FUNZIONE RELAZIONI ISTITUZIONALI
REPORT SULLE ISTITUZIONALI
RIFORME
ELETTORALI
ED
1. Premessa In poco più di 60 giorni è cambiato il Governo del Paese e lo stile di governare. Come tutti sappiamo tra le priorità che si è dato il Presidente del Consiglio Renzi vi sono la riforma della legge elettorale, del bicameralismo e del Titolo V della Costituzione. Ed Proprio su questo terreno che ancora una volta le Acli non faranno mancare allʼintera compagine del nuovo Governo il loro contributo di idee e di proposte in quello stile di autonomia, di responsabilità e di concretezza che da sempre caratterizza la politicità lʼAssociazione. È, infatti, intenzione delle Acli continuare a qualificarsi come interlocutori significativi sui territori e nel dibattito politico nazionale, mantenendo inalterata la propria libertà di proposta e di critica nei confronti dei governi che ha reso popolari e credibili le Acli. Su questa azione si fonda la storia e lʼautonomia dellʼAssociazione. Vogliamo continuare ad essere una presenza critica e costruttiva in questa società e far sentire tutto il peso delle nostre proposte, rimanendo fedeli ai principi democratici dellʼAssociazione. Per questo tra le tante proposte che le Acli possono offrire per aiutare il Paese a uscire dalla crisi non può mancare una riflessione sulla legge elettorale appena votata in Parlamento e sulle riforme istituzionali che, di qui a breve, il Governo dovrà affrontare. Senza con ciò dimenticare i partiti. Le Acli non possono che accogliere con favore la fase politica in corso, animata dallʼintento di consegnare al Paese la rimodulazione dellʼarchitettura istituzionale. Tuttavia ci preme sottolineare che se non si colma la crisi della rappresentanza e i partiti non riacquistano la loro credibilità, recuperando la loro funzione di formazione intermedia tra lʼindividuo e le istituzioni, ad andare a fondo è lʼidea stessa di democrazia, di cui i partiti, che piaccia o meno, sono la nervatura. Non esitiamo a ribadire che quella che stiamo vivendo oggi è, innanzitutto, una crisi dei partiti e della loro capacità di rappresentare il paese reale; una crisi che inevitabilmente si riflette anche sulle istituzioni. Non possiamo pertanto pretendere dalla legge elettorale o dalle riforme istituzionali ciò che esse non sono in grado di dare e che attiene alla politica, alle capacità e alla solidità dei partiti: progettualità, stabilità di governo e decisioni di qualità.
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Va bene quindi lʼurgenza di approvare in tempi brevi le riforme necessarie per uscire dalla seconda Repubblica (dalla legge elettorale, alle riforme istituzionali ed in particolare del bicameralismo perfetto, alla riforma del Titolo V della Costituzione e al riordino degli Enti Locali); va bene lʼesigenza di trasparenza e di nuove regole chiare. Ma sappiamo che ciò non basta: per inaugurare una nuova stagione per il Paese, sarà necessario attuare anche la riforma della pubblica amministrazione, dei costi della politica, dei partiti, della giustizia, della regolazione del conflitto dʼinteressi e del sistema radio-televisivo, dellʼordinamento della sussidiarietà orizzontale. Le Acli voglio e devono concorrere alla riuscita del processo di rinnovamento che sta attraversando lʼItalia, contribuendo al superamento di un modello politico inadatto a fronteggiare una situazione economica, sociale e istituzionale che si fa sempre più grave. Forti di una lunga tradizione democratica ci impegniamo a partecipare attivamente al rinnovato dibattito sulle riforme, con lʼauspicio che la nostra riflessione possa contribuire alla maturazione di scelte consapevoli per il Paese. 1. Riforma degli attori della politica Poco più di un mese fa la Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge di conversione del decreto n. 149 del 2013 che abroga il finanziamento pubblico diretto dei partiti politici e lo sostituisce con un sistema di finanziamento basato sulle detrazioni fiscali delle donazioni private e sulla destinazione volontaria del due per mille dellʼimposta sul reddito delle persone fisiche. Premesso che una qualche forma di finanziamento pubblico della politica esiste in ogni democrazia - in quanto rappresenta lʼeffettiva garanzia che ogni cittadino possa accedere al processo politico in condizioni di parità - la legge intende arginare un fenomeno che negli anni si è talmente dilatato fino ad assumere i contorni di un vero e proprio sistema di sovvenzioni parallelo e autonomo rispetto a quello standard dei partiti, determinando un uso del denaro inevitabilmente improprio. In base alla nuova legge, lʼafflusso dei soldi pubblici nelle casse dei partiti si arresterà in modo graduale nei prossimi tre anni, nel corso dei quali si passerà dai finanziamenti pubblici che arrivano sotto forma di rimborsi elettorali (circa 60 milioni lʼanno, distribuiti in base ai voti presi alle politiche, alle europee e alle regionali) a un sistema basato sulle contribuzioni volontarie: nellʼanno in corso la rata versata ai partiti diminuirà del 25%, nel 2015 del 50%, nel 2016 del 75%. Nel 2017 i rimborsi verranno sostituiti dalla contribuzione volontaria, prevista in due forme: le erogazioni liberali dei privati e il due per mille. Da parte loro, i partiti dovranno dotarsi di uno statuto che indichi con chiarezza organi dirigenti, modalità della loro elezione, durata degli incarichi, garanzia delle minoranze interne. Solo i partiti con questi requisiti saranno iscritti in un apposito registro nazionale. Queste, in breve, le principali novità della nuova legge che, sicuramente, va nella direzione di stabilire delle norme che definiscano i limiti della sfera dʼazione delle forze politiche, cercando di superare le gravi degenerazioni che hanno portato a una delegittimazione delle stesse. Tuttavia, secondo le Acli, si sarebbe potuto fare qualcosa di più e, soprattutto, alcuni aspetti della legge non convincono del tutto. Innanzitutto, una considerazione di merito. Il tema dellʼordinamento dei partiti, per quanto collegato ai costi della politica, andrebbe affrontato in modo organico e distinto da quello del finanziamento pubblico. La regolamentazione di partiti è, infatti, un nodo che i nostri Padri Fondatori non sono riusciti a scogliere durante lʼAssemblea Costituente, rimandando
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ad un secondo momento e al legislatore ordinario lʼindicazione delle modalità in cui si svolge lʼattività dei soggetti politici. Purtroppo, però, questo secondo momento non è mai arrivato e tuttora mancano delle norme di organizzazione interna su base democratica dei partiti politici. Né la legge attuale sembra colmare in modo adeguato tale lacuna, riservando maggiore attenzione al tema del finanziamento. Ciò implica che il partito, ancorché dotato di una funzione pubblica, ha nel nostro sistema costituzionale la struttura propria di soggetto privato e, come qualunque associazione, non ha altri limiti al di là di quelli costituiti dalla legge civile comune e dai divieti posti dalla legge penale. Lʼunico limite specifico esterno posto al partito - oltre a quelli comuni a tutte le associazioni private - è previsto dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. Da qui lʼambiguità dei partiti: da un lato godono della libertà propria delle associazioni, fuori da ogni condizionamento di organi pubblici; dallʼaltro sono impegnati a svolgere una funzione squisitamente pubblica, prima tra tutte quella della presentazione delle liste di candidati per le strutture istituzionali pubbliche a ogni livello. Il partito politico ha dunque uno status per certi aspetti unico: è espressione della società civile, ma per volontà del legislatore risulta dotato di alcune funzioni pubbliche (presentazione di alternative elettorali e selezione dei candidati) preordinate ad agevolare la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Tuttavia, perché ciò avvenga sono necessarie delle regole che garantiscono il democratico svolgimento delle attività dei partiti (sia per quanto concerne la scelta delle persone sia per la formazione delle decisioni in generale) e che tutelino le minoranze, permettendo a idee e valori di prendere forma, fino a svilupparsi in una realtà condivisa. La democraticità interna e il libero dibattito fra le diverse posizioni è, infatti, un requisito fondamentale e determinante per la qualità la progettualità politica. Per uscire dellʼambiguità in cui versano i partiti - dato che nessuna legge ne definisce la benché minima struttura organizzativa e funzionale – occorrerebbe stabilire il principio del riconoscimento giuridico dei partiti politici e formulare una legge organica sulla forma, la struttura e i meccanismi del partito (non solo quelli di finanziamento e di rendicontazione). Tale riconoscimento dovrebbe almeno avvenire nellʼambito del diritto privato per permettere alla comunità di controllare lʼesistenza e il rispetto di norme statutarie, redatte secondo regole condivise, che disciplinino i comportamenti delle formazioni politiche. Inoltre, unʼappropriata disciplina delle regole nei partiti - del modo in cui assolvono alle loro funzioni rappresentative e svolgono la loro vita interna (competenze e modalità di elezione degli organi dirigenti, presenza delle minoranze negli organi collegiali, periodicità dei congressi, procedure di approvazione degli atti che impegnano il partito, misure disciplinari, modalità di selezione dei candidati alle competizioni elettorali, ecc.) – ne garantirebbe la democraticità interna, eliminando la diffusa percezione che essi siano autorizzati ad agire in assenza di ogni controllo. Da questo punto di vista, alle Acli sembra sensato ipotizzare istituti che costringano i partiti a darsi ordinamenti interni a base democratica, giacché questo pare essere uno dei noccioli più sensibili della questione democratica nel nostro paese. A tal proposito è ancora attuale la proposta di modifica allʼart. 49 della Costituzione avanzata dalla Commissione Bozzi nel lontano 1985: Tutti i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere, con strutture e metodo democratici, a determinare la politica nazionale. La legge disciplina il finanziamento dei partiti, con riguardo alle loro organizzazioni centrali e periferiche, e prevede le forme e le procedure atte ad assicurare la
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trasparenza e il pubblico controllo del loro stato patrimoniale e delle loro fonti di finanziamento. La legge detta altresì disposizioni dirette a garantire la partecipazione degli iscritti a tutte le fasi di formazione della volontà politica dei partiti, compresa la designazione dei candidati alle elezioni, il rispetto delle norme statutarie, la tutela delle minoranze.
Inoltre, bisognerebbe prevedere misure che, effettivamente, assicurino inclusività e partecipazione, mettendo i cittadini nella condizione di potersi impegnare nella vita di partito, ad esempio, consentendo loro (e non solo agli eletti) la possibilità di poter prendere aspettative non retribuite. Un secondo asse di lavoro per la riforma dei partiti è quello della trasparenza: un requisito irrinunciabile affinché i partiti riacquistino credibilità presso la pubblica opinione. Trasparenza al proprio interno, sanzionando i comportamenti illegali che purtroppo hanno caratterizzato la vita di alcune forze politiche, ma anche trasparenza nei bilanci e nei conti, che devono essere accessibili agli iscritti e agli elettori e certificati da osservatori davvero indipendenti. Quanto al finanziamento della politica, le storture del sistema italiano sono ben note: da quando è stato introdotto nel 1974, numerose “riforme” hanno cercato di aggiustare, modificare e abolire (teoricamente, salvo poi ripristinarlo sotto altre forme) il finanziamento pubblico dei partiti. Si è anche svolto un referendum abrogativo sulla questione. Come si è visto, con lʼapprovazione definitiva da parte della Camera della conversione del decreto legge che modifica il sistema di contribuzione pubblica ai partiti politici, dal 2017 i finanziamenti diretti dello Stato saranno completamente aboliti e sostituiti con agevolazioni fiscali per la contribuzione volontaria dei cittadini. È positivo che la nuova legge condizioni lʼaccesso dei partiti alle nuove forme di contribuzione al rispetto dei requisiti di trasparenza e democraticità indicati dalla stessa, in cui si prevede anche lʼistituzione di un registro dei partiti politici ai fini dellʼaccesso ai benefici. Tuttavia, come Acli, riteniamo che sarebbe stato più utile definire un sistema di finanziamento finalizzato al rimborso delle spese elettorali sostenute dai partiti e in cui lʼentità dello stesso rimborso, con obbligo di rendicontazione, fosse definita sulla base di parametri certi legati al numero di voti conseguiti. Oltre alla riforma del sistema dei partiti, lʼaltra legge che gli italiani aspettano da ormai troppo tempo è quella sul conflitto dʼinteressi; una legge che regoli la situazione personale di chi fa politica, definendo con chiarezza tutte le cariche che non permettono la candidatura e che porterebbero a una situazione dʼincompatibilità con il ruolo di parlamentare. Come Acli riteniamo che dopo ventʼanni sia ormai improrogabile la necessità di cambiare la legge Frattini che regola incompatibilità e gestione di cariche e proprietà in settori chiave, quali difesa, energia, credito, risparmio, opere pubbliche ecc. In tal senso ci sembra importante che la nuova legge punti essenzialmente sulla prevenzione dei conflitti dʼinteresse, piuttosto che intervenire solo con sanzioni successive. 2. Riforma elettorale Alla discussione dei limiti della nuova legge elettorale e alle proposte formulate in merito dalle Acli è stata dedicata la Direzione nazionale del 22 gennaio u.s, che ha approvato allʼunanimità uno specifico documento nel quale ci sʼinterroga circa la “legittimità” di una riforma che sacrifica la rappresentanza ad una presunta governabilità, consegnando la guida del Paese al partito/coalizione che potrebbe addirittura ottenere meno di un terzo dei voti dellʼelettorato. Non si vuole certo sostenere lʼidea che la governabilità non abbia una sua specifica rilevanza costituzionale. Anche la Corte Costituzionale, nella recentissima
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decisione con la quale ha dichiarato lʼillegittimità costituzionale del Porcellum, ha riconosciuto la stabilità del governo del Paese e lʼefficienza dei processi decisionali nellʼambito parlamentare quali obiettivi di rilievo costituzionale, tesi a favorire il funzionamento della forma di governo (Corte cost., n. 1/2014). Il rapporto di questo principio con le altrettanto cruciali esigenze della rappresentanza devono risultare dunque adeguatamente bilanciate; operazione alla quale non sembra che lʼopzione legislativa stia provvedendo nel più auspicabile dei modi. Difatti, il nuovo sistema elettorale per la Camera dei Deputati prevede un premio di maggioranza in base al quale chi raggiunge il 37% dei consensi ottiene 340 seggi. Se nessuna coalizione o partito dovesse raggiungere tale percentuale è previsto un turno di ballottaggio tra le due principali coalizioni, una delle quali otterrebbe così sicuramente la maggioranza. La parte restante dei seggi andrebbe ripartita fra le altre forze politiche in base alle rispettive percentuali di consenso (ma con una soglia di sbarramento tra il 5 e lʼ8% per i partiti e del 12% per le coalizioni). Il rischio che non si raggiunga la maggioranza al primo turno è piuttosto alto, visto che alle ultime elezioni politiche nessuna coalizione ha raggiunto tale percentuale. Si prospetta un ritorno al passato, con coalizioni fatte da un partito egemone e tanti “cespugli” alleati per consentire il raggiungimento della soglia minima o per vincere nellʼeventuale ballottaggio. E i micro-partiti torneranno a costituirsi in parlamento. Il pericolo è che leadership minoritarie nel Paese diventino maggioritarie con il sistema degli sbarramenti e dei premi. Pericolo quanto mai reale: considerato lʼalto tasso di astensione che ha caratterizzato le ultime elezioni, si rischierebbe che il partito più rappresentativo lo sia con una modesta percentuale del 25%. Purtroppo la fragilità del nostro sistema politico, in assenza di un'etica della governabilità, risiede proprio nella logica delle coalizioni costituite ad hoc per aumentare la possibilità di fruire dei correttivi inseriti nel sistema elettorale; le stesse coalizioni che, a elezioni svolte, iniziano a “fibrillare” sino a scomporsi inesorabilmente. Bisognerebbe anche rivedere il sistema di sbarramento, a nostro avviso troppo alto per i partiti che scelgono di non coalizzarsi (in proposito andrebbe rivisto anche lo sbarramento previsto per le elezioni europee). Peraltro, tale misura porrebbe dei limiti al partito “pigliatutto” e al “pensiero unico” prevalente in un particolare momento storico che mortifica lʼattività legislativa delle Assemblee. In questa sede - oltre a ribadire la nostra perplessità rispetto alla scelta di una soglia per lʼassegnazione del premio di maggioranza francamente troppo bassa e tale da favorire alleanze solo di facciata, alimentando il trasformismo e lʼinstabilità politica - intendiamo portare lʼattenzione su tre aspetti rispetto ai quali vogliamo esprimere il nostro rammarico per il Paese che, ancora una volta, ha perso unʼimportante occasione di rinnovamento democratico: la parità di genere, le candidature multiple, la distribuzione dei seggi su base nazionale. Il principio della parità di genere ha provocato non pochi contrasti. La norma, non prevista dallʼaccordo originario sottoscritto da Renzi e Berlusconi, ha rischiato di far saltare lʼintesa anche se alla fine, con scrutinio segreto, la Camera ha bocciato i tre emendamenti volti ad inserire nellʼItalicum lʼalternanza uomo-donna nelle liste, il vincolo che nessuno dei due generi fosse rappresentato in misura maggiore al 50% per i capilista e la proporzione del 40-60% per i capilista. Anche se alcuni partiti hanno dichiarato di mantenere ancora più forte il proprio impegno per il 50 e 50 nelle liste elettorali, per le Acli quella delle parità di genere è unʼoccasione mancata per la democrazia e per il Paese che evidentemente - nonostante il tema della
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presenza femminile nei luoghi della rappresentanza politica sia stato oggetto di una crescente attenzione - ancora fatica a rimuovere tutti gli ostacoli che fino ad oggi hanno impedito la parità di accesso delle donne alle cariche elettive. Inoltre, è la stessa Costituzione a orientare la scelta del legislatore in tal senso, posto che nellʼart. 51, dopo aver ribadito lʼeguaglianza tra donne e uomini nellʼaccesso ai pubblici uffici, specificando così il contenuto dellʼart. 3, comma 1, dispone che la Repubblica promuova con appositi provvedimenti le pari opportunità. Tale norma è nitidamente preordinata a dare concretamente attuazione a quelle politiche di eguaglianza sostanziale cui lʼordinamento è tenuto, stante il disposto di cui allʼart. 3, comma 2, della Carta costituzionale. Ovviamente, lʼintroduzione delle “quote” non garantisce di per sé scelte effettivamente meritocratiche: non dimentichiamo che, spesso, a scegliere le donne da candidare sono le oligarchie maschili allʼinterno dei partiti. Pertanto, siamo consapevoli che risposte valide al problema della sottorappresentanza femminile nelle istituzioni non possono venire solo sul piano dei meccanismi previsti nella legislazione elettorale. Ma questi meccanismi dovranno necessariamente accompagnarsi a sistemi di scelta delle candidature da parte dei partiti tali da consentire che le donne vengano effettivamente elette. Di qui lʼinsistenza sulla necessità di una norma che regoli la democrazia anche allʼinterno dei partiti e che garantisca la rappresentatività di tutte le minoranze, anche quelle di genere, consentendo alle donne di accedere effettivamente ai luoghi della decisione politica e di emergere come meriterebbero. La bocciatura delle “quote rosa” appare dunque come lʼennesimo tentativo di conservare lo status quo, sia pur ammantato da quelle che le Acli non esitano a definire argomentazioni pretestuose e poco condivisibili in un contesto quale quello italiano: quella della meritocrazia e quella secondo la quale le politiche culturali non si fanno con le norme. Ricordiamoci che, secondo dati dellʼEurostat, in Italia le donne fanno più fatica che altrove ad entrare nel mercato del lavoro e il nostro paese è uno dei fanalini di coda quanto ad occupazione femminile; occupazione che diminuisce per ogni figlio a carico in più. In questo quadro, dunque, anche se la presenza femminile nei luoghi della rappresentanza politica è aumentata, non si può non tener conto di tutti gli ostacoli che oggettivamente frenano la parità di accesso delle donne negli organi elettivi. Inoltre, considerato che già molte leggi regionali prevedono, con strumenti più o meno incisivi, la possibilità per le donne di essere elette allʼinterno dei Consigli regionali, non si comprende perché la necessità di un intervento normativo di riequilibrio tra i sessi anche nella legge elettorale per la Camera dei Deputati stenti ad affermarsi. La speranza è che al Senato, come è avvenuto per le elezioni europee, si trovi lʼaccordo per lʼintroduzione della parità di genere nelle liste. Difatti, in vista della prossima consultazione del 25 maggio, una norma transitoria prevede lʼannullamento della terza preferenza se non si rispetta lʼalternanza; mentre a partire dal 2019 ci sarà la presenza paritaria nelle liste e lʼalternanza nel ruolo di capolista Oltre a quello delle liste bloccate, anche quello delle candidature multiple (per i singoli candidati sarà possibile presentasi in 8 collegi diversi) è un meccanismo che le Acli censurano con fermezza, in quanto anchʼesso contribuisce a svincolare del tutto lʼelezione dei candidati dal voto degli elettori (violandone perciò un diritto costituzionale assoluto). Il meccanismo, che peraltro di fatto allunga le liste bloccate, è noto e usato da tutti i partiti, specie dai più piccoli: i candidati “big” si presentano in più collegi sia per avere un seggio sicuro, ma anche per poter lasciare, una volta eletti e scelto il collegio di riferimento, il posto ai propri uomini, spesso dei perfetti sconosciuti per gli elettori. In altre parole, il
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plurieletto decide lʼeletto che lo sostituisce, con la conseguenza paradossale che la sovranità dal popolo votante passa al popolo votato. In questo modo si “inganna” letteralmente lʼelettore, facendogli credere di essere rappresentato da una persona che in realtà rappresenterà altri. Poiché con lʼItalicum la competizione politica è nazionale, e dunque trascinata dalle leadership elettorali, si spezza, in un primo momento, il rapporto tra elettore e candidato e, in seconda istanza, il rapporto tra lʼeletto e il territorio. È evidente che listino bloccato e candidature multiple non solo aumentano il potere discrezionale dei vertici dei partiti, che scelgono le circoscrizioni in cui lasciare il posto al candidato successivo, ma sono palesemente in contrasto con la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il Porcellum: entrambi gli istituti rendono difficilmente conoscibili i candidati agli elettori e favoriscono lʼaderenza a profili di lealtà al leader piuttosto che candidature motivate dal radicamento sul territorio. Anche il ripristino del collegio unico nazionale per la ripartizione dei seggi con metodo proporzionale aumenta il pericolo della distorsione della rappresentanza. Infatti, con una ripartizione su base nazionale piuttosto che per collegio, lʼattribuzione dei seggi è legata alla casualità di un algoritmo (il sistema dei quozienti) con la conseguenza che può risultare eletto in un determinato collegio anche il candidato che ha ottenuto, in assoluto, il minor numero di voti. Alla luce di queste considerazioni, per le Acli sarebbe stato auspicabile un modello di legge elettorale che avesse previsto piccoli collegi con liste corte, con le preferenze e con una ripartizione dei seggi per collegio piuttosto che su base nazionale. In questo modo i partiti sarebbero stati costretti a scegliere candidati radicati sul territorio e ad assicurare il rispetto del pluralismo delle culture al proprio interno, oltre alla parità di genere. Del resto, la stessa Corte Costituzionale ha indicato lʼopzione della preferenza nel caso in cui la determinazione del seggio non avvenisse in piccoli collegi. Poiché nel testo di riforma della legge elettorale approvato dalla Camera sono conservati tutti quei difetti che precludono allʼelettore la possibilità di scelta dei candidati, le Acli auspicano una sua sostanziale modifica al Senato. 3. Riforma del bicameralismo Insieme al passaggio a Palazzo Madama dellʼItalicum è partito il percorso delle riforme istituzionali. Il Governo ha presentato un documento sulla riforma del Senato abbandonando in corsa lʼidea dei 108 sindaci per unʼAssemblea delle autonomie dalla composizione mista che rappresenterà le istituzioni territoriali - e del Titolo V della Costituzione. Le Acli valutano positivamente questo cambio di rotta, poiché già avevano espresso la loro perplessità circa lʼipotesi di inserire i sindaci in una camera delle Regioni: gli interessi degli enti locali cosiddetti minori dovrebbero risultare rappresentati a livello regionale. Il superamento del bicameralismo paritario è, quindi, una delle riforme istituzionali maggiormente condivisibili, anche perché nessuno schieramento propone lʼabolizione del Senato, bensì una sua trasformazione in unʼAssemblea delle autonomie. Del resto, il bicameralismo perfetto del nostro sistema parlamentare, in cui le due camere che hanno esattamente gli stessi compiti e gli stessi poteri, è ormai unʼeccezione nellʼUnione. Nei diversi sistemi parlamentari europei, infatti, la tendenza degli ultimi ventʼanni è stata nel senso di unʼaccentuazione della differenziazione tra i due rami del Parlamento e pur esistendo diversi “modelli” di Senato, tutti sembrano essere accomunati da tre fattori
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fondamentali: sono espressione delle comunità territoriali, sono estranei al rapporto di fiducia tra Camera e governo, esercitano una funzione di equilibrio e di riflessione nei confronti dellʼaltro ramo del Parlamento che, al contrario, è espressione della maggioranza di governo. La proposta di riforma presentata dal Governo sembra andare in questa direzione. LʼAssemblea delle autonomie, che non avrà più il potere di accordare o revocare la fiducia al governo, sarà composta dai presidenti di Regione, da due membri eletti dai Consigli regionali tra i propri componenti e da tre sindaci eletti da unʼassemblea dei sindaci di ciascuna Regione. Le modalità dʼelezione verranno decise dalla Camera. Ci limitiamo a segnalare che la rappresentanza dei sindaci potrebbe essere affidata alla determinazione del Consiglio delle Autonomie Locali (CAL), un organo previsto dalla Costituzione. Lʼart.123 impegna, infatti, le Regioni a prevederne lʼistituzione nel proprio Statuto regionale: il CAL, composto dai rappresentanti degli enti locali, ha funzioni consultive ed è finalizzato al coordinamento fra la Regione e il suo sistema di enti locali. Quanto ai presidenti della Repubblica, alla scadenza del mandato non diventeranno più senatori bensì deputati a vita. Circa eventualità, poi naufragata, che il Presidente della Repubblica nominasse direttamente alcuni senatori non sono mancate le perplessità: sia perché il Presidente veniva ad essere in questo modo “politicizzato”, sia perché questa assemblea se, come dovrebbe essere, è rappresentativa degli interessi delle Autonomie locali, dovrebbe risultare formata solo da rappresentanti di queste ultime, diventando perciò del tutto fuorviante lʼinserimento di soggetti che, svincolati dalla rappresentanza di tali enti, finirebbero per veicolare interessi ultronei. Tuttavia, le Acli avrebbero valutano positivamente la nomina a senatori da parte del Presidente della Repubblica di alcuni esponenti della società civile: in questo modo si sarebbe data rappresentanza e una qualche potestà legislativa anche alla società civile. Altresì le Acli ritengono che non debba mancare una rappresentanza degli italiani allʼestero che potrebbero essere nominati dal CGIE. Desta invece preoccupazione la proposta di vincolare la durata del mandato dei membri dellʼAssemblea delle autonomie dei Presidenti delle Giunte regionali e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, nonché dei membri eletti dai Consigli regionali, alla durata degli organi ai quali appartengono. Riteniamo, infatti, che la riforma debba andare nel senso di una “camera stabile”, nella quale i membri possano esercitare la propria funzione con continuità. Tale problema non sussiste invece per i Sindaci eletti nellʼAssemblea, poiché la durata prevista per il loro mandato è di cinque anni. Ci lascia ancor più perplessi la scelta di assegnare a tutte le regioni, indipendentemente dal numero degli abitanti, lo stesso numero di senatori: tanto la Valle dʼAosta, con poco più di centomila abitanti, quanto la Lombardia con i suoi quasi dieci milioni, avranno sei rappresentanti (tre regionali e tre comunali). Per quanto riguarda le competenze, lʼAssemblea delle autonomie partecipa allʼelezione del Presidente della Repubblica e ha una “funzione di raccordo tra Stato e Regioni”, si occupa di atti dellʼUnione europea, “svolge attività di verifica dellʼattuazione delle leggi dello Stato e di valutazione dellʼimpatto delle politiche pubbliche sul territorio”. Il bicameralismo paritario sopravvive solo per le leggi costituzionali, che devono essere approvate dalle due Camere. Tutte le altre leggi sono trasmesse da Montecitorio allʼAssemblea delle autonomie, che entro dieci giorni può decidere di esaminarlo ed entro trenta giorni emanare un parere; alla Camera spetta comunque lʼultima parola. La proposta del Governo sembra dunque ispirarsi a un modello di monocameralismo puro,
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in cui solo la “camera bassa” ha il potere legislativo e i compiti dei due rami del Parlamento sono particolarmente differenziati. Alle Acli, questa scelta non appare del tutto convincente, preferendo un sistema che assicuri un maggior pluralismo ed equilibrio tra i poteri: anche lʼAssemblea delle autonomie, pur non disponendo della facoltà di revocare la fiducia al Governo, dovrebbe avere la possibilità di esercitare il potere legislativo, almeno per tutte quelle materie connesse agli ordinamenti di regioni e comuni. Non ci sembra abbia molto senso unʼAssemblea delle autonomie che partecipa a pieno titolo alla revisione della Costituzione, la parte più politica ed importante del nostro ordinamento, per poi essere completamente esclusa dalla legislazione ordinaria. Abolire il Senato o fare di esso un organo inutile non è una soluzione valida: perché diventi luogo di vera rappresentanza delle autonomie bisogna preservarne dignità e ruolo mediante unʼattenta differenziazione delle funzioni dei due rami del Parlamento. Il passaggio dal bicameralismo perfetto o paritario al bicameralismo differenziato implica chiaramente un intervento sul Titolo V della Costituzione. 4. Riforma del Titolo V Anche la riforma del Titolo V della Costituzione, intesa a razionalizzare i rapporti centroperiferia e gli organi di rappresentanza locale, è da accogliere con favore. Tuttavia, analogamente a quanto già evidenziato circa il superamento del bicameralismo paritario, alcuni punti del progetto governativo destano perplessità. Lʼapprovazione del disegno di legge Delrio che prevede lʼabolizione delle Province e lʼistituzione di dieci Città metropolitane lascia, infatti, diverse questioni aperte, ad iniziare dallʼassenza di una governce delle politiche di area vasta, solo in parte riassorbite dallʼistituzione delle Città metropolitane. Ciò è dovuto al fatto che si è agito sullʼonda dei tagli dei costi della politica senza però definire, una volta per tutte, le funzioni fondamentali dei vari livelli delle autonomie locali. Nellʼaffrontare la riforma del Titolo V sarà comunque dirimente approvare il Codice delle autonomie, atteso anchʼesso da una decina dʼanni. Quanto al condivisibile principio in base al quale il rapporto fra potestà legislativa statale e potestà legislativa regionale debba essere impostato secondo una logica di complementarietà e di non conflittualità, non ci sembra che la proposta del Governo possa razionalizzare compiutamente il sistema. In particolare, il decisivo art. 117 è riscritto eliminando la competenza concorrente, riportando così allo Stato materie sulle quali le Regioni hanno legiferato poco o nulla e riducendo il contenzioso. Manca però una disposizione che eviti la libera espansione delle competenze regionali su tutte le materie non esplicitamente menzionate dallʼarticolo. Paradossalmente, peraltro, rimangono di competenza regionale, e senza più il limite dei principi fondamentali statali, alcune materie. Tra esse anche “la tutela della salute”, vera nota dolente del Paese come dimostrano i dati sulla qualità del servizio sanitario, diversissimi tra Regione e Regione. È vero che per “esigenze di tutela dellʼunità giuridica o economica della Repubblica o di realizzazione di riforme economico-sociali di interesse nazionale”, la legge dello Stato può intervenire in materie di competenza regionale (e, viceversa, con legge può essere delegata dallo Stato alle Regioni la competenza legislativa in alcune materie, anche per un tempo limitato), ma nel frattempo una Regione potrebbe distruggere, ad esempio, la disciplina delle casse di risparmio o dellʼordinamento sportivo, o di altre materie di cui ha competenza esclusiva. Per evitare tale paradosso, lo Stato sarebbe costretto a rincorrere la produzione legislativa regionale: prospettiva che va in tuttʼaltra direzione dellʼauspicata razionalizzazione. Da questo punto di vista potrebbe senzʼaltro risultare utile un
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miglioramento dellʼenumerazione delle competenze statali. Forse aiuterebbe una maggiore aderenza alle qualificazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale in oltre dieci anni di contenzioso Stato/Regioni. Lo stesso si può dire per la spesa pubblica decentrata: ancora una volta non si fissa un criterio di responsabilità e di accountability, nonostante la legge cost. n. 1/2012 con la previsione del pareggio di bilancio. Anche per quanto riguarda i Comuni la situazione non è molto più chiara: né si conoscono i fabbisogni standard degli enti locali (circa lʼ80% della spesa comunale) né si pongono freni allʼesplosione delle società partecipate che negli anni si sono sviluppate in modo incontrollato, così come i costi dei sistemi comunali. E, salvo lʼabolizione delle Province e del Cnel, poco o nulla si dice della miriade di enti intermedi la cui soppressione comporterebbe un notevole risparmio, oltre che una significativa riduzione della burocrazia. Eppure, se lʼobiettivo di riforma del Titolo V è quello di definire in modo non equivoco le funzioni fondamentali tra i vari livelli di governo (Comuni, Città metropolitane, Regioni e Stato), è proprio a livello costituzionale che bisognerebbe trovare un rimedio alle degenerazioni che in questi hanno interessato gli enti locali, e in particolare le Regioni. Purtroppo la legge ordinaria si è dimostrata inefficace e sarebbe un errore non superare una volta per tutte lʼattuale policentrismo anarchico. Se non si vuole andare incontro allʼennesimo fallimento, è importante che il rapporto tra lo Stato e le autonomie locali segua una linea di complementarietà, giungendo a una riforma che si configuri non solo come unʼaccentuazione del potere delle Regioni, ma che preveda concrete opportunità di miglioramento dellʼefficienza del settore pubblico, ad esempio restituendo alle Regioni un ruolo programmatico e non solo amministrativo/gestionale come è stato fino ad oggi. Una tale prospettiva aiuterebbe a superare uno dei punti deboli della riforma attuata nel 2001: lʼaumento delle competenze e dei poteri decisionali degli Enti territoriali non si è accompagnato a un parallelo aumento della loro autonomia fiscale e, pertanto, allʼespansione delle spese non è corrisposto al alcun prezzo politico in termini dʼinasprimento delle tasse locali, sollevando così gli enti locali da ogni responsabilità. Lʼesempio più eclatante di tale incontrollata autonomia di spesa è rappresentato dagli scandali sullʼutilizzo a sproposito dei fondi elettorali che hanno interessato quasi tutte le Regioni italiane. In tal senso le Acli accolgono con favore il tetto agli stipendi previsto dalla riforma, in base alla quale “con legge dello Stato sono stabiliti gli emolumenti complessivamente spettanti” al presidente e ai consiglieri regionali; stipendi che in ogni caso non devono essere superiori a quelli spettanti ai sindaci di Comuni Capoluogo di Regione. Analogamente riteniamo condivisibile la misura volta a vietare il versamento di contributi pubblici ai gruppi politici dei consigli regionali. In conclusione, perché sia sostenibile, le Acli ritengono che una possibile riforma dovrebbe tenere conto anche dellʼautonomia fiscale degli enti locali che dovrà essere coerente con la loro autonomia organizzativa e di spesa, in modo da alleggerire il peso per lo Stato e da far intervenire direttamente gli enti locali stessi nel reperimento dei fondi loro necessari, secondo unʼottica che prevede un maggiore senso di responsabilizzazione.
Mercoledì 26 marzo 2014
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Gli approfondimenti della Fondazione Achille Grandi per il Bene Comune 1.
Dossier sulle riforme costituzionali e istituzionali
2. Dossier sulla Legge di Stabilità e Bilancio 3. Le proposte di sostegno al reddito 4. La riforma dei partiti e il finanziamento della politica
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