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Riflessioni sull’anno sacerdotale

È augurabile che l’attenzione per l’anno sacerdotale in corso non sia venuta meno nel tempo finora trascorso dal suo inizio. Certamente un anno di preghiera perché in campi come questo dobbiamo riconoscere che “tutto è grazia”, che tutto è dono di Dio: dono di Dio la chiamata, dono di Dio la risposta, dono di Dio la fedeltà dei prescelti, dono di Dio la partecipazione alla vita della chiesa in uno dei suoi capitoli più decisivi da parte di tutti i battezzati. Siamo alle stesse radici dell’insegnamento rivelato, come ci viene costantemente ricordato dai testi ispirati, dalla liturgia, da coloro che per la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. “Ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce”, si legge nella lettera di san Giacomo. Un pensiero che, nonostante tutte le spinte in contrario, dobbiamo costantemente mantenere al centro dei nostri pensieri e dei conseguenti atteggiamenti. Ma è anche un anno di riflessione e di riforma. C’è da registrare le nostre idee sulla base delle ultime acquisizioni della chiesa. Tutta la comunità cristiana ne è interessata, tutto il popolo di Dio con i suoi ministri ordinati e insieme tutti i battezzati. La dottrina del concilio è stata ampiamente ripresa e commentata in tanti importanti documenti che, se non hanno messo la parola fine alla crisi che ci trasciniamo dietro ormai da tanti anni, hanno almeno messo dei punti fermi sui quali dovremmo tutti convergere e allinearci. Il ministero della presidenza, all’interno di una chiesa tutta quanta compartecipe e corresponsabile, ha trovato la sua migliore definizione in una frase fortunata di un lontano documento della nostra Conferenza Episcopale: “La grazia propria del vescovo non è d’essere la sintesi dei ministeri, come si poteva pensare in passato, ma il ministero della sintesi, della armonizzazione e della generazione di tutti ministeri volti alla edificazione della comunità”. Naturalmente quello che è detto del vescovo va ripetuto anche nei riguardi del parroco e di ogni ministro ordinato. Siamo a un punto decisivo dell’intero concilio Vaticano II, un’affermazione che fa corpo con tutto quanto il suo pensiero sulla chiesa. Su affermazioni di questo genere è necessario che si allineino tanto i pastori quanto il gregge loro affidato, non prendendo troppo alla lettera un’immagine che, se fosse portata fino in fondo, sarebbe certamente fuorviante e decisamente al di fuori del pensiero che vuole esprimere. Sul gregge e sul pastore si è fatta troppa retorica anche in un recente passato. Perché non ricordare quanto, all’inizio del secolo scorso, san Pio X scriveva in una sua enciclica? “La chiesa è, per essenza, una società disuguale, cioè comprendente due categorie di persone, i pastori e il gregge, coloro che occupano una posizione nei differenti gradi della gerarchia e la moltitudine dei fedeli. E questa categoria sono così distinte tra loro che solamente nel corpo dei pastori risiede il diritto e l’autorità necessari per promuovere e dirigere tutti i membri verso il fine della società. Quanto alla moltitudine, essa non ha altro diritto che quello di lasciarsi condurre e, gregge fedele, di seguire i suoi pastori”. Non solo i concetti, ma nemmeno le parole sono ormai accettabili. Su di loro è passato con la forza dello Spirito Santo il Vaticano II e nessuno, né da una parte né dall’altra, può rifarsi a testi di questo genere. Da una parte, il popolo rinunci al comodo spirito di delega, dall’altra, i pastori si mettano in linea con quanto è loro richiesto. Segno di Cristo capo e pastore, il ministro ordinato vive integralmente col suo popolo la propria vocazione cristiana (la santità è una chiamata universale), in più egli è chiamato a far propri i sentimenti del vero e unico Pastore, di cui attualizza nel tempo le parole, i passi, i gesti, i comportamenti. Il Nuovo Testamento conserva testi molto significativi a questo proposito: su tutti domina il cap. X del quarto vangelo. “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano”, affermava con la consueta lucidità il grande Agostino. Per un verso, il ministro ordinato è dentro il popolo, per un altro, egli ne è al di fuori, di fronte, perché investito della stessa funzione di Gesù Cristo. Una verità che deve trasparire in tutta la sua vita: nella presidenza dell’eucaristia (certi populismi liturgici che molti oggi si permettono non hanno nessuna giustificazione teologica) e della comunità, nel tratto del buon pastore (si ricorderà che il testo originale parla del “bel” pastore, bello della bellezza di Dio), nella preghiera di intercessione, su cui è necessario insistere soprattutto ai nostri giorni. Per questo la chiesa ha messo in mano ai nostri ministri un testo magnifico che risponde al nome della Liturgia delle ore. C’è certamente qualcosa da cambiare nei nostri comportamenti. L’anno in corso è destinato a questo. Giordano Frosini


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