MANIPOLAZIONI L’elaborazione dell’immagine fotografica
NOEMI D’IMPERIA
MANIPOLAZIONI L’elaborazione dell’immagine fotografica
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI ROMA Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Scuola di progettazione artistica per l’impresa Diploma di Laurea II livello Corso di Grafica e Fotografia Anno Accademico 2018/2019 Candidato: Noemi D’Imperia Matricola 15717 Relatore: Prof. Salvatore Barba
INDICE 1. INTRODUZIONE 2. TEORIA DELLA PERCEZIONE VISIVA Innatisti ed empiristi Top-Down Illusioni e inferenze Psicologia della Gestalt Neuroestetica Bottom-Up Immagini interne e linguaggio
3. MODIFICARE LA REALTÀ CON L’ARTE Regole e procedimenti Trompe l’oeil, ingannare l’occhio Anamorfosi, immagini nascoste Optical Art
4. L’ELABORAZIONE DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA La fotografia come modello di realtà Dalla percezione alla realtà
5. IL PRIMO FOTORITOCCO ANALOGICO Hippolyte Bayard La doppia esposizione Fotografi dalla doppia esposizione La tecnica del fotoritocco
6. STORIA DELLA FOTOGRAFIA: L’ARTE DEL PITTORIALISMO Il Pittorialismo Henry Peach Robison Gustave Le Gray Julia Margaret Cameron Oscar Gustave Rejlander
7. IL SURREALISMO FOTOGRAFICO Fotografia surrealista Man-Ray, il primo fotografo surrealista Maurice Tabard Otto Umbehr Wanda Wulz Lorna Simpson Misha Gordin Claude Cahun Dora Maar, una musa fotografa
8. JERRY UELSMANN, MAESTRO DEL FOTORITOCCO 9. NON SEMPRE TUTTO È REALE Imparare a riconoscere le immagini Le fate di Cottingley
10. FOTOGIORNALISMO, TRA FINZIONI E REALTÀ Il Fotogiornalismo Fotomontaggio, arma di propaganda
John Heartfield Valle dell’ombra della morte
11. REALTÀ MANIPOLATE Robert Capa, miliziano colpito a morte La strage di Timisoara Ingannare la relatà
12. IL FOTORITOCCO NELLA MODA Irrealmente belle Bellezza analogica
13. SURREALISMO DIGITALE La nascita di Photoshop Surrealisti digitali
14. CONCLUSIONI NOTE
BIBLIOGRAFIA SITOGRAFIA
“Le conseguenze dalla menzogna sono necessariamente più importanti per la fotografia di quanto potrebbero mai esserlo per la pittura perché le fotografie avanzano pretese di veridicità che non potrebbe mai avanzare un quadro. Un quadro falso (cioè un quadro con un’attribuzione sbagliata) falsifica la storia dell'arte. Una fotografia falsa (cioè una foto ritoccata o manomessa, o accompagnata da una falsa didascalia) falsifica la realtà.” (Susan Sontag, “Sulla fotografia”, 1977)
INTRODUZIONE
La manipolazione della fotografia, nasce addirittura prima della fotografia stessa. Se noi vogliamo attenerci ai fatti storici, sin dal 1840, è stato ben evidente che la “riproduzione della realtà” fosse più un modo di dire, per descrivere questa tecnica, che non una verità assoluta. Nella pittura è sempre stato evidente che l’artista poteva e può intervenire con la sua fantasia su ogni singolo dettaglio, creando con forme e colori una realtà immaginaria. La fotografia è considerata appunto una “riproduzione della realtà” e l’occhio e il cervello l’ha sempre quindi interpretata come una realtà oggettiva. Negli anni ’70, quindi ben prima della nascita di Photoshop, che è la pietra miliare di questa tendenza, per modificare le immagini si usavano diverse tecniche manuali. Successivamente, il digitale ha iniziato a creare “nuove realtà”, ancora più forti proprio perché il filtro dell’occhio le ha sempre, per quanto improbabili e assurde, considerate delle testimonianze della realtà. Veri e propri artigiani della camera oscura hanno lavorato con complessità davvero incredibili e cura certosina per unire porzioni di immagini, per eliminare o costruire dettagli, per creare immagini ironiche, ma anche impegnative denunce politiche, sociali ed economiche. A questi incredibili inventori di realtà alternative è stata dedicata una mostra al Metropolitan Museum of Art di New York, “Faking It: Manipulated Photography Before Photoshop”, un percorso che mostra alcune immagini, che fanno pensare moltissimo al come potevano essere percepite, tanti anni fa: probabilmente come dei pugni nello stomaco, delle bombe esplosive che potevano creare reazioni anche inaspettate. Al tempo stesso, è incredibile pensare al lavoro che c’era dietro tutto questo: senza timbro clone, senza bacchetta magica per scontornare, tutto era affidato a pennelli (veri), a vernici per opacizzare porzioni delle pellicole, a sovrapposizioni di maschere ortocromatiche negative e positive messe a perfetto registro
Tutte tecniche che poi gli ingegneri e i progettisti dei software hanno recuperato, interpretato, tradotto trasformando così l’artigianato in processi digitali. Oggi siamo abituati, non solo ad ogni tipo di elaborazione, ma specialmente ad un bombardamento di immagini in ogni angolo. Il numero di immagini che passano davanti ai nostri occhi in una giornata sono probabilmente superiori a quelle dell’intera vita di una persona dello scorso secolo. E se, ancora oggi, abbiamo difficoltà ad accettare che quello che “vediamo” possa non essere “vero”, figuriamoci 100 o 150 anni fa… C’è una grande responsabilità storica, in queste immagini, che non sono semplici “effetti speciali”, e nemmeno sperimentazione creative, ma immagini con veri significati. I fotografi moderni spesso dedicano poca attenzione e rispetto al ruolo che svolgono di narratori e di persone in grado di influenzare la collettività. Queste immagini, ci (ri)portano indietro, ma ci fanno andare anche avanti. Con o senza Photoshop, alla fine per simulare e creare “false realtà” non solo non serve un software, basta la mente umana e la sua capacità di manipolare ogni cosa, prima di tutto, l’immaginazione degli altri.
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TEORIA DELLA PERCEZIONE VISIVA
INNATISTI ED EMPIRISTI Tra le più antiche teorie della visione è famosa quella degli “spiritelli”. Questi sono entità invisibili che escono dall’occhio e si dirigono verso le cose, come a toccarle, così rispetto a quanto ne sappiamo oggi il percorso è rovesciato, e si va dagli occhi al mondo. Già Aristotele rifiutava questa teoria: se fosse stata vera, diceva, potremmo vedere anche al buio, ma l’esperienza comune insegna che non è così. Tuttavia, se pur condannata dal sommo filosofo, la teoria degli spiritelli era studiata anche da un grande scienziato, Leonardo Da Vinci, che cercava di trovare delle soluzioni facendo diversi esperimenti. Altre teorie sostenevano invece che le cose inviassero agli occhi delle versioni miniaturizzate di loro stesse, cioè una sedia inviava piccole sedie dentro il nostro occhio. Ma la domanda più antica è stata un’altra e più generale: le sensazioni in che modo entrano in contatto con il mondo esterno? Scienziati e filosofi chiamano qualia gli aspetti qualitativi delle nostre esperienze coscienti, quelle informazioni che ricaviamo dal mondo per cui la freddezza di un gelato ha qualità precise e distinte dal colore di una mela. Se da bambini vi chiedevate se l’albero smettesse di esistere quando smettevate di guardarlo, eravate intellettivamente vivaci. Gli scienziati per lo più trattano il mondo come esistente a prescindere da qualcuno che lo esperisca; tra gli umanisti ci sono invece gli idealisti per i quali il mondo esiste solo se c’è qualcuno che lo pensa. Alla fine le due posizioni sembrano coincidere, e si riducono a due forme non troppo dissimili di metafisica: ossia la certezza assoluta che la materia o l’anima esistano in autonomia, a prescindere da ogni altra cosa. In entrambi i casi, le questioni, oltre che male impostate, non ci riguardino. La cosa importante è la reazione che si instaura tra noi e il mondo. Le cose vengono ai nostri occhi ma noi le vediamo in rapporto a delle ipotesi che ci facciamo in testa. La percezione è una rela-
L’Homme, Cartesio, 1664.
zione, ed è quindi oggettiva e soggettiva allo stesso tempo. Gli stimoli sensoriali nascono da fattori fisici e son soggetti alle leggi della fisica e della biologia, ma il rosso, il salato e il caldo non sono in natura, si tratta di pezzi di realtà che i nostri sensi promuovono al rango di sensazione. La percezione è una costruzione del cervello guidata da continui feedback con l’esterno, che ci rassicurano sulla stabilità delle cose
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La visione filosofica più vicina alle scienze moderne sembra di essere quella di Immanuel Kant (1724-1804), che era in innatista sui generis, secondo lui i sensi ci forniscono i dati, ma è la mente che li mette in ordine con una serie di parametri suoi: lo spazio, il tempo e le categorie. Appena nato, in nostro cervello non è pronto per interagire con il mondo, il programma neurale ha bisogno di dati esterni per poter funzionare. Alcuni idealisti sono anche sedotti dall’immagine fantascientifica del “cervello in vasca”: un cervello staccato dal corpo ma che viene rifornito costantemente di dati tramite collegamenti esterni. Si chiedono se un cervello del genere funzioni e se fosse vero, il mondo che ci circonda può non esistere. Un cervello che viva di dati illusori o falsi, presuppone che ci sia altrove una realtà autentica (ed ecco di nuova la metafisica). Comunque la mettiamo, il cervello può farsi un’opinione della realtà, ma non può attingerne un’ipotetica verità o senso ultimo. La relazione col mondo è un rapporto con i fenomeni, non coi noumeni, che come insegnano i filosofi sarebbero le “cose in sé”.
LEONARDO DA VINCI GLI STUDI ANATOMICI Leonardo esplorò approfonditamente il corpo umano, macchina dalla quale era affascinato e che reputava ben più perfetta di quelle create dall’uomo. Voleva capirne il funzionamento, la composizione e le dinamiche legate alla morte.
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Che il cervello sia il centro del pensiero lo si è capito da poco tempo. Fino a non troppi anni fa, la sede per il pensiero era disposta per tutto il corpo. La scienza cercava altrove il luogo dell’essere, e naturalmente per le religioni la dimora del tutto era l’anima. La medicina umorale, che ha regnato per quasi undici secoli, indicava ora nel cuore, ora nel fegato, o nella milza, la sede degli umori e delle affezioni psicologiche. Ne portiamo traccia del linguaggio odierno, quando diciamo che qualcuno è senza cuore o melanconico (cioè con bile nera).
Studio anatomico del cervello, Leonardo Da Vinci, 1500
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Oggi, stabilito che la sede è unica, ed è il cervello, dobbiamo essere consapevoli che non stiamo studiando più il fegato né più il cuore, ma qualcosa di più complesso, un organo materiale che costruisce qualcosa che pare immateriale. Un po’ per intuito, un po’ per tradizione, mente e materia sembrano irriducibili. L’aspetto affascinante della neuroscienza è proprio questo. Tuttavia molti neuroscienziati tendono a non distinguere mente e cervello, sono riduzionisti, cioè riducono tutto a materia di un tipo piuttosto che di un altro. Altri, più speculativi (di sicuro più interessanti), preferiscono invece separare i due aspetti impostando la differenza tra mente e cervello. Se ripercorriamo la storia della teoria della visione, vediamo che gli argomenti su cui i filosofi e gli scienziati hanno molto discusso, sono fondamentalmente due. In primo luogo ci si chiese se la capacità di vedere fosse innata o acquisita; successivamente ci si chiese se la visione fosse un fenomeno dal basso verso l’alto (botton-up), cioè dalle cose al cervello; oppure se fosse il cervello a influenzare cosa si vede, imponendo regole alla realtà (top-down). Gli empiristi nel seicento sostenevano che, alla nascita, la mente è pronta a raccogliere tutte le esperienze. Oggi, pur riconoscendo il ruolo chiave dell’educazione, sappiamo che un empirismo rigoroso è impraticabile. Si tratta di due scuole percettive distintive: quella della “percezione diretta” e quella della “psicologia costruttivista”. Al bottom-up appartengono tutti quei teorici che ipotizzano un percorso diretto dalle cose al cervello, senza nessun ragionamento che si metta in mezzo. Secondo questi, come vedremo fra poco, c’è un percorso immediato dalle cose alle mente senza bisogno di computazioni o inferenza nei piani alti. Top-down sono invece quelle ipotesi che individuano un ruolo chiave nella mente, che imprime determinate caratteristiche alle cose guardate.
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Si rimanderebbe così un processo cognitivo più alto, che influenza l’attività neurale a uno stato inferiore di elaborazione. La psicologia costruttiva prevede appunto un ruolo attivo nella mente nel decifrare la realtà e darle forma. Due schieramenti dunque, percezione diretta o indiretta, percezione ecologica o costruttiva. C’è poi un altro approccio, il cui esponente di spicco è David Marr (1945-80), la cosiddetta teoria computazionale, secondo cui i dati acquisiti dagli occhi verrebbero processati secondo moduli successivi che operano in serie. Il cervello sarebbe come un computer, e la visione un processo algoritmico. Non ci sarebbe deduzione ma calcoli. David Marr è interessato ai limiti di ciò che può essere estratto dal mondo con il suo bottom-up, non a caso si è occupato di intelligenza artificiale e si è chiesto quali sono le informazioni di cui ha bisogno per vedere, e le proprietà costanti che possono venir incorporate durante questo processo. Tra la semplice spontaneità della visione ecologica, la rigidezza del laboratorio e la macchinosità delle computazioni deve esserci un’altra via. Ancora una volta dobbiamo riconoscere che il rapporto con il mondo è un rapporto di scambio e di relazioni continuate. Come la visione è soggettiva e oggettiva insieme, allo stesso modo dobbiamo ipotizzare dei processi bottom-up e top-down siano in atto sincronicamente.
“ La poesia pone le sue cose nella immaginazione di lettere, e la pittura le da realmente fuori dall’occhio” Leonardo Da Vinci
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TOP-DOWN Per spiegare le teorie dall’alto verso il basso partiremo da un quesito ormai classico formulato non da un innatista ma bensì da un rigoroso empirista. John Locke(1632-1704) nel saggio sull’intelletto umano si chiedeva se una persona cieca dalla nascita, una volta acquisita la vista, fosse stata in grado di riconoscere una sfera e un cubo di metallo (di cui fino a quel giorno aveva solo informazioni tattili), guardandoli senza poterli toccare. “Niente si ritiene ordinariamente più discutibile dell’esistenza di alcuni principi, speculativi e pratici, universalmente ammessi da tutta l’umanità, che per tanto debbano risultare da impressioni costanti, che l’anima umana riceve dall’inizio della sua esistenza”1 L’empirismo è bottom-up, appunto. È evidente che un innatista rigoroso, o un idealista, gli avrebbero risposto che invece il cieco avrebbe subito riconosciuto la sfera, perché l’aveva vista, nell’iperuranio platonico o nella mente di Dio. La domanda di Locke, formulata con delizioso piglio seicentesco (sfere e cubi di metallo) aveva ovviamente il sapore teorico della disputa da salotto. Tre secoli dopo, nel 1959, Richard Gregory e Jean Wallace incontrarono però, tra i loro pazienti un uomo brillante ed intelligente, cieco dalla nascita. Alla fine degli anni cinquanta però è possibile effettuare un trapianto. Il loro esperimento era nel vedere se quest’uomo poteva riconoscere cose che prima non aveva mai visto. Allo zoo riconobbe facilmente gli animali, associandoli ai versi che sentiva, in poco tempo imparò a vedere e a riconoscere le forme delle cose. La sinestesia è la norma. Altri aspetti della visione rimasero invece rozzi, eccone un esempio: se qualcuno che ci sta di fronte si allontana da noi, la sua sagoma non fa altro che rimpicciolirsi nella retina. Collegare questo rimpicciolimento con la percezione della profondità non è ovvio, il cervello impara a farlo fin da piccolissimi e la realtà proiettata sulla retina dopo un po diventa semplicemente la “realtà”, sen-
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Richard Gregory e Jean Wallace, in uno dei loro esperimenti, chiesero, all’uomo che aveva riacquistato la vista, di disegnare un elefante senza ancora averlo mai visto. L’uomo disegnò il pachiderma solo dalle descrizioni che aveva ricevuto fino a quel momento.
DISEGNARE NELLA MENTE Grazie alle nuove tecnologie 3D, è stato possibile ricreare moltissime opere d’arte dei grandi maestri del passato, in modo che anche le persone non vedenti potevano toccare le linee e le forme dei dipinti e ricrearli nelle loro menti.
za bisogno di pensarla o decifrarla. Non deve stupire quindi, che molti pazienti, che hanno recuperato la vista in età adulta, continueranno a percepire qualcuno che si allontana come una figura che si rimpicciolisce senza percepirne il movimento in profondità e la distanza. La percezione della profondità è infatti una di quelle qualità che più di altre va imparata. Sembrerebbe che la mente sia programmata per costruire astrazioni, idee generali, gli Universali di cui abbiamo già detto. La nostra mente del resto è felicemente complessa: da una parte desidera gli assoluti e le idee generali, dall’altra tende facilmente ad annoiarsi, e può entusiasmarsi per il peregrino, lo strano, il poco comune. C’è da dire che senza questa insofferenza per l’imperfezione, l’uomo non avrebbe intrapreso i percorsi anche lunghi e faticosi, che le varie attività comportano. L’uomo che riacquistò la vista si accorse che il mondo che non aveva mai visto non era così perfetto. Quando diminuiva la luce si deprimeva: si accorse infatti di qualcosa che a noi sfugge: quando diminuisce la luce il colore sbiadisce, noi un po ci siamo abituati, un po il cervello mette in atto meccanismi di compensazione. L’uomo, che amava solo i colori squillanti, dopo tre anni di vista, si lasciò morire. Purtroppo pare che sia un tipo di depressione molto comune tra chi acquista la vista in età adulta. La sua storia confessa quindi l’empirismo rigoroso, ma risponde in larga parte al quesito di John Lokce: un nato cieco una volta riacquistata la vista non riconoscerà il cubo e la sfera senza prima averli toccati, e potrà imparare a vedere ma fino a un certo punto.
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ILLUSIONI E INFERENZE Per descrivere quei processi messi in atto dal cervello per conoscere a partire dai sensi, nell’Ottocento si usava il termine inferenza o deduzione; termine che rimanda un processo cognitivo conscio. Oggi i neuropsicologi gli preferiscono il termine costruzione in un certo senso più neutro. Dire che il cervello “inferisce” presuppone che la mente sia contenuta in una cabina di controllo, dove riceve dati dall’esterno ed elabora conclusioni. Il primo grande problema è che l’immagine retinica può avere molteplici interpretazioni, cioè al “disegno” proiettato sul fondo dell’occhio possono corrispondere cose diverse. C’è una indeterminazione proiettiva, per cui per un angolo proiettivo visivo dato, tra la figura sulla retina e le figure che giacciono su quell’angolo. C’è un rapporto di una a molte. Una delle figure amate dagli inferentisi e dai gestaltici è stata ad esempio il cubo bistabile della figura. Guardandolo potrete vedere un cubo in assonometria, oppure un esagono diviso in sei spicchi. Diciamo subito che, per quanto affascinante, in cubo bistabile è un esperimento in vitro. La psicologia cognitiva si è intrattenuta parecchio con queste figure, ma in natura è improbabile trovare linee parallele o forme geometriche. Gettate in terra dei fiammiferi, la possibilità che due cadano paralleli è molto bassa. Anche se viviamo in contesti dove parallelismo e ortogonalità sono nella norma, il nostro cervello non si è evoluto per decifrare questi panorami. Un esempio è quando si guardano le nuvole e ci si rintracciano delle figure, o se preferite guardando le macchie, come racconta Leonardo da Vinci. Ma la storia ha anche un’altra faccia: pensate a quelli che hanno una fobia per i ragni e che li vedono in qualsiasi macchia scura o briciola caduta in terra. Si può quindi riconoscere senza vedere? La più famosa delle figure instabili (o bistabili nel caso in questione) è la papera coniglio: è possibile vederli entrambi, il cervello
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deve scegliere, inferire, dedurre. O sceglie di vedere la papera o di vedere il coniglio. Richard Gregory, che pure riconosce un debito alla Gestalt, negli anni sessanta del Novecento unendo gli studi di psicologia con quelli di fisiologia, aggiornò la questione: la mente, più che scegliere, tira a indovinare, scommette sull’ipotesi più probabile aiutata anche da ciò che conosce. Questo è il nucleo
Duck-Rabbit Illusions, Joseph Jastrow, 1892.
delle teoria top-down. Secondo Gregory i dati crudi sono sempre cotti, la percezione è un intervento della mente sui dati grezzi. Non è un caso che Gregory si sia interessato come banco di prova alle illusioni ottiche e al mimetismo animale.
Una delle illusioni più note, presente in tutti gli studi di psicologia della forma, è quella di Müller-Lyer: le due linee pur essendo di identica lunghezza appaiono più o meno lunghe, a seconda della posizione aperta o chiusa delle due estremità simili a freccette. Secondo alcuni l’effetto dipenderebbe dalle cellule dell’orientamento; secondo altri la causa sarebbe invece che di questi segni diamo un’interpretazione “figurativa” o prospettica, cioè li leggiamo come gli angoli di uno spazio ora chiuso ora aperto, ossia leggiamo quei trattini terminali come indicatori di vicinanza i di lontananza. L’angolo convesso viene percepito come se fosse più vicino, mentre quello ottuso più lontano, e poiché due soggetti a distanza differenti possono avere la stessa proiezione solo se l’oggetto più lontano è più grande. Un’altra ipotesi riguarderebbe il tempo di esplorazione, più lungo nel caso dei terminali che vanno verso l’esterno, e che indurrebbe per traslato sinestetico una sensazione di maggiore lunghezza.
Questa spiegazione regge poco: l’illusione permane anche chiudendo gli occhi o spostando lo sguardo in campo neutro dopo aver fissato il disegno, cioè subiamo l’illusione anche nell’immagine postuma dove non c’è l’esplorazione. L’ipotesi al momento più plausibile sostiene che la sfocatura ottica determinata dalla ridotta acutezza visiva periferica, modificherebbe la forma percepita dagli angoli in modo da spostare apparentemente il loro vertice verso il centro della figura. Un’altra classica illusione citata da Gregory è la stanza di Ames.
Illusions, Richard Gregory, 1970. .
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La stanza è costruita in maniera sghemba, ma possiamo osservarla da un punto prestabilito e con un solo occhio in modo che prospetticamente appaia corretta. Ancora un caso basato sull’indeterminatezza proiettiva. Se due persone si introducono nei due angoli della stanza, una apparirà più grande dell’altra. La spiegazione di Gregory è costruttivista: il cervello scommette sul cavallo sbagliato perché è abituato a stanze rettangolari, e così preferisce deformare le dimensioni delle persone piuttosto che riconoscere che la stanza è sbagliata. Nella stanza di Ames sarebbe in atto uno squisito meccanismo top-down. L’approccio di Gregory però, pur convincente per molti aspetti, lascia dell’irrisolto. Tra le immagini di studio che ci propone, una delle più note è quella che troviamo in basso.
Si vede un cane dalmata illuminato da sprazzi irregolari di luce che si confondono con le macchie del suo mantello. Pare quasi di sentire in cervello cercare una soluzione all’enigma percettivo. Appena riusiamo a collegare gli elementi e a distinguere l’oggetto, probabilmente i centri visivi encefalici inviano al sistema limbico un messaggio soddisfacente che dice “ah ecco un oggetto, un cane o forse un volto”.2 Sia queste immagini, sia le illusioni ottiche, sia i disegni proposti dalla Gestalt (Müller-Lyer, Kanizsa) hanno dei limiti sperimentali: anche se rivelano aspetti interessanti della mente, sono casi molto rari se non improbabili in natura. Inoltre si tratta di figure ferme e il nostro guardare è sempre in movimento, il cervello lavora su tante immagini retiniche, e su occhi che si muovono nello spazio.
“Il dalmata”, Richard Gregory.
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LA STANZA DI AMES La stanza di Ames ci costringe a guardare con un occhio solo e immobile. Si finisce per studiare la percezione in contesti lontanissimi da come percepiamo vivendo. C’è poi un altro aspetto. Si è visto attraverso alcuni test che il movimento biologico non ha bisogni di alcuna inferenza per essere riconosciuto; il movimento dei viventi è percepito come tale dopo pochi giorni di vita senza bisogno di essere pensato.
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PSICOLOGIA DELLA GESTALT Degli approcci top-down fa parte quello della Gestalt. I testi storici di riferimento sono quelli di Kurt Koffka (1886-1941) e Max Wertheimer (1880-1943). Gestalt alla lettera sta per “configurazione”. La percezione è conformata in una struttura globale, e questa ha supremazia sui singoli pezzi, supremazia non si significato ma di organizzazione. Le parti assumono significati diversi a seconda del tutto di cui sono parte. Non stupisce quindi il successo incontrato nell’ambito delle arti, dove questo discorso è già una teoria estetica già bella e pronta: le opere espressive sono esattamente quei composti dove lo spostamento di un pezzo stravolge la significanza dell’insieme. Come abbiamo più volte notato, il cervello si è sviluppato secondo quanto gli era più utile, ogni specie segmenta il reale e vede il mondo nella maniera più interessante per sé. Si devono a Max Wertheimer alcune regole generali , note come regole di raggruppamento percettivo, che descrivono le caratteristiche con cui il cervello estrae dalla scena gli elementi importanti. Regola della buona forma, secondo cui la struttura percepita è sempre la più semplice. Pare in ovvio che un meccanismo del genere sia in atto, e pare altrettanto ovvio che l’invenzione di segni e di utensili deve aver velocizzato la faccenda obbligando il pensiero a organizzarsi sempre più. Regola numero due: Prossimità. Elementi vicini sono interpretati come in relazione fra loro. Guardando la scena è molto probabile che i pezzi che sono vicini appartengono a una stessa “cosa”. Graficamente è quindi buona norma tener conto che cose vicine sono “più in relazione” di cose meno vicine. Pensiamo a un caso classico come il frontespizio di un libro: autore, titolo, sottotitolo, e le loro grandezze.
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La figura noiosa, Flinders University.
Sarà quindi buona norma che il sottotitolo sia più piccolo del resto e più vicino al titolo di quanto il titolo sia, vincolato dalla logica e dal significato, all’autore. Questa regola di prossimità (e di buon senso) non è affatto ovvia: oggi si vedono composizioni caotiche e illogiche ma anche in passato la prossimità non era una legge condivisa. La prima grafica davvero rigorosa a questo proposito è quella di John Baskerville e siamo in pieno Settecento, sui frontespizi dei libri cinquecenteschi, la forma della scrittura è spesso esornativa e svincolata dalla logica dei significati. Alla prossimità segue un’altra regola: il destino comune. Se gli elementi sono in movimento, vengono raggruppati percettivamente quelli con uno spostamento coerente. C’è un utilizzo pratico di questo principio: per districare un filo elettrico è meglio muoverlo piuttosto che osservarlo da fermo. C’è poi l’utilizzo che ne fa la danza: la prima ballerina si muove in una direzione e le altre si muovono nel verso contrario tutte in sin-
crono; nel balletto classico, nelle coreografie hollywoodiane alla Busby Berkeley il coro è così percepito come un’unica cosa. Utilizzi invece splendidi li troviamo nella stanza della contemporanea Anne Teresa De Keersmaeker dove il destino comune viene ripetutamene contraddetto da un danzatore che inizia una variazione nella sequenza: si trasforma insomma una predisposizione percettiva in una fatto metrico.3 Altra regola: somiglianza. Cioè la tendenza a raggruppare gli elementi simili: mele con mele, triangoli con triangoli, e così via. Ed infine c’è il principio di continuità: gli elementi sono percepiti come appartenenti a un insieme coerente e continuo.
Il triangolo, Gaetano Kanizsa, 1955.
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Spieghiamo meglio: vedo un albero e dietro vedo un coniglio, il muso sporge a destra e il sedere a sinistra, il cervello scommette sul fatto che sia una coniglio unico e intero, e non due conigli di fila di cui vedo solo due metà. Potrebbero anche essere due conigli, ma questa occorrenza è capitata meno volte durante l’evoluzione, e il cervello ha imparato meglio la prima lezione. Secondo molti studiosi questo meccanismo noto come completamento amodale non comparirebbe nell’uomo prima del quarto mese di vita. Meccanismo in atto pure nei pulcini: si è visto che una volta addestrati a beccare un triangolo intero, beccheranno pure quello coperto in parte da una barretta. Perfetti pulcini gestaltici. Altra regola: rapporto figura-sfondo. Tutte le parti di una zona si possono interpretare sia come figura che come sfondo. Ma questo è vero solo in laboratorio, di fronte a disegni bidimensionali come i citati disegni bistabili; nel mondo reale il cervello è quasi sempre in grado di segregare la figura dal fondo senza confonderle. In generale una forma piccola è figura, una grande è fondo; con un po di concentrazione è possibile capovolgere il rapporto ma di fronte a un albero che si staglia sul cielo è impossibile trasformare il cielo in figura anche sforandosi. Per individuare una figura di certo conta in fatto che si tratti di un’area più piccola posta su un’area più grande, ma conta soprattutto che il cervello vi veda una figura riconoscibile, altrimenti la scarterebbe. Per Edgar Rubin (1886-1951) sfondo è ciò che non ha forma: le figure hanno carattere di oggetto mentre il fondo è sostanza. Una silhouette nera su bianco ovviamente ci aiuta: c’è una scarto di 16 a 1 di luce riflessa. Nel mondo naturale lo scarto di riflessione è un dato fondamentale, per questo mimetismo (peraltro raro) ci inganna, perché azzera lo scarto di riflessione tra figura e sfondo. Una volta che abbiamo messo a fuoco il sé in quanto funzione del campo organismo/ ambiente, responsabile del lavoro di sintesi e integrazione della nostra esperienza, dobbiamo chiederci se questo sé è una “cosa”
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come sostiene la psicoanalisi, oppure una potenzialità del campo che si sviluppa nel corso di un processo, o sequenza temporale, in cui l’organismo e il suo ambiente entrano in contatto e che dà luogo a un’esperienza di cui entrambi sono stati co-partecipi e co-creatori.4 L’ultima regola, quella che ha destato più controversie, è la regola dell’esperienza passata, ovvero le conoscenze acquisite informano il guardare. Considerando che l’approccio gestaltico è fondamentalmente innatista,questa è sembrata una concessione dell’empirismo.
OCTAVIO OCAMPO Octavio Ocampo (nato il 28 febbraio 1943 a Celaya, Guanajuato, Messico ) è un pittore surrealista messicano. È cresciuto in una famiglia di designer e ha studiato arte fin dalla prima infanzia. Alla scuola d’arte, Ocampo costruì figure in cartapesta per carri allegorici, altari e ornamenti che venivano usati durante le sfilate di carnevale e altri festival. Al liceo, Ocampo dipinse murales per la scuola preparatoria e il municipio di Celaya. Ruth Rivera, figlia dell’artista e moralista Diego Rivera, e Maria Luisa Mendoza lo incoraggiarono a frequentare la Scuola di Pittura e Scultura del National Fine Art Institute. I talenti di Octavio Ocampo non si limitano alla pittura e alla scultura, ma si estendono anche alla recitazione e alla danza. Alla Art Institute di San Francisco, ha studiato tutte queste discipline e perseguito sia una carriera cinematografica e teatrale. Nel 1976, ha iniziato a dedicarsi esclusivamente alla pittura e alla scultura. Ora lavora principalmente nello stile metamorfico, usando una tecnica di sovrapposizione e giustapposizione di dettagli realistici e figurativi all’interno delle immagini che crea.
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NEUROESTETICA Come accennavamo ci sono nel cervello aree diverse per vedere cose diverse: i volti e le cose solo elaborati da aree distinte e anche questo complica la questione dell’inferenza. Una famosa figura bistabile come il vaso di Rubin evidenzia che la scelta tra le due figure implicherebbe uno slittamento neurale tra aree diverse di riconoscimento. La questione è davvero intricata. Secondo Semir Zeki (pioniere degli studi su arte e neuroscienza), questa ambigua indeterminatezza sarebbe particolarmente affascinante per il cervello. Il fare ipotesi sul mondo è una capacità con cui il cervello si è evoluto, e qui risiederebbe anche la fascinazione per l’arte: questa sarebbe il luogo in cui la mente mette in scena per gioco i suoi funzionamenti , traendo piacere dal loro stesso movimento pur se non finalizzato a uno scopo preciso. Ma questo sospetto lo avevano avuto già da tempo artisti e filosofi. Zeki affianca il vaso di Rubin ai dipinti di Vermeer: il piacere che ricaviamo da quei dipinti fiamminghi risiederebbe nel tentativo infinito di decifrare le relazioni tra i personaggi. Quello di Zeki è schietto idealismo: il cervello per riconoscere il mondo e interagire con esso costruisce dei modelli astratti. L’anelito nell’assoluto e nell’arte sarebbero la conseguenza dell’insoddisfazione del cervello nei confronti dello specifico, del transeunte, del relativo. Sempre da questa predilezione per l’ambiguità nascerebbe la preferenza e il fascino per il non-finito e per gli schizzi, e quindi la naturale predilezione per l’impressionismo rispetto all’oleografia, tanto che Zeki accosta il triangolo non-finito di con lo stile non-finito e dell’ultimo Michelangelo. Ora, questi approcci neurali nell’arte, pur individuando degli aspetti nuovi e importanti, peccano spesso di ingenuità storica: Zeki pretenderebbe di definire la risposta neurale nell’arte ma, se così fosse, qualsiasi dipinto
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Vaso o volto di Rubi, Edgar Rubin, 1915.
di contenuto oscuro, dovrebbe accentuare gli impulsi nel cervello. Zeki vuole spiegare neuronalmente perché Michelangelo è un grande artista e presuppone il frutto di convenzione storica e sociale. Solo le anime semplici possono pensare che la grandezza di Michelangelo sia intrinseca alle opere. Il giudizio storico sulla grandezza di un artista non va confuso con il giudizio di piacere o gusto. Purtroppo l’approccio pionieristico di Zeki è viziato da un malinteso di fondo: sebbene i metodi di indagine siano affascinanti e i
Astrociti dell’ippocampo, Santiago Ramón y Cajal, 1852.
risultati convincenti, le finalità sono incredibilmente confuse e inconsistenti. Zeki, seguito da molti entusiasti seguaci, ha così fondato la neuroestetica per investigare le strutture del bello, una disciplina di cui non si capisce l’urgenza al di fuori di organizzazioni accademiche.
è l’interdisciplinarità. I neuroscienziati che si sono interessati ai rapporti tra arte e cervello sono spesso poco aggiornati sullo stato di dibattito storico-critico, mentre sull’altro fronte gli umanisti continuano a basarsi esclusivamente sul modello storico-sociale,
Questi studi possono tranquillamente essere inglobati all’interno dell’estetica tout court, considerando che la filosofia in genere non è una disciplina precisa ma una tradizione di studi di cui problemi scientifici hanno sempre fatto parte. L’unica cosa davvero urgente
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Tra l’altro oggi la cultura non è più unica e omogenea, e anche in gruppi socialmente simili è difficile tracciare percorsi di letture comuni come si poteva fare fino a qualche generazione fa. Zaki questo lo ignora e continua a considerare arte quella “classica” cercando le invarianti eterne, ma l’arte non essendo più una cosa (se mai lo è stata) non parla a tutti nello stesso modo. La struttura neurale dell’arte è introvabile perché come tutti fatti culturali è mobile, mutevole, passibile di verifiche e di sovvenzioni. Chiedersi se esistano strutture neurali del bello, rimane una domanda ingenua, il bello è sempre culturale. Qualche anno fa Andrea Frova, fisico e divulgatore, ha pubblicato un libro in cui dimostra che il cervello preferirebbe certe strutture musicali su cui è basata la musica classica tonale, mentre la dodecafonia sarebbe quanto di più distante dal naturale piacere estetico.
evidente, e lo studio della fisiologia non dovrebbe servire per stabilire graduatorie; non è un caso che le composizioni di più largo consumo (la musica leggera le colonne sonore) continuano a usare classiche strutture tonali. Lo studio di coordinate scientifiche deve essere una sfida alla complessità e alla consapevolezza, e non può diventare un sostituto schematico del pensiero storico e critico. La proposta di Frova, va accolta positivamente, pur consci dei rischi, se non altro come grimaldello per difendersi dai dispotismi delle mode culturali: sempre armati di spirito critico, bisogna sospettare di molte arti contemporanee che sono inutilmente difficili, consapevoli che le logiche sociali e commerciali dei circuiti dell’élite possono essere più oscene e conformiste di quelle del mercato di massa.
Lo studio di Frova è affascinante condotto con rigore, ma anche qui è sottesa l’idea che l’arte e la musica debbano essere “una cosa precisa”, e le conseguenze possono essere rischiose. Rischia di sfuggire il valore eminentemente culturale dei fatti artistici dove anche la stonatura, l’errore o la programmatica fastidiosità possono diventare forme importanti dell’espressione. L’eventuale fatica di alcune arti può far parte dell’esperienza artistica, come anche la noia può essere un’ esperienza estetica a fondamentale. Spesso la fatica è necessaria, specie per entrare in rapporto con opere o linguaggi lontani nel tempo o nello spazio. Ma questa fatica non è solo un mezzo per arrivare da qualche parte e anzi può far parte dell’esperienza stessa. Se ignoriamo questo aspetto, l’orizzonte rischia di livellarsi sulle proposte commerciali più ovvie o sui linguaggi più familiari e risaputi. Chiedersi se sia fisiologicamente più piacevole Michelangelo o Mark Rothko è una strada senza uscita. Del resto che Beethoven sia più orecchiabile di Schönberg è auto
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La Gestalt utilizzata nel design, logo WWF, 2000.
BOTTOM-UP Veniamo ora all’approccio ecologico sviluppato da James Gibson tra gli anni cinquanta e ottanta del Novecento. Quello che intende Gibson è che il rapporto con la scena è diretto, senza elaborazioni dall’alto, in dichiarata polemica con le scuole percettive tradizionali cognitiviste e gestaltiche. Una percezione “immediata” insomma. Ma “immediato” è uno di quei termini scivolosissimi, un po come “reale” e “naturale”. L’aspetto interessante dell’approccio gibsoniano, è uscire dal laboratorio e svelare i residui “pittorici” nascosti. Le discipline psicologiche classiche dicono che il mondo viene guardato come viene guardato un quadro e non viceversa, da cui la predilezione per lo studio di certe configurazioni particolari o l’impiego di disegni e illusioni ottiche. Ovviamente la faccenda è perversamente complicata, perché chi ha frequentato molta pittura finisce per accorgersi che il mondo
imita l’arte e non viceversa. mondo imita l’arte e non viceversa. Per prima cosa Gibson sostituisce ai parametri di “spazio” e “profondità” i concetti di superficie, tessitura e ambiente. Al centro del discorso c’è il terreno su cui l’animale vive si muove, o sopra cui l’insetto vola. Le superfici hanno distanze (non profondità) e pendenze. L’intero ambiente è fatto di superfici con una specifica tessitura che sono immerse in un medium (l’aria) con una sua precisa consistenza. Per descrivere l’ambiente non c’è bisogno del sistema di punti e di piani della geometria convenzionale o della prospettiva euclidea. La grana del terreno che diventa sempre più sottile all’orizzonte è un’informazione più che sufficiente, e la texture è un importantissimo indizio volumetrico. La nostra acuità visiva che sfoca le cose distanti diventa uno strumento fondamentale di scandaglio.
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Così il digradare delle tessiture con la distanza (che per la tradizione pittorica è un indizio fra tanti) diventa per Gibson la proprietà fondamentale dello spazio percepito. Del resto è chiaro che in natura una superficie omogenea e lucida è un caso raro. La stimolazione in sé non porta alla percezione, dice Gibson. Le immagini retiniche non possono essere un punto di partenza, il tutto va ripensato. Quello che conta è il flusso ottico: non percepiamo quadri, immagini, figure, ma un flusso di tessiture in movimento. Le teorie classiche sono teorie “dell’aria”, quella di Gibson è una teoria “della terra”. Ragione per cui gli insetti che volano non vanno a sbattere ma riescono a deviarli velocemente, evitando le superfici, misurano la propria distanza dalle cose usando la velocità con cui queste si muovono, ovvero valutando lo spazio e le distanze nel flusso ottico. Se invece non rintraccia texture, l’insetto sa di volare in cielo aperto e si sposta velocemente, per questo nelle nostre case, gli insetti spesso sbattono ai vetri che sono oggetti privi di tessitura non previsti in natura o
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finiscono annegati nell’azzurra trasparenza delle piscine. Anche per noi la cosa è lampante: trovandoci su mezzo in movimento (auto o treno) le cose vicine si spostano più velocemente di quelle lontane tanto che l’orizzonte pare fermo. Non percepiamo cose, ma un flusso, uno scorrere, e lo stesso fa il calabrone che quando si avvicina troppo a una superficie la vede scorrere più velocemente di una lontana. Secondo Gibson sarebbe il fondamento della percezione nelle creature che si spostano: quello che conta (e che le teorie tradizionali hanno ignorato), è che ci muoviamo nello spazio, e tutte le informazioni sono già presenti nell’asse ottico, nello scorrere del flusso visivo. Bisogna riconoscere nell’approccio ecologico di aver sgomberato il campo delle proposte isolate della psicologia cognitiva e ristabilito il rapporto col mondo, spostando il fulcro della percezione dalle figure verso un territorio più complesso e meno pittorico.
MAURITS CORNELIS ESCHER L’artista che ha creato alcune delle immagini più memorabili del 20° secolo non è mai stato completamente abbracciato dal mondo dell’arte. Escher è stato ammirato principalmente da matematici e scienziati e ha raggiunto la fama mondiale solo quando è diventato un pioniere dell’arte psichedelica dalla controcultura hippy degli anni ‘60. Le sue opere sono curate nei massimi dettagli, piene di intrecci visivi ed enigmi che confondono la mente.
Il discorso di Gibson è infatti la critica al laboratorio, agli esperimenti che tengono l’occhio fermo. L’occhio non è un’entità isolata, sta dentro la testa che è poggiata sul corpo che si muove nello spazio e che è soggetto alla gravità. Certo, senza il poggiatesta di laboratorio Hubel non avrebbe mai individuato le cellule della visione nel cervello del gatto, ma le teorie generali non possono più ignorare che la visione “raffigurativa” viene dopo quella deambulatoria. Lo spazio geometrico è quindi un’astrazione costruita a posteriori e gli indizi di profondità si possono riferire ai quadri ma non alla percezione in atto. Anche alla teoria ecologica sfuggono però dei pezzi. Alla fine la definizione di percezione diretta, pur se valida nei nodi che mette a fuoco, rimane una definizione circolare.
È chiara la critica alla psicologia cognitiva (l’idea di una mente nomade, che cerca dati esterni, è insostenibile) ma è altrettanto insulto pensare di parlare di processi immediati, come se fosse possibile immaginare un pensiero che non sa di pensare almeno un po’; il che forse è vero per creature elementari governate da istinti meccanici, ma noi non siamo calabroni. Infatti Gibson si arena: le affordance devono essere per forza di cose, entità mobili e sfumate, e non possiamo definirne le caratteristiche necessarie e sufficienti, è quindi plausibile che esseri viventi percepiscano affordance diverse a seconda dell’indole, del metabolismo, dell’esperienza.
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IMMAGINI INTERNE E LINGUAGGIO L’esperienza e l’uso del mondo ti insegnano che la forma delle cose è chiusa anziché aperta, ma forse vero è il contrario, cioè chiamiamo “cosa” quel pezzo di realtà che ci appare chiuso. L’albero è una cosa, il cielo che gli sta dietro non è una cosa ma un fondo. Qualsiasi studio sulla percezione è un giro a vuoto senza un confronto con la lingua è con la grammatica, perché non esiste per l’uomo un guardare svincolato dal linguaggio.Percepiamo in un ambiente linguistico, e non possiamo prescindere dal fatto che usiamo e pensiamo con una lingua storico-naturale, cioè che quando pensiamo ci parliamo in testa. I bambini imparano a segmentare la realtà vivendo a contatto con gli altri senza che i genitori descrivano le cose o le indicano ostensivamente. La descrizione è possibile solo una volta che un minimo vocabolario è formato e solo riguardo a concetti complessi. Il colore come sappiamo non può essere descritto e il bambino impara che cosa è il rosso perché sente usare la parola rosso. Percezione e linguaggio si condizionano a vicenda. Anche per un ipotetico homo prelinguistico riconoscere qualcosa comporta essere già pronti a parlarsene nella propria testa in forza di “qualche linguaggio”,come ha notato acutamente Emilio Garroni (1925-2005).
elementi non solo visivi ma acustici, tattili, emotivi. Secondo Zenon Pylyshyn le immagini mentali avrebbero natura simbolica e non spaziale, cioè sarebbero appunto proposizioni logiche del tipo A sta sopra B, non ci sarebbe quindi una rappresentazione mentale isomorfa alle cose “come sono nello spazio”. Secondo Stephen Kosslyn le immagini mentali userebbero lo stesso apparato neurale del vedere, così le immagini interne formerebbero uno “schizzo” nella corteccia striata, elaborato in aree superiori. Nigel Thomas sostiene invece che ci troveremmo di fronte alle stesse attività neuronale, ma senza dati esterni. Per alcuni studiosi l’immaginazione visiva sarebbe equivalente alla percezione visiva, infatti alcune proprietà sono in comune a livello nervoso. Si è così visto in risonanza magnetica che si accendono aree simili nel vedere e nel pensare una stessa cosa. È inoltre emerso che gli occhi sono il movimento di fronte alle immagini mentali. Ma perché dovrebbero muoversi? Secondo altri studi ci sarebbe una similitudine di movimenti tra guardare e immaginare una scena, cioè quando ci figuriamo una scena i tracciati oculari sarebbero simili a quando la vediamo davvero.
Pensiamo usando la lingua parlata, parlando a noi stessi, ma non vuol dire che parallelamente non pensiamo anche “per immagini” e questo può accadere di più ad alcuni individui piuttosto che ad altri. A questo si lega uno degli aspetti più affascinanti dell’uso delle immagini: quelle mentali. Ne formuliamo di continuo pensando, immaginando, sognando a occhi aperti o nel sonno, e non c’è dubbio che queste immagini “interne” pur non tangibili, abbiano un indubitabile consistenza. Del resto più in generale è difficile distinguere tra sensazioni o percezioni. Come per tipi cognitivi dobbiamo ammettere che l’immagine interna è mobile e fatta di
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Mouth of Flower, Octavio Ocampo, 1943.
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MODIFICARE LE REALTÀ CON L’ARTE
REGOLE E PROCEDIMENTI Il problema della percezione visiva si pone sia per i fruitori dell'opera d'arte che per gli artisti che la realizzano, essendo fondamentale il modo in cui l'artista percepisce il messaggio visivo che poi rappresenterà ed il modo in cui il percepito può venire influenzato da elementi contingenti, di carattere fisico, psicologico, neurobiologico. Esistono regole e procedimenti che condizionano l’attività percettiva. IL CONTRASTO Dipende dai rapporti tra chiaro e scuro, poiché i neuroni retinici rispondono di meno in presenza di luce omogenea (si pensi all’uso che del contrasto fa Paul Klee, o a Leonardo da Vinci che elabora una teoria sul chiaroscuro): questo effetto viene sfruttato per creare l’illusione di una sorgente luminosa, mentre le zone d’ombra definiscono la forma e il volume (come si può bene osservare, ad esempio, nelle opere di Caravaggio, Rembrandt). L’ASTRAZIONE La semplificazione del messaggio nei suoi caratteri essenziali, legata alla capacità delle cellule visive di reagire in determinati modi a specifiche conformazioni (barre, macchie), attuando semplificazioni o integrazioni. L’ACCOSTAMENTO DI COLORI Basato su precise regole percettive: colori complementari (come ad esempio arancione-blu) generano contrasto caldo-freddo, colori caldi su fondo freddo suggeriscono profondità (il caldo si avvicina, il freddo si allontana), la diversa lunghezza d’onda di colori accostati può provocare un effetto stereoscopico dovuto alla diversa rifrazione delle onde luminose (effetti variamente sfruttati dal divisionismo e dal pointillisme).
Delirio, Kik Zeiler, 2013.
LA FILTRATURA DELLE IMMAGINI Attraverso l’occhio umano che, come qualsiasi altro sistema ottico, opera effetti di sgranatura in funzione del suo potere risolutivo (in sostanza del suo numero di pixel), come già osservato a proposito della differente visione di Monet.
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Un aspetto di fondamentale importanza nell'arte figurativa è la rappresentazione dello spazio, basata sui concetti di distanza, profondità, prospettiva e su due leggi diverse per l'osservazione da lontano e da vicino, la legge "della costanza dell'angolo" e quella "della costanza della grandezza. Mentre in natura la profondità è legata alla visione bioculare, in pittura la lontananza e la vicinanza dipendono da vari fattori quali grandezza relativa, convergenza prospettica, gradienti, sovrapposizioni, trasparenza, luci
ed ombre e tanti altri accorgimenti della rappresentazione pittorica utilizzati dall’artista per trasmettere determinati effetti. Appare quindi estremamamente importante l’attività di analisi dell’opera d’arte come un sistema comunicativo che, da un tempo zero coincidente con il momento della realizzazione dell’opera, ad un tempo successivo indefinito nella quale viene fruita, viene a trovarsi in condizioni mutevoli che inducono variazioni nella percezione e nella decodificazione del messaggio.
PERE BORRELL DEL CASO É stato un pittore, illustratore e incisore spagnolo, conosciuto per il suo dipinto Escapando de la crítica (Sfuggendo alla critica) (1874), esempio di trompe l’œil. Le sue opere mirano a confondere lo spettatore, il quale non riesce a distinguere i confini tra lo spazio reale e quello immaginario. Borrell del Caso fu anche autore di molti ritratti e scenari religiosi, influenzati dalla pittura dei Nazareni. Per due volte gli fu offerta la cattedra della Scuola della Llotja e in entrambi i casi rifiutò, creando un’accademia indipendente.
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TROMPE L’OEIL, INGANNARE L’OCCHIO Il trompe-l'œil, espressione proveniente dai termini francesi tromper, cioè ingannare, e l'œil, cioè l'occhio, è una tecnica pittorica naturalistica, basata sull'uso del chiaroscuro e della prospettiva, che riproduce la realtà in modo tale da sembrare agli occhi dello spettatore illusione del reale. Essa crea un'ambiguità tra il piano pittorico e quello dell'osservatore, facendo risultare tridimensionale ciò che in realtà è bidimensionale; in questo modo infatti l'osservatore percepisce illusoriamente una realtà inesistente, creata artificialmente attraverso mezzi pittorici. Si basa sostanzialmente sulla creazione di una sorta di scenografia volta ad inglobare in maniera oculata elementi funzionali per arrivare poi a fondersi con l'architettura e nel contempo a superarne i limiti. La perfetta simulazione del mondo fisico dà vita ad un sottile gioco di rimandi tra realtà e illusione percettiva, nella quale l'uomo moderno si perde e perde a sua volta le limitazioni imposte dal mondo. Dal punto di vista tecnico, il trompe l’œil richiede un’assoluta conoscenza del disegno, delle regole prospettiche, dell’uso delle ombre e degli effetti di luce, oltre alla perfetta padronanza dell’uso del colore e delle sfumature, tecniche ben precise e rigidamente sottoposte a regole matematiche e geometriche per ottenere l’effetto voluto. Lo studio del punto di vista dell’osservatore rispetto al dipinto è fondamentale. Pertanto, subito dopo avere scelto la superficie su cui operare l’intervento, l’artista dovrà individuare i punti di vista privilegiati, ossia i punti di vista da cui generalmente si osserva quell’area. Per esempio, se si decide di collocare il dipinto sulla parete di una stanza che sta di fronte alla porta di ingresso, si costruirà l’opera pittorica in modo da “ingannare” la percezione visiva di colui che entra nella stanza.
San Gerolamo nello studio, Antonello da Messina, 1475.
L’illusione ottica è particolarmente efficace se l’osservatore si pone al centro della stanza, in corrispondenza del punto di fuga. È fondamentale, per raggiungere il massimo dell’illusorietà pittorica, tener conto delle reali sorgenti luminose dell’ambiente, la loro natura e la loro direzione, in modo che il soggetto rappresentato appaia come illuminato da quelle luci.
Se l’artista desidera creare un’illusione prospettica, dovrà inoltre collocare il punto di fuga dell’immagine pittorica in corrispondenza del punto di vista dell’osservatore.
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ANAMORFOSI, IMMAGINI NASCOSTE L'anamorfismo è un effetto di illusione ottica per cui un'immagine viene proiettata sul piano in modo distorto, rendendo il soggetto originale riconoscibile solamente guardando l'immagine da una posizione precisa. Il soggetto originale può essere una figura piana oppure un oggetto tridimensionale. Nel secondo caso, l’osservatore dell’anamorfismo percepirà la figura come tridimensionale. In altri casi la visione è possibile utilizzando uno specchio curvo (ad esempio cilindrico o conico). Affresco nel soffitto della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio a Roma (1685) di Andrea Pozzo. A partire dal Rinascimento diversi pittori hanno fatto uso dell’anamorfismo per nascondere significati alternativi in un’opera. Leonardo da Vinci ha tracciato in alcuni suoi appunti diversi esempi di figure anamorfiche. Nella parte inferiore del dipinto Ambasciatori di Hans Holbein il Giovane è visibile una strana figura. Osservando il quadro da destra tenendo la testa vicina al piano, si può chiaramente vedere che la figura anamorfizzata è un teschio. La tecnica è usata nel cinema, nel teatro e nel settore pubblicitario. Nella tecnica cinematografica CinemaScope, l’anamorfismo è utilizzato per riprendere un formato di schermo con rapporto base/altezza differente da quello della pellicola. Speciali lenti anamorfiche comprimono l’immagine lateralmente (compressione anamorfica) al momento della ripresa e la riespandono durante la proiezione. Un utilizzo pratico dell’effetto anamorfico è quello praticato nell’esecuzione di scritte per segnalazioni sul manto stradale, i cui caratteri sono deformati e allungati in modo tale che, visti da una certa distanza, appaiano normali e leggibili. Altri esempi di anamorfismo sono le scritte pubblicitarie disegnate sui campi da gioco di varie discipline sportive (come nel calcio e nella Formula Uno). Tali insegne sono disegnate distorte sul suolo, in modo da apparire perfettamente dritte dal punto di vista
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delle telecamere che riprendono l’evento sportivo. Alcuni artisti contemporanei, tra cui l’inglese Julian Beever, si sono specializzati nel dipingere su pareti di edifici o marciapiedi opere anamorfiche tali che i passanti percepiscano cavità o oggetti tridimensionali che in realtà non esistono.
Anamorfosi (particolare)
Ambasciatori, Hans Holbe, 1533.
Altri artisti, tra cui l’italiano Alessandro Diddi e l’olandese Ramon Bruin, realizzano su carta i loro disegni anamorfici in modo da far credere al osservatore che essi escano dal foglio e vadano ad interagire con oggetti ed elementi reali. Una sempre più sperimentata tecnica anamorfica è quella multi-livello, particolarmente ricercata in ambito artistico, in particolar modo nell'arte urbana e muralistica, dove l'opera d'arte, viene percepita secondo un unico punto di vista e dipinta su varie superfici, più o meno vicine tra loro e presenti in maniera rilevante all'interno del campo visivo dell'osservatore.Una volta spostato dal punto di vista, l'osservatore percepisce la figura anamorfica scomposta e discontinua.
Machina Anamorphotica ad Deformandas Imagines, Acta Eruditorum, 1712.
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OPTICAL ART L’optical art, nota anche come op art, è un movimento di arte astratta nato intorno agli anni sessanta e sviluppatosi poi negli anni settanta del Novecento. In essa si vogliono provocare principalmente le illusioni ottiche, tipicamente di movimento, attraverso l’accostamento opportuno di particolari soggetti astratti o sfruttando il colore. Si tratta di una corrente artistica che viene spesso inclusa nel più grande movimento dell’arte cinetica, della quale approfondisce l’esame dell’illusione bidimensionale. È un’arte essenzialmente grafica, basata su una rigorosa definizione del metodo operativo. Gli artisti vogliono ottenere, attraverso linee collocate in griglie modulari e strutturali diverse, effetti che inducono uno stato di instabilità percettiva. In tal modo, essi stimolano il coinvolgimento dell’osservatore. La op art riprende ancora una volta la ricerca del Bauhaus, di De Stijl, quella concretezza e quella cinetica del Futurismo, dando risalto ai puri valori visivi. I primi esperimenti cinetici furono realizzati dagli artisti Richard Anuszkiewicz, Bridget Riley, Julio Le Parc e Victor Vasarely, nelle cui composizioni l’effetto ottico è fortissimo.
Optical-art negli edifici, Felice Varini, 2000.
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FELICE VARINI Felice Varini è famoso per le sue opere pittoriche basate sui principi dell’anamorfosi e dell’illusione ottica. Il suo ultimo progetto ha come scenario la spettacolare fortezza medievale di Carcassonne, in Francia. Il disegno giallo a cerchi concentrici è situato su tutto il fronte occidentale della costruzione, e se osservato dalla giusta angolazione, dà l’impressione di risucchiare il castello in una spirale fluorescente. L’opera, realizzata con strisce di alluminio temporanee e totalmente rimovibili, ha tuttavia suscitato non poche polemiche tra gli abitanti della zona, nonostante sia stata commissionata nientemeno che dal Centre des Monuments Nationaux (istituzione pubblica del Ministero della Cultura francese) per celebrare il ventesimo anniversario dell’inserimento della cittadina nella lista dei siti UNESCO.
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L’ELABORAZIONE DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA
LA FOTOGRAFIA COME MODELLO DI REALTÀ Si direbbe che non esista più nulla, nell’epoca dei nuovi media, che l’uomo non abbia mai visto. La memoria collettiva conserva un repertorio che va dalle spettacolari immagini di catastrofi naturali ai misteriosi luoghi del delitto, fino agli sguardi fugaci sulla vita intima di perfetti sconosciuti. Con l’invenzione della fotografia e del cinema la percezione del mondo esterno ha subito una profonda trasformazione. L’essere umano ha potuto assistere ad eventi e cose che accadono oltre il confine della sua immediata vicinanza, superando così, in un certo senso, i limiti del tempo e dello spazio. Nel 1839 la divulgazione del procedimento fotografico introdusse anche uno spostamento di paradigma nel concetto di realtà. Se fino alla nascita “dell’immagine di luce” pittori e disegnatori avevano raffigurato il mondo a partire dalle proprie esperienze, fantasie e competenze artigianali, ora esisteva un apparecchio in grado di riprodurre il reale in modo preciso, autentico e compiuto.
La prima eliografia, Joseph Nicéphore Niépce, 1826
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Joseph Nicéphore Niépce, (1765 –1833)
Le possibilità della pittura di rappresentare la realtà si limitavano invece a una trasformazione “soggettiva” degli “oggettivi” dati d’esperienza. La prima reazione dei pittori a questo epocale cambiamento fu quella di orientarsi a un’arte ispirata al massimo realismo. La prima “immagine di luce” permanente e tuttora esistente, è un’eliografia realizzata da Joseph Nicéphore Niépce nell’anno 1826, raffigura la corte di una residenza di campagna vista da una finestra in un villaggio nei pressi di Chalon. La riproduzione di quest’immagine, il cui originale è stato rinvenuto negli anni cinquanta, ci mostra una realtà sostanzialmente deformata, piuttosto che una fotografia, ricorda un dipinto puntinista di Georges Seurat. Il soggetto dell’immagine è in un certo senso una metafora della concezione allora diffusa secondo cui la fotografia era da considerarsi una sorta di
“finestra sul mondo”, in grado di mostrare le cose proprio così come sono. Lo studioso di scienze naturali William Henry Fox Talbot descrisse la fotografia come un procedimento di produzione di immagini tramite il quale la luce riflessa dall’oggetto si imprime nel supporto fotosensibile dell’immagine; egli era convinto che qualsiasi cosa fosse visibile in una fotografia potesse essere rinvenuta in forma del tutto identica nella realtà naturale. Scienziati e teorici restarono lungo tempo fedeli a questa convinzione, al punto che ancora trent’anni fa il filosofo Roland Barthes ribadiva l’essenza della fotografia. “L’oggetto della fotografia, il suo referente, doveva essere esistito, un tempo, in forma identica a quella illustrata dall’immagine.”5 Un fatto, d’altra parte, assolutamente opposto rispetto alle modalità di funzionamento delle altre arti mimetiche, tra le quali quella imprescindibile della pittura.
Food Photography, Joseph Nicéphore Niépce, 1832.
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L’ambizione dell’immagine fotografica di riprodurre in modo realistico il mondo posto davanti all’obiettivo della macchina le conferì, rispetto ad altre tipologie di immagini, un nuovo genere di veridicità, poiché si aveva l’impressione di trovarsi di fronte a un raddoppiamento della realtà; il dipinto continuò ad essere considerato un’interpretazione del reale, mentre le aspettative sulle potenzialità dell’immagine fotografica andavano ben oltre questa ambizione. Le fotografie, ha scritto Susan Sontag, si “impadroniscono della realtà”; ne danno una rappresentazione, si pongono come una traccia, una sorta di schema del reale. Alla fotografia fu quindi attribuita una straordinaria oggettività, motivata anche dalla certezza che, al momento dello scatto, sia l’oggetto di riferimento sia il fotografo erano presenti in loco; inoltre, la fiducia nella capacità della fotografia di rappresentare la realtà era sostenuta dal procedimento meccanico della sua realizzazione. Di fronte alle leggi della natura e della meccanica, colui che confezionava l’immagine finiva inevitabilmente sullo sfondo. Il suo ruolo e la sua influenza furono considerati di scarsa entità: chi “disegnava” l’immagine non era più l’individuo ma la luce naturale; l’uomo si limitava a premere un bottone. Questo nuovo, autentico e oggettivo procedimento rendeva possibile mostrare il mondo nella forma di un brano di realtà; si differenziava così dalle altre arti mimetiche, che rappresentavano il reale solo nella forma di un’idea filtrata e trasformata dalla soggettività e dall’emotività del singolo. La diffusa convinzione che la fotografia sia una riproduzione autentica del reale ha spinto alcuni critici, tra i quali Susan Sontag, a esprimere il timore che i destinatari dell’immagine fotografica non cerchino più un accesso autentico e diretto al mondo, ma si servano invece degli strumenti surrogati della fotografia e del cinema. Il carattere di “modello del reale” che alcuni critici attribuiscono alla fotografia discende da due caratteristiche che le vengono pa-
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rimenti ascritte: da una parte la capacità di riprodurre la realtà, dall’altra la sua riproducibilità infinita. Questa fede nell’immagine fotografica, per lungo tempo imperante, si fonda da un lato sul rapporto tra immagine e realtà, dall’altro sulla relazione di immediatezza fisica che lega la causa all’effetto. Il francese André Bazin, per esempio, sosteneva nel 1945 l’idea secondo cui l’immagine fotografica nascerebbe “dalla risolutezza di una meccanica spassionata” e si fonderebbe pertanto su un procedimento produttivo puramente meccanico e fisico, consistente nella traccia chimico-fisica lasciata dall’oggetto su un supporto fotosensibile. Secondo Sontag l’immagine viene generalmente riconosciuta come parte integrante del reale, o più precisamente come parte della sua
Pozzuoli, Napoli, Firmin-Eugéne Le Dien, 1853.
identità. La studiosa constata inoltre che “le immagini fotografate non sembrano tanto dei resoconti sul mondo, quanto pezzi di esso: sono miniature di realtà”6; l’immagine tenderebbe allora a sostituirsi alla realtà, mentre la percezione del reale dipenderebbe sempre più dalla sua riproduzione. Susan Sontag giunge quindi a vedere nella fotografia uno strumento finalizzato alla creazione di un mondo succedaneo. Anche i critici della cultura muovono dalla diffusione sempre più massiccia delle immagini fotografiche per diagnosticare una progressiva incapacità dell’individuo di distinguere tra realtà e apparenza. Per il suo aspetto “realistico”, la fotografia dell’oggetto viene quindi innalzata a sostituto dell’oggetto stesso. L’infinita riproducibilità della fotografia assicura all’oggetto rappresentato innumerevoli modalità di esistenza.
Macchinario utilizzato per i primi ritratti fotografici
Tale effetto è sostenuto in modo determinante dalla diffusione di massa dell’immagine tecnologica e dalla sua conseguente onnipresenza: le rappresentazioni nate dall’influenza delle immagini fotografiche sono infatti sempre più presenti e diffuse nella coscienza del singolo e della società.
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Per la sua apparente “fedeltà al reale”, la fotografia contribuisce così alla nostra rappresentazione del mondo. Ma contro la presunta autenticità della fotografia c’è da osservare che fin dai suoi esordi è esistita parallelamente la possibilità di falsificarne i risultati. Nel 1855, all’Esposizione Universale di Parigi, un fotografo tedesco presentava un ritratto in due diverse versioni, una delle quali ritoccata. Da allora le possibilità di intervenire sul processo di confezione dell’immagine fotografica, modificandone il risultato finale, si sono decisamente moltiplicate. Il ruolo del fotografo e con esso l’aspetto soggettivo che grava sul processo di produzione dell’immagine sono stati lungamente sottovalutati in favore del fattore meccanico, e quindi oggettivo. Ma colui che confeziona l’immagine si trova ad assumere delle decisioni che è impossibile considerare ininfluenti: egli deve decidere del soggetto, dell’inquadratura e del momento dello scatto. All’interno del processo di produzione dell’immagine sono molte le possibilità di configurazione interamente affidate al fotografo o, al suo posto, alla macchina fotografica automatica. Chi confeziona la fotografia interviene quindi in modo attivo a determinarne l’efficacia. Per esprimerci per via di metafora, potremmo dire che la scelta dell’istante da immortalare è in grado di trasformare un oratore da bar dello sport in un politico professionista, mentre la scelta della prospettiva può moltiplicare il pubblico presente, il grandangolo ampliare un giardino condominiale nel parco di un castello e l’inquadratura un paesaggio deturpato in un idillico scenario boschivo. Se poi teniamo conto delle risorse messe a disposizione dalle tecniche di elaborazione digitale dell’immagine, comprendiamo che le possibilità di manipolazione diventano praticamente illimitate. Queste molteplici possibilità di intervento nella configurazione dell’immagine fanno sì che la presunta, autentica riproduzione del
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reale possa essere consapevolmente modificata diverse volte. Pertanto l’immagine fotografica non può essere considerata una riproduzione oggettiva (e quindi realistica) del mondo esterno, prospettive sulla realtà; una fotografia non assicura la possibilità di osservare la realtà, ma ci offre tutt’al più uno specifico modo di osservare una realtà. Né deve essere trascurato, in questo contesto, il ruolo dell’osservatore; infatti il messaggio di una fotografia dipende anche e in modo rilevante da quest’ultimo.
Duchessa di Castiglione, prima foto ritoccata, Pierre-Louise Pierson, 1865.
Le prime fotografie avevano tempi di esposizione molto lunghi. Se qualcuno passava davanti all’obiettivo, veniva registrato nell’immagine in modo sfuggente.
Già negli anni sessanta Barthes ha descritto il paradosso dei diversi livelli di significato dell’immagine fotografica, non assicura la possibilità di osservare la realtà, ma ci offre tutt’al più uno specifico modo di osservare una realtà. Inoltre, la percezione avviene sempre in stretta relazione con i condizionamenti cognitivi, sociali e culturali del soggetto recettore. Andy Grundberg ha espresso in modo efficace questo concetto sostenendo che tutto ciò che vediamo è filtrato dal caleidoscopio di quello che abbiamo visto fino al momento presente, (si pensi per esempio
a Oscar Gustave Rejlander). Nel Novecento anche le opere di dada e surrealisti vanno annoverate tra gli insegnanti dell’immagine costruita. Infine, nel corso degli anni sessanta e settanta emerse, in seno alla corrente della fotografia concettuale, la consapevolezza del fatto che l’“immagine di luce” non può essere un documento autentico, e che questo univoco modo di interpretarla non rendeva completa giustizia alla fotografia e al suo significato.
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PIERRE-LOUISE PIERSON É stato un fotografo francese la cui fama si deve in particolare alla collaborazione, durata 40 anni, con Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, con la quale realizzò circa 450 ritratti. Si interessa molto presto alla fotografia e, già nel 1844, ha un atelier a Parigi che gode di solida reputazione. Per molti anni ha la sua sede professionale al numero civico 5 del Boulevard des Capucines, quando diventa socio dei fratelli Léopold-Ernest e Louis-Frédéric Mayer. La loro società avrà sede a questo indirizzo e diventerà un’importante impresa commerciale. Utilizzando da principio la tecnica della dagherrotipia, il loro atelier sarà uno dei primi a specializzarsi nel ritratto fotografico ritoccato ad acquerello o a olio. La società incontra il favore della famiglia imperiale. Lo studio realizza infatti diversi ritratti della famiglia imperiale nel corso del Secondo Impero. Tra il 1855 e il 1862, il periodo più brillante dell’atelier, vi accorrono tutte le persone alla moda (la corte, l’aristocrazia, il mondo dell’alta finanza e quello delle attrici e dei musicisti). L’atelier è anche fornitore del re del Wurtemberg, del re del Portogallo e del re di Svezia. A partire dal 1862, la clientela diventa più comune, fino a diventare del tutto ordinaria dopo il 1866. Divenne poi fotografo personale della contessa di Castiglione. Il suo incontro con la contessa di Castiglione ha luogo nel 1856, e per quarant’anni Pierson resterà il suo fotografo ufficiale. Nel 1867 il suo ritratto come “Regina di cuori” viene pubblicato da Pierson all’Esposizione universale di Parigi.
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Questa, durante le molte sessioni di posa, eccelle nell'arte della messa in scena e sviluppa ruoli di Madonna, donna afflitta, madre, donna alla moda in abiti stravaganti. In un'atmosfera ludica che lascia larga parte all'improvvisazione, la contessa crea con l'aiuto del fotografo differenti personaggi. Abiti, acconciature, atteggiamenti, tutto è studiato per creare un effetto drammatico. Grazie a effetti creati dall'uso di specchi, può duplicarsi e apparire sotto diversi aspetti. Alcuni studi la mostrano sdraiata, coi capelli sciolti. Sempre su sua richiesta, Pierson le fotografa gambe e piedi, opere considerate fotografie a tendenza erotica molto avanzate per l'epoca.
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Gli artisti di questa mostra richiamano tale impostazione e inseriscono nei loro lavori una nuova dimensione, con l’obiettivo di mettere a nudo la percezione umana e le sue modalità di funzionamento. Osservando le opere di questa mostra è impossibile non interrogarsi sulla questione della veridicità delle immagini, che irritano lo sguardo dell’osservatore e mettono in dubbio le sue consuetudini visive. Le fotografie presentano una vasta gamma di soggetti e procedimenti; tuttavia il loro
minimo comune denominatore consiste nel fatto che si tratta sempre e comunque di immagini fotografiche costruite. I singoli soggetti sono stati preparati, allestiti e messi in scena; si tratta in parte di oggetti reali e in parte immaginari, cosicché ciò che ne risulta è una fittizia foto-realtà. Pur nella loro estrema varietà e al di là dei soggetti specifici, queste fotografie si allineano su un unico fronte: il rapporto dialettico con il complesso tematico costituito dai termini vedere-riconoscere e realtà-percezione.
Alcuni dagherrotipi, primissime forme di fotografia nate a metà dell’Ottocento, sono tornati alla luce grazie ad alcuni scienziati e sono stati restaurati per non perdere le immagini. Il gruppo della Western University guidato da Madalena Kozachuk, ha infatti ridato i “volti” a due immagini del 1850 conservate dalla “National Gallery” del Canada e non più visibili a causa dell’ossidazione (ossia il deterioramento delle sostanze organiche che compongono la foto) e di altri danni del tempo. La ricerca è pubblicata sulla rivista “Scientific Reports” Le prime immagini ricostruite sono le figure di un uomo e una donna, la cui identità è misteriosa. Kozachuk ha spiegato: “L’immagine è apparsa totalmente inaspettata, ora la si può vedere nei suoi più piccoli dettagli, dagli occhi alle pieghe del vestito”. Negli ultimi anni i ricercatori hanno usato la tecnica del “sincrotrone” per comprendere i cambiamenti chimici dei danni subiti dai dagherrotipi.
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DALLA PERCEZIONE ALLA REALTÀ Il messaggio comune a tutte queste opere fotografiche è che ogni immagine del mondo, sia essa “naturale” o “artificiale”, non è altro che una costruzione. Il concetto di costruzione e ricostruzione compare anche in alcune teorie contemporanee della percezione che indagano il procedimento attraverso il quale, nella coscienza umana, la realtà scaturisce progressivamente dalla percezione. Secondo un’impostazione radicalmente costruttivista, il cervello non è in grado di riprodurre o rappresentare la realtà in quanto tale. Il nostro apparato percettivo lavora in modo notoriamente selettivo, ragione per cui il cervello del singolo osservatore non può fare altro che “costruire” la propria immagine del mondo. La percezione si fonda sulla capacità di riconoscimento, che a sua volta è resa possibile dalle esperienze pregresse. Pertanto, così come radicalmente individuali sono esperienze e saperi, altrettanto unico e individuale è il modo con cui il singolo percepisce la realtà. Secondo questa impostazione, la realtà è una specifica costruzione operata da ciascun osservatore a partire da vari e diversi elementi. Questa concezione trova corrispondenza nelle opere qui presentate; opere, peraltro, assai diverse tra loro per temi e soggetti. Gli artisti elaborano, manipolano,
mettono in scena o costruiscono manualmente l’oggetto dell’immagine e creano così una foto (ir)realtà. Le opere esposte costituiscono la base di un confronto con il tema della costruzione della realtà, al centro del quale spicca a sua volta un serrato confronto con il complesso sistema costituito dai termini vedere e riconoscere e, rispettivamente, realtà e percezione. Rimandando ad esperienze di realtà che si fondano esclusivamente su immagini, gli artisti rivelano come puramente illusoria l’idea che tali rappresentazioni possano costituire una via d’accesso al mondo. Allo stesso tempo diventa evidente che le immagini fotografiche non solo trasmettono una visione limitata o addirittura falsata del mondo, ma anche che il processo percettivo del singolo individuo è sottoposto a condizioni sostanzialmente differenti. La nostra percezione si muove all’interno di determinati limiti. Il mondo, indipendentemente dal fatto che sia rappresentato in una fotografia o nella coscienza umana, non è altro che una costruzione: ripetiamo, con Grundberg, che ciò che vediamo lo vediamo attraverso il caleidoscopio di tutto ciò che abbiamo visto fino al momento presente.
Dato i tempi lunghi di esposizione, era improbabile il movimento: si suppone che la persona ferma sia un cliente di un lustrascarpe al lavoro.
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IL PRIMO FOTORITOCCO ANALOGICO
HIPPOLYTE BAYARD L’invenzione della fotografia viene normalmente associata al nome di Louis Daguerre autore di uno dei primi metodi per fissare le immagini su una superficie: il dagherrotipo. Questo sistema, che si basava sull’utilizzo di lastre di argento o rame argentato sensibilizzate mediante l’esposizione a vapori di sodio, fu presentato dal fisico François Arago all’Académie des Sciences di Parigi nel 1839. Daguerre, tuttavia, non era l’unico ad aver sperimentato con successo nuove tecniche di stampa fotografica e la storia di questa tecnologia può vantare tanti padri. Uno di loro, meno conosciuto al grande pubblico, è Hippolyte Bayard Quasi certamente Bayard è stato il primo inventore del processo fotografico, lui e non Louis Daguerre. Bayard, impiegato al Ministero delle Finanze, indagò sull’immagine positiva. la cui ricerca era orientata sia sul procedimento chimico per ottenere un positivo che quella negativo/positivo, entrambe su carta. Nel giugno del 1839 espose le sue opere in quella che sarebbe stata la prima mostra fotografica della storia. Ebbe modo di incontrare François Arago, personaggio potente destinato ad una rapida ascesa politica, capo dell’opposizione repubblicana, il quale convinse Bayard a posticipare la sua scoperta. In questo modo Arago favorì l’amico Daguerre con la sua dagherrotipia che a differenza di quella di Bayard aveva il limite di poter realizzare una sola copia non riproducibile ma aveva il vantaggio, che altri ricercatori misero a punto nel corso del decennio, di ridurre il tempo di esposizione. Anche se alcuni continuarono ad utilizzarlo, l’invenzione della Calotipia dell’inglese William Fox Talbot, presentata ufficialmente appena sette mesi dopo quella di Daguerre, cioè il procedimento negativo/ positivo, che impiegò del tempo per affermarsi ma destinato ad un grande avvenire, rappresentò la fine del dagherrotipo.
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Resosi conto del raggiro, Bayard reagì con ironia realizzando un autoritratto nella postura di un annegato, cioè fingendosi morto, il 18 ottobre 1840, prima messa in scena fotografica della storia, con allegata la seguente didascalia: “Questo che vedete è il cadavere di M. Bayard, inventore del procedimento che avete appena conosciuto. Per quel che so, questo infaticabile ricercatore è stato occupato per circa tre anni con la sua scoperta. Il governo, che è stato anche troppo per il signor Daguerre, ha detto di non poter far nulla per il signor Bayard, che si è gettato in acqua per la disperazione. Oh! umana incostanza...! È stato all'obitorio per diversi giorni, e nessuno è venuto a riconoscerlo o a reclamarlo. Signore e signori, passate avanti, per non offendervi l'olfatto, avrete infatti notato che il viso e le mani di questo signore cominciano a decomporsi.” 7 Nonostante tutto Bayard continuò la sua attività di fotografo, partecipando alla fondazione delle Società francese per la fotografia
e gli venne commissionata l’attività di documentazione fotografica delle architetture e dei monumenti storici francesi, per la Mission Héliographique del 1851, lavoro che portò a termine utilizzando in gran parte la calotipia. Tale lavoro, oltre a Bayard, fu affidato soltanto ad altri quattro fotografi: Édouard Baldus, Gustave Le Gray, Henri Le Secq e Auguste Mestral. In quegli anni i primi fotografi erano per la maggior scienziati, o presunti tali, i quali cercavano dalla fotografia la riproduzione della realtà. Bayard era già oltre, egli si fa notare per la sua propensione artistica scoprendo le grandi potenzialità di quella che solo dopo molti anni sarà considerata a pieno titolo come una nuova forma d’arte, basti pensare, oltre alla famosa foto dell’annegato, anche alla foto “Double autoportrait de profil”, immagine assolutamente avveniristica per l’epoca.
Fake Photo, Hippolyte Bayard, 1840.
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Double autoportrait de profil, Hippolyte Bayard, 1850.
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LA DOPPIA ESPOSIZIONE Alcune delle prime foto a doppia esposizione sono emerse durante gli anni 1860, una grande novità per i fotografi. Per dare una spinta alla loro attività, hanno scoperto come far apparire un soggetto ritratto due volte in una cornice, come se avessero un gemello identico. In ciascuna delle foto, la persona stava prendendo una posa diversa. Per catturare queste immagini ormai vintage, i fotografi scattavano una foto del soggetto in una posizione; quindi, dovrebbero spostarsi in un’altra posa prima che la seguente foto sia stata scattata. Anche il copriobiettivo rotante e le piastre speciali (il precursore del film) facevano parte del processo. Il risultato è stato un approccio giocoso e surreale alle prime fotografie. Con il miglioramento della tecnologia fotografica, anche la capacità di creare fotografie a doppia esposizione. Al giorno d’oggi, i creativi hanno una scelta per produrre più immagini che siano analogiche o digitali. Il metodo analogico a doppia esposizione è una continuazione di tecniche storiche. Tutto viene creato nella fotocamera, il che significa che le immagini vengono manipolate esponendo il film più volte e non avanzando al fotogramma successivo; questo crea l’aspetto sovrapposto. Esistono diversi approcci per fare esattamente questo, ma i risultati sono gli stessi: composizioni curiose piene di emozione. La fotografia a doppia esposizione ha fatto molta strada nel corso degli anni. Ciò che è iniziato come “fotografia spirituale” è ora estremamente banale. All’epoca in cui le fotocamere digitali non erano ancora un pensiero, la fotografia a doppia esposizione veniva fatta a porte chiuse (senza possibilità di fare affidamento sulla post-elaborazione) o in camera oscura. Indipendentemente dal metodo su cui si basava il fotografo, era molto più difficile creare una bella immagine a doppia esposizione prima dei giorni della fotografia digitale. Al giorno d’oggi, alcune fotocamere digitali di
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fascia alta possono creare splendide doppie esposizioni direttamente nella fotocamera, con uno schermo LCD che mostra il risultato immediatamente. Se non si è abbastanza fortunati da possedere una fotocamera predisposta, Adobe Photoshop rende estremamente facile sovrapporre le immagini una sull’altra con un paio di clic del mouse. Da Gjon Mili e Duane Michals nell’era del cinema a fotografi più recenti come Freeman Patterson e Tamara Lichtenstein, l’uso di esposizioni multiple non sembra passare mai di moda.
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FOTOGRAFI DALLA DOPPIA ESPOSIZIONE La doppia esposizione creò subito molta curiosità tra gli artisti. È una delle tecniche più richiesta, ma anche una delle più complesse da realizzare. Sono molti gli artisti, fotografi, che la utilizzarono per le loro opere. Di seguito ne vedremo alcuni. PHILIPPE HALSMAN Philippe Halsman è considerato un grande artista oltre che fotografo. Ha immortalato diversi personaggi famosi ritraendoli in pose bizzarre e molto particolari. Uno dei suoi soggetti preferiti da fotografare fu l’artista Salvador Dalì. La fotografia più famosa è quella ispirata ad un quadro dell’artista, Leda Atomica, dalla quale prende anche ispirazione per il nome, Dalì Atomicus. Successivamente sempre in collaborazione con Dalì, Halsmann ha creato un intero libro intitolato Dali’s Moustache, in cui taglia i negativi, ingrandisce parti di immagini e usa la doppia esposizione per creare ritratti insoliti dell’artista surrealista.
DALÌ ATOMICUS La fotografia è stata realizzata non utilizzando la doppia esposizione, o altre tecniche. È il risultato di uno scatto fatto nel momento giusto. Tutti gli oggetti sospesi sono legati ad una corda trasparente; la sedia sulla sinistra è tenuta in mano dalla moglie del fotografo; e dopo aver lanciato in aria diverse volte i gatti e il getto d’acqua ottenne finalmente lo scatto perfetto di artista “atomico”.
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GJON MILI Fotografo albanese noto per i suoi anni di contributo alla rivista Life, Gjon Mili è noto soprattutto per le sue fotografie che illustrano il movimento umano attraverso l'uso di flash esterni. È stato uno dei primi fotografi a utilizzare la fotografia stroboscopica: l'uso di una fonte di luce esterna appositamente programmata per catturare una sequenza di movimenti. Molte delle sue fotografie hanno una qualità inquietante per loro, una che apparentemente potrebbe essere creata solo attraverso l'uso di esposizioni multiple. Gjon Mili è unico nel senso che sebbene non abbia usato esposizioni multiple per creare le sue immagini, è stato l'ispirazione per molti fotografi che si sono interessati alla fotografia a doppia esposizione. FREEMAN PATTERSON Adotta un approccio interessante e unico alla fotografia a doppia esposizione, allontanandosi dalle qualità inquietanti e surrealiste della tecnica e invece utilizzandola per creare fotografie che assomigliano a dipinti impressionisti. L’impressionismo è uno stile pittorico che ebbe origine nel XIX secolo e fu usato per tentare di catturare gli effetti mutevoli della luce e del colore per un periodo di tempo. Patterson usa due esposizioni della stessa immagine, sovrapposte l’una sull’altra ma leggermente spostate, per dare la stessa sensazione impressionista alle sue immagini.
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HAYDEN WILLIAMS Il fotografo Hayden Williams lavora in analogico per produrre scene da sogno e romantiche fuori dai normali momenti. Grazie all’approccio a doppia esposizione, i colori e le trame stratificati hanno più significato insieme che se fossero fotografati individualmente. Sebbene le sue immagini appaiano spontanee, Williams pianifica tutto. “Direi che [questo] è fondamentale per fare buone esposizioni multiple” , ci ha detto nel 2015 . “Devi pensare a come i pezzi di luce, colore e ombre si fondono per formare un nuovo insieme. Di solito ho in mente un’immagine molto specifica quando li prendo. “Una grande parte del processo di Williams sta trovando il colpo giusto. “A volte prendo la prima esposizione, quindi aspetto giorni prima di prendere la seconda perché sto cercando la giusta esposizione. Penso che il tempo più lungo che ho trascorso tra i colpi è di quasi due settimane. ” Ma è ancora un rischio. “A volte lo scatto per cui sono rimasto estasiato risulta piuttosto scarno, ma altrettanto frequentemente, gli scatti mi stupiranno con la loro efficacia, ed è quello che mi fa andare avanti.”. TAMARA LICHTENSTEIN Tamara Lichtenstein , una moderna fotografa a doppia esposizione, si concentra sulla realizzazione di ritratti pieni di felicità, bellezza, giovinezza e giornate di sole. Le sue doppie esposizioni sono sognanti e piene di colori splendidi e brillanti, qualità che l’hanno resa abbastanza popolare nella community di Tumblr e Flickr.
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DUANE MICHALS È un fotografo nato in America che utilizza la tecnica della doppia esposizione per creare immagini che sono oniriche, stravaganti e un po ‘inquietanti a volte. Il suo fascino per lo stato onirico si estende anche al suo fascino per la creazione e la conservazione di ricordi, un tema che si vede in uno dei suoi libri famosi, Sequences. In questo libro, le immagini a doppia esposizione sono abbinate a testi scritti a mano che rivelano di più sulla sua vita e sul significato che le immagini significano per lui. CHRISTOFFER RELANDER Christoffer Relander ci offre anche alcune informazioni sul suo processo. La sua ultima serie chiamata Jarred & Displaced utilizza doppie esposizioni per “posizionare” paesaggi reali in piccoli barattoli. Mentre scatta questo tipo di foto, tende a sovraesporre lo sfondo all’interno della fotocamera, con alcuni attrezzi extra coinvolti. “Quando ho iniziato, ho usato solo la luce naturale, in genere con il mio soggetto in un’ombra in piedi contro una nuvola luminosa”, ci dice in una e-mail. “Oggi utilizzo spesso varie configurazioni di illuminazione esterna.”
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RISULTATI HORROR
Durante il corso dei secoli diverse leggende e storie popolari hanno raccontato la presenza di figure ultraterrene nel mondo reale. Grazie agli scatti delle prime macchine fotografiche, si pensava di aver “catturato”nell’immagine l’aspetto di queste anime dannate. In realtà le figure umane che appaiono di sfuggita, quasi come se scomparissero, sono delle persone reali che passando casualmente di fronte l’obiettivo della macchina fotografata e sono state registrate nell’immagine finale. Infatti, i tempi di esposizione di una macchina fotografica, potevano durare diverse ore, e se qualcuno passava veniva impresso nella foto in modo sfocato da sembrare un fantasma. Una volta scoperta questa tecnica, molte persone chiesero di realizzare delle immagini con i “loro” fantasmi, oppure con queste “anime” dietro le spalle, in realtà erano sempre loro, che si spostavano, e rimanevano nella posa scelta con diversa tempistica. Con il passare degli anni però ci sono state delle immagini ancora oggi inspiegabili. Molte fotografie scattate nel corso dei decenni,mostrano persone in genere uccise, spesso in circostanze misteriose di fronte all’obiettivo. Mentre alcune sono discretamente credibili, altre fanno sospettare fortemente l’esistenza di un plagio, a partire dagli strani soggetti che vengono fotografati (lapidi, interni di chiese). Creando ritratti con la combinazione di più negativi, i fotografi vittoriani cercarono di conquistare il pubblico, e guadagnare qualcosa in più oltre al semplice stipendio da professionista, offrendo la possibilità di essere immortalati con la propria testa in grembo, o fluttuante nell’aria. Evidentemente la decapitazione era un tema che esercitava un grande fascino nelle perso-
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ne dell’epoca, e visto che si era trovato il modo di applicarla senza la necessità di tagliare la testa a nessuno, divenne molto popolare. Certo occorreva trascorrere diverso tempo in camera oscura, e si può immaginare che questo effetto speciale sia il risultato di un lungo, noioso e attento processo che, come dimostrano le fotografie qui sotto, alcuni fotografi erano più abili di altri a realizzare. Anche se gli uomini e le donne dell’epoca vittoriana vengono spesso considerati da noi moderni come tristi e repressi, ossessionati dalla morte, sicuramente avevano anche un senso piuttosto macabro dell’umorismo.
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LA TECNICA DEL FOTORITOCCO Hippolyte Bayard fu il primo nel 1839 a gettare le basi grazie alle quali i primi fotoritocchi poterono prendere il via, grazie ad un metodo da lui inventato chiamato “stampa positivo diretto”, nella quale si utilizza della carta immersa in cloruro d’argento che scurisce se esposta alla luce. Questo metodo non venne mai reso pubblico fino al 20 Febbraio dell’anno successivo, secondo alcuni il motivo era a causa di François Arago (importante politico francese dell’epoca) che persuase Bayard a lasciar spazio alle scoperte di Louis Daguerre, inventore del processo dagherrotipico (di cui abbiamo parlato sopra), metodo più usato dell’epoca. Dal 1848 in poi il fotomontaggio prese piede anche grazie alla stampa che ne fece uso per poter rappresentare al meglio alcuni avvenimenti importanti. All’epoca la manipolazione avveniva lavorando un negativo, ma spesso erano utilizzati anche i positivi. Il fotomontaggio diventa quindi una questione di dibattito tra “arte” e “non arte”, si trovava in una posizione intermedia secondo la quale alcuni lo ritenevano un affronto, mentre altri lo vedevano più come una sorta di avanzamento tecnologico dell’arte stessa. Ricordiamo infatti che la fotografia, come tutto ciò che ne deriva, non è una cosa creata da zero, ma una rappresentazione impressa della realtà che non lascia spazio alla fantasia del creatore. L’arte per com’era intesa una volta era infatti molto legata al concetto di pittore o scultore che rappresentavano un soggetto di pura fantasia, o comunque una loro personale rappresentazione della realtà.
Skeleton on Bike, from Concrete Matter anonymous.
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LA LAVORAZIONE DEL POSITIVO Il primo metodo era largamente diffuso in quanto il più semplice: consisteva nel ritagliare foto stampate e incollarle ad altre; i ragazzini dell’epoca si divertivano molto a fare questa sorta di collage con parti di giornale. Questo metodo però è stato anche oggetto di importanti pittori come Braque e Picasso, sfruttato appieno dal Dadaismo Berlinese famoso per la propria negazione dei soliti canoni artistici e razionali dell’epoca stampa positiva veniva 90% delle immagini fotografiche sono realizzate grazie alla fotochimica dei sali d’argento, sfruttandone la grande sensibilità alla luce. L’esposizione alla luce provoca una rottura molecolare della loro struttura (AgCl) riducendo l’argento (Ag+) in argento metallico (Ag°). La quantità di luce non basterebbe a creare un’immagine visibile (immagine latente). L’operazione di mutare l’immagine da latente in visibile è operata dallo sviluppo. Lo sviluppo provoca l’annerimento, riduzione o trasformazione dei sali d’argento in argento metallico.
Juggler, anonymous.
Dog Smoking a Pipe, from Early Visual Media, anonymous.
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Per la stampa positiva si potevano usare tempi più lunghi e l’immagine veniva annerita grazie ad una soluzione più concentrata di nitrato sul foglio e l’esposizione diretta della luce. In seguito con la gelatina bromuro si svilupperà chimicamente anche in fase di stampa. Procedimento per le prime tecniche: foglio di buona qualità (tipo da lettera) immerso in una soluzione di cloruro o ioduro di sodio.
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Una volta asciutto, il foglio, veniva trattato con una soluzione concentrata di nitrato d’argento. Il nitrato d’argento dopo aver trasformato il cloruro di sodio in cloruro d’argento ne favoriva l’annerimento stando a contatto con la luce. William Henry Fox Talbot scoprì che se sulla carta si lasciava un eccesso di nitrato d’argento l’annerimento alla luce era nettamente maggiore.
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STORIA DELLA FOTOGRAFIA: L’ARTE DEL PITTORIALISMO
IL PITTORIALISMO Il Pittorialismo, o pittoricismo deve il suo nome all’imitazione fotografica dell’iconografia tradizionale pittorica. Si ispirano a grandi opere del passato e correnti loro contemporanee. I pittori a cui si rifanno di più sono loro contemporanei: impressionisti e preraffaelliti. Questi ultimi sostengono che l’arte più che registrare la realtà deve essere simbolo di un mondo puro e ideale senza tempo. Un concetto del genere si sposa bene con l’esigenza di questi fotografi di dimostrare che loro non registrano il reale, ma si spingono ben oltre. I fotografi che parteciparono a questo movimento utilizzarono le tecniche e i processi che più rendevano l’immagine simile ad un disegno, adoperando la stampa alla gomma bicromata o al bromolio, gli obiettivi soft-focus o la stampa combinata di più negativi su un unico positivo. Per questi motivi, il processo preferito dei primi pittorialisti fu quello della calotipia, dove la superficie irregolare del supporto cartaceo rendeva confusi i dettagli. Spesso gli stessi pittorialisti provenivano da esperienze di pittura o scultura e convertivano le regole delle arti alla pratica fotografica. Influenzati dal movimento dell’impressionismo, i pittorialisti abbandonarono lo studio in favore degli spazi aperti, per meglio catturare lo spirito e la luce della natura. Il movimento trova i suoi precursori tra i primi sperimentatori della fotografia nell’età del collodio, i pittorialisti, che provarono a modificare il rapporto dell’Arte con la fotografia nel campo dell’estetica, Gustave Le Gray introdusse nei suoi 12 anni di attività importanti concetti e regole atte a migliorare la pratica fotografica. Pubblicò il saggio “A practical treatise on photography, upon paper and glass”. Sentenziò contro la crescente meccanizzazione del processo fotografico che il futuro della fotografia non è nell’economicità, ma nella qualità. Per realizzare le sue fotografie artistiche, spesso Le Gray dovette superare i limiti imposti dai materiali del periodo, in particolare la ridotta latitudine di posa e l’ipersensibilità al blu e
all’ultravioletto delle lastre fotografiche. Il paesaggio è indubbiamente il soggetto preferito di Le Gray, particolarmente dopo il suo trasferimento nel porto di Sète, nel Mediterraneo. Il periodo del collodio, prima umido poi secco, si può circoscrivere negli anni che vanno dal 1850 al 1880, ed è proprio in questo periodo che inizia a delinearsi una nuova identità della fotografia, quella estetica, che si contrappone a quella meramente meccanica che ha caratterizzato il mezzo sino ad ora.
Paul and Virginia, Julia Margaret Cameron, 1864.
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Sarà proprio questa nuova caratteristica che farà riaffiorare dibattiti mai conclusi sul rapporto fotografia-pittura e su quale sia la vera natura e la giusta espressione del mezzo fotografico. Nel periodo del collodio, in connessione con l’evoluzione sociale e l’ascesa della borghesia anche negli Stati dell’Italia preunitaria, nascono un po’ ovunque nella penisola gli ateliers fotografici,grazie ai quali si pose fine alla pratica dei dagherrotipisti itineranti.8 L'immagine "The Great Wave" del 1857 mostra una atmosfera romantica costruita su un sapiente utilizzo delle luci e delle proporzioni. È frutto di due negativi distinti, esposti rispettivamente per il cielo e per il mare. Le sue immagini ottennero entusiastici apprezzamenti quando furono esposti a Londra nel 1856. Oltre al paesaggio, il genere molto frequentato dai pittorialisti fu il nudo femminile, dove sensuali odalische giacevano in pose che richiamavano al neoclassicismo. Fra questi compaiono Louis-Camille d'Olivier e soprattutto Eugène Durieu, che ricevette anche gli apprezzamenti del pittore romantico Eugène Delacroix. Precursori di spicco della scena britannica furono Henry Peach Robinson e Oscar Gustav Rejlander. Con essi il ritocco fotografico e la stampa combinata raggiunsero la maestria. L’opera più famosa di Robinson, Fading away (1858), fu il risultato di cinque negativi, mentre Two ways of life (1857) fu composta con ben trentatré negativi e resa ancor più celebre dall’acquisto della stessa da parte della regina Vittoria per evitare che l’opera venisse bruciata e che l’artista venisse incarcerato a causa dello scandalo emerso per il corpo della donna nuda. In entrambe le opere i fotografi dovettero studiare e preparare degli schizzi sulla composizione finale dei soggetti e delle scene. Proprio questo studio preliminare contiene il paradosso del pittorialismo: l’autore esalta sia la verità perfetta della riproduzione fotografica, sia il lavoro preparatorio che elimina e migliora i dettagli del mondo reale. Julia Margaret Cameron intraprese l’attività fotografica con vigore e delicato senso estetico, realizzando intensi e profondi ritrat-
Dolores, Adolph de Meyer, Vogue 1919.
Costant Puyo, 1896.
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ti, a volte ispirandosi a scene della Bibbia. Spesso criticata per le sue immagini “fuori fuoco”, aspirò a nobilitare la Fotografia e di assicurarle il carattere e le qualità di una grande Arte combinando insieme il reale e l’ideale e nulla sacrificando della Verità pur con tutta la possibile devozione alla Poesia e alla Bellezza. In Russia il pittorialismo si formò attraverso le mostre internazionali e le riviste di fotografia. La critica del periodo riconobbe in Evgenyi Vyshnyakov e Yan Bulgak due esponenti del genere, che si espanse oltre i confini della fotografia per contaminare le arti decorative e la musica. Il pittorialismo si generò particolarmente all’interno dei ceti sociali culturalmente più attenti alla situazione della Russia, nel clero e nell’esercito, sempre all’interno dei circoli amatoriali. Principalmente agricolo e con spiccate caratteristiche feudali, l’Impero russo venne mostrato nel realismo delle fotografie di Aleksey Mazurin, Sergey Lobovikov, Anatoly Trapagny e Peotr Klepikov, che dipingono visioni romantiche di paesaggi e di vita contadina. Mazurin fu il primo ad esporre all’estero e Lobovikov, figlio del pope del villaggio, ottenne apprezzamenti importanti in Germania.
Mary Pickford, Nelson Evans, 1917.
Adolph de Meyer, 1896.
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L'inasprirsi della lotta ideologica costrinse il movimento pittorialista alla dissoluzione, censurato a causa dei soggetti ritratti nelle immagini, dove comparivano la reale situazione dei contadini e degli operai, oppressi da un passato di schiavitù. Le associazioni fotografiche di stampo artistico, tra cui la Russian Photographic Society, furono smantellate nel 1920, dichiarate borghesi e deleterie per il proletariato. L'ultima esposizione fotografica, la "Masters of Soviet Photography", si tenne nel 1935, dove comparvero le opere di fotografi come Yury Eryomin, Aleksandr Grinberg, Nikolaj Andreev, e Vasily Ulitin. Grinberg venne perseguito con l’accusa di pornografia e Ultin per vilipendio del governo sovietico. Altri vennero deportati nei campi di lavoro o esiliati. Gran parte delle fotografie furono distrutte, altre vennero salvate attraverso la raccolta dei collezionisti. Il movimento
Costant Puyo, 1896.
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pittorialista si affiancò alla nuova fotografia d’avanguardia di Aleksandr Michajlovič Rodčenko e El Lissitzky, che propose un completo stravolgimento dell’approccio alla fotografia, ripudiando il tentativo di imitare la pittura. Al termine della seconda guerra mondiale, il pittorialismo riaffiorò e venne praticato nei circoli fotografici, come l’Innovator di Mosca. L’Italia pittorialista nacque alla fine del XIX secolo, in occasione delle mostre fotografiche di Torino del 1898 e del 1902. La rivista ufficiale del movimento fu pubblicata tra il 1904 e il 1917, con il nome “La fotografia artistica”. Esponente italiano di questa forma artistica fu Guido Rey, torinese, che fu il tramite dal pittorialismo alle nuove tendenze americane proposte da Alfred Stieglitz. Più tardi, Domenico Riccardo Peretti Griva riprese i temi della foto pittorica, soffermandosi principalmente sul tema della natura.
HENRY PEACH ROBISON Henry Peach Robinson (Ludlow, 9 luglio 1830) è stato anche uno dei più grandi combattenti per il riconoscimento della fotografia nel mondo dell’arte. La disputa tra fotografia considerata come “riproduzione” della realtà e quella considerata come “interpretazione” è antica. La fotografia veniva vista come un semplice strumento di riproduzione, a causa dei procedimenti meccanici richiesti per la produzione delle immagini Lo scopo del movimento pittorialista, di cui Robinson fece parte, fu quello di elevare il mezzo fotografico al pari della pittura o della scultura. I pittorialisti usavano tecniche e i processi che rendevano l’immagine simile ad un disegno, adoperando la stampa alla gomma bicromata o al bromolio, gli obiettivi soft-focus o la stampa combinata di più negativi su un unico positivo.
Le fotografie di Robinson sono di evidente derivazione pittorica, al punto che addirittura, nel 1856, finì in tribunale con l’accusa di avere plagiato il dipinto del preraffaelita Henry Wallis. Le sue composizioni sono frutto di un complesso e maniacale lavoro. Le sue opere più belle sono state realizzate tramite il fotomontaggio manuale di diversi negativi su un unica stampa positiva. Si partiva da un disegno iniziale su cui venivano in seguito applicate, grazie al fotomontaggio, le immagini fotografiche vere e proprie. Il fotomontaggio aveva, anche, il compito di eliminare le perdite di nitidezza ai bordi dovute agli obiettivi del tempo. Fotografando le figure centralmente e mettendole poi insieme mediante fotomontaggio si poteva godere di una nitidezza ineguagliabile su tutta l’area dell’immagine. Di seguito si
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passava ad un puntiglioso lavoro di rifinitura, con tinta e pennello, per suavizzare le piccole imprecisioni della composizione. Fading Away è forse la foto più famosa del fotografo britannico. Si tratta di una immagine costituita mediante di cinque diversi negativi. Mostra l’agonia di una ragazza sofferente di tubercolosi, circondata dalla sua famiglia. Ben visibile il grano lasciato dal collodio, che dà all’immagine l’aspetto pittorico. Morfologicamente, ci sono linee contrastan-
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ti che regolano l’armonia del quadro. Da una parte le pieghe della tenda, le figure dei familiari e le gonne tendono alla verticalità, dall’altra la finestra e la stessa protagonista tendono all’orizzontalità. Vi è uno spazio simbolico rappresentato dal cielo in tempesta, che si intravede al di fuori della stanza, metafora della sofferenza dei parenti. Il risultato, trovato nell’armonia della composizione, coinvolge lo spettatore nel dolore e nel dramma, rendendolo partecipe delle emozioni dei personaggi.
GUSTAVE LE GRAY Gustave Le Gray fu un pittore senza successo che si diede alla fotografia con l’obiettivo di far soldi, anche perché a ventotto anni aveva una famiglia da mantenere. Chiese un prestito e aprì uno studio di ritrattistica a Parigi, ma l’arte del ritratto si rivelò poco lucrosa quanto la pittura. Malgrado questo, Le Gray fu uno dei massimi artisti dell’Ottocento, un grande in ogni sua attività fotografica: splendido fotografo, eccellente stampatore, bravissimo ritrattista, eccezionale nella resa di vedute, inventore di nuove tecniche. Fu anche uno dei cinque leggendari fotografi che parteciparono alla Mission Héliographique. Visti i risultati poco remunerativi avuti dalla ritrattistica, Le Gray pensò di darsi alle vedute architettoniche e alle scene all’aperto, per le quali inventò e applicò quel processo denominato Hdr. Per poter vedere raffigurati gli scavi di Pompei, per esempio, ci si doveva affidare a incisioni in copia limitata o pubblicate su periodici o libri, o a disegni riportati da viaggiatori nei loro album. A meno che i luoghi non fossero ritratti in opere pittoriche che, per evidenti ragioni, non potevano godere di grande diffusione presso la gente comune. Teniamo poi presente che la gente di quell’epoca percepiva il tempo in modo diverso, più dilatato e lento. Era un mondo più “contemplativo”, dove l’attenzione per le cose era meno compulsiva guadagnandone in profondità.
Autoritratto, Gustave Le Gray, 1847.
Non dimentichiamo, poi, che per ottenere i risultati che hanno ottenuto, questi pionieri disponevano di una tecnica ancora primordiale. Come Charle Nègre, anche Le Gray proveniva dalla scuola pittorica di Delaroche e, in ambito fotografico, fu un pittorialista, cioè un sostenitore della fotografia come mezzo espressivo artistico, al pari delle arti maggiori. Mentre, invece, la maggior parte dei suoi contemporanei la consideravano una semplice tecnica per riprodurre la realtà, oppure un supporto documentaristico
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Ritratto di due bambini colorato a mano, Gustave Le Gray, 1857.
Salon de Paris, Gustave Le Gray, 1852.
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Oggi sappiamo che la fotografia sarebbe entrata in più ambiti, ma fu allora che si gettarono le basi per l’utilizzo che se ne sarebbe fatto in seguito. Alcune vedute di paesaggi francesi e tre fotografie di carattere militare scattate durante un giro d’ispezione di Napoleone III. La massima preoccupazione di Le Gray era la luce. Queste foto furono scattate all’alba, prima che la bruma si levasse perché, a mano a mano che le truppe si allontanavano e si infiltrava la nebbia tra loro e il fotografo, la nitidezza dell’immagine si dissolveva. Uno dei grandi meriti di Le Gray fu la creazione di innovazioni tecniche che gli permisero di superare la povertà di mezzi di quel periodo, utilizzando in alcune sue splendide vedute, per esempio, la “stampa combinata”, cioè l’utilizzo di più negativi per ottenere un unico positivo, come vedremo bene nelle prossime fotografie di marine. I pittorialisti utilizzarono per lo più il calotipo, non solo per la sua proprietà intrinseca di essere riprodotto, ma anche perché la stampa su carta permetteva quella “confusione visiva” del dettaglio che, invece, il
dagherrotipo registrava in modo sostanzialmente meccanico, cioè esatto rispetto alla realtà. Nel 1850 pubblicò il “Trattato pratico di fotografia su carta e su vetro”. La sua maestria di tecnico e di artista fotografico fece scuola, non solo a molti grandi fotografi francesi, ma anche inglesi come, per esempio, Roger Fenton, che possiamo annoverare come il primo reporter di guerra nell’accezione contemporanea. Sono leggendarie le marine di Le Gray, dove si vede sia il risultato artistico sia l’applicazione pratica delle sue invenzioni. Le Gray sapeva che, quando si fotografano scene con contrasti forti, come può essere quella di un paesaggio marino, è necessario un compromesso durante l’esposizione per riuscire a riprodurre in modo corretto sia il cielo che il mare. Per dare la resa che si può ben vedere nelle seguenti fotografie, inventò il seguente processo: scattò due immagini, una del cielo e una del mare, e poi in camera oscura fece una stampa composita utilizzando i due negativi. Il risultato dava una esposizione corretta e dinamica. La marina più famosa è la Grande Onda. Pur riuscendo a diventare il fotografo ufficiale di Napoleone III, il successo artistico non eguagliò quello economico, tanto che dovette abbandonare moglie e figli per sfuggire ai creditori. Lasciò il paese e nel 1860 cominciò un tour per l’Oriente insieme ad Alexandre padre.
Imbarcazione della flotta di Napoleone III, Gustave Le Gray, 1857.
Fu in occasione di questo viaggio che Le Gray ebbe modo di incontrare Garibaldi e documentare la devastazione che avevano lasciato i bombardamenti borbonici a Palermo, oltre a ritrarre lo stesso Garibaldi il quale, fin da subito, aveva acconsentito di buon grado perché aveva compreso l’importanza della fotografia a scopo pubblicitario; infatti, in breve tempo le fotografie della città di Palermo distrutta, fecero il giro di tutta l’Europa.
La grande onda, Gustave Le Gray, 1857
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Rimasto solo, in seguito a una lite che aveva coinvolto i due uomini e altri viaggiatori, Le Gray partì per il Libano, la Siria (dove ritrasse le truppe francesi per una rivista), poi l’Egitto (periodo durante il quale contattò il famoso fotografo Nadar per spedirgli le sue fotografie, ma anche per comunicargli l’estrema pena della lontananza), stabilendosi infine a Il Cairo nel 1864, dove trovò impiego come maestro di disegno e aprì un piccolo studio fotografico. Non riuscì mai più a tornare in Francia. Alcune immagini provenienti dal suo viaggio. Rimasto solo, in seguito a una lite che aveva coinvolto i due uomini e altri viag altri viaggiatori, Le Gray partì per il Libano, la Siria (dove ritrasse le truppe francesi per una rivista), poi l’Egitto (periodo durante il quale contattò il famoso fotografo Nadar per spedirgli le sue fotografie, ma anche per comunicargli l’estrema pena della lontananza), stabilendosi infine a Il Cairo nel 1864, dove trovò impiego come maestro di disegno e aprì un piccolo studio fotografico. Non riuscì mai più a tornare in Francia. Alcune immagini provenienti dal suo viaggio: oltre ai paesaggi e alle vedute, un genere molto frequentato dai pittorialisti fu il nudo. Di seguito tre nudi, scattati quando Le Gray era ancora in Francia. Il primo nudo, è una donna distesa sul pavimento girata di spalle, una posizione molto utile come modello da disegnare per i pittori; gli altri due nudi, sempre femminili, scattati qualche anno dopo, ritraggono la donna frontalmente, qui la posa è statuaria.
Ritratto di Giuseppe Garibaldi, Gustave Le Gray, 1860.
I tre nudi, Gustave Le Gray, 1849.
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JULIA MARGARET CAMERON Julia Margaret Pattle, nota con il cognome Cameron, era nata a Garden Reach, nei pressi di Calcutta, nel 1815, quando sull’impero britannico non tramontava mai il sole. Figlia di un ufficiale inglese della British East India Company e di un’aristocratica francese, Adeline de l’Etang, appena in età scolare fu mandata dalla famiglia a Parigi e Londra per ricevere un’educazione e un’istruzione europea appropriate al suo rango. Nel 1836, in convalescenza presso il Capo di Buona Speranza, conosce Charles Hay Cameron, un legislatore e uomo d’affari di base a Ceylon, di circa 20 anni più grande di lei e già vedovo. Si sposano. Julia Margaret, nel corso degli anni, avrà sei figli e altrettanti ne adotterà. Nel 1848 la famiglia Cameron rientra in Inghilterra stabilendosi prima a Londra e in seguito, nel 1860, sull’isola di Wight. Il ritorno in Inghilterra permette a Julia Margaret di frequentare ed entrare a far parte della cerchia di intellettuali, artisti e scienziati più illustri del tempo. Nel 1863, i figli sono ormai grandi e il marito deve rientrare a Ceylon per seguire gli affari. La vita di Julia Margaret si svuota aprendo spazio alla noia, rischiando di scivolare nella malinconia. La figlia maggiore, Julia, le regala un apparecchio fotografico con l’idea che un hobby possa aiutarla a distrarsi.
Parting of Lancelot and Guinevere Julia Margaret Cameron, 1874.
La dagherrotipia e la talbotipia erano state presentate ufficialmente, rispettivamente in Francia e Inghilterra, pochi anni prima, nel 1839-40; e a questi primi processi fotografici, da circa un decennio, si era sostituito il negativo su lastra di vetro con emulsione al collodio. L’arte della fotografia ha ancora un aspetto artigianale, più che artistico, ancora lontano dagli interessi industriali e dalla sua massificazione.
Vivien and Merlin, Julia Margaret Cameron, 1874.
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I fotografi sono generalmente uomini e lavorano su commissione di un cliente o con la prospettiva di proporre commercialmente le loro immagini. Gli atelier sfornano ritratti e gli stabilimenti paesaggi. Alcuni fotografi coraggiosi si avventurano per il mondo fotografando guerre, popoli e meraviglie lontane. Nella fotografia si ricerca soprattutto l’aderenza al reale, la perfezione nei dettagli, lo stupore nel constatare che riporta su un piccolo rettangolo la verità per quello che appare e per quel che è, senza interpretazioni. La Cameron è conquistata dal regalo più di quanto chiunque potesse immaginare. La fotografia si trasforma in una vera e propria passione, senza alcun fine redditizio né interesse a mostrare le sue fotografie al di fuori della cerchia dei familiari e degli amici. Ben presto la sottile ossessione si impadronisce di lei. Organizza il suo laboratorio con camera oscura in quella che lei ribattezza Glass House: altro non era che un pollaio da cui aveva sfrattato le galline, chiuso da vetrate e tendaggi; inizia a sperimentare Quando finalmente riesce a realizzare la prima fotografia (dalla preparazione della lastra, alla posa, lo scatto, lo sviluppo e la stampa), un ritratto di Annie, una bambina. La sua tecnica era considerata carente, e in effetti spesso i suoi negativi sono rovinati e mal preparati, ma il gusto compositivo era fuori discussione. Scelse di dedicarsi al ritratto interpretato secondo il suo modo, che poi rispecchiava molto quello della pittura preraffaellita a lei contemporanea. I suoi soggetti preferiti erano i bambini e gli adolescenti: nipoti e altri bambini venivano posti a lunghe sessioni di posa, con la promessa di un premio.
The Whisper of the Muse, Julia Margaret Cameron, 1865.
Circe, Julia Margaret Cameron, 1879.
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Julia Margaret Cameron adattava su di loro atteggiamenti, pose, drappi, e anche piccole ali, coroncine, panneggi, così da farne delle visioni realistiche di idealizzazioni dell’infanzia e dell’innocenza. I bambini e gli adolescenti sono “usati” soprattutto per rappresentazioni allegoriche di racconti o romanzi. Lo stesso Lewis Carroll, anche lui fotoamatore oltre che pastore e scrittore, apprezzò alcune sue fotografie, non mancando di stroncarne decisamente altre. Alfred Lord Tennyson, ritratto da lei, le chiese una serie
di fotografie per illustrare il suo componimento Idylls the king. Le fanciulle della Cameron avevano sempre un aspetto sognante e pensoso, a volte tormentato, tipico del romanticismo. Ma quello che caratterizza più di ogni altra cosa la sua fotografia è la tecnica con cui Julia Margaret raggiunge il risultato. Le sue fotografie sono volontariamente sfuocate, ombrose, poco delineate e , spesso, ovali. Da un lato, soprattutto all’inizio, dai critici più severi, questo viene interpretato come un errore tecnico e il segno di una scarsa padronanza del mezzo, anche se apprezzano la composizione formale dell’immagine. La Cameron però risponde alle critiche opponendo alcune spiegazioni decisamente originali, giustificandole con nuove, per l’epoca, motivazioni. Lei non si limita a riprodurre il reale: lo interpreta così per come effettivamente appare alla mente: i contorni nella nostra messa a fuoco sono sfumati, circolari, e solo una minima porzione di ciò che vediamo è realmente a fuoco. La sua idea rivoluzionaria è che la fotografia deve allontanarsi dall’essere uno strumento di riproduzione meccanica, che il fotografo deve avere la libertà di interpretare e creare la propria visione del mondo; vuole nelle fotografie avvicinarsi il più possibile a come i nostri occhi effettivamente vedono.
Venus Chiding Cupid and Removing His Wings, Julia Margaret Cameron, 1872.
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Con la Cameron nasce così la ricerca artistica nella fotografia; la fotografia si allontana dalla commercializzazione e dalla ricerca del consenso, ma viene realizzata per sé e per chi può comprenderla. È interessante sottolineare questo per più aspetti: la ricerca artistica in fotografia non nasce da esigenze di mercato, ma da ricerche assolutamente personali; muove i suoi primi passi tra i fotografi dilettanti, o fotoamatori. La prima che coglie le potenzialità di espressione artistica è una donna, quando fino a pochi anni prima si sosteneva che, a causa dei laboriosi procedimenti, mai una donna sarebbe stata fotografa.
“La creatività è la nostra vera natura; i blocchi sono ostacoli innaturali ad un processo che è insieme tanto normale e tanto miracoloso quanto lo sbocciare di un fiore all’estremità di un’esile stelo verde.” Julia Margaret Cameron
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Julia Margaret Cameron è ricordata anche per i ritratti a personaggi assai noti che posano davanti al suo obiettivo. Contemporaneamente al suo quasi coetaneo e più celebre Nadar (nato nel 1820) la Cameron fotografa i tanti che vivono con lei sull’isola di Wight. Con i suoi plastici chiaroscuri riesce a cogliere l’essenza di un volto, di un’espressione o un’emozione con vera sensibilità, anche se con estenuanti sessioni fotografiche. Tra questi ritratti non si possono scordare quelli di Charles Darwin, William Michael Rossetti, Robert Browning, Julia Jackson (la sua figlia maggiore, a sua volta madre di Virginia Wolf), John F.W. Herschel (tra i più noti scienziati dell’epoca: è lui a coniare i termini “negativo” e “positivo” per la fotografia, e spesso consiglia la Cameron per le sue riprese). Le fotografie della Cameron diventano presto famose oltre la cerchia di amici, iniziano ad essere esposte nelle mostre d’arte (a quei
An Angel unwinged by your desire, Julia Margaret Cameron, 1867.
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tempi pittura e fotografia venivano presentate insieme come “belle arti”) ottenendo ampi consensi dal pubblico. Sarà la prima donna ammessa alla Royal Photographic Society e questo le permette di confrontarsi con gli altri fotografi, primo tra tutti Rejlander. La fotografia della Cameron infatti interpreta al meglio lo stile vittoriano, tanto da far dire che la sua fotografia si avvicina alla pittura. È così che dopo di lei prenderà il sopravvento nella ricerca fotografica la corrente del Pittorialismo che sarà alla base della fotografia artistica fino ai primi del ‘900. Ma il tempo della notorietà è breve. Nel 1875 i Cameron ritornano a Ceylon e lì Julia Margaret, anche per problemi legati alla difficoltà di reperire i materiali, abbandona la sua passione. Muore nel 1879. Le sue opere sono oggi conservate a Dimbola Lodge, la tenuta in cui visse e che oggi è un museo a lei dedicato sull’isola di Wight, ma anche nelle più importanti collezioni pubbliche.
OSCAR GUSTAVE REJLANDER Rejlander capì presto le possibilità che offriva la nuova arte e aprì uno studio fotografico a Wolverhampton. Ebbe poi a confessare più tardi: “Quanto tempo e denaro avrei risparmiato se avessi studiato attentamente almeno per un mese sulla tecnica fotografica”. Fatto tesoro dell'esperienza passata, Rejlander promise a se stesso di dimostrare che per fare della fotografia non bastava unicamente l'abilità pratica. Rejlander ha intrapreso molti esperimenti, per perfezionare la sua fotografia, compresa la stampa combinata del 1853, e probabilmente ne è anche l'inventore.
Sanzio tra dipinti e sculture vennero esposte anche delle fotografie. Rejlander era stato uno dei primi a sperimentare la tecnica del fotomontaggio, ed è in questo modo che realizzò quest’opera sopracitata, un’immagine di 30x16 pollici (76x40 cm circa), ottenuta dalla stampa di trentadue negativi. Si tratta di una composizione ispirata a dipinto di Raffaello La scuola di Atene nella quale vengono raffigurati due diversi modi di vita.
Un giornale dell’epoca, Wolverhampton Chronicle, il 15 novembre del 1854 pubblicò un articolo intitolato “Improvement in Calotypes, di Mr. O.G. Rejlande, di Wolverhampton” dove scrive che nel 1854 stava sperimentando la stampa combinata da diversi negativi. Era amico del fotografo Charles Lutwidge Dodgson (conosciuto come Lewis Carroll) che raccoglieva i primi lavori infantili di Rejlander e lo corrispondeva a questioni tecniche. in seguito Rejlander creò uno dei ritratti più noti di Dodgson. Era inevitabile che almeno inizialmente, lo stile fotografico, subisse in Inghilterra in modo anche deciso, l’influenza dei canoni dell’arte vittoriana. Tanto che a essa si ispirò una scuola detta High Art, il cui principale esponente diventa Oscar Gustave Rejlander. Nel 1855 partecipa all’Esposizione universale di Parigi, ma la notorietà arriva nel 1857, con l’opera denominata The two ways of life, presentata nella grandiosa mostra dei tesori dell’arte che si svolse a Manchester, nella quale, per la prima volta grandiosa mostra dei tesori dell’arte che si svolse a Manchester, nella quale, per la prima volta tra dipinti e sculture vennero esposte anche delle fotografie. Rejlander era stato uno dei primi a sperimentare la tecnica del fotomontaggio, ed è in questo modo che realizzò quest’opera sopracitata, un’immagine di 30x16 pollici (76x40cm circa), ottenuta dalla stampa di trentadue negativi. Si tratta di una composizione ispirata a dipinto di Raffaello
Madonna Sistina, Raffaello, 1514
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La scuola di Atene, Raffaello, 1511.
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La scuola di Atene nella quale vengono raffigurati due diversi modi di vita. Da un lato la saggezza, la religione, l’operosità e la virtù. Dall’altro il gioco d’azzardo, il vino, la dissolutezza e la sensualità. Gli ammiratori videro in questa composizione quasi l’emblema della moderna fotografia, che, secondo loro, doveva soprattutto sforzarsi di essere limitazione dell'arte tradizionale. Criticarono la parziale nudità dell'immagine ritenuta “indecente” sospettando e insinuando che Rejlander avesse usato come modelle delle prostitute. Ma l'indecenza sparì quando la regina Vittoria ordinò una copia di 10 guineeda regalare al principe Alberto. Il siccesso di The tho ways of life, e l’appartenza della Royal Photographic Society di Londra, gli hanno dato celebrità nell’ambiente artistico di Londra Per questa opera scientifica
Rejlander realizzò una trentina di fotografie di bambini e di uomini e donne di età diverse riprese in svariati momenti emotivi. Con questo suo ultimo lavoro divenne famoso e apprezzato da eminenti scienziati e intellettuali dell’epoca tra cui Sir James Crichton-Browne e Dr Hugh Diamond.. Vive gli ultimi anni in condizioni quasi di povertà; nel 1874 si ammala gravemente e il 18 gennaio 1875 muore a Clapham, nei pressi di Londra. Nel 1859 Rejlander abbandonò le mostre fotografiche, adducendo come motivo il fatto che “era stanco di fare delle fotografie per un pubblico capace solo di travisarne il segno sfocato”. Trasferì il suo studio a Malden Road, Londra intorno al 1862 e sperimentò ulteriormente la doppia esposizione, il fotomontaggio, la manipolazione fotografica e il fotoritocco. Divenne uno dei massimi esperti di tecniche fotografiche, insegnava e pubblicava ampiamente e vendeva portafogli attraverso librerie e mercati d’arte. Ha iniziato a fotografato i bambini di strada senzatetto di Londra, per produrre immagini popolari di “protesta sociale”come “pur zoo” “senzatetto”. Si dedicò a foto di ritratti e di nudi, che servivano soprattutto e pittori quali basi per loro opere, senza però rinunciare del tutto alle sue ricerche sulle esposizioni multiple. Soprattutto le sue fotografie di bambini suscitano l’interesse di molti altri fotografi illustri dell’epoca e pionieri della fotografia come Julia Margaret Cameron e Lewis Carroll. Nel 1862 sposa Mary Bull, una sua modella di ventiquattro anni più giovane, che aveva fotografato fin dai tempi diWolverhampton, quando la ragazza aveva 14 anni. I ritratti di Rejlander lo misero in relazione anche con Charles Darwin, che lo incaricò di illustrare il suo libro “The Expression of the Emotions in man and animals”.
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IL SURREALISMO FOTOGRAFICO
FOTOGRAFIA SURREALISTA Qualsiasi tentativo di definire il dadaismo è contraddittorio, come disse uno dei suoi fondatori: “il dadaismo è niente, niente, niente”. Non esistevano regole. Nato nel 1916 in risposta alla devastazione della Prima guerra mondiale per mezzo di rifugiati di guerra in Svizzera, a Zurigo, rispecchiava il desiderio di costruire una nuova umanità Ciò signfica annullare ed eliminare definitivamente tutti i valori del passato, anche dell’arte. I fotografi erano aperti a qualsiasi situazione al caso, ma anche all’irrazionalità, irriverenza e incongruità. Il tedesco Kurt Schiwtters fu il rappresentante del dadaismo, nel suo studio detto Merzbau, un collage astratto di strutture, esso stesso opera d’arte. Furono i dadaisti a usare per primi il termine “fotomontaggio”. Artisti come Christand Schad e Jean Hans Arp avevano applicato foto sulle loro opere d’arte già all’inizio del 1900, mentre la dadaista berlinese Hannah Hoch nel 1919 utilizzò immagini ritagliate da riviste e incollate distorcendo le dimensioni, la prospettiva e la rappresentazione per esprimere la sua critica verso la politica e la società. Il fotomontaggio permise di accostare elementi trovati a caso. In realtà tutto era a caso, proprio per creare confusione e rivelare assurdità. Ecco perché i dadaisti, ribelli a qualsiasi istituzione, erano attratti da questo nuovo movimento artistico.
Influenzati dalle teorie di Freud della libera associazione per liberare l’immaginazione dai suoi consueti vincoli, cercarono di “risolvere le precedenti condizioni di contraddizione tra sogno e realtà”. Gli scrittori surrealisti sperimentarono la scrittura automatica, chiamata talvolta flusso di coscienza, che Breton definiva come un dettato di pensieri della coscienza senza restrizioni morali. Nell’arte, il Surrealismo si preconfigurava di rappresentare delle composizioni oniriche e il “reale funzionamento del pensiero” come ben esprimono le opere di Dali. La loro pittura era “automatica”.
Crowd and Shadows of the Dream, Misha Gordin
Il procedimento fotografico che rendeva possibile il “montaggio di immagini trovate” mettendo uno accanto all’altro a caso elementi che di solito non si incontrano, interessò anche i surrealisti. Il dadaismo, non avendo offerto nulla di nuovo e a causa della riduzione delle sue risorse artistiche, lasciò la scena al movimento surrealista. Sotto la guida di André Breton si riunirono per fondare un nuovo movimento artisti come Max Ernst, Salvador Dalì, Man Ray, Hans Arp. Nel 1924 fu pubblicato il Manifesto del Surrealismo.
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La fotografia fu la perfetta forma di espressione di questi esperimenti mentali. Per la prima volta nella storia, la sua natura automatica e meccanica era accettata, persino essenziale e occupò un gran ruolo nel movimento. Gli artisti ptoevano inquadrare qualsiasi cosa in qualsiasi momento e l’immagine che ne risultava si poteva definire surrealista. Era possibile farlo attraverso tecniche come il fotomontaggio, il collage, l’esposizione multipla e la posterizzazione
Chiudi gli occhi per favore, Man Ray, 1918.
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parziale (effetto applicabile ad un’immagine per cui questa viene compressa, riducendo il numero di livelli di colore e aumentandone il contrasto), che offrirono metodi efficaci per combinare elementi diversi in contrapposizioni rivelatrici. Mentre producevano immagini coerenti con l’estetica dell’eleganza e della bellezza, Hans Bellmar lasciò libero sfogo all’incoscio mettendo in posa forme simili a bambole, che costruiva lui stesso, creando opere inquietanti ma uniche
MAN RAY, IL PRIMO FOTOGRAFO SURREALISTA Fra il 1910 ed il 1915, una serie di frequentazioni illuminanti, imprimeranno nell’esistenza di Emmanuel Radnitsky, allora poco più che ventenne illustratore, quei cambiamenti di prospettiva che gli faranno scegliere una nuova identità anagrafica ed artistica. I suoi studi presso il circolo artistico anarchico Francisco Ferrer, le conversazioni con Alfred Stieglitz alla Galleria 291, dove il giovane si recava ad ammirare i collage di Picasso o gli acquerelli di Cézanne, l’incontro col Dada di Picabia e Duchamp, soprattutto, fanno sì che la sua ricerca (sino allora influenzata dal Cubismo) converga sulla luce, elemento primario della visione. Cambia allora il suo nome in Man Ray, “uomo raggio”. E inizia a fotografare, intorno al 1915, perché insoddisfatto delle riproduzioni che i fotografi professionisti fanno dei suoi lavori; ma ben presto si dedica ad altri soggetti.
l’ausilio di una macchina fotografica, grazie al processo chimico che la luce innesca sui materiali fotosensibili: il risultato è quello di un negativo degli oggetti opachi o traslucidi che sono stati appoggiati sulla carta.
Cadeau, Man Ray, 1921.
Il suo interesse per la luce e per il mutare delle ombre portate, in rapporto ai cambiamenti d’illuminazione (che da poco tempo l’elettricità aveva reso di facile gestione), è palese nelle sue prime fotografie: si tratta spesso d’oggetti d’uso comune, vistosamente accompagnati dalle loro ombre. Ma già con i suoi quadri, Man Ray aveva studiato la possibilità di trasporre in immagine la propria concezione di una realtà visiva, conoscibile solo attraverso le proprie mutevoli proiezioni, quasi a riecheggiare il mito platonico della caverna.Trasferitosi a Parigi nel 1921, frequenta gli artisti e i letterati dell’area dadaista. E’ sempre rimasta dubbia l’opportunità di collocare Man Ray nell’ambito della fotografia, piuttosto che in quello dell’avanguardia dada, poiché fra i dadaisti era comune la rinuncia alle tecniche specificamente artistiche (legate al passato, di cui si voleva fare tabula rasa) per quelle moderne della produzione industriale, utilizzate anch’esse in maniera non convenzionale e creativa. A quel periodo risalgono, infatti, le cosiddette Rayografie. Chiamate ora comunemente “fotogrammi”, sono immagini nate in camera oscura senza
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Man Ray ne rivendica la paternità di “scoperta casuale”, ma la stessa tecnica è impiegata in quegli anni da Laszló Moholy-Nagy che, membro della Bauhaus, indaga le implicazioni gestaltiche di tali figurazioni. Bauhaus e Dada, del resto, partono da un’uguale idea di “universalità” dell’arte, alla quale possono concorrere le tecniche più disparate, arrivando tuttavia ad opposte istanze: di ricostruzione della società attraverso l’arte (dopo la prima guerra mondiale), l’una; l’altro di decostruzione d’ogni regola e convenzione borghese. Così le Rayografie, su questo sfondo culturale, acquistano un valore destabilizzante per le attese mimetiche ed iconiche, rispetto ad una tecnica ritenuta garanzia massima di realismo, e pongono le premesse ad un discorso critico sul linguaggio fotografico, che verrà affrontato esaustivamente molto tempo dopo da Ugo Mulas. Resta il dubbio che per Man Ray non fossero altro che l’esito naturale della propria ricerca “pittorica” e luministica. Di certo egli ritiene la fotografia una liberazione dalla “fatica di riprodurre le proporzioni e l’anatomia dei soggetti”, che gli permette d’indagare con la pittura nell’immaginazione e nell’inconscio. E afferma: “Io fotografo ciò che non voglio dipingere e dipingo ciò che non posso fotografare”. Non lo interessa, dunque, per niente la competizione fra pittura e fotografia, che considera due campi totalmente distinti ed in certo qual modo complementari per la sua espressione. Continuerà, anzi, sempre ad operare in entrambi; si occuperà inoltre di scultura, cinema (sono sue le prime riprese del Ballet mécanique di Fernand Léger) e produrrà anche quei ready made “aiutati” (nati dall’accostamento di cose fra loro incongruenti, ma atte a generare un nuovo senso), che chiamerà “oggetti d’affezione”. Nelle sue fotografie appariranno spesso tali assemblaggi, partecipi del nuovo clima surrealista, evocato da titoli fantasiosi che costituiscono una chiave di lettura letteraria
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(non letterale), e simbolica delle immagini. Questo gusto per lo scarto intellettuale e poetico provocato da un titolo inatteso, è tuttavia intimamente legato ai trascorsi dada di Man Ray ed alla sua polemica sulla convenzionalità dei segni linguistici (sono questi gli anni delle ricerche di Saussure): così ne La femme, foto di un frullatore e la sua ombra, il valore dell’operazione è quello dada di un’alienazione di senso, tale che una sua seconda stampa può indifferentemente intitolarsi L’homme, accentuando i propri richiami alle concezioni “meccanico-sessuali” di Picabia, nonché alle teorie freudiane, che vogliono l’anima umana non univoca, ma portatrice in germe di caratteristiche dell’altro sesso (motivo, forse, per cui Man Ray ci ha lasciato molti autoritratti en travesti).
Il bianco e il nero, Man Ray, 1926.
Susan Sontag con accenti critici stigmatizza tanto le sue sperimentazioni fotografiche, che si spingono oltre i fotogrammi alle solarizzazioni ed alle retinature dell’immagine (le definisce “prodezze marginali” e “amabili trovailles degli anni venti”) quanto il repertorio surrealista, che con le sue fantasie ed oggetti venne “rapidamente assorbito dall’alta moda degli anni trenta”, ma gli fa evidentemente torto, perché quest’artista pone la sua ricerca su tutt’altro piano, affermando nel corso della sua lunga carriera la propria libertà assoluta di pensatore, che sta solo, come dirà Breton, “all’ascolto della luce” e delle sue disparate mani Con assoluta semplicità di mezzi (usa sempre una Kodak di serie), ritrae la realtà e sonda il mistero della quotidianità. Quale che sia il soggetto, una particolare veduta di Parigi, un insieme di oggetti, un nudo, o un volto, queste fotografie ci propongono sempre un senso d’estraneamento, che fa di loro vere e proprie proiezioni d’immagini mentali.
Il violino di Ingres, Man Ray, 1924.
Le violon d’Ingres, del 1924, costituisce un buon esempio di tale vocazione concettuale: il semplicissimo ritratto di schiena dell’allora compagna Kiki de Montparnasse, posto su uno sfondo scuro, diventa un “discorso” complesso. L’immagine richiama puntualmente un celebre quadro di Ingres; il suo titolo è una frase idiomatica che sta ad indicare l’occupazione preferita, “l’hobby”; le forme della donna sono effettivamente simili a quelle di una viola d’amore, linee che allora ricorrono nei quadri di Georges Braque e Pablo Picasso. Man Ray si limita ad aggiungere, stampandole a contatto, le “effe” dello strumento, creando un incontestabile capolavoro, in cui sensualità e concettualismo si mescolano a creare un meccanismo generatore di polisemia.
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Altro esempio, fra tanti, può essere l’ironico Elevage de poussière (noto anche come Vue prise en aéroplane par Man Ray): la foto mostra uno strano paesaggio polveroso; altro non è che un particolare del “Grande vetro” di Marcel Duchamp, pieno di polvere e di particelle d’ovatta, così come lo aveva trovato in un angolo dello studio dell’artista. Ha un ruolo rilevante nel risultato di quest’immagine la scelta del dettaglio e l’inclinazione particolare del punto di ripresa, componenti fondamentali, queste, dell’estetica fotografica avanguardista. La medesima attenzione al particolare, opportunamente isolato dal contesto, è testimoniata dai ritratti, soprattutto dei suoi amici artisti e letterati, che spesso riprende in inquadrature così ravvicinate, che sembrano a stento contenere il soggetto, isolato su sfondi neutri. Delle stesse immagini esistono versioni ancor più ritagliate, il cui ingrandimento fa emergere la graficità della grana fotografica. La famosa Larmes è il particolare dell’occhio di una ballerina di cancan: “Il trucco di una ballerina ha fatto nascere queste lacrime (di vetro) che non esprimono alcuna emozione”. “La fotografia non è arte”, scrive Man Ray, ma la sua non è evidentemente sterile polemica: la definisce, infatti, “un’arte” (ossia una tecnica) in un momento storico in cui le basi stesse di ogni discorso artistico venivano ridefinite. In seguito dichiarerà: “L’arte non è fotografia”; e non è un gioco di parole, poiché sarà ormai chiaro a tutti che la realtà non può più essere il soggetto dell’arte, mentre lo è sempre e comunque della fotografia. Dietro ogni scatto di Man Ray c’è una domanda: “Perché?”. E’ questo, egli afferma, ciò che si chiede chi vuole capire; a chi si accontenta di imitare, invece, è sufficiente chiedersi: “Come?”.
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Lacrime di vetro, Man Ray, 1932 .
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A Ridgefield, nel New Jersey, dove vivrà per quattro anni, lavora come disegnatore pubblicitario. Tenta dunque, insieme al poeta Alfred Kreymborg, di fondare una comunità artistica. Incontra Alfred Stieglitz ed entra in contatto con l’avanguardia americana. La scoperta dei movimenti artistici europei avverrà nel 1913, dopo aver visto le opere di Marcel Duchamp e Francis Picabia all’Armory Show. Realizza quindi il suo primo quadro cubista: un ritratto di Alfred Stieglitz. Si sposa con la poetessa Adon Lacroix con la quale pubblica il libro A Book of Diverse Writings. La guerra in corso in Europa blocca il suo progetto di recarsi a Parigi. A venticinque anni, Man Ray acquista una macchina fotografica per riprodurre i
Rayografie, Man Ray, 1972.
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suoi quadri e fonda la prima rivista americana dadaista The Ridgefield Gazook: quattro pagine con sue illustrazioni e testi di sua moglie, Adon. E’ l’anno del suo incontro con Duchamp e della sua prima esposizione alla Daniel Gallery di New York. Nel 1919 si separa dalla moglie, pubblica l’unico numero di TNT, rivista di tendenza anarchica, e inizia una collaborazione fotografica e cinematografica con Marcel Duchamp. I due, insieme a Katherine Dreier, Henry Hudson e Andrei McLaren fondano la Société Anonyme, un museo d’arte d’avanguardia. Nel 1921, durante la quindicesima mostra annuale di fotografia, vince un premio per un ritratto di Berenice Abbott, allora
Elettricità, Man Ray, 1931.
scultrice e in seguito fotografa e sua assistente per tre anni. Il sodalizio con Marcel Duchamp è ormai consolidato e Man Ray lo raggiunge finalmente a Parigi dove incontra i dadaisti e fa la conoscenza di Jean Cocteau, Erik Satie e Kiki de Montparnasse. Sono anni ricchi di attività artistiche: pubblicazione di libri, partecipazioni a decine di mostre personali e collettive, la realizzazione delle di immagini di nudo, ritratti e fotografie di moda. Nel 1923 gira Retour à la raison, il primo di alcuni film (Anémic cinéma, Emak Bakia, L’Etoile de mer, Les Mystères du Chateau de dé). Nel 1929, Lee Miller diventa la sua assistente (e lo sarà fino al 1932). Alla Biennale di Venezia del 1961 riceve la medaglia d’oro per la fotografia mentre nel 1971 gli saranno dedicate due retrospettive, a Rotterdam e a Milano (alla Galleria Schwarz), comprendenti 225 lavori realizzati tra il 1912 e il 1971. “Molti anni fa concepii l’idea di fare un quadro che somigliasse a una fotografia! Avevo valide ragioni. Desideravo di trarre l’attenzione dall’abilità manuale, in modo che fosse l’idea fondamentale a imporsi.”9 Man Ray muore a Parigi, nel 1976.
Man Ray e Marcel Duchamp, 1952.
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MAURICE TABARD Maurice Tabard (12 luglio 1897 - 23 Febbraio 1984) è stato un francese fotografo. Tabard è stato uno dei più importanti fotografi del surrealista movimento, quale è entrato sotto l'influenza del suo amico, fotografo americano Man Ray. Nel 1914, lui e suo padre lasciò Parigi per New York, dove ha perseguito fotografia presso il New York Institute of Photography . Ha continuato i suoi studi fino al 1920 con il collega fotografo, Emile Brunel. In seguito alla morte del padre nel 1922, Tabard è diventato un fotografo ritratto professionale per Backrach Studio in Baltimora . Ha continuato a fotografare importanti case e persone ben noti, tra cui il futuro presidente Calvin Coolidge e la sua famiglia.
trica di Lazlo e il gusto poetico del gruppo surrealista, Maurice Tabard cattura l’invisibile, l’irreale e l’immaginazione. Oggetti e figure umane diventano ambigue e portano nuovi significati simbolici come Maurice Tabard una volta aveva esortato “si deve guardare ... ma guardare bene”.
Nel 1928, Tabard tornò a Parigi ed è diventato un fotografo di moda. Fu lì ha incontrato surrealista scrittore, Philippe Soupault , che a sua volta lo conosceva vari editori di riviste di primo piano tra Lucien Vogel, Giron, e Alexey Brodovitch . Ha continuato a lavorare per un certo numero di pubblicazioni, come Bifur, Vu , e Le Jardin des Modes . Ha fatto la conoscenza di surrealisti Man Ray e René Magritte , con il suo lavoro comincia a riflettere l’influenza del Surrealismo. Alla fine del 1920, ha incontrato anche Roger Parry, ai quali ha insegnato fotografia e André Kertész . Nel 1951 Francis Quirk sarebbe curare una mostra del suo lavoro alla Lehigh University insieme a fotografie di Ansel Adams . Durante il 1920, Maurice Tabard diventa un noto fotografo di moda collaborando con Vogue e Harper’s Bazaar e che trasforma la disciplina quando diventa uno dei primi a impostare i modelli in situazioni outdoor e applicare le tecniche inventive notevoli ai suoi incarichi professionali. I suoi successi commerciali consentono al fotografo francese di perseguire ricerche originali nel suo laboratorio dove crea immagini non convenzionali con l’aiuto di doppia esposizione, solarizzazione, proprio come Man Ray, fotogrammi che cattura sagome spettrali e inversioni. Combinando l’estetica geome-
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Senza titolo, Maurice Tabard, 1929.
Per i surrealisti, la forma femminile era oggetto di infinite rielaborazioni ossessive. In questa composizione possiamo vedere come la sovrapposizione di molti negativi crea una perfetta fusione delle immagini. Ricorda molto la Venere di Botticelli, ma rimane solamente una modella francese scelta per la fotografia.
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OTTO UMBEHR Dopo gli studi liceali venne ammesso al Bauhaus, nel 1921. Il Bauhaus era l’istituto di arti decorative e industriali di Weimar: luogo prestigioso fondato nel 1901 da Henry Van de Valde, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale passò la direzione nelle mani di Walter Gropius che lo rese famoso nel mondo intero grazie alla corrente artistica che prende il nome dallo stesso istituto; per estensione infatti, Bauhaus indica una corrente artistica concernente l’architettura e il design che fonderà le basi per la riflessione su tutta l’architettura moderna. Il Bauhaus si installerà anche a Berlino ma verrà chiuso nel 1933 con l’avvento del nazismo. Durante gli anni di frequentazione dell’istituto di arti decorative e industriali, Otto Umbehr incontrò Laszlo Moholy-Nagy, all’epoca uno dei più importanti fotografi del Bauhaus e fu allievo di Johannes Itten. Entrambi ebbero un’influenza decisiva su Umbo, tanto che lui stesso ammise in seguito che questo rapporto fu fondamentale per il suo lavoro di fotografo. Terminati gli studi, nel 1924 si trasferì a Berlino, che all’epoca era una fra le città più artisticamente vivaci a livello internazionale. Qui entrò subito in contatto con l’ambiente artistico, nel quale si muoveva a proprio agio, artista fra gli artisti, e nel 1926 decise di aprire uno studio fotografico. Divenne famoso in breve tempo grazie ai suoi ritratti dei personaggi che popolavano la boheme berlinese e fu uno dei fondatori della nuova estetica fotografica. In quegli anni si dedicò anche al cinema collaborando con Walter Ruttmann, di cui realizzò dei fotomontaggi per il film “Berlin, Symphony of a Great City”.
Round of cards, Otto Umbehr, 1935.
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Questi sono anni in cui Umbo lavora freneticamente: inventa una forma nuova e del tutto personale di ritratto; fa esercizio fotografando soprattutto gli amici artisti e in particolare una giovane attrice, Ruth Landshoff. Le sue foto vengono pubblicate da diverse riviste e giornali ed esposte in mostre sia personali che collettive. Il suo modo di ritrarre apre la strada a quella che verrà definita l’avanguardia fotografica tedesca. La sua fama gli permette di insegnare fotografia alla scuola di Johannes Itten, che era stato il suo maestro di pittura all’epoca della Bauhaus. Nel 1928 è fra i fondatori della berlinese Dephot, un’agenzia fotografica che segna un nuovo stile nel fotogiornalismo ante-guerra
ed è ricordata come la fondatrice del moderno foto-reportage. Realizza molti foto-ritratti di gente del mondo dello spettacolo ma all’avvento del nazismo, nel 1933, l’agenzia viene chiusa. Umbo in questo periodo presta il suo laboratorio fotografico ad un fotografo comunista, Ernst Thormann, e riproduce dei documenti segreti riguardanti l’incendio del Reichstag. Durante il nazismo lavora come fotogiornalista, ma come artista non ha più la possibilità di seguire la sua personale linea estetica e di mostrarla al pubblico per sondarne le reazioni. Nel 1943 i suoi archivi vengono incendiati durante un bombardamento alleato e la stragrande maggioranza del suo lavoro va letteralmente in cenere.
Traumende, Otto Umbehr, 1928.
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Negli anni confusi del primo dopoguerra si trasferisce ad Hannover con la moglie e poco dopo nasce Phyllis, la figlia. In quel periodo comincia a fotografare le immagini delle rovine, dei bombardamenti, degli ex-prigionieri dei campi di concentramento, in una parola svolge un lavoro di documentazione, ma gli anni del suo successo dell’epoca di Weimar sono ormai lontani, finiti per sempre, ingoiati dalla guerra. Lavora però anche per la Kestnergesellschaft, una galleria d’arte molto prestigiosa che era stata fondata nel 1916 ad Hannover e le tirature originali dei suoi lavori legati a quel periodo sono oggi molto ricercate perché estremamente rare e di gran pregio. Ciò che caratterizza il lavoro di Umbo fotografo, soprattutto negli anni Venti e Trenta del Novecento, è l’utilizzo dei forti contrasti ombra-luce e l’uso di pro spettive e di ritagli insoliti per l’epoca. Con la sua espressività e la sua poetica si inserisce perfettamente nella corrente artistica
tedesca degli anni ’20 conosciuta col nome di “Nuova Oggettività”, la stessa a cui appartennero fotografi del calibro di Sander e Renger-Patzsch. Il tema principale dei suoi lavori dell’epoca è la città che lentamente si sta trasformando in metropoli e di cui lui fa il ritratto attraverso l’occhio del flaneur attento e non privo di personale originalità. Diversi suoi lavori sono montaggi e collages fotografici. Dopo il buio del dopoguerra, nel quale sopravvive grazie a piccoli lavori, alla fine degli anni Settanta arriva per lui un periodo di rinascita grazie alla riscoperta di alcuni suoi lavori miracolosamente salvatisi dall’incendio del suo laboratorio durante la guerra. E questa riscoperta innesca una rivalutazione del suo ruolo nell’avanguardia tedesca. Realizza così diverse esposizioni internazionali e torna timidamente alla ribalta del grande pubblico ma non fa in tempo a godersi appieno questa seconda fase di notorietà perché muore il 13 maggio del 1980.
The Roving Reporter, Otto Umbehr,1926
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WANDA WULZ Erede della dinastia di fotografi Wulz, attivi a Trieste dal 1868, è l’unica donna, oltre Tina Modotti, nel panorama della fotografia italiana. Le sue sperimentazioni, apprezzate da Marinetti, sono di un’essenziale eleganza formale e le sue opere sono conservate in molti importanti musei Unica donna del panorama italiano della fotografia, se si esclude la più famosa Tina Modotti, unica futurista a dedicarvisi professionalmente (Marisa Mori se ne occupa solo sporadicamente), Wanda Wulz partecipa alla mostra futurista di fotografia di Trieste del 1932 organizzata da Bruno Sanzin, ed entra ufficialmente a far parte del movimento. Nasce a Trieste nel 1903 (e vi muore nel 1984), periodo a cavallo tra i due secoli che vide la città assurgere al massimo splendore quale centro dell’irredentismo italiano e della cultura internazionale. La famiglia è una vera e propria dinastia della fotografia: il nonno Giuseppe Wulz (1843-1918) apre lo Studio Fotografico omonimo nel 1868, dove lavorerà il figlio Carlo (1874-1928), a cui le figlie Wanda e Marion si uniranno. Alla morte del padre nel 1928, Wanda venticinquenne assume la direzione che manterrà con la sorella fino al 1981. Benché non mancassero le frequentazioni interessanti, le due sorelle scelsero di non sposarsi, concentrando sulla vita professionale tutte le loro energie. Wanda mostra una particolare predilezione per la ricerca fotografica e, accanto alla consueta attività lavorativa, realizza scatti per proprio diletto: sul finire degli anni Venti si interessa al fotodinamismo dei fratelli Bragaglia e al movimento futurista e realizzaesperimenti con fotomontaggi, fotoplastiche e fotodinamiche di ottima qualità e grande effetto. Stupisce la soluzione personale, di essenziale eleganza formale, con cui Wulz costruisce i suoi scatti. Il corpo è il soggetto principale non solo per la sua predilezione verso il ritratto, ma anche per l’accuratezza dello studio dei movimenti o dei tratti fisici. Il manifesto di Marinetti e Tato.
La fotografia futurista del 1930 focalizza le linee di ricerca sulla fusione di prospettive, la sovrapposizione di persone e oggetti, lo studio sulla «composizione organica di diversi stati d’animo», sostanzialmente volgendosi verso la tendenza alla dissoluzione delle forme. del movimento e delle ombre.
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Gli scatti di Wanda Wulz sono costruiti con soluzioni tecniche sempre diverse, posizionati su campiture vuote, pulite, in cui risultano invece pienamente leggibili le forme pur nel sovrapporsi dei movimenti. Utilizza la doppia esposizione di un corpo in movimento, come in Esercizio ginnico, oppure la sovrapposizione di due immagini come nel famosissimo autoritratto Io + gatto. In Wunder – bar il dinamismo delle linee e la sintesi delle forze del movimento richiamano il Dinamismo di un cane al guinzaglio di Giacomo Balla del 1912. L’unica sua natura morta di questo periodo, intitolata Colazione futurista, è ottenuta con una forte solarizzazione, appare in realtà come una collezione metafisica di oggetti alla Morandi. Nel 1932 partecipa alla mostra futurista di Trieste con alcuni suoi lavori. In questa occasione riceve apprezzamenti da Marinetti che la coinvolge in altre esposizioni.
La fase sperimentale sarà tuttavia di breve durata e nel corso di pochi anni Wanda tornerà a occuparsi esclusivamente del lavoro in studio; continuerà la sua attività in collaborazione con la sorella fino al 1981 quando entrambe si ritireranno dalla vita professionale e in mancanza di eredi lasceranno il loro patrimonio fotografico alla Fratelli Alinari di Firenze. La sua intera produzione è conservata al Museo Nazionale della Fotografia Fratelli Alinari, ma le sue fotografie sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei del mondo, anche al Metropolitan Museum di New York
Io più il gatto, Wanda Wulz,1932.
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LORNA SIMPSON Lorna Simpson, nata nel 1960, è una fotografa afroamericana che si è fatta conoscere negli anni '80 e '90 con delle opere come Guarded Conditions e Square Deal. È nota soprattutto per le sue installazioni di foto-testo, i photocollage e i film. Lorna Simpson in seguito ha frequentato la School of Visual Arts di New York City, dove ha conseguito una laurea in fotografia, nel 1983. Durante quel periodo, ha fatto uno stage presso lo Studio Museum di Harlem , vedendo da vicino la pratica di David Hammons, un artista residente. Ha viaggiato in Europa e in Africa, sviluppando abilità nella fotografia documentaria, che furono i suoi primi lavori. Durante il viaggio, si è ispirata ad espandere il suo lavoro oltre il campo della fotografia per sfidare e coinvolgere lo spettatore. In seguito ha sviluppato altri studi, per diventare graphic designer. Dopo la laurea all’accademia di Belle Arti a San Diego nel 1985, la Simpson ha lavorato intensamente per espandere ulteriormente le sue idee. La sua formazione a San Diego era a metà strada tra la fotografia e l’arte concettuale.Ciò che emerse fu il suo stile distintivo di “foto-testo”. In queste foto Simpson ha inserito un testo grafico nei ritratti. In questo modo Simpson ha apportato un significato concettuale completamente nuovo alle opere. Queste opere, in genere si riferivano alla percezione delle donne afro-americane nella cultura americana. Simpson è diventata famosa negli anni ‘80 per le sue opere che combinavano ritratti di giovani donne e testi che sfidavano le concezioni tradizionali di sesso, identità, razza, cultura, storia e memoria. In primo luogo, Lorna è interessata a esplorare le identità individuali di cisacuna persona che appare nelle sue fotografie. È famosa per la sua esplorazione dell’identità femminile afroamericana. La Simpson è anche interessata all’ambiguità nel suo lavoro, include “lacune e contraddizioni in modo che non tutte le domande dello spet-
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tatore ricevano risposta”. L’ambiguità di Simpson spesso consente agli spettatori di pensare, accettare il suo lavoro e le domande più grandi che il lavoro stesso solleva. L’alto livello di sofisticazione e consapevolezza sociale della Simpson ha attirato un’attenzione molto positiva nell’uso delle questioni politiche nel suo lavoro.
Attingendo a questo lavoro, ha iniziato a creare grandi foto stampate su feltro che mostravano incontri particolari, pubblici ma che restavano inosservati. Di recente, Simpson ha sperimentato il cinema e ha continuato a lavorare con la fotografia. L’interesse per la fotografia è sempre stato accompagnato da un interesse per il cinema, in particolare nel modo in cui si costruiscono strutturalmente sequenze nei film. Lorna Simpson ha iniziato a lavorare nel cinema nel 1997 con il suo lavoro Call Waiting, ha continuato tale lavoro negli anni successivi. Ripetizioni di fotografie minimaliste crea una “interazione di testo e immagini” che si basa sulla ripetizione per accentuare la differenza che fa la razzializzazione. L’opera di Simpson del 1989, Necklines, mostra due fotografie identiche della bocca, del mento, del collo e dell’osso di una donna di colore. Il testo bianco, sono parole individuali su placche nere, implicano minacce e paure. L’ultima frase, il testo in rosso “sente scivolare il terreno da sotto di se”, suggerisce apertamente il linciaggio, sebbene le immagini adiacenti rimangano serene, non conflittuali ed eleganti.
nile con cui ha regolarmente collaborato. Il corpo è frammentato e visto da dietro, mentre la parte posteriore della testa della modella viene percepita come in uno stato di protezione nei confronti di una possibile ostilità che può prevedere a causa della combinazione del suo sesso e del colore della sua pelle. .
Is a Vibrant Source of Power, Lorna Simpson, 1990.
Easy for Who to Say , il lavoro di Simpson del 1989, mostra cinque identiche sagome di donne nere dalle spalle in su che indossano un top bianco simile alle donne ritratte in altre opere di Simpson. I volti delle donne sono oscurati da una forma ovale di colore bianco, ciascuno con una delle seguenti lettere all’interno: A, E, I, O, U. Sotto i corrispondenti ritratti ci sono le parole: Amnesia, Errore, Indifferenza, Omissione, Incivile In questo lavoro Simpson allude alla razionalizzazione nel cinema etnografico e alla revoca della storia affrontata da molte persone di colore.10 Il lavoro di Simpson creato nel 1989, è un collage dove ha assemblato frammenti di immagini Polaroid, di un modello femmi-
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Le complesse associazioni storiche e simboliche di acconciature afro-americane sono anche messe in gioco. Il messaggio del testo e il trattamento formale dell’immagine rafforzano il senso di vulnerabilità; si può anche notare che le figure, sebbene in pose simili, differiscono leggermente nella posizione dei piedi, dei capelli e delle mani della figura. Queste sottili differenze potrebbero suggerire “la relazione mutevole del modello con se stessa”. La frammentazione e la serializzazione delle immagini corporee interrompe e nega la totalità e l’individualità del corpo; nel tentativo di leggere il lavoro, lo spettatore è provocato a confrontarsi con storie di appropriazione e consumo del corpo femminile nero. Simpson ha anche incorporato la complicata relazione che le donne afro-americane hanno con i loro capelli naturali nelle sue parrucche, opera fatta nel 1994. Le parrucche di Simpson, non includono figure, suggeriscono esemplari scientifici. Secondo la pagina Museum of Modern Art,
Autoritratto, Lorna Simpson, 1990.
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Learning, il lavoro ha varie sfumature sociali e politiche sulla cultura circostante e sugli standard di bellezza che la cultura produce. In quanto tale, il lavoro costringe lo spettatore a chiedersi perché tali standard di bellezza esistano e come siano perpetuati dalla società. Sebbene il lavoro di Simpson fosse spesso incentrato su problemi di memoria personale, nel 2009 Simpson ha introdotto l’autoritratto nel suo corpus di lavori. Le sue serie dal 1957 al 2009 includevano fotografie vintage in bianco e nero che raffiguravano “immagini ritrovate in stile pinup di una giovane donna afroamericana”, gli autoritratti della Simpson, riproducevano lo sfondo e la posa della modella nel contesto di oggi. Simpson ha così ricreato una narrazione di ideali di bellezza che ha escluso le donne di colore negli anni ‘50. Nel 2009, ha creato un pezzo chiamato maggio, giugno, luglio, agosto. In questo lavoro, Simpson ha combinato le sue fotografie insieme a una serie di foto che ha acquisito tramite eBay. Le foto che aveva comprato erano di una donna e di un uomo non identificati, in pose messe in scena e attraenti. Quando ha ricevuto le foto, le ha appese al muro dove sono rimaste per mesi. Alla fine, ha deciso di ricreare le immagini scattando alcune foto di se stessa, nella stessa posa e vestiti della donna ritratta nelle fotografie acquistate. L’uso di “figure ritratte” era usato non solo per “rifiutare lo sguardo”, ma anche per “negare qualsiasi presunto accesso alla personalità, e per confutare sia le pulsioni classificatorie sia le proiezioni emotive. È stato anche suggerito che queste figure “rappresentano il modo di una generazione, di guardare e mettere in discussione la rappresentazione fotografica”. I suoi collage erano formati da diversi strati che comprendevano pezzi di foto giornali, ma anche colori. Lei infatti applicava tutti gli elementi su una foglio molto grande, si solito di un colore neutro, poi inseriva tutti i soggetti scelti, e una volta completata la composizione andava a renderla definitiva applicando del colori liquidi, specialmente nei capelli delle modelle ritratte
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MISHA GORDIN Tra i più talentuosi e conosciuti fotografi a livello mondiale è Misha Gordin, nato nel 1946 a Riga, quando la capitale della Lettonia faceva parte dell’Unione Sovietica. Nelle sue foto si vede chiaramente ancora vivo il ricordo della sua infanzia, epoca di ricostruzione e di stenti, quando la drammaticità dell’esistenza prese il sopravvento dopo la Seconda Guerra Mondiale. Tutto questo non lo abbandonerà mai, le sue foto saranno sempre bellissime, emblematiche, fortemente caratterizzate da quella prerogativa umana che è la volontà, unica possibilità di contrastare un ambiente oscuro e ostile. Autodidatta, studia Ingegneria, poi si impiega come costruttore di effetti speciali e dopo si impegna totalmente nella fotografia, passione che coltivava già dall’eta di 19 anni. Nel 1974, emigra negli Stati Uniti perché l’oppressione del regime lo limita e diventa insopportabile.Da qui in poi una carriera costellata di successi indiscussi ne ha fatto uno dei più famosi fotografi di tutti i tempi. Legato alla fotografia in bianco e nero di cui ha visto crescere gli sviluppi, non la abbandona mai, e nemmeno si avvantaggia con le recenti tecniche fotografiche digitali o le elaborazioni di immagini computerizzate. Misha Gordin continua a fotografare con macchine analogiche, di cui ormai conosce tutti i dettagli e i possibili impieghi. Le sue foto sono massicciamente manipolate ma attraverso la sovrapposizione delle immagini usata nella classica camera oscura. Ogni sua opera è fortemente voluta e studiata attraverso un lungo processo di fotografia, montaggio e manipolazione in camera oscura ed è frutto di una forte meditazione e idealizzazione. Misha Gordin crea prima l’immagine nella sua mente, poi attraverso la posa già impegnativa e processi tecnici molto complessi le dà consistenza.
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Folla N°8, Misha Gordin, 1988.
L’essere umano è al centro di ogni sua immagine, la forza dell’umanità che riesce a evadere dall’oscurità dello sfondo è il suo soggetto principale. Misha Gordin usa il corpo umano non solo come espressione dell’uomo, riesce a dargli nuove forme, con impensabili angolazioni di visualizzazione, in questo modo le sue foto acquistano un valore enigmatico oltre che estetico e ideologico. La sua è stata definita una “Fotografia Concettuale” ma questa definizione è for-
se riduttiva e non tiene conto del grande lavoro che Misha Gordin deve fare per ogni opera, per darle quella qualità, quella visione d’insieme che anche se non ci fosse una profonda idea basilare basterebbero a farne un capolavoro. Surrealiste, simboliste, allegoriche ma anche esteticamente stupende, le opere di Misha Gordin lasciano il segno spesso nell’apparente semplicità dell’idea che in realtà nasconde l’enorme lavoro di una personalità di incredibile talento.
La Quinta Colonna, Misha Gordin, 1982.
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CLAUDE CAHUN Lucy Renee Mathilde Schwob, era una fotografa, una scrittrice, un’artista surrealista e una performer celebrata dalla storia dell’arte, grazie ai suoi autoritratti ambigui. Il primo autoritratto di Lucy Schwob risale al 1913, quando ha 19 anni. Lucy Schwob era ossessionata dalle differenze di genere e usava se stessa come soggetto di studio. La sua ricerca era di carattere politico e personale e ambiva a sfumare i concetti statici e tradizionali dei ruoli di genere. Un anno dopo, inizia a esplorare l’argomento anche attraverso la scrittura e firma un articolo con Suzanne Malherbe, con gli pseudonimi Claude Corlis e Marcel Moore per la rivista letteraria Mercure de France.
Da allora inizia anche a usare nomi maschili finché non trova quello che le calza di più, e dal 1917 Lucy Schwob diventa Claude Cahun. Scrive molti contributi per la stampa francese, incluso il giornale di famiglia, soprattutto recensioni letterarie di scrittori importanti. Nel momento in cui adotta il nome Claude, inizia anche a radersi la testa e dal 1910 comincia a dichiarare di rifiutare attivamente e esteriormente le costruzioni sociali di genere e identità sessuale. Una sorta di Asia Kate Dillon, anche se è probabile che l’attrice si sia ispirata a lei. All’inizio degli anni ‘20, si stabilisce a Parigi con Suzanne Malherbe. Anche lei cambia nome e quel primo pseudonimo, Marcel Moore, diventa definitivo. Vivranno tutta la vita insieme, collaborando a varie opere di scrittura, scultura, fotomontaggio e collage, collaborando con gli intellettuali della Parigi dell’epoca. Per Claude Cahun l’identità di genere è mutevole, instabile. Nei suoi autoritratti a volte è un uomo, a volte una donna, a volte androgina, a volte pesantemente truccata e in costume, a volte vestita da uomo ma truccata con la bocca a cuore. Scorrendo il suo portfolio è impossibile capire a che genere appartenesse. Trova anche il tempo per contribuire al fenomeno del teatro d’avanguardia di Parigi degli anni ‘20, e in questo contesto a volte assumere ancora nuove identità. Chi scattava gli autoritratti per qualcuno era Marcel Moore, la sorella e compagna. Ma solo alcune foto, in seguito, sono state attribuite a lei. Dalida, Juditta, Salomè, Elena di Troia, Cenerentola e Saffo: Claude Cahun le interpreta tutte e raccoglie le immagini in storie visuali intitolate Heroines, pubblicate nel Mercure de France.
Autoritratto, Claude Cahun, 1920.
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Nel 1928 conosce le opere dello psicologo britannico Havelock Ellis sull’omosessualità e l’identità sessuale, che eserciteranno su di lei una forte influenza aiutandola a definire meglio se stessa. Traduce anche in francese uno dei più famosi trattati di Havelock Ellis, Il compito dell’igiene sociale (1912) ma lo intitola, nella versione francese L’Hygiène sociale: la femme dans la société (Igiene sociale: la donna nella società). La sua prima opera che viene tradotta e pubblicata in inglese è Aveux non avenus, una sorta di autobiografia che lei definisce un “anti-memoir”. Anche questa è una collaborazione tra Cahun e Moore e includeva testo e fotomontaggi. Il libro è pieno di dubbi e contraddizioni, che esprimono però l’impossibilità di mettere a fuoco un’immagine chiara di questo personaggio. Nel 1932 Claude Cahun entra a far parte della Association des Écrivains et Artistes Révolutionnaires. Nella primavera dello stesso anno incontrò anche il fondatore dei Surrealisti, André Breton, e aderì al movimento. Breton ne restò affascinato e in seguito la definirà “uno degli spiriti più curiosi del nostro tempo”. Partecipa a progetti che criticano le forme propagandistiche e tradizionali di arte e scrittura e promuove invece l’approccio avanguardista e surrealista, secondo il quale deve essere l’inconscio a guidare la fruizione dell’arte. Nel 1933 fonda col filosofo francese Georges Bataille il gruppo culturale e politico radicale Contre-Attaque, breve esperimento destinato ad un rapido fallimento.
Collage, Claude Cahun, 1932.
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Nel 1939 fa parte della Fédération Internationale de l’Artistes Révolutionna Indépendents fondata da André Breton, Diego Rivera e Leon Trotsky, un movimento di stampo nettamente antifascista e anti-stalinista. Nel frattempo, non trascura la fotografia ed espone per l’ultima volta alla Charles Ratton Gallery di Parigi nel 1936.
Con l’ascesa del nazismo, Claude Cahun e Marcel Moore fuggono da Parigi. È il 1938 e si trasferiscono nel Jersey, l’isola nel Canale della Manica, dove avevano trascorso delle vacanze in passato. Ma sembrano braccate dalla minaccia da cui sfuggono. Nel 1940 i nazisti invadono il Jersey. Cahun e Moore danno il loro contributo alla resistenza stampando volantini firmati Soldat ohne Namen (in tedesco, soldato senza nome) con cui deridono l’ideologia nazista. Li spargono in tutto il Jersey finché non vengono scoperte nel 1944. Le due donne inseparabili vengono imprigionate, le loro proprietà e le loro opere vengono confiscate e il tribunale nazista le condanna a morte per crimini contro l’autorità nazista. Quando l’isola venne liberata nel 1945, per fortuna la condanna non era stata ancora eseguita. Come primo autoritratto dopo la prigionia, Cahun si fa fotografare con un distintivo militare nazista tra i denti. Le due donne, sorelle, amiche, compagne rimasero a vivere insieme. I maltrattamenti in prigionia hanno però minato irrimediabilmente la salute di Claude Cahun, frenandone l’attività. Morì l’8 dicembre 1954, all’età di 60 anni. Il suo lavoro, oggi, viene considerato precursore di quello di Nan Goldin e Cindy Sherman. Tutte le sue opere andarono in eredità a Moore, che era comunque la sorella (se fosse stata solo la compagna, al tempo ci sarebbero stati seri problemi). Suzanne Malherbe, che per tutta la vita era stata Marcel Moore, si trasferì in una casa più piccola. Ma la simbiosi fra le due era stata troppo forte e il 19 febbraio del 1972 Suzanne/Marcel si tolse la vita. Non aveva disposto un erede per la preziosa mole di lavoro svolto con la Claude Cahun. Tutto è finito all’asta, disperso fra tanti, troppi, piccoli proprietari.
Collage, Claude Cahun, 1932.
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DORA MAAR, UNA MUSA FOTOGRAFA Henriette Theodora Markovich, con la sua inseparabile rolleiflex, si muove sicura tra gli artisti e intellettuali che frequentano i bistrot lungo la vie lumiere. Siamo negli anni '30, anni di grandi fermenti e lei è una ragazza giovane, appena diciannovenne; è intelligente, colta, dotata di curiosità intellettuale ed è impegnata nel sociale. E' indipendente e anticonformista ed ha appena scelto la propria strada. Dopo gli studi artistici tra lezioni di fotografia e pittura sceglierà la fotografia: suo nome d'arte, Dora Maar. Divide lo studio con altri artisti ed in pochi anni diventa una fotografa famosa e di grande talento. Si occupa di fotografie pubblicitarie e di moda utilizzando tecniche diverse: tagli prospettici e deformazioni, doppie esposizioni e collages, il tutto inframmezzato con immagini in cui ritrae angoli di città e scene di strada degradate con mendicanti e povertà e questa sarà sempre la sua personale e continua ricerca. Con fotomontaggi utilizza i personaggi delle foto di strada inserendoli in architetture
ribaltate da rotazioni e deformate in camera oscura. Pubblica le sue prime foto nel 1930 e l’anno seguente lavora con il fotografo ungherese Brassaï. Nel 1931, in società con Pierre Kéfer, apre uno studio fotografico, operando nel settore della moda e della pubblicità, firmando le sue foto Kéfer-Dora Maar. Di estrema sinistra, diviene famosa con la sua Rollei, per le istantanee che ritraggono la mondanità francese. Le sue foto vengono pubblicate su riviste prestigiose come Madame Figaro. Diviene prima la compagna del cineasta Louis Chavance, e in seguito del poeta Georges Bataille. Espone all’Internazionale della fotografia di Bruxelles e alla mostra dello studio Saint-Jacques per la “Constitution des Artistes Photographes”. Georges Bataille la introduce nella cerchia dei surrealisti, dove conosce Breton, Eluard, Leiris, Man Ray. Prende parte all’attività del gruppo con alcune foto e fotomontaggi; ritocca i negativi, utilizza solarizzazioni, collage, fotomontaggi e sovrapposizioni.
Senza titolo, Dora Maar, 1934.
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La Maar era già conosciuta come fotografa prima di incontrare Picasso. Il primo incontro avvenne a Parigi nel 1935 sul set del film Le crime de Monsieur Lange di Jean Renoir quando lei aveva 28 anni e lui 54. Il secondo sulla terrazza del caffè Les Deux-Magots a Saint-Germain-des-Prés dove Dora, seduta da sola a un tavolino. Li presentò il famoso poeta Paul Éluard, che accompagnava Picasso. Il pittore si fece dare i suoi guanti insanguinati e li espose su una mensola del suo appartamento. Picasso era affascinato dalla bellezza e dallo spagnolo fluente di Dora, che era cresciuta in Argentina. Poco dopo quest’incontro trovò a Picasso un nuovo appartamento in affitto, in Rue des Grands-Augustins, mentre lei restò nella casa dietro l’angolo, potendo accedere allo studio dell’artista solo su invito. Picasso adorava umiliare Dora, tanto da convincerla ad abbandonare la fotografia per la pittura, campo in cui non poteva competere con l’artista. La faceva ingelosire, essendo ancora legato a Marie-Thérèse Walter, che gli aveva dato anche una figlia, Maya. L’ormai ex-fotografa fu sopraffatta dalla personalità del pittore: divenne la sua musa privata e la ritrasse in numerosissimi dipinti, ma era vista anche come l’incarnazione stessa del dolore. Picasso iniziò a dipingere Guernica usando il volto di Dora per ritrarre la figura che sorregge la lampada al centro, e lei, affascinata dalla potenza figurativa del dipinto, riprese in mano la macchina fotografica e cominciò a scattare. Gli scatti fotografici che la resero famosa al mondo artistico testimoniano ancora oggi l’evoluzione dell’opera e furono pubblicati nel numero 4-5 della rivista Cahiers d’art del 1937 . Insieme, lei e Picasso studiarono diversi tipi di stampe con Man Ray. La loro relazione durò quasi nove anni. Dora Maar fu lasciata da Picasso, che nel 1943 aveva appena incontrato la giovanissima Françoise Gilot, e cadde in una profonda depressione, soffrendo anche per la propria
sterilità, che la costrinse a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica. Fu sottoposta a numerosi elettroshock e presa in cura dallo psicanalista dello stesso Picasso, Jacques Lacan, che riuscì a farle accettare la malattia. Le opere di Dora però rimasero nella storia dell’arte, per la loro bellezza e la grande dedizione che l’artista ha dato. Nei fotomontaggi si può notare con quanta cura l’artista sovrapponeva le immagini con le diverse tecniche, per ottenere dei lavori di massima precisione; rispecchiano l’anima dell’artista, che, anche se ha dato se stessa fino alla pazzia, è riuscita ad ottenere una piccola fama che la farà ricordare per sempre nel mondo dell’arte.
Mannequin-étoile, Dora Maar, 1936.
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JERRY UELSMANN MAESTRO DEL FOTORITOCCO
Jerry Uelsmann è uno dei maestri della fotografia americana, capace di influenzare l’ambiente fotografico gli anni 60, portando alla ribalta un nuovo concetto di estetica ed un nuovo linguaggio fotografico. A metà tra il moderno ed il contemporaneo, Jerry Uelsmann attua una vera e propria rivoluzione d’immagine e di stile diventando il precursore di quella che poi è divenuta, a giorni nostri, la manipolazione digitale (tramite programmi di fotoritocco quali Photoshop) delle foto. La manipolazione messa in atto da Uelsmann è ovviamente “analogica”, attuata mediante la tecnica della la sovrapposizione dei negativi. In fase di scatto, Uelsmann, utilizza una reflex mono-obiettivo ma in camera oscura arriva ad usare fino a dodici ingranditori. Ogni negativo va in un ingranditore diverso e la carta della stampa viene spostata da un ingranditore all’altro al fine di avere più esposizioni sullo stesso foglio (e quindi sulla stessa stampa finale). In pratica, tutto il genio di Uelsmann viene espresso nella camera oscura piuttosto che in fase di scatto: per Jerry lo scatto non è fine a stesso, non è il traguardo ma è la prima tappa di un viaggio creativo in cui va formandosi l’opera d’arte. Perché di opere d’arte si trattano: Jerry Uelsmann l’arte l’ha messa in tutti gli scatti realizzati, richiamandosi a Magritte, alla letteratura, alla filosofia ed alla psicologia. I collage realizzati da Uelsmann, usando differenti foto e differenti soggetti, sono semplicemente unici; le sue immagini, i suoi lavori, hanno un fascino ed una bellezza assoluti, senza tempo.
Il talento del fotografo è proprio nel riuscire a creare in ogni scatto un mondo onirico, surreale, ricco di significati e di profondità sempre nuovo e sempre diverso. Ogni opera sembra attingere ad una fonte creativa a se stante, creando quell’insieme di destabilizzazione, meraviglia, perplessità ed inquietudine tipici delle sue opere. C’è inoltre da dire che le sue combinazioni sono sempre molto armoniche nonostante l’irrealismo. Il suo fine è quello di mostrare il mondo attraverso delle metafore per colpire la coscienza creativa di chi guarda. Nelle immagini realizzate da Uelsmann è possibile scorgere l’ombra di Minor White, suo maestro, e di Beaumont Newhal, due fotografi che hanno pesantemente influenzato la visione artistica di Jerry al punto da spingerlo al suo “nuovo modo” di concepire la fotografia: la fotografia non è più testimone della realtà. Jerry Uelsmann nacque nel 1934 a Detroit. Secondo figlio di una famiglia di droghieri, frequentò le scuole pubbliche con profitto ed iniziò ad interessarsi alla fotografia quanto era ancora un liceale . Inizialmente Uelsmann si dedicò ai servizi fotografici per i matrimoni, cercando di riprodurre le opere dei grandi artisti della fotografia nel tentativo di perfezionarsi ma permettendo sempre alla sua creatività di irrompere nel suo lavoro, fidandosi del suo istinto e del suo intuito. Dal 1955 al 1960 studiò presso il Rochester Institute Tecnology dove ebbe modo di apprendere le tecniche fotografiche da White Minor. Presso l’Indiana University, nel 1958, lavorò come assistente di laboratorio ma ben presto optò per il dipartimento d’arte, dove studiò storia dell’arte. Nello stesso periodo, Jerry venne insignito dalle due
università di due importanti riconoscimenti, ovvero il “Bachelor of fine arts” (Rochester Institute Tecnology) e il “Master of fine arts” (Indiana University). Nel 1960 si iscrisse all’Università della Florida, iniziando nel contempo a rivoluzionare il mondo espressivo della fotografia. Nel corso dello stesso decennio, Jerry Uelsmann tenne varie mostre personali tra cui, nel 1967, un’esposizione al MOMA che gli permise di vincere il Guggenheim Fellowship. Nel 1966 affiancò alla sua professione (o meglio, passione) fotografica quella dell’insegnamento inizialmente in Florida e successivamente all’Indiana University. Negli anni 70 vinse numerose borse di studio fra cui una all’Università della Florida nel 1971 ed una nel 1972 presso il The National Endowment. L’anno seguente (1973), Uelsmann divenne ufficialmente membro della Royal Photographic Society inglese. In questi anni si trasferì definitivamente in Florida, innamorandosi della cittadina di Gainesville. Fra il 1974 ed il 1977 esose la sua prima monografia, ricevendo il certificato di merito di Publication Designers ed il certificato di Eccellenza dall’American Institute of Graphic Arts per i contributi al New York Times. Nel 1978 tenne probabilmente la sua mostra più importante, curata da Swarovski, al MOMA, che gli permise di ottenere una notevole visibilità internazionale. Oltre l’esposizione in questione, Uelsmann ha esposto in tutto il mondo, in centinaia di eventi. Jerry Uelsmann, attualmente, vive a Gainesville con la sua terza moglie Maggie Taylor, anche lei artista, ed il figlio Andrew.
NON SEMPRE TUTTO È REALE
IMPARARE A RICONOSCERE LE IMMAGINI Non sbagliava Susan Sontag quando sosteneva che “un evento diventa reale – agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto “notizia” – perché è fotografato”; e le immagini fotografiche, quali ci vengono quotidianamente e insistentemente proposte, a differenza di quelle in movimento (televisive o filmiche), “forniscono un modo rapido per apprendere e una forma compatta per memorizzare”, tanto che “la familiarità di certe fotografie plasma la nostra conoscenza del presente e del passato più recente”, e la loro ampia diffusione forma addirittura una memoria collettiva, che “eclissa altre forme di comprensione e di ricordo”11 Ogni volta che ci mostrano un’immagine non è detto che sia vera. La manipolazione della verità nei nostri giorni è una cosa continua. Ma lo era anche negli anni passati. Nelle pagine seguenti vedremo come diverse immagini furono fatte passare per “fotografie reale”, quando invece sono state “messe in scena” prima dello scatto o a volte create con più negativi. Molti giornali, inseriscono delle didascalie sotto le foto, per chiarire che le immagini
mostrate possono essere modificate, e quindi non un’immagine del tutto reale. Eppure anche nel lasciarci ossessionare dall’atrocità non possiamo concederci di sospendere il pensiero vigile, perché quelle stesse immagini non possono confondersi nella marea di sollecitazioni visive in cui siamo immersi e rischiamo di perderci smarrendo la concentrazione e la concatenazione tra l’immagine, che è rappresentazione, e la realtà che ha prodotto quell’immagine, che la precede e la segue. Il rischio dell’immagine è quello di obliterare il pensiero, impedendoci in ultima analisi di capire. E intorno alle immagini si scatena una guerra nella guerra, che riguarda il controllo e la manipolazione delle informazioni in senso specifico, il condizionamento, e, sempre più spesso, l’annichilimento delle nostre coscienze. Spesso, scarsa cultura e informazione portano a facilitare l’inganno della mente. Il gioco di manipolare le immagini è stato utilizzato per diversi campi, come nelle pubblicità, come abbiamo già detto nella propaganda, ma anche per solo divertimento.
Dopo il terremoto. Haiti, Jan Grarup, 2010.
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Con la perfezione della stampa a mezzi toni nel 1890, giornali e riviste iniziarono a pubblicare regolarmente fotografie. Erano ancora agli inizi, tuttavia, gli standard di veridicità erano in evoluzione. Le fotografie di notizie dovevano essere testimoni oculari rigorosamente fattuali o potevano essere modificate e abbellite dopo il fatto, come i disegni degli artisti sui giornali.
Americano attivo, John Paul Pennebaker, 1953.
I redattori di notizie, che da tempo si affidavano a illustrazioni disegnate a mano, scoprirono presto che la fotografia era soggetta a una serie di fastidiosi limiti, il più fondamentale dei quali era il requisito che il cameraman fosse presente in una scena. Nel corso del ventesimo secolo, le fotografie dei giornali sono state regolarmente modificate, migliorate e talvolta fabbricate nella loro interezza per rappresentare eventi che non potevano essere fotografati perché le condizioni rendevano le fotocamere inutilizzabili o indesiderate. Negli anni '30 la fotografia era diventata il mezzo di scelta nella pubblicità stampata. I direttori artistici hanno abbracciato la capacità della fotocamera di produrre immagini che non solo rispecchiassero la realtà, ma la modellassero anche per riflettere i desideri dei consumatori.
Pubblicità “sugli scarafaggi riparatori di calze”.
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Nella gara a costruire il grattacielo più alto del mondo, l’Empire State Building di Manhattan rimane la struttura più iconica. All’inizio era di poco più alto del rivale Chrysler Building, poi nel 1929 l’investitore Alfred E Smith lo alzò di altri 60 metri, non solo per mettere più piani ma per far ormeggiare i dirigibili. La cosa fu irrealizzabile: lassù i venti erano troppo forti e nessun passeggero voleva fare la passerella in vetta. Un dirigibile però osò farlo nel 1931, attraccò per soli tre minuti e il pilota ci mise mezz’ora per la manovra.
Come le pubblicità, le fotografie di moda e di riviste sono state oggetto di manipolazione creativa in ogni fase del processo, dallo storyboard alla post-produzione. La posta in gioco era massima sulle copertine delle riviste, in cui la fotografia e il testo venivano combinati in una pubblicità a poster per la rivista. Le fotografie di trucco funzionano in modo molto simile ai trucchi di magia: generano una piacevole incongruenza tra ciò che l’occhio vede e ciò che la mente conosce. In effetti, i fotografi e i maghi di scena di inizio secolo hanno condiviso molti motivi spettrali, come fantasmi e finte decapitazio-
ni, che hanno suscitato negli spettatori una simile miscela di meraviglia, scetticismo e curiosità sull’arte dietro le illusioni. Durante i primi due decenni del ventesimo secolo, la fotografia di trucco iniziò a essere commercializzata e prodotta in serie in una forma nuova e distintamente moderna: la cartolina. Mentre gli editori di cartoline europei hanno prodotto carte fantasy con visioni di amore e desiderio erotici, le loro controparti americane hanno adattato la tradizione di frontiera del “racconto alto”, creando immagini di colossali conigli, pesci e gigantesche spighe di grano.
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FOTOGRAFIE MODIFICATE
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Alcune immagini modificate con dei fotomontaggi per creare realtà bizzarre e divertenti. Partendo dalle immagini in alto a sinistra: Jimi Hendrix che suona una fisarmonica È un fotomontaggio, l'originale è qui. Albert Einstein in bici davanti al fungo di un’esplosione nucleare È un fotomontaggio, la foto originale (scattata in un cortile) è questa. Dalì che disegna un pene sulla fronte di una donna, firmandolo “Picasso” Anche questa foto è un fotomontaggio: il soggetto del disegno era un altro (e la donna nella foto era sua moglie Gala).
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LE FATE DI COTTINGLEY Era il 1920 quando un paio di fotografie di fate e gnomi fecero il giro del mondo creando scompiglio tra scettici e persone autorevoli. Le foto erano state scattate tre anni prima, nel 1917, da due cugine: Frances Griffiths, di 10 anni, e Elsie Wright, di 16, mentre giocavano in una radura, ma nessuno le aveva prese seriamente in considerazione fino a quando non giunsero nelle mani di sir Arthur Conan Doyle. Per comprendere a fondo la storia delle fate di Cottingley è importante inquadrare innanzitutto il contesto storico in cui essa si svolse. Siamo in Inghilterra alla fine della prima guerra mondiale: tutte le famiglie hanno perso qualcuno nel conflitto e molti tentano di contattare i propri cari scomparsi attraverso i medium. Lo spiritismo si diffonde ovunque e se da un lato personaggi come Houdini tentano invano di smascherarlo, dall’altro personalità come Doyle si aggrappano a qualunque appiglio per dimostrarne la fondatezza. Conan Doyle, personaggio chiave di questa vicenda, era stato nominato Cavaliere della Corona e godeva di grandissima fama e rispetto: nessuno avrebbe mai osato mettere in dubbio una sua affermazione perché si riteneva che Doyle non avrebbe potuto commettere un errore su nessun argomento. Dopo la morte in guerra del figlio Kingsley, egli aveva cercato conforto nelle sedute spiritiche, diventando ben presto uno strenuo difensore dei sensitivi. Le foto di fate che ricevette da Edward L. Gardner, membro del comitato esecutivo della Società Teosofica, lo riempirono di gioia perché, dichiarò, la dimostrazione dell’esistenza delle fate avrebbe reso più facile ammettere l’esistenza di altri fenomeni psichici. Le foto sono state scattate in una radura a Cottingley, nello Yorkshire, dove le due cugine trascorrevano le vacanze estive.
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Nella foto numero 1 si vede Elsie insieme a quattro fate che danzano. Nella foto numero 2 Frances è seduta sul prato e gioca con uno gnomo. Le due ragazze provenivano da una famiglia di lavoratori, gente semplice, e pertanto la loro onestà non venne mai messa in dubbio. Le foto furono sottoposte ad alcuni esperti, tra cui H. Snelling, uomo con più di 30 anni di esperienza nel campo fotografico. Secondo Snelling vi erano sufficienti prove per ritenere che le foto fossero autentiche. Tra le prove, venne dato grande risalto al fatto che la lastra era stata esposta solo una volta. Anche alcuni esperti della Kodak ana-
lizzarono le immagini, confermando che non vi erano tracce di doppie esposizioni né altri trucchi, tuttavia dissero di essere in grado di riprodurre lo stesso effetto. Ma Doyle e Gardner erano convinti che le due ragazzine fossero “al di sopra di ogni sospetto riguardo a possibili trucchi fotografici”; la realtà venne a sapersi dopo diversi anni, le due ragazze continuavano a dire che le immagini non erano ritoccate, ed avevano ragione, non avevano manipolato la fotografia, ma semplicemente avevano preparato la scena con delle figurine di carta ritagliate da alcune illustrazioni.
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FOTOGIORNALISMO TRA FINZIONI E REALTÀ
IL FOTOGIORNALISMO Le due parti che compongono la parola fotogiornalismo, ne precisano chiaramente il significato: fare informazione (raccogliere, valutare, diffondere notizie) privilegiando come mezzo espressivo la fotografia. Il termine è nato negli anni Trenta nella forma di fotogiornalista. La tesi è sostenuta spesso con vari argomenti, primi tra tutti quello dell’oggettività della fotografia e quello dell’universalità del suo linguaggio. Ambedue gli argomenti sono espressione di una notevole ingenuità. Pur concedendo alla fotografia di essere orma chimica della luce riflessa da oggetti reali, non si può ignorare che il processo di produzione di quest’orma è modificabile in così tanti modi da parte del fotografo, che il risultato può essere più il frutto della sua intenzione che non dei raggi di luce penetrati dentro l’obiettivo. Il fotografo di fatto elabora un suo “testo”e usa il processo fotografico per “scriverlo”, esprimendo così una sua impressione e un suo giudizio su quanto vede; come tutti gli altri comunicatori può utilizzare i dati oggettivi o può ignorarli e sovrapporvi il proprio sistema di attese (affermando il falso, magari soltanto con la rinuncia a fare la ripresa, quando ciò che vede non corrisponde a quanto vuol dire). Può essere utile un paragone: se il cacciatore venisse a sapere che la volpe ha imparato a lasciare sulla neve non le sue tracce, ma quelle di un lupo, non continuerebbe a fidarsi delle impronte che vede, ma si preoccuperebbe di scoprire in che modo la volpe lavori per nascondere il suo passaggio, così da smascherare la bugia. L’oggettività non è frutto automatico della fotografia; è nell’intenzione e nella corrispondente azione dell’emittente e dunque è il “lettore” che deve saper formulare una sua valutazione davanti a ogni messaggio, sia esso un testo orale o scritto o una fotografia. La fotografia è una tecnica comunicativa che, oltre a segni e regole propri, usa segni
e interi testi elaborati in altri codici, da altri soggetti comunicanti. Da questo punto di vista il fotografo, più che un autore, è un regista o un direttore di orchestra; il suo contributo originale sta nel coordinare in un nuovo progetto l’apporto di altri. Non ha dunque senso affermare che esiste un unico codice fotografico, tramite il quale tutti possono leggere tutte le fotografie. Se conosco il codice usato dal fotografo potrò leggere quale intervento ha fatto, ma non ho la garanzia di comprendere ciascuno degli elementi da lui utilizzati.
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Ad esempio, quando viene fatto il ritratto di una persona, entrano in gioco messaggi di tipo prossemico (Prossemica), messaggi legati alla gestualità (ciò che dicono il volto, gli occhi, la bocca, il trucco, le mani, la positura del corpo), messaggi espressi dall’abbigliamento, dall’ambiente e dal suo arredamento. Il risultato finale – la fotografia – è sotto gli occhi di tutti, ma non è possibile affermare che tutti la leggano alla stessa maniera. È vero che la diffusione nel mondo della televisione e delle lingue occidentali (che si scrivono in modo equivalente e dunque organizzano lo spazio bidimensionale in modo simile) ha dato vita a una specie di esperanto grafico-visivo, ma non è vero che l’espressione di un viso napoletano sia trasparente per un giapponese o un lituano (e – ovviamente – viceversa). Meglio affermare che la fotografia dice molte cose e, in quel che dice, è polisemica, si presta cioè a Per completarla e per ridurne l’ambiguità molto spesso c’è bisogno dell’intervento di un testo capace di vincolare la libertà del lettore e dirigerlo sul messaggio inteso dall’emittente.
Se la fotografia non dice, o non dice a tutti, il dove, il chi, il che cosa, il come, il quando, il perché, lo scopo di un determinato avvenimento, è giocoforza ricorrere ad altri testi: possono essere anche altre fotografie ma spesso il testo scritto – nelle varie lingue – si rivela indispensabile. Non è logico dunque contrapporre la parola scritta all’immagine sulla base della maggiore veridicità e comprensibilità dell’una rispetto all’altra. Così non ha più senso contrapporre la figura del giornalista a quella del fotogiornalista (o del giornalista che lavora alla radio, in televisione, in Internet). Oggi la stessa persona può, e probabilmente deve, sapersi esprimere con tutti questi media diversi.
Lo svedese Paul Hansen, ha ricevuto il primo premio per l’oscar olandese del fotogiornalismo. Si sono create delle polemiche su alcuni ritocchi praticati nella foto: Questa immagine mostra il funerale concitato e affranto di Suhaib e Muhammad, fratellini palestinesi di due e quattro anni uccisi il 20 novembre nel bombardamento israeliano della loro casa nella città di Gaza. La polemica si fa più sottile. Sotto accusa è lo “stile” che un uso eccessivo dei “pennelli elettronici” di Photoshop o di Lightroom imporrebbe al lavoro dei fotogiornalisti, allontanandolo dalla testimonianza visuale. Quell’abbondanza di dettagli nitidissimi in una situazione movimentata. Quella luce calda che piove da sinistra, sui volti, scaturita da chissà dove, in un vicolo stretto e buio.
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FOTOMONTAGGIO, ARMA DI PROPAGANDA Preoccupati allo stesso tempo dalla guerra e dalla necessità di sostenere le forze armate e di mostrare i muscoli, le autorità vedevano nella propaganda un modo per ridurre l’ansia tra le file del popolo e di aumentare il suo spirito combattivo. In questo senso, la propaganda lavorava come un “terzo fronte” per sconfiggere il nemico, infondendo fiducia nell’esercito e lodando gli alleati. Durante la guerra nessuno poteva arrivare al fronte in assenza di una speciale autorizzazione scritta. Senza, qualunque persona con una macchina fotografica poteva essere penalmente perseguita. Le immagini dei “fortunati” fotografi inviati a scattare foto della guerra finivano sempre sultavolo dell’Ufficio di informazione sovietico, un’agenzia incaricata di coprire gli eventi internazionali, gli accadimenti mili-
tari e la vita quotidiana attraverso giornali e radio. Dopo aver passato rigorose censure e manipolazioni, diverse foto venivano unite in una sorta di patchwork e colorate con guazzo e inchiostro. Veniva chiamato “ritocco artistico” ed era fatto da persone diplomate in arte. Il passo successivo era quello di copiare e inviare le immagini manipolate alla stamperia. Le foto sul giornale apparivano unite, senza alcuna traccia di montaggio o manipolazione. Pochissimi esempi di questa “arte” possono essere ancora visti ai giorni nostri. Con il crollo dell’Unione Sovietica, molti giornali sono stati chiusi e il Fortunatamente, alcuni fotomontaggi sono sopravvissuti grazie a collezionisti privati, e ora questi rari esempi fanno capire quanto sia facile cambiare radicalmente il significato anche delle foto più “veritiere” loro materiale è stato perso o mandato al macero.
1° maggio a Mosca, B. Klinch, 1936.
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DIECI FOTOGRAFIE STORICHE MODIFICATE Prima dell’utilizzo di Photoshop le fotografie erano generalmente più veritiere e meno ritoccate, ma chi aveva disponibilità e mezzi per farle modificare tendeva ad abusare delle modifiche analogiche alle fotografie. E’ il caso della politica che, con ogni mezzo, nascondeva i personaggi che divenivano
Il leader del partito comunista cinese Bo Gu è stato drasticamente rimosso dalla foto dopo un litigio con il padre della Repubblica Cinese, Mao Zedong.
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scomodi e li rimuoveva artificialmente dalle fotografie. Se di alcune foto è facile la spiegazione dietro la rimozione (tradimenti, congiure, etc) ad altre è comunque difficile assegnare un motivo per cui le persone sparissero dalle immagini.
Joseph Goebbels fu rimosso da questa fotografia con Adolf Hitler. Le ragioni sono sconosciute
Grigoriy Nelyubov fu scelto per far parte della “Sochi” un gruppo di cosmonauti sovietici preposti all’esplorazione spaziale. Nelyubov fu rimosso dalla foto dopo che fu scoperto essere dipendente dall’alcool.
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Era molto difficile scattare un buon ritratto di Ulysses S. Grant, e questa immagine fu il frutto di tre differenti fotografia del presidente degli Stati Uniti.
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Benito Mussolini per apparire piÚ grande e imponente di quello che in realtà fosse fece rimuovere l’addestratrice del cavallo dalla fotografia.
Il corpo di Abraham Lincoln era quello di John Calhoun.
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Nikolai Yezhov fu uomo di spicco delle istituzioni russe fino al 1938, quando insieme ad altri organizzò un complotto per uccidere Stalin. Fu responsabile della morte di quasi 700.000 persone, e con ogni probabilità venne fucilato il 4 febbraio 1940.
Leone Trotsky fu rimosso dalla fotografia dopo esser stato denunciato da Vladmir Lenin
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Il sigaro di Winston Churchill fu rimosso dalla fotografia dopo che si scoprĂŹ che il fumo era nocivo
Anche la famiglia non è al sicuro con il leader della Corea del Nord Kim Jong-un. Suo zio, Jang Song-Thaek, è stato rimosso da questa fotografia dopo essere stato giustiziato per ordine del proprio nipote.
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JOHN HEARTFIELD John Heartfield (nome originario Helmut Herzfeld) nasce a Berlino, in Germania, il 19 giugno 1891. Nel 1912 trova lavoro come designer a Mannheim, dove realizza le sue prime copertine di libri. L'anno seguente si trasferisce a Berlino per studiare alla Arts and Crafts assieme a Ernst Neuman, lo segue Lena, la figlia del suo padrone di casa a Mannheim, una giovane insegnante che diverrà sua moglie. L’introduzione del fotomontaggio in arte spetta a John Heartfield, grazie alla manipolazione fotografica dedicata soprattutto al politico che gli ha fatto raggiungere l’apice espressivo. Nel 1929 Heartfield iniziò a collaborare regolarmente al settimanale di propaganda AIZ (Giornale Illustrato dei Lavoratori), che spesso pubblica fotomontaggi; Heartfield ne realizzò varie centinaia. L’avvento di Hitler al potere lo costrinse a fuggire a Praga, successivamente, in Inghilterra, dove continuò la sua sarcastica lotta contro il nazismo. Nel 1950 tornò nella Repubblica Democratica Tedesca e nel 1960 ottenne un posto di insegnante all’Accademia di Berlino. L’impegno politico di Heartfield si traduce in fotomontaggi finalizzati a denunciare le contraddizioni della Germania Nazista: l’accostamento di immagini e didascalie crea composizioni di forte impatto, giocate sul contrasto tra la crudezza e esagerazione di ciò che si vede e la descrizione che ne viene data. Uno dei fotomontaggi con cui raggiunse la fama è La mano ha 5 dita (1928), usato come manifesto per le elezioni politiche del 1928: rappresenta la mano di un lavoratore e contiene la didascalia “cinque dita fanno una mano! Con queste cinque fermi il nemico.
Adolf Hitler, John Heartfield, 1933 .
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Blood and iron, John Heartfield, 1939.
Vota la lista cinque del Partito comunista”. Si vede Hitler che riceve denaro da un enorme personaggio alle sue spalle: le due figure appartenevano a immagini differenti, unendole Heartfield crea una potente metafora visiva, intensificata dal titolo. In questo modo il borghese fuori scala, posto dietro a Hitler, è l’emblema del capitalismo, finanziatore del partito nazista. Sulla base di questo Heartfield crea una satira pungente con l’espediente dell’esagerazione: una famiglia di patrioti fedeli al regime consuma con soddisfazione un pranzo a base di oggetti in ferro, sottolineando così l’azzeramento di coscienza critica che ha subito la parte di popolo tedesco che ha aderito al nazismo. “Ingoia oro e vomita sciocchezze” rappresenta l’esofago del futuro dittatore come una radiografia: a indicare che la colonna portante del nazismo è il capitalismo. Fu realizzato per una campagna anti-hitleriana in occasione delle elezioni del ‘33 (che Hitler vincerà), è una denuncia di come il Fuhrer si arricchisca sempre più a scapito della popolazione. Il fotomontaggio è il processo e il risultato della produzione di una fotografia ottenuta tagliando e unendo due o più fotografie.
Adolf Hitler, John Heartfield, 1945..
Dangerous Dining Companions, John Heartfield, 1950.
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VALLE DELL’OMBRA DELLA MORTE La “Valle dell’ombra della morte”, un corridoio fortemente cannoneggiato sulla strada di Sebastopoli, durante la guerra di Crimea, teatro di intensi combattimenti. Le palle di cannone sulla strada sono state spostate lì, probabilmente dal fotografo stesso, Roger Fenton. Questa fotografia, la più famosa e controversa di Roger Fenton, è stata scattata il 23 aprile 1855. Raffigura una valle poco profonda, sulla strada per Sebastopoli, cosparsa di palle di cannone, soprannominata dai soldati “La valle dell’ombra della morte” per la frequenza con la quale è stata cannoneggiata dai russi. Nella famosa immagine le palle di cannone sono accumulate nei fossi sul lato della strada. Roger Fenton ne scattò anche un’altra, un’immagine con una vista minore della stessa scena, senza palle di cannone in cima alla strada. Gli storici hanno proposto molte teorie su quale foto sia stata scattata prima, e sul perché e da chi le palle di cannone siano state spostate. Un’indagine esaustiva del regista Errol Morris ha concluso, che veniva prima l’immagine con le palle di cannone sui lati della strada e che le palle erano state poi spostate sulla strada per la seconda foto. Sia che Fenton le abbia spostate lì per aggiungere dramma o una certa armonia compositiva, o che siano state gettate lì dai soldati che cercavano di salvarsi, l’apparente messa in scena delle immagini (e l’assegnazione di Fenton) è un promemoria del rischio di assumere fotografie come prove oggettive, persino 133 anni prima dell’invenzione di Photoshop.
La Valle dell’ombra della morte, Roger Fenton, 1855.
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REALTÀ MANIPOLATE
ROBERT CAPA, MILIZIANO COLPITO A MORTE È la più famosa delle fotografie di guerra, ma anche l’immagine che ha fatto più discutere per la sua autenticità e per il suo significato. “Morte di un miliziano lealista” è lo scatto più conosciuto di Robert Capa, quello che lo ha consacrato come il padre del fotogiornalismo, e più precisamente, della fotografia di guerra. L’immagine fu scattata durante la guerra civile spagnola degli anni ’30. Siamo a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e nel luglio del 1936 in Spagna i miliziani combattevano contro il fascismo di Franco. Certo, altre guerre erano già state fotografate, ma quell’immagine diventò la prima e convincente istantanea scattata in tempo di guerra. Fra i motivi per cui lo scatto ebbe un certo rilievo fin da subito fu senz’altro l’evoluzione dei mass media e la loro crescente preponderanza nella formazione dell’opinione pubblica che raggiunse il suo culmine durante il secondo conflitto mondiale. Le immagini da questo momento in poi entravano nel dibattito politico quotidiano grazie alla stampa.
L’immagine ha un’inquadratura orizzontale. La foto è statica. Racconta della guerra ma non c’è azione. Eppure quell’istantanea è diventata un’icona, il simbolo della morte violenta che avviene in battaglia. Non c’è alcun segnale che identifica la foto con un luogo, né tantomeno si capisce qualcosa del soldato, per quale fronte combattesse e in quale parte del mondo. E sta proprio in questo la forza dell’immagine, così generica da diventare universale. Nel corso di un’intervista rilasciata dal fotografo tempo dopo lo scoppio della guerra civile in Spagna, Capa raccontò che lui e il miliziano erano rimasti isolati dal resto delle truppe. Il soldato voleva retrocedere verso le linee repubblicane e continuava ad arrampicarsi su per spiare oltre i sacchi di sabbia.
Quella spagnola fu una delle prime guerre che Robert Capa scelse di documentare con la macchina fotografica appesa al collo. Il fotografo di origini ungheresi partì alla volta della penisola iberica nell’agosto del ’36, solo qualche settimana dopo l’inizio del conflitto. Capa partì insieme alla sua compagna e fotografa, Gerda Taro e scattò decine di foto che testimoniavano il conflitto visto dalla parte degli anarco-sindacalisti che combattevano il fascismo. Si spostò da Barcellona ad Aragona e a Huesca fino ad arrivare a Cordova dove prese la celebre foto. Lo scatto ritrae un soldato del fronte lealista nell’istante in cui viene raggiunto dal fuoco nemico e sta per cadere a terra. Nella composizione della foto c’è soltanto il soggetto, che tiene in mano il fucile. Sullo sfondo, il paesaggio non fa che risaltare la figura del soldato nell’atto di morire.
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Ogni volta che sentiva il rumore della mitragliatrice si lasciava ricadere all’indietro. Alla fine, il combattente si era arrampicato fuori dalla trincea e Capa lo aveva seguito. Mentre le mitragliatrici continuavano a colpire, il fotografo cadde all’indietro accanto al corpo del soldato colpito a morte. In quel momento, aveva premuto automaticamente sul pulsante di scatto, immortalando per sempre quell’irripetibile e drammatico istante. Al momento dello scatto, Robert Capa aveva appena ventidue anni e, inconsapevolmente, aveva fotografato l’immagine-simbolo della guerra. Anni dopo si seppe che il soldato ritratto si chiamava Federico Borrel Garcìa e che aveva 24 anni e proveniva da Alcoy, nel sud della Spagna. Morì nella battaglia di Cerro Muriano, sul fronte di Cordova. La prima volta che fu pubblicata l’immagine fu il 23 settembre del 1936 sulla rivista francese “Vu”. Il magazine, di sinistra, dedicò alla foto la metà superiore di una pagina doppia per un servizio giornalistico dal titolo “La guerre civile en Espagne”. L’immagine del miliziano fece la seconda apparizione su “Life”, appena un anno dopo, nel numero del luglio 1937, in occasione della commemorazione delle vittime del conflitto spagnolo. Anche Capa utilizzò l’immagine come copertina del suo libro “Death in the making”, che pubblicò, insieme a Gerda Taro, con le immagini della guerra civile spagnola. Robert Capa non si fermò a fotografare il conflitto in Spagna. Documentò, in tutta la sua vita, numerose guerre, fra cui la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1931 si era trasferito a Berlino per studiare Scienze Politiche e con l’avvento del Nazismo fu costretto ad emigrare a Parigi. Qui conobbe, fra gli altri, il fotografo Henri Cartier Bresson con il quale, anni dopo, avrebbe fondato l’Agenzia Magnum. Nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, si trasferì negli Stati Uniti. Nel 1954 fu inviato da “Life” in Indocina per documentare, ancora una volta la guerra. Qui, però, avrebbe trovato la morte, in seguito allo scoppio di una mina.
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Questa fotografia fece molto discutere sulla sua autenticità. Molti analizzarono i negativi per risalire alla verità. Capa affermava che era stato uno scatto involontario. I sospetti sorsero per la prima volta quando gli esperti scoprirono che la foto non era stata scattata a Cerro Muriano, dove sosteneva Capa, ma nella città di Espejo, a circa 35 miglia di distanza. Sono anche emerse accuse secondo cui la foto stessa era un evento in scena, sebbene non vi siano prove conclusive. In un secondo fotogramma di Capa della stessa posizione, pubblicato sulla rivista francese Vu nel 1936, si può vedere un altro soldato caduto esattamente nella stessa posizione. I fotografi di guerra esperti ritengono straordinariamente improbabile che il corpo del primo soldato possa essere rimosso e un secondo uomo ucciso nella stessa posizione - e che Capa fotografi anche questa morte. Secondo Ara Guler 93enne, uno degli ultimi fotografi dell’agenzia Magnum ancora in vita, la leggendaria foto di Robert Capa, il “miliziano colpito a morte” ritratto durante la guerra civile spagnola, non fu opera del celebre fotografo, ma di una donna che era con lui, forse una sua assistente, che creò così una delle immagini più iconiche del XX secolo, il cui merito però andò al fotoreporter di origine ungherese.
DA NOTARE Il primo miliziano ha una camicia chiara, mentre il secondo ha una divisa scura; ha le scarpe scure mentre il secondo sembra indossare espadrillas chiare; ha tre giberne tenute dagli spallacci, il secondo ne ha solo due alla cintura; l’altezza ed il tipo di stratificazione delle nuvole sono uguali; i profili montuosi che si stagliano sull’infinito sono uguali; sempre all’orizzonte, sulla destra delle foto, quelli che sembrano essere campi coltivati, sono uguali; l’inclinazione del terreno di caduta dei miliziani è la stessa; l’ombra dei due miliziani ha la medesima angolatura; entrambi i soggetti sono isolati dal contesto in cui agiscono e si stagliano su uno sfondo neutro; un evidente controluce enfatizza la drammatica morte.
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Le fotografie che raffigurano la sofferenza non dovrebbero essere belle, così come le didascalie non dovrebbero essere moraleggianti. In quest’ottica, infatti, una bella fotografia sposta l’attenzione della gravità del soggetto rappresentato al medium in sé, compromettendo così il carattere documentario dell’immagine. Una fotografia del genere invia segnali contraddittori. “Fermate tutto ciò” ingiunge. Ma al tempo stesso esclama”Che spettacolo!” Susan Sontag, “Davanti al dolore degli altri”, 2003
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LA STRAGE DI TIMISOARA “Il massacro di Timisoara” raccontato dai media di tutto il mondo è stato uno dei casi di disinformazione più eclatanti degli ultimi vent’anni. A pochi giorni dal Natale del 1989 gli spettatori del mondo intero si commossero di fronte al “vero” volto dell’oppressione comunista del regime di Ceausescu vedendo i corpi dei ribelli torturati e poi uccisi dalla polizia del dittatore. Ancora oggi, nonostante la certezza che si trattò di una messa in scena, è difficile dimenticare l’impatto emotivo di quelle immagini toccanti che diventarono parte della nostra memoria storica. L’agenzia di stampa ungherese Mti raccolse la voce di un anonimo cittadino cecoslovacco che raccontava la sua esperienza nella battaglia. Un paio di giorni più tardi le fonti delle notizie per i giornalisti di tutto il mondo diventarono i cittadini che riuscirono a varcare la frontiera. L’agenzia Adn dell’ex Germania comunista fornì per prima la notizia della “tragedia”. “Ci sono 4.660 morti, 1860 feriti, 13.000 arresti, 7.000 condanne a morte”. Il giorno dopo la Tv di Stato ungherese diffuse la notizia del ritrovamento della prima fossa comune.
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Da tutte le televisioni del mondo occidentale cominciarono a provenire immagini di corpi mutilati, appena disseppelliti. Le notizie sulla strage causata dalla rivoluzione contro il regime di Ceausescu rimbalzarono di agenzia in agenzia, raggiungendo le case di milioni di persone. I racconti furono dettagliati e precisi: 4.362 morti e 13.214 i condannati a morte. I corpi, appena esumati, erano in parte ricoperti di terra: quasi tutti con una lunga ferita, dall’alto in basso sul torace, grossolanamente ricucita. In particolare l’immagine che commosse gli spettatori fu quella del corpo di una donna che giaceva supino e, sopra di lei, il minuscolo cadavere di una bimba, apparentemente appena nata, che la stampa si affrettò a identificare come madre e figlia.Solo a partire dal 24 gennaio 1990 cominciarono a circolare le prime smentite rispetto alla rivolta di Timisoara. Una rete televisiva tedesca trasmise alcune testimonianze oculari dalla cittadina, secondo cui le immagini di orrore e la scoperta delle fosse comuni erano una messa in scena. Anche l’agenzia di stampa France Presse scrisse che le immagini dei cadaveri mutilati mostrati dalle televisioni non erano altro che una messa in scena. Raccolse la testimonianza di tre medici di Timisoara che affermarono che i corpi di persone decedute di morte naturale furono prelevati dall’istituto medico legale della città ed esposte alle telecamere della televisione come vittime della Securitate. Quando si ebbe la certezza che la “strage di Timisoara” non aveva niente a che fare con la realtà e che si trattava di un falso giornalistico costruito attraverso la televisione, furono pochissimi gli organi di stampa a riferirlo ai lettori.
Risultò che madre e figlia assassinati erano rispettivamente Zamfira Baintan, un’anziana alcolizzata morta a casa sua di cirrosi epatica l’8 novembre del 1989, e la bimba Christina Steleac, morta per una congestione, a casa sua, a due mesi e mezzo di età, il 9 dicembre 1989. Nel caso di Timisoara i mass media non si preoccuparono mai di accertare i fatti e le fonti, che rimasero sempre anonime, anche quando i giornalisti riuscirono ad oltrepassare la frontiera e ad arrivare in Romania. I creatori di questa eccezionale manipolazione giornalistica non sono mai stati identificati con certezza, ma rimane l’illusione della storia in diretta, creata dalle immagini delle fosse comuni. L’evento mediatico riuscì a soppiantare la realtà e rimane ancora oggi vivo nella memoria storica della “civiltà occidentale”. In verità nei disordini di piazza del dicembre 1989 a Timisoara ci furono 72 morti e 253 feriti distribuiti tra i
Da indagini più approfondite emerse che quei corpi provenivano da un cimitero dei poveri: le ferite sul torace non erano i segni della tortura, ma dell’autopsia. Si rivelò inoltre, che le salme riesumate erano in tutto 13: corpi di sventurati barboni sepolti nei mesi precedenti.
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INGANNARE LA REALTÀ I fotogiornalisti sono lì dove i fatti accadono, ci mostrano i volti dietro l’evento, e a volte ci costringono a sentirci parte della scena. Se leggiamo un testo o un articolo senza nessuna immagine, abbiamo come l’impressione che manchi qualcosa; questo accade perché una storia senza fotografia è come un corpo senza cuore. Le fotografie ci forniscono una prova e ci danno una conferma che il fatto è realmente accaduto. Ma non sempre è così. Quando si pensa al fotogiornalismo, si ha l’idea che il fotografo sia esattamente sul luogo dove i fatti accadono a spiare l’evento, a osservarne i dettagli e a documentare un frammento di realtà. Infatti la caratteristica principale dell’immagine fotografica è proprio quella del frammento, il saper “cogliere un attimo” che dura per sempre, questo è anche il motivo per cui spesso l’immagine ha avuto la funzione di testimone, con un’ immediatezza e un’efficacia che difficilmente un articolo può avere. Se prendiamo per esempio la storica rivista fotografica Life, si è detto che ebbe la capacità di portare la guerra nella casa degli americani, ma soprattutto: portò gli americani nei luoghi di guerra.
E fu davvero così. Ma oggi, più di ieri, con i complessi sistemi software e l’introduzione del digitale, bisogna confrontarsi sempre di più con un problema che diventa anno dopo anno più serio e pericoloso, quello del trattamento dell’immagine. È convinzione comune che fotografia = verità, ma nella realtà le possibilità di manipolazione sono infinite: il ritocco, il ritaglio, il riquadro, l’eliminazione, la falsificazione o quella che viene definita la photo opportunity cioè quando si programmano situazioni che condizionano la fotografia. Per questo motivo è importante all’interno del fotogiornalismo distinguere sempre tra intenzioni del fotografo e trattamento delle immagini. Un chiaro esempio è l’uso dell’immagine da parte delle testate Time e Newsweek: la prima dedicò a O.J. Simpson, accusato di duplice omicidio, la copertina intitolata An American Tragedy, dove il colore della pelle del campione viene reso all’interno dell’immagine molto più scuro e la luce viene totalmente concentrata attorno agli occhi, eliminando quasi gli altri lineamenti del volto.
Le copertine di Newsweek e Time con la stessa fotografia di O.J. Simpson
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Mentre, in confronto, la copertina di Newsweek, con la stessa foto ma con giochi di luce diversi, propone l’immagine di un uomo familiare e un po’ affaticato, il Time concentra l’attenzione del lettore sugli occhi, rendendoli con qualche manipolazione creativa più minacciosi, cancellando così l’individuo e creando un mito. C’è una linea sottile tra quello che è accettabile e quello che invece non lo è affatto quando si tratta di fotografie giornalistiche: intervenire sulla luminosità, i colori, i contrasti non è cosa vietata, ma chi, in modo non professionale ed etico, cerca di controllare la situazione mette in posa le persone e ricrea una scena; oppure, chi ritaglia le fotografie per alterare il loro significato originale e chi “ritocca” o inserisce didascalie per ingannare supera un confine che sfocia nella distorsione e/o falsificazione dell’immagine fotografica. Questo accade spesso con le fake news, dove molte immagini fotografiche vengono decontestualizzate andando a generare una catena di disinformazione. Esiste anche un livello di manipolazione che possiamo definire di tipo passivo, quasi inconscio, ed è quello del fotogiornalista: assiste a un determinato evento e fotografa ciò che ritiene valga la pena catturare all’interno del suo obiettivo, sotto una certa angolazione, controllando l’esposizione, l’oscuramento, l’alleggerimento, l’affilatura. In questo caso
quindi il fotogiornalista controlla la fotografia in base a ciò che decide di includere o tralasciare. È il risultato di un professionista che sceglie di fotografare qualcosa in un certo modo perché rifletta correttamente l’evento, e, all’interno di questo ideale, consideriamo accettabile il controllo sull’immagine. A volte le fotografie possono metterci a conoscenza di qualcosa che non sapevamo, altre invece, ci ricordano ciò che preferiamo dimenticare; può servirci come promemoria, ma una foto può anche “ingannare o illudere”. Questo non significa che il mondo del fotogiornalismo sia una bugia, ma piuttosto che si tratta di un settore complesso, che richiede attenzione, professionalità ed etica, sia da parte di chi vi lavora, sia da parte del pubblico a cui le immagini sono indirizzate. Un certo grado di confusione o ambiguità non è necessariamente pericoloso, se siamo “sfidati” a pensare e a riflettere sul contesto di quell’immagine fotografica.
Un gruppo di giornalisti fotografa il corpo di Fabiene Cherisma, la quindicenne uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla testa mentre cercava il necessario per sopravvivere dopo il terremoto che ha colpito Port au Prince nel gennaio del 2010.
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EIRUT, LIBANO, 5 AGOSTO 2006. ADNAN HAJJ. RAPPRESENTAZIONE: didascalia dell'agenzia di stampa Reuters originale: “Il fumo si gonfia dagli edifici in fiamme distrutti durante un raid aereo israeliano durante la notte alla periferia di Beirut. 5 agosto 2006. Molti edifici furono rasa al suolo durante l'attacco. " REALTÀ: Adnan Hajj, un fotografo libanese freelance che lavora per Reuters, ha usato Photoshop per clonare e oscurare il fumo per esagerare i danni dei bombardamenti degli aerei da guerra israeliani. Questa foto è stata distribuita ai notiziari di tutto il mondo prima che la manipolazione fosse scoperta da Little Green Footballs, un blog politico americano. Reuters licenziò immediatamente il signor Hajj e ritirò tutte le 920 fotografie del fotografo dal suo database dopo aver scoperto che aveva manipolato una seconda foto. Il signor Hajj stava semplicemente cercando di rimuovere un granello di polvere e riparare l’illuminazione delle foto, ha detto a Reuters. Diversi blogger hanno sostenuto che il signor Hajj era guidato da un’agenzia politica, critica nei confronti di Israele”.
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REICHSTAG TEDESCO, BERLINO, GERMANIA, 2 MAGGIO 1945. YEVGENY KHALDEI. RAPPRESENTAZIONE: Soldati dell'Armata Rossa che alzano la bandiera sovietica sul Reichstag (parlamento) mentre sconfiggono l'esercito di Hitler. Questa foto divenne un'icona della Seconda Guerra Mondiale e una delle foto di guerra più pubblicate di tutti i tempi, a simboleggiare il trionfo sovietico sulla Germania nazista. REALTÀ: Evgenij Khaldei, un fotografo dell'esercito sovietico a Mosca, fece fare a suo zio una tovaglia con su una grande bandiera russa. Khaldei portò i soldati sul tetto del Reichstag, li fece posare con la bandiera e scattò la fotografia. Poi tornò rapidamente a Mosca per sviluppare e stampare le foto dal suo rullino. Prima della prima pubblicazione della foto su Ogoniok , una rivista russa, Khaldei, ha rimosso dal polso dei soldati gli orologi saccheggiati dagli stessi sovietici. Le nuvole di fumo sono state aggiunte successivamente alla foto, per renderla più veritiera. La rivista tedesca Der Spiegel scrisse: “Khaldei si considerava un propagandista per una giusta causa, la guerra contro Hitler, e gli invasori tedeschi nella sua terra natale”. Alla domanda sulla manipolazione, Khaldei ha risposto: “È una buona fotografia e storicamente significativa. La prossima domanda per favore” Negli anni precedenti la sua morte, nell’otobre 1997, disse: “Io perdono i tedeschi, ma non posso dimenticare”. Suo padre e tre delle sue quattro sorelle furono assassinati durante la guerra.
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LAMBARENE, GABON (WEST AFRICA), NOVEMBRE 1954. W. EUGENE SMITH. RAPPRESENTAZIONE: il Dr. Albert Schweitzer al lavoro con i lavoratori africani nella sua clinica medica in Gabon. Questa foto è stata intitolata sulla rivista Life come: "Toilers, Schweitzer e un falegname guardano l'edificio dell'ospedale”. Questa era l'immagine principale in un saggio fotografico su Schweitzer del leggendario fotografo documentarista W. Eugene Smith. REALTÀ: Oltre 30 anni dopo la sua pubblicazione originale, il ricercatore Glenn Willumson ha scoperto che Smith aveva combinato due distinti aspetti negativi per creare la foto che era stata pubblicata su Life Magazine, aggiungendo la maniglia della sega profilata e la mano umana nella parte inferiore destra della cornice. W. Eugene Smith, già considerato una leggenda al momento della pubblicazione di questa foto, ha sviluppato e stampato il proprio lavoro e non ha permesso a nessun altro di gestire i suoi negativi. Questo processo ha reso quasi impossibile per Life rilevare la manipolazione, il che avrebbe violato le loro linee guida fotogiornalistiche.
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SPANISH WAKE DELEITOSA 1951 W. EUGENE SMITH RAPPRESENTAZIONE: Questa fotografia, “Spanish Wake”, cattura una scena intima della morte di un abitante del villaggio. Era scritto sulla rivista Life : “Sua moglie, figlia, nipote e amici hanno la loro ultima visita terrena con un abitante del villaggio”. REALTÀ: nella fotografia originale, due donne avevano guardato verso il fotografo. Nella camera oscura Smith stampò i loro occhi molto più scuri e applicò una soluzione sbiancante con un pennello a punta fine per creare nuove aree bianche, reindirizzando i loro sguardi verso il basso e lateralmente, alterando l’umore della foto. Eugene Smith ammise di aver usato nella scena un fotoritocco. Questa immagine fa parte del saggio fotografico di Eugene Smith “Spanish Village”, pubblicato sulla rivista Life nel 1951. L'iconico set di foto raffigurava il piccolo villaggio rurale di Deleitosa, in Spagna, sotto il dominio del dittatore Francisco Franco.
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IRAN, LUGLIO 2008. DISTRIBUITO DALLA PROTEZIONE RIVOLUZIONARIA IRANIANA. RAPPRESENTAZIONE: La foto è stata rilasciata da Sepah News, il sito di notizie online ufficiale della Guardia rivoluzionaria iraniana. Numerosi organi di stampa americani, tra cui il Los Angeles Times , il Financial Times e il Chicago Tribune , hanno pubblicato in prima pagina l'immagine di un lancio di missili iraniani. La didascalia fotografica del Los Angeles Times, pubblicata il 10 luglio 2008, recitava: “Vicino allo stretto di Hormuz: la Guardia rivoluzionaria iraniana ha pubblicato questa foto di quattro missili lanciati da un sito sconosciuto nel deserto iraniano. Sono stati testati missili a medio e lungo raggio, di cui uno con una portata di 1.250 miglia. ” REALTÀ: Sono solamente tre i missili lanciati con successo; il quarto è stato photoshoppato per nascondere il missile fallito. Little Green Footballs, un blog politico americano, ha scoperto la manipolazione il giorno della pubblicazione della foto, definendolo un "falso Photoshop". L'Associated Press ha rilasciato la foto originale il giorno successivo con il quarto missile lanciato al centro; sia Sepah News che Agence France-Presse (AFP) hanno annullato la foto. Questa non era la prima volta che i media statali iraniani venivano accusati di alterare le fotografie, nel 2007 furono accusati di manipolare un'immagine che affermava di mostrare armi fabbricate dagli Stati Uniti in operazioni terroristiche in Iran.
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TELATA VILLAGE, SIRIA, 29 SETTEMBRE 2013. FOTO DI NARCISO CONTRERAS. RAPPRESENTAZIONE: Questa foto è stata distribuita dall'Associated Press (AP) con la didascalia: “foto scattata, domenica 29 settembre 2013, un combattente dell'opposizione siriana, si copre durante uno scintro a fuoco con le forze governative nel villaggio di Telata " REALTÀ: Dopo aver rilasciato questa foto all'AP, Narciso Contreras ha ammesso di aver rimosso digitalmente la videocamera del suo collega dall'angolo in basso a sinistra, preoccupato che potesse distrarre gli spettatori. Narciso ha ottenuto questo risultato clonando pezzi dello sfondo in Photoshop. La manipolazione delle immagini di Contreras ha violato le linee guida etiche dell'Associated Press, portando l'agenzia a interrompere immediatamente i legami con il fotoreporter. In un’intervista nel vivo della controversia, Contreras ha dichiarato: “Ho fatto un terribile errore e ne accetto la piena responsabilità ... me ne vergogno, ma non mi vergogno di fare ciò che credo sia mio dovere : mostrando la sofferenza del popolo siriano causata dalla guerra”. Contreras ha ampiamente fotografato il conflitto in Siria per tutto il 2013, aiutando l’ a vincere un premio Pulitzer per la sua copertura.
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IL FOTORITOCCO NELLA MODA
IRREALMENTE BELLE Nell'industria della moda, la manipolazione fotografica, è stata spesso accusata di promuovere o incitare un'immagine distorta e irrealistica; più specificamente nelle persone più giovani. Il mondo della fotografia glamour è un settore specifico che è stato pesantemente coinvolto con l'uso di manipolazione fotografica (quello che molti considerano essere un elemento riguardante come molte persone guardano a celebrità in cerca di incarnare la 'figura ideale'). La manipolazione di una foto per alterare l'aspetto di un modello può essere utilizzato per modificare caratteristiche come il colorito della pelle, colore dei capelli, la forma del corpo, e altre caratteristiche. Molte delle alterazioni della pelle comportare la rimozione di macchie attraverso l'uso dello strumento di guarigione in Photoshop; possono anche alterare il colore dei capelli per rimuovere le radici o aggiungere brillantezza. Inoltre, i denti e gli occhi del modello possono renderli più bianchi di quello che sono nella realtà. Make up e piercing possono anche essere modificati in immagini a guardare come se il modello li indossava quando la foto è stata scattata.
Il fotoritocco include l’eliminazione delle ombre dalle ossa sporgenti, l’aggiunta di carne sopra le parti del corpo, la correzione del colore, e la rimozione dei peli generato per il calore dalla perdita di peso estremo. Molti pofessionisti stanno proponedno di aggiungere delle etichette dietro le foto, per affermare che le immagini sono finte. Dato che l’industria della moda continua a utilizzare le foto che sono state manipolate e a idealizzare tipi di corpo estremi, c’è la necessità per l’istruzione su come irreali e malsane queste immagini sono e le implicazioni negative che stanno promuovendo.
Attraverso il fotoritocco, l'aspetto di un modello può essere drasticamente cambiato per mascherare le imperfezioni. Le industrie della moda distruggonospesso l’immagine femminile. Insieme con imperfezioni fissaggio come rughe della pelle e caratteristiche di lisciatura, modificanno spesso la dimensione del modello, manipolando, aggiungendo o sottraendo altezza, forme e sorattutto il peso visibile. Il fotoritocco a “inversione” è altrettanto comune come la produzione dei modelli più magri, “distorcendo i corpi dei modelli” rendendoli molto sottili, per farli apparire più robusti, in un processo chiamato ritocco inverso. È quasi peggio che fare qualcuno più sottile, perché l’immagine fa pensare che può essere a un peso sano.
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BELLEZZA ANALOGICA Nella nostra società siamo abituati a vedere piccoli “ritocchi” sulle foto, che vanno a togliere difetti fisici, come rughe, imperfezioni, ecc. Dobbiamo sapere che queste pratiche, venivano realizzate anche nelle epoche passate, quando non c’era ancora l’uso della nostra tecnologia. Se analizziamo la fotografia analogica scopriamo che sin dai primordi dello sviluppo e stampa in camera oscura, sono stati utilizzati molti accorgimenti per modificare l’immagine finale: si cercava di drammatizzare o illuminare un paesaggio aumentandone la luminosità o il contrasto, di utilizzare pennini per cancellare elementi come peli, capelli, rughe o doppi menti, per arrivare a veri e propri fotomontaggi utilizzando elementi di corpi differenti presi da scatti differenti.
Joan Crawford, Gorge Hurrell, 1931.
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The art of retouching photographic negatives, Robert Johnson, 1930.
RICHARD AVEDON Richard Avedon (1923-2004) è stato un photographer statunitense di origine russa, famoso per i suoi numerosi e celebri ritratti in bianco e nero. Assieme a Irving Penn, può essere considerato uno degli artisti che più di tutti ha saputo rivoluzionare ed influenzare ancora oggi generazioni e generazioni di giovani fotografi di moda. La sua carriera da fotografo è stata affermata da diverse agenzia di moda. Ha lavorato con moltisime celebrità
HOWARD S. RENDELL Redell, fotografo e direttore commerciale di Underwood e Underwood Studios, ha sfruttato il potere del sex appeal in questo fotomontaggio di una giovane donna attraente che si gode una sigaretta mentre si fa il bagno in un bicchiere di champagne: una fantasia pittorica di lusso e indulgenza che probabilmente è stata creata come una pubblicità di un’azienda produttrice di tabacco.
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SURREALISMO DIGITALE
LA NASCITA DI PHOTOSHOP Verso la fine del 1988, John e Thomas Knoll strinsero un accordo con Steve Schaffran, fondatore e direttore generale di Barneyscan, una giovane azienda californiana che aveva appena prodotto uno dei primi scanner a 24 bit per pellicole a colori. Nei due anni precedenti i fratelli Knoll avevano ideato e sviluppato un programma che non solo era in grado di di visualizzare immagini sullo schermo di un Macintosh (un Mac Plus inizialmente), ma permetteva anche di modificarne le dimensioni, contrastare, sfocare, schiarire, scurire i colori, regolare l’istogramma attraverso le curve, ed effettuare “decine di altre fantastiche trasformazioni”. Tra le funzioni del software, come fa notare Schaffran, la più utile era la conversione di un’immagine a colori “dallo spazio colore rosso, verde e blu dello schermo del computer a quello ciano, magenta, giallo e nero necessario per la creazione delle pellicole per la stampa a colori“. Nel marzo 1989 la versione 0.65 del programma, rinominato per l’occasione Barneyscan XP, iniziò ad essere venduta a corredo dello scanner per pellicole Barneyscan. Questi due prodotti trasformavano il Macintosh in un potente strumento per acquisire e ritoccare immagini a colori, che sebbene portasse a un esborso complessivo di 15000 dollari, costava una frazione del prezzo di analoghe soluzioni utilizzate nell’industria della stampa fino a quel momento.
l’ultimo dei nomi scelti originariamente da Thomas, che ne era anche l’unico programmatore. Photoshop 1.0 era privo delle funzioni di regolazione avanzata del colore presenti in Barneyscan XP, ma le potenzialità del programma crebbero ad ogni successiva versione, con l’aggiunta di colore CMYK, canali a 16 bit, tracciati, rasterizzazione dei file EPS, livelli e, soprattutto, del supporto alla piattaforma Windows (nel 1993, tre anni dopo quella per Macintosh). Nel giro di pochi anni Photoshop divenne lo standard industriale de facto, tuttora ineguagliato, che ha rivoluzionato la fotografia, il graphic design, l’editoria, l’architettura, la pubblicità, la moda ed diventò sinonimo del ritocco e della manipolazione (spesso eccessivi) delle immagini attraverso il computer.
Barneyscan XP, più apprezzato dell’hardware con cui era venduto, non era altro che la prima incarnazione e distribuzione commerciale di un programma che, undici mesi più tardi, sarebbe stato pubblicato nuovamente e avrebbe avuto un impatto ben diverso sul mercato. Dietro consiglio del suo direttore artistico, la software house Adobe decise di acquistare dagli Knoll una licenza per commercializzare il software, inizialmente in una versione semplificata. Così, nel febbraio 1990, comparve sul mercato la prima release di Adobe Photoshop, adottando
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SURREALISTI DIGITALI ERIK JOHANSSON Erik Johansson è un mago del fotoritocco. Molti lo definiscono foto manipolatore, quello che è certo è che stupisce con effetti speciali tutti gli spettatori. Giovanissimo e visionario, Johansson sta riscuotendo enorme successo nel mondo del web, rivoluzionando il vecchio modo di intendere la fotografia. Il suo spirito da tardo surrealista digitale è tipico di chi non dimentica l’importanza che l’intellettualizzazione straniante di una immagine iperrealistica affondi le sue radici in una riflessione morale e al tempo stesso estetica. Modificare con l’ausilio delle nuove tecnologie sì, ma evitando sterili
virtuosismi: questo è il punto di partenza di Johansson. Artefice di molti autoritratti, i suoi lavori rispecchiano una ironia raffinata che coinvolge paesaggi e persone. “Io non catturo momenti. Catturo idee”: questa è la sua filosofia, che coniuga un sorprendente realismo alla finzione e all’illusione. Una mente creativa e un maestro assoluto del fotoritocco: le immagini elaborate dalla mente di questo rivoluzionario svedese sono piene di allusioni e di giochi di prestigio. Un ossimoro vivente, votato alla contraddizione più pura e affascinante.
ARRIVEDERCI MOSTRO Una delle immagini surrealiste create da Erik Johansson è stata utilizzata dal cantautore italiano Luciano Ligabue in uno dei suoi album musicali “Arrivederci mostro”. “Ognuno di noi ha i propri mostri, i propri fantasmi. Li si possono chiamare ossessioni, paure, condizionamenti, senso di inadeguatezza, aspettative e chissà in quali altri modi ancora. Sappiamo, però, che sono vivi e sono il filtro attraverso cui chiunque matura la propria, personale visione del mondo.”
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VÌCTOR ENRICH Se avete pensato di poter vedere un grattacielo piegato su se stesso questo è il progetto fotografico che fa per voi: l’autore è l’artista spagnolo Víctor Enrich, specialista delle visualizzazioni in 3D e laureato in architettura all’Università di Barcellona. Il progetto si chiama e parte dal completo stravolgimento fotografico di un edificio (un Hotel per la precisione) di Monaco di Baviera, che è stato distorto per ben 88 volte. Come rivelato dallo stesso artista, le foto sono state rielaborate per 88 volte ,con l’edificio che, a seconda dei casi, è stato inclinato, ruotato, scomposto e persino staccato dalle sue fondamenta. Un lavoro surreale nel quale si sposano alle perfezione la fantasia dell’autore con la ricomposizione 3D delle scene. Il risultato è sorprendente: le immagini sono talmente belle che riescono ad ingannare la nostra mente, facendoci credere che queste inclinazioni estreme possano essere quasi possibili.
MARC SOMMER Fotografia e surrealismo: un altro tra gli artisti contemporanei più interessanti è Marc Sommer, fotografo autodidatta di origini francesi, attualmente stabile a Strasburgo. I lavori di Sommer sono dei gioielli preziosi, frutto di atmosfere surreali e paradossi visionari. Personaggi ambigui e oggetti strani animano la sua fotografia, raccontando storie misteriose e delicate. Gambe staccate dal busto e orecchie di coniglio che spuntano impertinenti da una tazza per la colazione: il mondo di Sommer invita al divertimento e alla riflessione. Ad ognuno di noi non resta altro che tuffarsi in questa pazzia creativa.
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JAI PRUTA PRATAMA Visionario ed innovativo, Jati Pruta Pratama e le sue opere raccontano un mondo capovolto. Surrealista e onirico,il designer indonesiano di Jakarta, è autore di immagini visionarie, ottenute piegando virtualmente delle foto di paesaggi ed inserendo elementi e sfondi diversi. Qui la manipolazione si impone con una forza dirompente, inchinandosi però a servizio dell’immaginazione. Non ho mai amato una eccessiva post produzione, ma qui vedo una differenza sostanziale: le immagini di Pratama non hanno l’obiettivo di raccontare forme di vita quotidiana, bensì di costruire nuovi mondi possibili. Un trionfo della creatività e dell’utopia.
VICTORIA SIEMER L’artista Victoria Siemer, in arte Witchoria, ha incantato il web, specialmente la realtà di Instagram, con le sue manipolazioni concettuali. Originaria di Brooklyn, combina elementi reali a situazioni inconsuete fino ad ottenere delle immagini che rievocano sensazioni ed emozioni uniche. Nel corso del tempo ha sperimentato, con l’aiuto di photoshop, l’idea dei microcosmi. Guardando la sua galleria Instagram, scoprirete le sue particolarissime tazzine di caffè, animate da minuscoli surfisti a cavallo delle loro tavole e da galassie spaziali colorate. Per l’artista, queste manipolazioni sono un modo per risvegliare la creatività, insita in ognuno di noi, creando piccoli mondi alternativi. Nei suoi ultimi lavori sono i paesaggi a descrivere gli stati d’animo: l’impatto visivo è molto forte ed evidenzia ancora una volta il potenziale espressivo ed emozionale delle immagini, spesso molto più intenso di quello delle parole.
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JANE LONG Raccogliere delle vecchie fotografie risalenti alla prima guerra mondiale e trasformarle in qualcosa di completamente diverso: è possibile? L’artista australiana Jane Long sembra esserci riuscita davvero molto bene. La Long ha infatti deciso di regalare ai tristi e seri protagonisti di alcune vecchie foto una vita diversa, raccontando nuove storie e aggiungendo nuovi colori. Il suo progetto si intitola “Dancing with Costica”, dal nome del fotografo rumeno autore di questi scatti risalenti all’inizio del Novecento. Il grande talento della Long risiede nel fatto che sia stata in grado di trasferire il mondo
interiore di quelle persone in una dimensione esterna, facendolo esplodere in tutte le sue potenzialità. Immaginando queste persone come personaggi di romanzi e di film, l’artista australiana ha creato scenari surrealisti, mescolando tinte noir ad un’atmosfera da sogno. Bambini seri ed imbronciati sono diventati giocolieri e un uomo in bicicletta un cavaliere moderno in sella al suo destriero. Immaginare nuovi mondi e dare una seconda chance ai propri personaggi: Jane Long è senza dubbio la burattinaia perfetta.
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CONCLUSIONI Nell’elaborazione di questa tesi riguardante il tema della manipolazione fotografica, siamo partiti dalle teorie scientifiche della percezione visiva, fino ad arrivare all’evoluzione delle varie tecniche di manipolazione fotografica, e il loro utilizzo nei diversi modi. Si pensa che la fotografia sia sinonimo di descrizione neutrale ed obiettiva del mondo che ci circonda. In realtà la fotografia è strettamente legata all’operazione di alterazione della realtà poiché essa la modifica a due livelli: in primis è essa stessa manipolazione della realtà poiché ogni scatto non può descrivere la realtà in maniera esaustiva, può soltanto rappresentare un frammento di tale realtà e quindi un punto di vista specifico, inevitabilmente limitato, parziale sul mondo circostante. Questo avviene per diverse ragioni: innanzitutto per lo statuto intrinseco della macchina fotografica che è obbligata a tradurre la tridimensionalità del mondo reale su un supporto a due dimensioni, producendo quindi delle vedute quasi-percettive, risultato di uno sguardo monoculare (proprio dell’apparecchio fotografico) che obbligatoriamente non corrisponde alla percezione visiva umana che è binoculare. Bisogna poi considerare che ogni scatto viene realizzato da un individuo che si pone dietro l’obiettivo e sceglie il soggetto da ritrarre e come ritrarlo, alla luce del suo particolare punto di vista sul mondo, dei valori in cui crede e delle sue convinzioni ideologiche che quindi influenzano l’esito dello scatto. Infine non va dimenticato il fruitore dell’immagine, colui che recepisce fotografie realizzate da altri, il quale a sua volta carica l’oggetto della sua visione della sua cultura personale e della sua specifica concezione della realtà, sovrapponendo al messaggio veicolato dal fotografo, il valore semantico da lui attribuito all’immagine fotografica. La fotografia è soggetta anche ad una manipolazione volontaria, realizzata a posteriori, anche e soprattutto in ambiti
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come quello giornalistico dove la funzione testimoniale della fotografia è parte integrante del suo uso e della sua funzione. La sua importanza, soprattutto nell’ambito della fotografia giornalistica, riguarda proprio il fatto che l’essenza attribuita alla fotografia si basa sul falso postulato secondo cui questa è obiettiva, perché ogni immagine fotografica è portatrice di informazioni generalmente nuove, sconosciute riguardo al mondo e dato che nella società post-industriale odierna l’informazione rappresenta uno dei principali strumenti utilizzati per raggiungere e mantenere il potere socio-politico, quelle che vengono veicolate dalle fotografie, soprattutto a livello mediatico, risultano particolarmente importanti sostanzialmente perché si tratta di immagini che riguardano avvenimenti e/o personaggi rilevanti per la vita della collettività e che quindi direttamente o indirettamente interessano ed influenzano l’esistenza delle persone. Per questa ragione se ciò che viene mostrato da queste immagini si presenta come disdicevole o risulta compromettente per qualcuno che ricopra un ruolo di rilievo nella società di riferimento, non è inusuale che venga sottoposto a delle modifiche. Quindi, sulla base delle riflessioni effettuate, è possibile affermare che la manipolazione sia da intendersi come un elemento costitutivo della pratica fotografica, che non può mai essere totalmente eliminato dalla stessa. Per tale ragione la fotografia si presenta come una pratica artistica che obbligatoriamente altera, modifica il mondo seppure non sempre allo stesso livello ed in maniera diversa a seconda della situazione.Tuttavia non bisogna credere che la fotografia menta sempre e comunque, essa si limita a dare, come ogni altro linguaggio, una propria interpretazione del mondo e, proprio in quanto interpretazione, non presenta le cose esattamente come sono nella realtà. Perciò, sostiene il giornalista Michele Smargiassi, dalla fotografia non si può pretendere di ottenere verità assoluta, essa è piuttosto
portatrice di frammenti di verità, poiché attraverso i suoi contenuti è possibile ottenere informazioni su determinati aspetti, particolari del mondo circostante. Dunque, nonostante tutto continuiamo ad avere bisogno della fotografia per comprendere la realtà in cui siamo immersi. Per questo la manipolazione, soprattutto delle immagini giornalistiche, è un fenomeno che non può e non deve essere negato, esso deve invece essere affrontato direttamente, denunciandone l’esistenza al pubblico in
modo tale che esso si renda conto che ciò che i mass media mostrano non corrisponde praticamente mai alla realtà dei fatti. Le considerazioni che sono emerse a partire dalle due questioni affrontate all’interno di questa tesi consentono di giungere a tre diversi livelli di conclusioni. Una prima conclusione riguarda la dimensione pratica, ovvero che cosa si può fare concretamente per affrontare il problema della manipolazione fotografica in ambito giornalistico.
Henri Cartier Bresson, Seville, 1944.
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Visto che si tratta di un fenomeno che è possibile controllare solo fino ad un certo punto, la soluzione potrebbe essere quella di disporre la regolamentazione necessaria per proteggere il più possibile l’immagine fotografica da eventuali modifiche di qualunque tipo esse siano, partendo anche dalla formazione dei fotogiornalisti. Soprattutto però bisogna educare il pubblico, abituarlo all’idea che la fotografia non è una rappresentazione neutrale della realtà e metterlo nelle condizioni di sapere se un’immagine sia stata alterata e perché oppure no, in modo che il medium che diffonde le immagini garantisca una condotta all’insegna della trasparenza e dell’onestà, nonché un comportamento eticamente corretto e quindi un prodotto comunicazionale di qualità ai propri fruitori. La seconda conclusione riguarda il concetto di realismo da utilizzare in ambito fotografico. In pratica si considera l’universale dotato di una esistenza autonoma, indipendente rispetto alla realtà concreta, allo stesso tempo però esso è collegato ad essa da una corrispondenza con gli oggetti del mondo reale. Platone esprime una concezione simile, affermando l’esistenza dell’Iperuranio, uno spazio superiore a quello umano, in cui si trovano tutte le idee le quali esistono indipendentemente dalla realtà terrena ma che con essa hanno uno stretto legame in quanto esse rappresentano modelli universali o paradigmi a cui la mente umana guarda per dare vita ad oggetti concreti. Il realismo a cui si fa riferimento quando si parla di fotografia è proprio questo, o meglio questo è l’unico tipo di realismo che può adattarsi alla pratica fotografica e alla sua natura ambigua: i concetti astratti che costituiscono la base teorica del mondo reale possono e vengono realizzati concretamente attraverso la macchina fotografica, cosicché i suoi prodotti si presentano come la materializzazione delle idee platoniche che costituiscono la base su cui il mondo è organizzato. Le fotografie in pratica realizzano idee e concetti astratti attribuendo loro una connotazione concreta, materiale, perciò di fatto la loro funzione consiste nel tradurre l’astratto nel concreto. Dunque, quando
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si parla di realismo fotografico lo si deve intendere in questi termini, perché il realismo descritto da questa prospettiva si adatta perfettamente all’attività fotografica. Non va considerato il realismo inteso come adesione perfetta dell’immagine fotografica al referente reale perché, come è emerso da quest’esposizione, tale adesione perfetta non esiste. Infine c’è una terza ed ultima conclusione a cui si giunge che riguarda una questione più ampia: la libertà dell’individuo. Infatti l’analisi dell’attività fotografica fa emergere il problema più generale relativo alla libertà di cui l’uomo gode nella società contemporanea. Viviamo infatti in un contesto socio-culturale ormai dominato da macchine e strumenti tecnologici che di fatto sostituiscono gli uomini nello svolgimento di mansioni e compiti di vario genere, la questione che quindi si pone riguarda il grado di indipendenza di cui gli esseri umani oggi possono disporre, poiché se la maggior parte dei lavori utili a livello sociale è svolta da apparecchi meccanici si è portati a ritenere che si sia sviluppata una forma di subordinazione dell’uomo alla macchina, al contrario del passato. Ebbene questo problema è visibile anche rispetto alla pratica fotografica poiché l’esistenza di programmi prestabiliti insiti nell’apparecchio fotografico che ne guidano l’utilizzo ovviamente può essere visto come un limite alla libertà d’azione dell’uomo inteso prima di tutto come produttore di immagini ma anche come fruitore, perché l’esistenza di una serie di limiti imposti dalla macchina porta a considerare gli scatti realizzati frutto di un automatismo predeterminato e impersonale invece che il prodotto della creatività e dell’intelligenza del fotografo. Dunque la fotografia, come fa in generale ogni forma d’arte, contribuisce ad alimentare il dibattito relativo al problema della libertà umana, divenendo metafora di una delle questioni filosofiche più controverse che mai siano state affrontate e cercando attraverso la propria esperienza di giungere ad una risposta univoca e soddisfacente.
“Ogni volta che premo il pulsante dello scatto, è come se conservassi ciò che sta per sparire” Henri Cartier-Bresson
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RINGRAZIAMENTI Ringrazio tutte le persone che mi sono state vicine, che mi hanno aiutata nei momenti più dificili, e che mi hanno sempre sostenuta. Ringrazio il professor Salvatore Barba, per avermi aiutata in questo progetto e tutta l’Accademia di Belle Arti di Roma, per le esperienze che mi ha dato e le fantastiche persone che mi ha fatto conoscere. Un grazie speciale per i miei genitori, che hanno sempre creduto in me, e che hanno fatto in modo che io potessi arrivare a questo importante traguardo della vita. In fine un ringraziamento va alle persone speciali che non ho avuto accanto fisicamente, ma che sento le loro parole nel cuore, dicono sempre “ce la farai”.
Noemi D’Imperia matricola 15717 dimperianoemi@gmail.com Accademia di Belle Arti di Roma Finito di stampare a maggio 2020 presso La Legatoria, Roma, via Genova, 25, 00184 (RM)