale, che però non va da nessuna parte, e un dialogo nella verità. E’ vero?”. Mons. L.S.: “Io penso che finora si è parlato di dialogo nel senso di ecumenismo. Ma in quale direzione va? E’ molto lento, non si sa. Si dice che noi cristiani siamo molto uniti e abbiamo la stessa fede: allora bisogna avere il coraggio di fare l’unità, con l’Islam bisogna anche avere il coraggio di dire la verità, di essere sinceri. Io credo come credo, ma bisogna cercare un vocabolario comprensibile a tutti. Parlare, ad esempio, della Trinità, della reincarnazione, con il linguaggio greco e filosofico non serve. Non lo capiscono i cristiani, figurarsi i musulmani. E’ difficile, bisogna trovare un modo. I nostri padri hanno trovato un dialogo, hanno trovato una nuova terminologia. Io ho pubblicato un libro, un mese fa, con un gesuita, dal titolo: “I Musulmani chiedono, i cristiani rispondono”. L’ho dato a tutti gli imam. Perché avere paura di testimoniare la nostra fede? I cristiani talvolta hanno vergogna di dire che sono cristiani; noi non abbiamo paura”. D.R.: “Da una parte la testimonianza, dall’altra l’inculturazione, la capacità di ridire, con le parole di oggi, la verità di sempre che è la vicenda di Gesù. Nel dialogo musulmano, dove sta la differenza cristiana? Dove sta lo specifico cristiano?”. Mons. L.S.: “I musulmani si chiedono perché i cristiani sono divisi nelle chiese, quando Gesù è amore e pace. Loro non possono capire come i cristiani presentano la figliazione divina e l’incarnazione; se per loro, la Parola di Dio diventa un libro, una lettera, una parola, per noi cristiani è una persona. Questa parola la riflette una persona che si chiama Gesù,
Figlio di Dio: il linguaggio biblico ci parla molto di più della teologia speculativa. Come i nostri padri sono andati a predicare il Vangelo presso i Greci, i Greci hanno detto che non era una religione logica. I Padri della Chiesa hanno presentato tutto un sistema filosofico, logico, del Cristianesimo: loro hanno capito ma io direi che nell’amore non c’è la logica, è il cuore”. D.R.: “Cosa stimano i musulmani dei cristiani? Guardando voi, cosa dicono?”. Mons. L.S.: “Il Corano è il problema, non i musulmani. Nel Corano ci sono i sura abrogati e dunque ci sono due tradizioni. C’è quella di Mecca, più spirituale, molto più favorevole ai cristiani, perché tutti i profeti del Corano sono ebrei. Ma quando il Corano arriva a Medina, abroga questi versetti di Mecca, e quando hanno chiesto agli ebrei di rifiutare i profeti e di accettare il Corano come libro santo, gli ebrei hanno rifiutato ed ecco allora la guerra. I giudei, dice il Corano, hanno falsificato la Torah, e lo stesso hanno fatto i cristiani con il Vangelo. Poi dicono che Gesù è figlio di Dio, ma anche servo di Dio: devono metterlo in un contesto storico per capirlo, e quindi tocca a noi fare ai musulmani un po’ di esegesi”. D.R.: “Vivendo fianco a fianco, nella vita quotidiana, cosa dicono di bello i musulmani dei cristiani?”. Mons. L.S.: “Dicono sempre che i cristiani sono fiori per questo Paese. Se i cristiani dovessero andare via, non ci saranno più fiori. E’ un sentimento molto positivo. Nella vita quotidiana non ci sono scontri, né discussioni, né conversioni: la vita prende un po’ tutti e la gente è molto semplice e il rapporto sociale è molto forte”. D.R.: “Ci sarà un futuro per i cristiani in Iraq?” Mons. L.S.: “C’è un futuro ma non è sicuro, e bisogna costruirlo. Prima di tutto i cristiani devono unirsi in una sola posizione. La solidarietà è molto importante e così anche la reciprocità; i musulmani qui hanno tutti i diritti e loro sono profughi, non sono originari di questo Paese. Noi non abbiamo problemi per una chiesa, ma altrove non si può avere una chiesa, non si può stampare una Bibbia. Questo non è giusto. Ho sempre in testa le parole di Gesù: “Siete luce e sale del mondo”. Cos’ è una luce? Anche una piccola candela può illuminare una stanza e così un po’ di sale può dare
gusto: i cristiani, se vogliono vivere la loro fede ed essere fedeli, possono avere un’eco molto grande e i musulmani aspettano qualcosa di diverso da loro. Si possono fare tante cose, ma bisogna essere preparati, e un po’ furbi, per scegliere il vocabolario”. D.R.: “Chi pensa al futuro dell’Iraq, a volte prospetta l’idea di trasferire tutti i cristiani nella piana di Ninive. Cosa ne pensi?”. Mons. L.S.: “No, questa è una trappola. In questa zona ci sono solo 70.000 cristiani, a fronte del milione e più di musulmani. E’ un gioco politico, dove i curdi vogliono i cristiani con loro e così anche gli arabi. Noi come cristiani siamo dappertutto e non possiamo vivere in un ghetto. Per natura, il cristiano deve andare e predicare, e una chiesa, che ha perso il senso della missione, è finita. E’ una chiesa, quando predica, quando fa nuovi cristiani. Noi dobbiamo essere un po’ dappertutto, perché andare lì? Ci sono alcuni cristiani fuori, che non hanno un’idea concreta della situazione; loro credono di dover avere un’autonomia come i curdi, ma noi non siamo come i curdi. I curdi sono 5 milioni e hanno una loro terra. Hanno quattro province; noi cosa abbiamo? Giusto qualche villaggio senza peso”. D.R.: “Fa impressione sentire Monsignor Sako parlare di missione; tenete conto che lui è vescovo e ha 7 preti. In quel contesto, è una passione per il Vangelo che non ha confini. Non a caso, siete arrivati in india, nelle Filippine, in Cina. E anche lì, voi caldei, avete fatto un’operazione di inculturazione, vero?”. Mons. L.S.: “In Cina, hanno detto che Gesù è un Buddha, l’Illuminato, e la religione cristiana è la religione della luce e il Vangelo è una perla. I primi missionari non erano monaci, perché i monaci pregano in un monastero, ma erano i laici, i commercianti che andavano in India, seguendo la strada della seta. In India ci sono 5 milioni di caldei che hanno tradotto la liturgia nel loro dialetto indiano”. D.R.: “Questa Chiesa d’Oriente cosa può dire alla stanca Chiesa d’Occidente?”. Mons. L.S.: “Tutti siamo stanchi, ma penso che abbiate qualcosa da imparare da questa chiesa martire; il coraggio di dire la vostra fede, di parlare della vostra fede, come fanno i musulmani. Siamo cristiani e
viviamo la nostra fede pienamente, non c’è compromesso per la fede. Senza un’esperienza mistica, il cristiano non può dirsi cristiano; la mistica non è solo per suore, o preti, ogni cristiano deve avere queste esperienze mistiche con Dio. Così come i musulmani dicono oggi che l’Occidente oggi è corrotto e ateo, tanto più non dobbiamo avere paura, in considerazione del fatto che i musulmani saranno sempre di più, anche in Occidente”. D.R.: “Tocchiamo il tema dell’emigrazione. Quando i caldei emigrano, dove vanno? Tenete conto che i caldei sono mediamente scolarizzati; quindi sono insegnanti, medici, ingegneri, architetti. Quindi, spesso, è manodopera qualificatissima, costretta però a emigrare”. Mons. L.S.: “Prima di tutto, tutti i caldei sono cattolici; non ci sono caldei ortodossi. Vanno in Europa, in America, in Australia; la Siria adesso è una fermata per l’Occidente. Dove ci sono i caldei, le chiese sono belle; i caldei attirano e anche al termine della messa c’è un momento di incontro”. D.R.: “Ci racconti un po’ della liturgia caldea; una liturgia molto antica”. Mons. L.S.: “La liturgia caldea è molto semplice e sobria, non c’è il trionfalismo bizantino. E’ la liturgia della grazia, c’è poco posto per il peccato perché il peccato è normale. Siamo tutti peccatori, ma Dio è venuto per perdonarci; il problema è dire che siamo limitati e poveri, esseri umili, e non perfetti. In tutta la liturgia c’è un posto molto importante per lo Spirito Santo, che non a caso voi avete preso dall’Oriente, durante il Concilio. Poi è la liturgia della resurrezione, mentre voi avete quella della mortificazione. Per noi Cristo ci ha salvato con la resurrezione, con la sofferenza, e il Venerdì Santo non ha senso senza la Domenica. Per noi la Domenica è la salvezza; ecco perché la croce, nelle nostre chiese, è vuota. Il motto della liturgia caldea è: resurrezione, vita e rinnovo. Tutto si cambia con lo Spirito Santo: è Lui che cambia il pane e il vino, ma non solo. Anche l’assemblea, il corpo di Cristo, i cristiani: anche loro devono essere cambiati e se loro ricevono questa comunione, che non è una devozione, ma un’incarnazione, nel Corpo di Cristo vengono incarnati. Tutto è volto alla resurrezione e noi cantiamo: “Gesù è risorto, non abbiate paura””. D.R.: “Non temi per la tua vita, in Iraq?”
Mons L.S.: “Assolutamente no. Come vescovo, come cristiano, sono consacrato; perché dovrei aver paura? Tutto è dato e dunque sono pronto a dare tutto”. D.R.: “C’è una solidarietà, fatta di memoria, di ricordo; bisogna aprire le finestre delle nostre chiese. Fare entrare un po’ di aria; fare memoria di quelle chiese martiri, che testimoniano ogni giorno per Gesù di Nazareth e insieme un po’ di solidarietà concreta: e quindi chi vuole può lasciare qualche soldo, per Monsignor Sako. Chiudiamo grati a monsignor Sako, che ci ha regalato una serata su cui tornare, lavorare. Siamo grati per questa boccata d’aria fresca che, seppur attraverso alcuni passaggi dolorosi, Monsignor Sako ha portato”. La serata si conclude con la recita del Padre Nostro, cantato in aramaico da Monsignor Sako.