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Diocesi di Pistoia Ufficio Catechistico Diocesano

Matteo il Vangelo del Maestro e del discepolo “Io sono con voi tutti i giorni”

Sussidio per i Gruppi di Ascolto della Parola di Dio Anno Pastorale 2010/2011 Dal Programma Pastorale Diocesano “Chiedo che si continui ad insistere, con fiducia e coraggio, perché i gruppi di Ascolto si stabilizzino là dove sono iniziati e sorgano dove ancora sono assenti. La presenza dei GdA permette di configurare una Parrocchia che, non occasionalmente ma stabilmente, pone al centro della sua vita e della sua attività la mensa della Parola e del Pane nell’Eucarestia domenicale; una Comunità cristiana che vive, si esprime e si educa alla luce della Parola di Dio ed a partire da quella configura la propria presenza in mezzo alla gente e sul territorio; una Parrocchia che cresce come relazione di persone e di amicizia umanamente ricca ed improntata alla comune adesione al Vangelo del Signore; una Parrocchia attenta e dedita alla crescita delle persone nella fede e nella vita spirituale; una Parrocchia, infine, che cerca con tenacia di aprire nuove strade di vicinanza e di presenza alla vita delle persone e delle famiglie sulla strada dell’ Evangelizzazione della Testimonianza. Ritengo inoltre che i GdA possano costituire uno spazio ed una occasione importante per la presenza e la ministerialità laicale oltre che una risorsa per individuare nuove persone cui offrire ulteriori percorsi di approfondimento di fede o di servizio Ecclesiale”. (= Mansueto Bianchi, vescovo di Pistoia)

Anno pastorale 2010/2011


Indice delle schede Introduzione (d. Cristiano D’Angelo) In ascolto della Parola (Giovanna Cheli)

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I Scheda “Non temere di prendere con te Maria, tua sposa” (Mt 1,18-25) L’annunciazione a Giuseppe e la nascita di Gesù (Cristiano D’Angelo)

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II Scheda “Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” (Mt 2,1-12) La visita dei Magi (Pierluigi Biagioni) 11 III Scheda “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Mt 4,1-11) Le tentazioni di Gesù nel deserto (Fulvio Baldi)

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IV Scheda “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,1-12) Le beatitudini: spirito, legge e contenuto del Regno dei cieli (Enzo Benesperi)

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V Scheda “Voi pregate così: Padre nostro che sei nei cieli” (Mt 6,5-15) L’insegnamento di Gesù sulla preghiera: il Padre nostro (Cesare Tognelli)

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VI Scheda “Dov’è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-34) L’insegnamento di Gesù sulla ricchezza e la provvidenza (Paolo Tofani)

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VII Scheda “In Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande” (Mt 8,5-13) Gesù guarisce il servo di un centurione (Nelvio Catania)

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VIII Scheda “Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme” (Mt 13,24-43) La parabola della zizzania (Giovanna Cheli) 29 IX Scheda “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46) La parabola del giudizio finale (Patrizio Fabbri)

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X Scheda “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo” (Mt 26,17-29) L’istituzione dell’Eucarestia (Luca Carlesi)

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Calendario degli incontri per gli animatori dei GdA

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Breve bibliografia

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Sussidi per i Gruppi di ascolto della Parola di Dio

Introduzione Il vangelo del regno per un mondo nuovo

Il vangelo di Matteo è il testo scelto quest’anno per i gruppi di ascolto della Parola di Dio in Diocesi. Se il vangelo di Marco rispondeva alla necessità di conoscere Gesù, Matteo è piuttosto incentrato sull’insegnamento di Gesù e sugli effetti che questo produce sulle persone come singole e come comunità. Il vangelo di Matteo, infatti, più degli altri abbonda di insegnamenti di Gesù, tanto da farne un nuovo Mosè. Infatti come ci sono cinque grandi libri nella Bibbia attribuiti a Mosè (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), così ci sono cinque grandi discorsi di Gesù nel vangelo di Matteo (Mt 5,1-7,28 il discorso sul monte delle Beatitudini; Mt 10 il discorso missionario; Mt 13 il discorso in parabole; Mt 18 il discorso sulla Chiesa; Mt 23-25 il discorso sulla fine dei tempi). In particolare Matteo presenta le beatitudini come se queste fossero la nuova legge dei cristiani che riprende e aggiorna la grande legge antica dei dieci comandamenti. L’evangelista Matteo ha cioè trasmesso alla comunità cristiana il vangelo preoccupato, non solo e non più di far conoscere Gesù, ma di far diventare Gesù e il suo insegnamento la norma per regolare la vita della comunità cristiana che dall’incontro con Gesù era nata e cresciuta. L’opera di Gesù e il suo insegnamento avevano prodotto una comunità cristiana, cioè persone che si sforzavano di vivere e costruire quel regno dei cieli che Gesù durante tutta la sua vita aveva annunziato e realizzato. Il Regno dei cieli è infatti la grande preoccupazione di Gesù nel vangelo di Matteo, un regno dei cieli che vede nella chiesa il suo inizio e il suo segno visibile sulla terra. Gli insegnamenti di Gesù diventano dunque l’indispensabile punto di riferimento per il credente e per la comunità dei discepoli del Signore per costruire su questa terra il regno voluto da Gesù, un regno di fraternità, perché come dice il Signore stesso su questa terra “uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8); e un regno di giustizia “cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 7, 33). Dunque la parola di Gesù, il suo insegnamento sul regno, vuole costruire un mondo fatto di rapporti fraterni e giusti, un mondo che comincia dalla chiesa, cioè dall’insieme di coloro che raccolti da ogni parte del mondo, da ogni situazione di vita, da ogni popolo e nazione, scoprono il dono e la gioia della presenza di Dio e si impegnano a vivere nel bene (Mt 13,44-47) costruendo rapporti nuovi di fraternità e di giustizia. Quest’insieme di persone è la chiesa, che per Matteo deve essere come il lievito nella pasta, cioè un fermento di bene che fa diventare il mondo sempre più vicino a come Dio lo ha pensato e rivelato, un regno manifestato nelle beatitudini come un regno di verità e di libertà, di giustizia e di pace, un regno di amore per tutti e per tutto.

Il vangelo di Matteo e i gruppi di ascolto

Come ci interpella questo vangelo, nella situazione concreta della nostra realtà diocesana? Anzitutto è un vangelo che ci aiuta a riflettere sul fatto che la fede non può mai essere un fatto solo privato. La fede ci apre agli altri, ci invita a costruire relazioni nuove di amicizia e fraternità, ci invita a diventare chiesa. La chiesa siamo noi, i credenti che cercano di essere discepoli del Signore e che insieme si impegnano a vivere la sua parola. E’ questa una dimensione troppe volte trascurata, soprattutto nella nostra realtà occidentale, e che oggi in un tempo di solitudine e di anonimato dobbiamo con forza riscoprire. La fraternità ecclesiale è il primo luogo di verifica della fede, è

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luogo di preghiera comune, è occasione di confronto, è esercizio di carità e verità reciproca. La chiesa è come una palestra dove i credenti sono chiamati a vivere quella fede che è un dono per loro e per il mondo intero. Per certi versi i gruppi di ascolto sono una piccola realtà di chiesa che si va costruendo all’interno delle nostre comunità cristiane. Dobbiamo sentire il gruppo di ascolto non solo come un’occasione culturale o uno spazio dove condividere la vita, ma come un luogo ecclesiale, come l’occasione per imparare a diventare chiesa. Il Signore ce lo chiede e noi dobbiamo chiederglielo, fiduciosi che come lui ci ha promesso dove due o tre sono riuniti nel suo nome lui è in mezzo a loro. Le pagine del vangelo di Matteo vogliono dunque aiutarci a fortificare la nostra fede e la nostra appartenenza alla chiesa, che non è un’entità astratta e lontana da noi, ma siamo noi stessi quando ci impegniamo a vivere il vangelo tra noi, con gli altri e per il mondo. Il gruppo di ascolto è allora un’esperienza di discepolato comunitario, di scuola comune dietro il Maestro, il Signore Gesù, che ci ha promesso non ci lascerà mai soli fino alla fine dei giorni. Essere cristiani è infatti proprio questo: vivere la propria vita alla presenza del Signore, come se fossimo costantemente sotto il suo sguardo, guidati e sorretti dalla sua parola, confortati dalla sua misericordia, animati dal suo spirito. Vivere alla presenza di Dio significa tenere viva dentro di noi la sua parola, perché essa ci aiuti a giudicare e a cambiare noi e il mondo secondo la sua volontà. Vivere alla presenza di Dio in realtà non è altro che vivere consapevoli di questa presenza, perché Egli è e sarà sempre con noi, ce lo ha promesso, ma siamo noi che spesso siamo fuori di noi, lontano dalla verità e dall’amore, siamo noi che viviamo come anestetizzati da un mondo che ci parla parole diverse dal vangelo, siamo noi che inariditi da una vita disordinata, distratta, superficiale, neutralizziamo la parola di Dio e la releghiamo agli angoli della nostra vita e negli scampoli di tempo. Il gruppo di ascolto è dunque una grande occasione che la chiesa ci offre per ridare il primato a Dio, per far emergere dal profondo della nostra vita la forza della sua presenza.

Il presente sussidio

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Il sussidio di quest’anno presenta dieci episodi del vangelo di Matteo scelti secondo due criteri di fondo: 1) presentare i tratti caratteristici del vangelo di Matteo che lo distinguono dagli altri vangeli; 2) integrare la conoscenza della vita e dell’insegnamento di Gesù con episodi che non erano stati presentati nel precedente sussidio su Marco. Si tratta di dieci episodi che possono essere utilizzati sia in una lettura continua del vangelo, sia in una lettura tematica. Tocca ai parroci e agli animatori dei gruppi di ascolto decidere come utilizzare il sussidio, anche se soprattutto per chi è poco che si è accostato alla lettura della Parola di Dio, la lettura continua rimane la forma consigliabile, in quanto permette di farsi un’idea più organica dell’insegnamento e della vita del Signore. Il sussidio di quest’anno non presenta una cornice di preghiera, non perché questa non sia importante e necessaria, che anzi la preghiera deve rimanere il contesto privilegiato nel quale leggere il vangelo, ma semplicemente perché si è ritenuto di comporre un sussidio più snello e maneggevole. Rimane consigliabile introdurre sempre l’ascolto con il segno della croce, e concludere con delle preghiere finali anche spontanee, o con la recita di un salmo e un padre nostro, seguita da una breve orazione finale. A questo proposito è utile e consigliabile usare le orazioni e le preghiere proposte nella liturgia delle ore a cui si potrà attingere con abbondanza e fruttuosamente. Ogni scheda si conclude con delle domande che hanno lo scopo di indirizzare la discussione e lo scambio all’interno del gruppo cercando di rimanere il più possibile attinenti ai temi e agli argo-


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menti presenti nella pagina di vangelo letta. Può darsi che talora le domande possano sembrare troppo difficili per alcuni o troppo banali per altri, starà all’animatore adattare, guidare, usare le domande a secondo delle circostanze e della necessità del gruppo. Le schede sono state preparate da dieci persone diverse, parroci e non, tutte impegnate nella pastorale. Se questo forse non ha prodotto un sussidio completamente omogeneo ha però permesso di dare voce alle diverse sensibilità e ricchezze presenti nella nostra chiesa pistoiese. Ringrazio vivamente quanti hanno dato il loro contributo per la composizione della schede e mi auguro che la fatica frutti per la nostra chiesa una nuova stagione di spiritualità e impegno, segnata dalla guida della Parola di Dio e dalla gioia di un cammino condiviso nella fraternità ecclesiale. Questo piccolo libretto è in tal senso già espressione della ricchezza della nostra chiesa pistoiese di cui dobbiamo ringraziare il Signore. d. Cristiano D’Angelo

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In ascolto della Parola Carissimo quando ti metti in ascolto della Parola per condividerla qualunque sia il tuo compagno di cammino, giovane o anziano, adulto o bambino, siedi con calma e affidati al Signore. Rispetta la Parola che ascolti, lascia che metta a tacere le tue parole. Se fai spazio al suo dire, non rischierai di attaccare un panno nuovo su quello vecchio, ma si rinnoveranno gli otri per il vino nuovo che sgorga dalla pagina sacra. Siedi dunque ed accogli colui che è accanto a te. Invoca lo Spirito perché è Lui che conduce all’ascolto. Leggi correttamente la Parola, a voce alta e chiara. Non giungere impreparato all’incontro, perché lo Spirito si serve della tua intelligenza. Non credere troppo alle tue forze e alle tue capacità, perché Dio si serve di tutti ed opera in tutti. Non parlare troppo per non mortificare il soffio dello Spirito che si posa su chi vuole. Se devi avviare l’incontro fallo con sobrietà e attenzione, con semplicità e umiltà, perché la Parola deve crescere e tu diminuire. Dai a tutti il tempo di esprimersi senza timore, dopo aver riflettuto. Ricordati e ricorda ai tuoi amici che la fede viene dall’ascolto, che l’ascolto della Parola genera la comunione, che la comunione è dialogo nella diversità, che il dialogo avvicina alla Chiesa, che la Chiesa viene prima del tuo piccolo gruppo di appartenenza. Hai iniziato l’incontro invocando lo Spirito, concludilo ringraziando il Padre di ogni grazia perché nel suo Figlio ha parlato al tuo cuore.

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“Non temere di prendere con te Maria, tua sposa ”

L’annunciazione a Giuseppe e la nascita di Gesù (Mt 1,18-25)

Scheda I

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Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19 Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20 Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. 22 Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù. 24

In questa pagina di vangelo si narra come nacque Gesù dalla prospettiva di Giuseppe. Normalmente si ha in mente la storia dell’annunciazione a Maria come è raccontata dal vangelo di Luca. Per certi versi Matteo riporta quella che potremmo chiamare l’annunciazione a Giuseppe. Sono due modi diversi di raccontare lo stesso mistero, quello della nascita di Gesù, che dobbiamo comprendere a partire dalle differenti preoccupazioni e interessi di Matteo e di Luca. Nel caso dell’evangelista Matteo egli è molto più legato di Luca al mondo ebraico e alle preoccupazioni che potevano avere cristiani legati ad esso per usi, abitudini e costumi. Ora per un giudeo dell’antichità la discendenza, cioè le origini di un uomo sono fondamentali, per questo il vangelo di Matteo si apre con l’affermazione “Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt1,1). Anticamente la discendenza corrispondeva a una specie di carta di identità, serviva cioè a dire chi era la persona, e a determinare in buona parte la sua identità. Una prova di questo sono le numerose genealogie che si trovano nella Bibbia soprattutto nel libro della Genesi, dove continuamente si riporta all’inizio di ogni storia importante la genealogia dei patriarchi (ad es. Gen 10,10-27 che introduce la storia di Abramo, ecc.). Le genealogie si mettevano perciò all’inizio perché erano una vera e propria presentazione del personaggio. Così il vangelo di Matteo ci presenta da subito chi era Gesù dicendo che egli era figlio di Davide e di Abramo. In realtà egli era figlio di Giuseppe, o per essere precisi dello Spirito Santo, ma per un giudeo uno è figlio anche dei propri antenati. Matteo dunque vuole assicurare che Gesù veniva dalla stirpe di Abramo, era dunque un ebreo discendente del capostipite di tutti gli ebrei, e che era discendente di Davide, e dunque era di stirpe messianica, perché si riteneva che il messia, l’inviato che Dio avrebbe mandato a liberare Israele, sarebbe stato un discendente di Davide. Con questa semplice affermazione Matteo ha dunque già stabilito i contorni dell’identità di Gesù:

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figlio di Abramo, e come lui dunque partecipe della promessa fatta ad Abramo di essere una benedizione “per tutte le famiglie della terra” (Gen 11,3) e figlio di Davide, cioè il messia che libererà il popolo dei peccati che era stato promesso dai profeti e dal primo testamento (Is 7,14; Sl 130,8). Matteo insiste su questo perché, evidentemente, nella sua comunità era importante confermare che Gesù fosse il messia figlio di Davide. Matteo, inoltre, doveva rendere conto anche del dato noto ai cristiani che Gesù era in realtà figlio di Maria, per opera dello Spirito Santo, per cui deve spiegare come e perché Giuseppe accettò di fare il padre di Gesù. Il racconto si apre proprio così, con l’affermazione che Maria “era promessa sposa di Giuseppe” e che prima di andare a vivere insieme essa rimase in cinta per opera dello Spirito Santo. Ora, essere promessi sposi nel mondo ebraico non significa come oggi, semplicemente essere fidanzati, perché in realtà due persone promesse spose erano già sposate, e il matrimonio aspettava semplicemente il perfezionamento che si compiva nell’atto dell’andare a vivere insieme. L’adulterio di una fidanzata poteva pertanto essere punito, come quello di una donna sposata, con la lapidazione (Dt 22,3ss.). Il vangelo non analizza le reazioni emotive di Giuseppe, i suoi sentimenti, perché è interessato solo a spiegare come arrivò alla decisione di sposare Maria e al fatto che così Gesù acquistò la discendenza davidica di Giuseppe. Tuttavia si può immaginare i sentimenti di Giuseppe, tradito nella fiducia, nell’onore, innamorato di Maria eppure costretto a prendere atto di una situazione che lo contraddiceva. Il vangelo ci dice tuttavia solo che Giuseppe era “giusto”. Normalmente si danno tre spiegazioni di questa “giustizia” di Giuseppe: 1) è giusto perché è buono con Maria; 2) è giusto perché non vuole essere il padre di un figlio che non gli appartiene; 3) è giusto perché fa la volontà di Dio. Nella Bibbia la giustizia è un concetto che si applica ai grandi personaggi come Noè (Gen 6,9) o Abramo (Gen 15,6). Ora la giustizia è nella Bibbia sia il piacere a Dio, cioè il fare la sua volontà, sia l’essere giusti davanti agli uomini. Giuseppe, dunque, è un uomo che è giusto, ma il problema è capire come comportarsi in modo giusto quando la volontà di Dio non è chiara ed evidente e quando i propri sentimenti interiori sembrano essere smentiti da una realtà difficile da capire e da accettare. La giustizia non è mai un sentimento dato una volta per sempre, ma un processo dove l’uomo è chiamato a interrogarsi per capire meglio e ad agire preservando il più possibile il bene davanti a Dio e agli uomini. La giustizia di Giuseppe si manifesta anzitutto decidendo di non esporre pubblicamente Maria all’infamia e alla condanna per adulterio. Il vangelo ci dice dunque che il rispetto di una vita umana vale più dell’onore. Tuttavia il dramma interiore di Giuseppe non finisce qui, il vangelo infatti ci fa capire che questa sua volontà di non accusare Maria non era tuttavia ancora la risposta ai suoi perché e alle sue domande. Giuseppe infatti ha deciso, ma dentro di sé continua a riflettere, il vangelo dice: “mentre però stava considerando queste cose” (Mt 1,20). Il verbo greco, enthumethentos, è più preciso riferendosi all’idea del tenere dentro di sé, dentro il proprio spirito. Giuseppe non ha capito, e seppure una decisione l’ha presa, continua a tenere dentro di sé le cose. Anche in questo si manifesta la giustizia di Giuseppe. Nella vita infatti molte volte ci troviamo in situazioni simili, dove nonostante le decisioni da prendere non siamo sicuri di aver agito bene, o dove semplicemente non sappiamo dire fino in fondo dove inizia la verità, il bene o il male. Giuseppe ci insegna l’arte del custodire nel cuore la vita, con le sue domande e le sue incertezze. Il tenere dentro di sé le cose, cercando e interrogando la vita, come se gli interrogativi fossero il nostro respiro, che lasciamo entrare e uscire per vivere. Giuseppe dunque è anche un modello di vita spirituale, similmente a Maria (Lc 2,19.51). Mentre Giuseppe è in questo lavoro interiore, un angelo del signore gli appare in sogno (Mt 1.20). Bisogna notare intanto che il vangelo non dice che Giuseppe dormiva e che quella dell’angelo è un’apparizione. Sono particolari che caratterizzano l’esperienza di Giuseppe come una rivelazione e non semplicemente un sogno. Nel mondo antico si credeva infatti che Dio parlasse agli uomini


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tramite sogni, apparizioni, o segni. Il sogno infatti rappresenta un momento in cui l’uomo non è attivo e in cui ad agire è Dio. Nel sogno spesso si fanno associazioni di idee e collegamenti che da svegli non si fanno, nel sogno capita di vedere ciò che alla luce del sole non appare, perché nel sonno l’uomo è abbandonato, e allora forze e pensieri che in noi ci sono, ma non sono nitidi, possono diventarlo. Dio si serve a volte dei sogni anche per questo, e soprattutto nell’antichità si era convinti di questo. Certo non dobbiamo esagerare, pensando che ogni sogno sia un messaggio di Dio, ma nel caso di Giuseppe è chiaro che lo fu, infatti si parla di angelo e di apparizione. Non bisogna dimenticare inoltre che Giuseppe stava riflettendo, dunque, la chiarezza su quello che vive non è solo il frutto di un’apparizione, ma anche della partecipazione di Giuseppe. E’ significativo che l’opera dell’angelo è anzitutto un invito a “non temere”, l’angelo rassicura Giuseppe su quello che sa già, che cioè Maria è “tua sposa”. L’opera dell’angelo consiste anzitutto nel confermare Giuseppe, aiutandolo a discernere tra i molti pensieri quelli giusti. L’angelo conferma Giuseppe che ha fatto bene ad agire in base al sentimento profondo che prova nei confronti di Maria. Quindi l’angelo spiega a Giuseppe quello che non poteva sapere o capire, annunciandogli che il figlio di Maria viene dallo Spirito Santo, è opera di Dio, ma che sarà lui a dargli un nome. Quel figlio opera dello Spirito, accolto e cresciuto dalla fede e dalla giustizia di Maria e di Giuseppe sarà la salvezza del popolo dai suoi peccati. Giuseppe dovrà chiamare il figlio “Gesù”, cioè salvezza, perché questo è il significato del nome Gesù. Il figlio che porterà la salvezza dai peccati (cfr. Sl 130,8). In cosa precisamente consisterà “la salvezza dai peccati” sarà tutto il vangelo e la vita di Gesù a chiarirlo, ma per ora, per Giuseppe è importante capire che quel figlio ha una missione speciale, che quel figlio è la presenza di Dio che salva, nella vita di Maria, di Giuseppe e del mondo intero. L’angelo poi ricorda a Giuseppe un brano del primo testamento dove si afferma che una giovane donna, una vergine, concepirà un figlio che si chiamerà Emmanuele (Is 7,14). La citazione è importante, perché per un giudeo del tempo dire che una cosa avviene secondo quanto detto nella S. Scrittura era un modo per confermare che quella era volontà di Dio. La conoscenza della scrittura è fondamentale per capire la volontà di Dio, il ricordo di quanto avvenuto ai tempi del profeta Isaia adesso aiuta Giuseppe a capire quando sta avvenendo a lui. Conoscere le scritture aiuta a capire meglio la volontà di Dio e la nostra vita. L’angelo dunque sta dicendo che la salvezza portata dal figlio è simile a quella promessa da Isaia, e che anzi consiste proprio nel bambino che sta per nascere a cui “sarà dato il nome di Emmanuele”. Emmanuele significa in ebraico “Dio è con noi”. Si potrebbe dire che la salvezza dai peccati consiste proprio in questo, nell’essere Dio con noi; è la vicinanza di Dio che libera l’uomo dai peccati; la salvezza è la fiducia che Dio infonde nei cuori, è la sua vicinanza che aiuta l’uomo a vivere lontano dal peccato; la salvezza promessa all’uomo è “il vivere con Dio”. Il figlio che sta per nascere dunque è la vicinanza di Dio agli uomini, e il vangelo, il racconto della vita di Gesù non è altro che il racconto della vicinanza di Dio all’umanità. L’uomo è salvo se Dio è con lui, e se vive in modo tale che il Dio vicino diventi anche il suo Dio, il Dio le cui parole guidano la nostra vita, il cui amore ci purifica e ci spinge a vivere nella giustizia. Non è un caso che il vangelo di Matteo non si conclude con il dono dello Spirito Santo, ma con Gesù che salendo al cielo dice “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il messaggio che Matteo vuole dare ai cristiani della sua comunità e ai cristiani di ogni tempo è dunque questo: Dio è vicino, si è fatto vicino a noi nel Signore Gesù, noi possiamo sperimentare questa sua vicinanza grazie al vangelo, alla buona notizia del suo amore per noi, e alla vicinanza dei credenti e della Chiesa ad ogni uomo. Dio è vicino ad ogni uomo in Gesù, e il vangelo che parla di lui è per noi il documento e la presenza di Dio. Leggere il vangelo significa per tanto lasciare che “il Dio con noi” ci parli; leggere e vivere il vangelo è il modo per lasciar agire in noi il Dio della vicinanza, quel Dio che, lo ha promesso, non ci lascerà mai fine alla fine dei giorni.

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Domande per la riflessione e la condivisione 1) La volontà di Dio non è sempre facile da capire. Hai fatto esperienze in cui ti sei domandato cosa volesse Dio dalla tua vita? 2) Se tu fossi stato San Giuseppe come avresti agito? In che senso secondo te Giuseppe “era un uomo giusto”? Cosa significa oggi nella nostra vita “essere giusti”? 4) Giuseppe ci insegna l’arte di “considerare” le cose dentro di sé, cosa dovremmo fare perché nella nostra vita ci sia il tempo della preghiera? 3) Gesù ci salva dal peccato, che idea hai di peccato e di salvezza?

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“Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo” La visita dei Magi (Mt 2,1-12)

Scheda II

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Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme2 e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. 3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4 Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6 E tu, Betlemme,terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”. 9 Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima.11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. 7

Il brano inizia dando le coordinate spazio-tempo dell’evento dell’incarnazione: Dio visita il suo popolo. Nasce un bambino, Gesù, a Betlemme di Giudea al tempo del re Erode. Questo bambino porta in sé un mistero grande che viene annunciato anche dal cielo. Da oriente infatti giungono a Gerusalemme dei sapienti astrologi che fanno ad Erode una domanda imbarazzante: “dov’è il re dei Giudei che è nato?” Il re Erode ha già avuto diversi problemi di potere con i figli, ma chi può essere il re dei giudei annunciato da una stella per cui vengono dei sapienti da così lontano per adorarlo? Un turbamento prende Erode e tutta Gerusalemme. C’è qualcosa che va oltre la classica lotta di potere, c’è una mentalità nuova che fa intravedere quella storia di salvezza in cui il Signore suscita un unto, un messia, per salvare il popolo, un re come Davide, chiamato direttamente dal Signore. Ma Dio rivela la sua opera attraverso la Scrittura in cui si evidenzia la parola profetica. E’ per questo che Erode riunisce i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo per sentire da loro dove doveva nascere il messia. Vediamo che prontamente gli rispondono, attraverso il profeta Michea, che è Betlemme di Giudea il luogo di nascita del messia. Ci sono due progetti a confronto: il progetto 11 di Dio che si realizza attraverso i magi che si fanno pellegrini per incontrare il Signore e il progetto di Erode e dei sacerdoti. Oltre all’elemento storico si mescola l’elemento teologico e simbolico: si indica dei modelli da seguire (i magi) o da fuggire (Erode e i sacerdoti). In Erode sono designati gli ipocriti che fingendo di essere alla ricerca del Signore non arrivano mai ad incontrarlo. Nel testo viene specificato con attenzione il suo progetto:


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a) agisce segretamente: il Signore è luce e chi lo segue cammina nella luce. L’opera di Erode è segreta, rimane nell’ombra, nelle tenebre. Ci sono progetti di morte in Erode, che vogliono contrastare la luce. Egli si serve sia della scienza degli scribi che della sapienza dei Magi. Di tutto si serve il male, soprattutto del bene. b) Si fece dire con esattezza dai magi il tempo in cui era apparsa la stella: questo interesse che si potrebbe dire oggi, scientifico, di Erode, nasconde un secondo fine persecutorio nei confronti di Gesù. Si informa della stella per giungere con maggiore sicurezza sulla sua preda. Qui possiamo vedere tutta la razionalità dell’uomo nel compiere il male. Un sapere che non ama è sempre anticristico. C’è qui tutto il percorso della premeditazione nel progettare il male che ci mostra che l’uomo per un idolo (in questo caso il potere) è pronto anche a spergiurare. c) “Andate e informatevi accuratamente del bambino”: questa precisione giornalistica che viene richiesta da Erode in realtà nasconde un secondo fine. d) “Quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”: qui vediamo tutta l’opera simulatoria di Erode, lui che non tollera chiamare il bambino, re dei giudei, perché non tollera avversari, come può adorarlo? Erode utilizza lo stesso linguaggio dei magi scimmiottando il loro atteggiamento. Erode rappresenta, per questo, lo strumento nelle mani del demonio che è esperto nella simulazione e nella scimmiottatura di Dio. Anche i sacerdoti, che non hanno esitazione a dare la risposta giusta, indicano la direzione, ma non si incamminano, sono troppo ricchi di se stessi e quindi pur conoscendo la Parola non hanno il coraggio di metterla in pratica fino in fondo. I magi istruiscono con i fatti e non con le parole: si mettono in cammino guidati dalla stella (Dio si è rivelato loro utilizzando la loro abitudine a scrutare il cielo), si fanno poveri lasciando le sicurezze del loro ambiente (“ai poveri è annunziata la buona novella” (Lc 7,22)), cambiano strada (cambiando la vita , cambia la via). Essi si fanno pellegrini della verità, in movimento verso una meta che il cuore intuisce. Vediamo alcuni aspetti del cammino dei magi: a) “la stella… si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino”. La stella si pone al servizio di Cristo, “sole di giustizia”, e si arresta sul bambino per far capire che Egli è il Figlio di Dio. I magi accolgono la profezia e si fidano della stella: c’è un cammino sapienziale che richiede la fede, un dialogo fecondo tra fede e ragione che approda a conseguire i desideri più profondi del nostro cuore. b) “Al vedere la stella essi provarono una grandissima gioia”: i Magi, tramite il mistero della stella, capiscono che la dignità del re è superiore ad ogni altro. Chi trova il Signore ha accolto la sorgente della gioia ed è colmato di gioia. Egli è il compimento della nostra ricerca di Dio. c) “Entrati nella casa… prostratisi lo adorarono”: i magi fanno l’esperienza dell’incontro con Dio, attraverso l’adorazione del bambino. Adorare significava riconoscere ad uno la sovranità assoluta. Il gesto era riservato al solo sovrano, quindi abbiamo un primo riconoscimento implicito della sua divinità. Anche oggi l’adorazione è l’omaggio che riserviamo solo a Dio, siamo chiamati ad entrare in intimità con Lui, accogliendolo nel nostro cuore e volgendo il nostro cuore a Lui. Si arresta il cammino esteriore, con l’adorazione comincia quello interiore. d) “gli offrirono in dono oro, incenso e mirra”: lo riconoscono in questo modo come vero re, il 12 re dei re. Alla luce della fede vedono un bambino e adorano Dio. Quando anche noi lo riconosciamo come sorgente di tutte le grazie comprendiamo l’esigenza, alla sua presenza, di dare una risposta d’amore. I magi aprono il loro cuore e offrono ciò che contiene. L’oro, ricchezza visibile, rappresenta ciò che uno ha; l’incenso, invisibile come Dio, rappresenta ciò che uno desidera; la mirra, unguento che cura le ferite e preserva dalla corruzione, rappresenta ciò che


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uno è. Aprono a Dio i loro averi, i loro desideri e le loro penurie e Dio entra nel loro tesoro. e) “per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”: l’esperienza del Signore cambia radicalmente il cuore, converte e ci fa prendere una strada nuova, un cammino nuovo. Dando ciò che sono, essi ricevono colui che è, e diventano essi stessi simili a lui. Dio nasce nell’uomo e l’uomo in Dio. Qui si compie il cammino. Il Signore ci rende creature nuove attraverso l’obbedienza della croce, che per chi crede è potenza e sapienza di Dio, via per la quale Cristo stesso si offre come guida.

Domande per la riflessione e la condivisione 1) Il “potere” è una delle grandi tentazioni che rendono l’uomo cieco, violento, ingiusto. Erode ne è un esempio lampante. Cosa possiamo fare per vincere in noi la tentazione del potere? 2) I Magi trovano Dio, Gesù bambino, seguendo una stella (simbolo della razionalità e della scienza che scruta e conosce il movimento degli astri) e le indicazioni della S. Scrittura ricevute dai sacerdoti di Gerusalemme. I magi ci insegnano che la fede e la ragione non sono in contrasto. Come vivi tu il rapporto tra fede e ragione? 3) I Magi rappresentano l’umanità che si mette in cammino per trovare Dio. E noi? Sentiamo in questo momento della nostra vita che dovremmo forse smuoverci da qualcosa o da qualche situazione per andare incontro a Dio che viene? 4) La stella indica la presenza di Dio nel mondo. Come Chiesa dovremmo anche noi indicare al mondo la presenza di Dio. Cosa possiamo fare perché come singoli credenti e come comunità cristiana diventiamo sempre più un segno luminoso della presenza di Dio nel mondo?

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Scheda III

“Non di solo pane vivrà l’uomo”

Le tentazioni di Gesù nel deserto (Mt 4,1-11) Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5 Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7 Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8 Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11 Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano. 1

I Vangeli riportano l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto prima dell’inizio del suo ministero pubblico (Mt 4,17) e immediatamente dopo il suo battesimo nel fiume Giordano (Mt 4,13). Questa collocazione è molto significativa, infatti se nel battesimo viene proclamata la particolare relazione filiale di Gesù con Dio e il suo ministero salvifico a favore dell’umanità, nelle tentazioni tutto questo viene verificato, messo alla prova, perché l’identità di Gesù e la sua adesione al progetto di Dio possa emergere con maggiore forza e chiarezza. Il Signore Gesù, come Israele viene condotto nel deserto per esservi tentato, e qui incontra tre tentazioni simili a quelle del popolo: cercare il proprio nutrimento al di fuori di Dio (Dt 8,3; Es 16); metterlo alla prova per realizzare i nostri progetti (Dt 6,16; Es 17,1); rinnegarlo per la gloria e il potere di questo mondo (Dt 6,16; Es 23,23). A differenza del popolo però, egli non cede alla tentazione, ma la fa diventare motivo di crescita e di rafforzamento della propria identità di Figlio. Come in tutto il vangelo secondo Matteo, anche in questa pericope, Gesù viene presentato come il nuovo Mosè che guida il nuovo esodo dell’umanità verso la salvezza, non quella della fiducia in sé, ma dell’obbedienza a Dio e la rinuncia a se stessi: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce a mi segua” (Mt 16,24). Da questa introduzione possiamo subito trarre qualche spunto per la nostra riflessione spirituale: se Gesù viene condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato (come prima vi fu condotto il popolo d’Israele), e se nella sorte di Gesù è anticipata quella del discepolo, ogni cristiano deve 14 aspettarsi il tempo della tentazione: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1). Non è certo un caso che la prima domenica di Quaresima, nella liturgia della parola, preveda ogni anno il brano delle tentazioni; infatti tutte le volte che facciamo delle scelte importanti, generose e che mettono in secondo piano noi stessi a favore di Dio e degli altri, puntuale arriva “l’accusatore” che cerca di distoglierci, di ingannarci e di farci credere che non c’è bisogno di essere così radicali. Ma il cristiano, guardando continuamente all’esperienza di Gesù


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e alla sua vittoria sulle seduzioni del male, deve perseverare sopportando la tentazione, nella consapevolezza che “dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano” ( Gc 1,12). Proseguendo nella meditazione del nostro brano ci rendiamo subito conto che la tentazione non è un concetto vago e generale: essa si concretizza in delle circostanze ben precise e ci colpisce là dove siamo più deboli e vulnerabili: “Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame”(4,2). Gesù affronta e vince tre tentazioni ben precise che, se ben sviscerate, si rivelano il modello di ogni altra insidia della vita spirituale, o almeno di quelle più pericolose. La prima tentazione parte da un’esigenza reale: la fame. Ci sono in ogni uomo dei bisogni importanti che rispondono agli istinti primari e che chiedono di essere soddisfatti. Il fatto è che il pane non è un assoluto, l’uomo non può essere ridotto al solo istinto o alla sola economia. La salvezza voluta da Dio e portata da Gesù non può esaurirsi nella semplice realizzazione mondana dell’esistenza; il Signore ha rifiutato una salvezza soltanto terrestre che si traduce in termini di benessere. “Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è l’adorazione”, scriveva Alfred Delp, gesuita tedesco giustiziato dai nazisti. Se non riscopriamo il primato di Dio e della sua Parola, i beni materiali non basteranno a renderci felici e far sbocciare la giustizia sulla terra. Gesù stesso combatte le tentazioni citando per tre volte la parola di Dio (“sta scritto”), quasi a sottolineare questa innegabile centralità. Teatro della seconda tentazione è il pinnacolo del tempio (centro spirituale del giudaismo). Gesù viene attaccato su quanto ha di più caro: il suo rapporto filiale di totale fiducia con Dio. Il diavolo citando il salmo 91 nel luogo sacro del tempio, dove la fiducia in Dio dovrebbe essere più viva e manifesta, si dimostra un abilissimo “teologo”, capace di usare anche le cose più sante per i suoi fini perversi. Gesù risponde citando il libro del Deuteronomio (6,16) nel passo dove il popolo di Israele mise alla prova Dio con mormorazioni e contestazioni (Es 17,1-7) chiedendogli di dimostrare la sua presenza attraverso un miracolo e confermando così la sua durezza di cuore e la sua ingrata sfiducia verso Dio. Questa tentazione è dunque quella del miracolismo, che scambia Dio per il supermercato dove comprare le nostre richieste, la gloria con il vuoto applauso delle folle e la fede con la magia. Quello che questa tentazione ci ricorda è la necessità di una fede matura, che non cerca di piegare Dio alle proprie esigenze o al proprio capriccio, ma che cerca, pur non nascondendo le difficoltà e le sofferenze, di abbandonarsi alla volontà di Dio: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (LcNella terza tentazione Gesù viene condotto dal diavolo su un monte altissimo, non localizzato, che la tradizione ha identificato col monte della quarantena (sopra Gerico antica), ma che per l’evangelista Matteo è quasi certamente un’allusione al monte Nebo dal quale Dio mostra a Mosè la terra promessa. Da qui satana offre a Gesù la proprietà e il potere politico sulla totalità del mondo, ma la condizione posta è l’adorazione idolatrica, la perversione del rapporto filiale con Dio. La proposta ingannatrice è quella di un regno trionfalistico sostenuto dalle potenze del mondo e dal possesso delle ricchezze terrene, è quella di una religione del potere e del benessere che esige dal fedele una dedizione totale, che sarebbe invece da rivolgere soltanto a Dio. La tentazione del potere è una delle più sottili e insidiose, perché fa leva sul desiderio di affermazione dell’uomo e sulla sua innata voglia di primeggiare. Il Signore Gesù ha sconfitto però anche questo tipo di seduzione, sottolineando che solo a Dio dobbiamo rivolgere la nostra adorazione (“non potete servire a Dio e a mammona” Lc 16,13), e che l’unico primato che vale la pena di 15 esercitare è quello del servizio: “Colui che vorrà diventare grande tra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi si farà vostro schiavo” (Mt 20,26). Esaurite le tre tentazioni il diavolo si ritira dalla scena e Gesù gode del servizio degli angeli. Questa breve annotazione che chiude il nostro brano è molto significativa perché sottolinea come il Signore abbia ricevuto come dono gratuito di Dio tutto quello che aveva rifiutato come una tenta-


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zione: gli angeli recano a Gesù (il verbo greco richiama il servizio alla mensa) quel pane che egli ha rifiutato di procurarsi (prima tentazione), gli donano quella protezione che Gesù non aveva voluto provocare (seconda tentazione), come abitatori del cielo servono colui che ha rifiutato il dominio sui regni del mondo (terza tentazione).

Domande per la riflessione e la condivisione 1) Le tentazioni, i momenti di prova, rivelano quello che c’è nel nostro cuore. La prova è sempre un momento delicato in cui dobbiamo confrontarci con il nostro mondo esteriore e con il nostro mondo interiore fatto di convinzioni e di opinioni, di decisioni e di dubbi, di istinti e di desideri, di valori e di immaturità. Gesù è modello di umanità che ci insegna a vivere le prove a partire dalla fiducia incrollabile nell’amore di Dio e nella sua Parola. Hai fatto l’esperienza della tentazione? Come sei riuscito a vincerla? Che conseguenze si sperimentano nella vita quando si cede alla tentazione? 2) Gesù nel deserto ci insegna che la salvezza non viene nella fiducia in sé e nel preoccuparsi solo di se stessi, ma nell’obbedienza a Dio e nella rinuncia a se stessi. Cosa significa secondo te abbandonarsi a Dio e rinunciare a se stessi? 3) Le tentazioni proposte a Gesù (pane, pietre, regni) sono la tentazione del vivere seguendo solo l’istinto, del potere, della gloria e dell’onore ecc. Oggi queste tentazioni come si manifestano nella nostra vita? Quali sono secondo te le grandi “tentazioni” del mondo di oggi che cercano di allontanarci da Dio, di toglierci la nostra libertà e di condizionarci al male?

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“Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” Le beatitudini: spirito, legge e contenuto del Regno dei cieli (Mt 5,1-12)

Scheda IV

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Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2 Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: 3 “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”. 1

Per disporci ad un fruttuoso ascolto delle “beatitudini” e affinché la parola di Gesù non rimanga fluttuante sopra le nostre teste, ma possa calare nella vita e possibilmente trasformarla è opportuno dare prima uno sguardo sull’ umanità di oggi, quell’umanità che, per le condizioni in cui versa, dovrebbe essere la destinataria privilegiata della proclamazione delle beatitudini. Poniamoci quindi alcune domande: - Quanti sono attualmente nel mondo coloro che si trovano in uno stato di estrema povertà? - Quanti sono privi di acqua potabile con conseguenze drammatiche per la loro salute e addirittura per la loro sopravvivenza? - Qual è la causa e chi sono i principali responsabili del, fin’ora inarrestabile, impoverimento degli abitanti del terzo e quarto mondo? - Quanti bambini, da zero a sei anni, muoiono ogni anno, ogni giorno, ogni ora per fame o malattie con essa connesse? - Nella nostra comunità ci sono famiglie che, colpite dall’ attuale grave crisi economica, versano in condizioni di indigenza? - La nostra gente, seguendo la mentalità corrente, chi considera e proclama “beati”? Si può leggere e commentare questo brano evangelico da molti punti di vista. Limitiamoci a scoprirvi: 1) il ritratto di Gesù; 2) la visione che Gesù ha delle folle che accorrono intorno a lui e il 17 motivo per cui le dichiara beate; 3) la missione che da questo solenne annuncio scaturisce per i discepoli, che si stringono più vicini a lui per apprendere, dalle sue parole e dal suo modo di vivere, come seguirlo e divenire a loro volta testimoni e annunciatori credibili delle beatitudini. Innanzitutto, quindi, le beatitudini rivelano il volto del Figlio di Dio fatto uomo. Facendosi uomo


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Gesù ha scelto di essere povero. Paolo ce lo dice con queste parole: “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventiate ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8, 9). La povertà di Gesù, in particolare durante il suo ministero pubblico, è tale che di se stesso può affermare: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi ma il figlio dell’ uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,20 ). Gesù è infatti un missionario itinerante, spogliato di ogni sicurezza, come esigerà che lo siano i dodici e i settantadue inviati in missione, che si affida all’ospitalità delle persone a cui annuncia il regno. Gesù ha sperimentato il pianto e la tristezza; ha pianto davanti a Gerusalemme che non l’ha accolto come messia ed è sprofondato nella tristezza nell’agonia del Getsemani: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mt 26,38). E’ stato perseguitato dai capi del suo popolo, detentori del potere religioso, ideologico, politico, economico. E’ stato osteggiato, calunniato, perseguitato fino alla cattura e alla condanna a morte perché profeta affamato e assetato di giustizia e, in quanto puro di cuore, ha coltivato integro dentro di sé il progetto divino di un regno di giustizia, di fraternità, di solidarietà, di condivisione, di vita, di pace proclamandolo con forza e coraggio. Ha vissuto e operato mosso costantemente dalla misericordia: cuore sempre aperto per accogliere gli innumerevoli miseri della sua Galilea, malati, affamati, lebbrosi, pubblicani, peccatrici, cioè tutti coloro che erano ritenuti e trattati come scorie di una società in cui a stento e penosamente sopravvivevano. Proclamando le beatitudini Gesù ha tratteggiato il suo autoritratto. Con che occhi Gesù scorgeva le folle che si ammassavano intorno a lui? Le vede con uno sguardo che penetra la loro triste situazione di povertà, pianto, sconforto. Gesù sa chi sono e come vivono perché è sceso in mezzo a loro, nelle loro piazze in cui attendono che qualcuno offra loro l’opportunità di un lavoro giornaliero, ha camminato con loro nelle loro strade, è entrato nei loro miseri tuguri, ha condiviso la loro vita, ha sofferto la loro stessa fame, si è fatto contagiare e sedurre dalla loro miseria e esclusione sociale. E’ diventato ultimo con gli ultimi, oppresso con gli oppressi della sua terra. Gesù conosce bene l’ostentazione della ricchezza delle città a cui si contrappone la miseria dei villaggi e dei campi, l’arricchimento crescente dei grandi proprietari terrieri, e di contrasto, la perdita delle terre da parte dei piccoli contadini, ridotti a braccianti e molte volte spinti a mendicare insieme a ciechi e paralitici. Tutte vittime degli abusi dei detentori del potere economico e politico, costretti a vivere in una condizione di miseria senza alcuna prospettiva di uscirne. Gesù li vede ma non come massa. Il volto e la storia di ognuno sono impressi negli occhi, nella mente e nel cuore di Gesù. A questi poveri che tipo di beatitudine può annunciare il Signore? Matteo sembra proporre alle sue comunità una beatitudine spiritualizzata. “Beati i poveri in spirito” che potrebbe significare felici coloro che non ripongono la loro sicurezza nell’accumulo di beni ma la ripongono in Dio solo. Ma è plausibile pensare che l’ evangelista abbia voluto affermare che per i poveri se c’è una speranza di uscita dalla loro indigenza, questa speranza è solo l’intervento di Dio? Gesù ai suoi ascoltatori ha voluto affermare: siete felici, voi poveri, perché Dio è dalla vostra parte. Vi ha scelti e vi predilige perché siete le vittime, i figli più bisognosi. Nella sua giustizia non può fare diversamente. Siete felici perché Dio inverte i valori della società; non sono i ricchi, i gaudenti, i sazi, i destinatari del regno ma voi poveri, afflitti, affamati. Dio vi sceglie non solo come destinatari ma anche come costruttori del regno. Lo costruite con la vostra fame e sete di giustizia, con la vostra misericordia, 18 con la vostra purezza di cuore che conserva fedelmente il progetto divino del regno, con l’impegno indefesso di costruire la pace: abbondanza di ogni bene per tutti, indistintamente, i figli di Dio. E’ chiaro che proclamando le beatitudini Gesù pensa ad un cambiamento radicale per quei poveri che sta vedendo, lo pensa e lo desidera per “adesso “, su questa terra di Galilea. Le Beatitudini non possono prendere il cammino del cielo. Per lo meno non esclusivamente. Essendo il regno di


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giustizia e di pace alternativo e opposto ai regni della terra, per instaurarlo i poveri incontreranno opposizioni, lotte e persecuzioni. Perciò Gesù avverte che i poveri sono i primi ad entrare nel regno, e a sperimentare che la liberazione dall’ingiustizia, fame, oppressione avviene attraverso il cammino della croce. Ma assicura che è una croce che è fonte di gioia e esultanza. La missione dei discepoli deve essere la continuazione della missione di Gesù . Sinteticamente: per annunciare le beatitudini bisogna prima viverle; per dirigersi ai poveri bisogna scendere tra loro, dove vivono e soffrono, scendere spogliandosi di ricchezza, prestigio e potere; per poter insieme ai poveri denunciare profeticamente chi li sfrutta e li opprime bisogna prendere distanza da chi detiene il potere, bisogna rifiutarne i benefici e i favori; chi fa l’evangelica opzione dei poveri deve prepararsi a ricevere derisione, emarginazione, persecuzione. Scelta difficile ma indispensabile, scelta che, dobbiamo riconoscerlo con tristezza, la comunità cristiana molte volte non è riuscita a fare nel passato e che le resta difficile fare nel presente. E’ comprensibile. E’ un’impresa più divina che umana. Ma è dono che il Signore vuol fare oggi a noi sua chiesa per il bene e il rispetto dell’ immenso mondo dei poveri.

Domande per la riflessione e la condivisione 1) E’ possibile vivere oggi le beatitudini? 2) La nostra comunità vive la beatitudine nella misericordia? Come? 3) I poveri, gli ultimi partecipano nella vita di comunità? Sono coinvolti nella scelta e progettazione delle priorità pastorali?

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Scheda V

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“Voi pregate così: Padre nostro che sei nei cieli” L’insegnamento di Gesù sulla preghiera: il Padre nostro (Mt 6,5-15)

E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 6 Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. 7 Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. 8Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, 10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. 5

Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; 15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. 14

Tra i tentativi, numerosi, di presentare in modo significativo la preghiera del Pater ne esiste uno che la indica come la vera “casa mia” per il Cristiano. Qui si respira un’atmosfera familiare ed essenziale, qui ci si sente a proprio agio e ci si predispone a modificare il personale atteggiamento, interiore ed esteriore, cercando di respirare a pieni polmoni fino a far nostro questo clima. Di questa preghiera, detta “domenicale”, cioè “del Signore”, lo sappiamo, ci sono state trasmesse due recensioni, che presentano particolari e sfumature diverse. Questa di Matteo, più ampia e completa, risente del clima proprio delle comunità cristiane di provenienza giudaica. Ad esse principalmente si indirizza il Vangelo in cui la troviamo. Anche se l’ambiente in cui nasce è tipicamente giudaico, tuttavia l’elemento che emerge è la novità apportata da Gesù il quale fornisce alla comunità quel contenuto capace di qualificare la sostanza della preghiera. “Quando pregate, dite: Abba”. Il termine che viene suggerito, vuole esprimere quel rapporto con il Padre, che è tipico del Figlio; vuole coinvolgere in una intimità e comunione che tocca l’essenziale del messaggio cristiano. Gesù ci dice: La vostra preghiera trovi motivo, sostanza, valore e contenuto nella vostra vita di figli, in comunione con me, che sono il Figlio. Quindi, la 20 prima importante riflessione che il testo ci impone va cercata nel superamento della logica di una “formula” da imparare e ripetere, per introdurci invece nella ricerca di un atteggiamento nuovo, da figli conquistati dalla tenerezza del Padre. Il testo presenta una netta divisione in due parti: la prima (vv 9-10) esprime tre richieste che riguardano Dio; la seconda (vv 11-13), le quattro richieste che riguardano la vita e la convivenza


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degli uomini nelle loro necessità, sia materiali sia più spirituali. Questa impostazione (3+4; sguardo verticale e orizzontale) ci colloca in un ambito di pienezza e completezza che diventa sempre più propositivo in senso esistenziale: siamo collocati nella ricerca del senso totale. Padre nostro, che sei nei cieli, un padre cioè da non confondere con qualsiasi padre terreno, anche il migliore. Il Dio a cui ci rivolgiamo è Tutt’Altro! E tutt’altra è la logica! Sia santificato il tuo Nome, Venga il tuo Regno, Sia fatta la tua Volontà. Per non tenere un profilo basso di lettura di questa prima parte, dobbiamo pregare insieme queste richieste. La diversità delle formulazioni, tutte e tre di derivazione vetero testamentaria, non ci consente di separarle, quasi che riguardassero contenuti diversi: abbiamo davanti, oggetto di contemplazione nella preghiera, il Regno, il progetto di Dio (la sua volontà), che va compiendosi, realizzando e manifestandosi, nei cieli e sulla terra, la Santità del suo Nome, cioè Lui, Santo, Santo, Santo. esse fanno sì che la nostra attenzione sia rivolta a Colui che è il principio e il fine di tutta la nostra esistenza. E’ quindi la preghiera essenziale del credente che da Dio proviene ed a Dio sa di ritornare. Sappiamo anche, e molto bene, che tutto è nelle mani di Dio e la nostra povertà non è certo in grado di realizzare alcunché! Presentiamo queste richieste a Dio perché riconosciamo che solo in Lui e grazie a Lui è realizzabile la pienezza di senso. D’altra parte noi chiediamo a Dio tutto quanto sappiamo che Lui vuole per noi. In ciò che chiediamo, manifestiamo Fede, Amore, e quella santa Speranza che ci sostiene nel cammino. Come in cielo così in terra, riferito a tutte e tre le richieste: si realizzi qui, in terra, nella storia, ciò che nella nostra preghiera di figli contempliamo presso Dio, nel cielo, riguardo al Regno, al suo Progetto di santità del suo Nome, nel quale siamo coinvolti dalla Volontà amorosa del Padre. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Nella concretezza, nella materialità della richiesta, emergono due particolari: la essenzialità che viene applicata anche alle esigenze immediate del vivere, (il pane) e l’ “oggi”, con un suggestivo riferimento alla raccolta della Manna (Es 16,4), a ribadire la necessaria disponibilità ad accogliere, con gratitudine, il dono gratuito e provvidenziale, da condividere con i fratelli nella necessità. E’ significativo notare che, in contrasto con l’abbondanza dei doni che in certi testi sembra caratterizzare l’era messianica, il Messia Gesù fa chiedere ai suoi il pane per il giorno, il solo indispensabile per vivere. Rimetti a noi i nostri debiti considerando la centralità, cristiana e pasquale, del perdono dei peccati, non può certo meravigliare la quinta richiesta che Gesù suggerisce. Solo Dio perdona: è una certezza spesso ricorrente nel testo biblico! Come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E la consapevole responsabilità dell’orante si pone davanti al Padre con la promessa, impegno, costatazione, di un perdono, dato o da dare, che realizzi quella novità, sia in senso verticale, da parte di Dio, sia in senso orizzontale, per una vita nuova nella comunità. Senza il perdono reciproco, derivante dall’esperienza del perdono ricevuto, non si dà vita nuova nella comunità pasquale. E non ci indurre in tentazione. La difficoltà di comprensione di questa richiesta deriva da una semplicistica lettura del termine indurre, quasi a pensare ad un intervento diretto di Dio a causare l’inciampo. Dio non tenta al male nessuno! (cfr Gc 1,13) Vogliamo affidare al suo amore paterno la nostra debolezza perché ci preservi dalla caduta nel momento della prova. Ma liberaci dal Male, con l’attenzione a considerare “serio” il problema del Tentatore, da cui la volontà del Padre, chiediamo che voglia tenerci liberi. Anche qui possiamo sottolineare l’essenzia21 lità e la stringatezza della preghiera di Gesù: comincia con la parola Padre e termina con la parola Male, quasi a ribadire, senza mezzi termini ed elementi superflui dove sta la sostanza della nostra vita, sempre in cammino, nella lotta, alle prese con gli ostacoli, con sulla bocca e nel cuore l’appello costante al Padre. Difesi dal suo amore avanziamo nella autentica libertà verso il Regno che vien


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Liberaci, Signore, da ogni male. Concedi la pace ai nostri giorni, e con l’aiuto della tua misericordia, vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento, nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore, Gesù Cristo.

Domande per la riflessione e la condivisione 1) Come dice San Paolo occorre pregare sempre, incessantemente. Cos’è secondo te la preghiera? E secondo la preghiera che ci ha insegnato Gesù, il Padre nostro, cosa significa pregare? Perché è importante la preghiera nella vita di un credente? Che esperienza hai della preghiera? 2) Quando preghiamo il padre nostro chiediamo a Dio molte cose e molto importanti (il regno, il compimento della sua volontà, la santificazione del suo nome ecc.) sei consapevole del significato delle invocazioni del padre nostro? Quale invocazione del padre nostro ti piace di più? Quale ti risulta più difficile? 3) Dio è padre e noi suoi figli, siamo tutti fratelli, perché allora spesso facciamo fatica a sentire concretamente che ogni uomo è nostro fratello e sorella?

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“Dov’è il tuo tesoro là sarà anche il tuo cuore” L’insegnamento di Gesù sulla ricchezza e la provvidenza (Mt 6,19-34)

Scheda VI

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Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; 20accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. 21Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore. 22 La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; 23ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! 24 Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. 25 Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33 Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena. Inquadrato nel grande discordo delle Beatitudini, questo brano è una messa in guardia contro ciò che può ostacolare il cammino del Regno. L’amore alle ricchezze intralcia la ricerca dei valori più grandi. In ogni tempo la ricchezza è l’aspirazione dell’uomo. Il Thesaurus “tesoro” di cui parla Gesù è l’accumulo dei beni di fortuna che apparentemente danno sicurezza ma in realtà creano affanno. I tesori della terra non possono costituire la base dell’esistenza umana, perché rischiano di schiavizzare l’uomo che perde il suo cuore e la sua intelligenza dietro al proprio tesoro. Mentre il tesoro vero da cercare, che rende libero l’uomo, è ammassare gesti di misericordia e di gratuità. C’è inoltre un altro pericolo per l’uomo che cerca tesori ed è quello di diventare autosufficiente ed idolatra. La parola Mammona1 che è forse di derivazione siriaca, in ebraico ed aramaico è così 23 scritta: ma’ amum e ha la stessa radice di emunà (fede) e significa ciò in cui si confida, la sostanza

1 E’ il termine tradotto con “ricchezza” in Mt. 19,24.


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su cui si fonda l’esistenza. Mammona è usata anche negli scritti rabbinici ed è una parola che personifica la ricchezza che diventa potenza demoniaca. Essa si impossessa dell’uomo e lo domina per cui Dio e Mammona sono due “signori” (Kirioi), due signori assoluti che totalizzano l’aspirazione umana ed assorbono in modo alternativo l’uomo. Dunque sono inconciliabili ed esigono una scelta precisa di campo. Certamente estremizzare questo concetto porterebbe ad una visione tutta negativa e pessimistica sui mezzi mondani e su ciò che è materiale. Ma in realtà non è così. L’uso delle cose, dunque anche del denaro, è legittimo ma non deve assorbire, coartare, ostacolare la libertà spirituale dell’uomo. L’uomo deve sempre cercare la libertà ed essere liberi significa non essere schiavi di nessuno e di nessuna cosa. Solo un cristiano libero e distaccato dai beni sa considerarli come uno strumento per raggiungere una meta legittima ed essenziale e non come termine dell’appagamento. Inoltre i beni che si possiedono sono da considerarsi un dono di Dio e dunque vanno condivisi con gli altri e non contro gli altri per avere su di essi supremazia e spirito di oppressione. Nella stessa linea nel testo di questo brano evangelico troviamo di non “preoccuparsi” che è un ritornello che Gesù ripete sei volte. Il successivo brano, Matteo: 6,25-34 è un testo della prima catechesi e parenesi cristiana sulla Provvidenza divina. Mentre la prima pericope sul tesoro era rivolto ai ricchi ora questo brano è rivolto a tutti anche ai meno abbienti. E’ anch’esso un richiamo deciso alla priorità degli interessi del Regno. L’argomento che raccomanda la fiducia nella Provvidenza divina è fondata sul dono che Dio elargisce agli uomini: bisogna avere molta fede per non affannarsi perché la cosa più importante è che il cristiano attenda ai suoi impegni riguardo al Regno. Il termine giustizia è una semplice traduzione e significa “modo di vivere” (mispat): compimento della sua volontà. E’ più importante il Regno che le altre cose ed è verso il Regno che deve tendere il primo interesse nel cuore e nella mente dell’uomo. Ci sono due pericoli da evitare se non si legge attentamente il testo: il fatalismo o l’immobilismo che sono tutti e due concetti estranei al discorso di Gesù. Dio non vuole un mondo dove l’ansia, il tormento e la disperazione prevalgono per i programmi economici e le situazioni economiche. E’ ciò che, per esempio, oggi vediamo sta accadendo in occidente con la crisi finanziaria in atto: infelicità ed esasperazione dappertutto. Come si nota il tema del Regno di Dio è dominante nella evangelizzazione di Gesù ed è un monito per noi cristiani e per tutta la Chiesa. E’ un invito a non mondanizzarsi, a non basare la nostra testimonianza sulla potenza delle strutture sorrette dai potenti e dai ricchi; è un invito a cambiare radicalmente rotta e ad essere alternativi alle logiche di un mondo economico finanziario che crea affanni, disperazioni, impoverimenti ed ingiustizie. Mi pongo allora una domanda: le nostre parrocchie, i nostri fedeli, e noi ministri della Chiesa poniamo veramente attenzione al rapporto col denaro e alla sudditanza dei potentati economici? Il nostro senso della Provvidenza è veramente posto in Dio e nel suo Regno o nelle disponibilità delle fondazioni bancarie? Non sono domande retoriche e prima di tutto vanno rivolte a ciascuno di noi. Se è vero che nel Vangelo non c’è ricerca di pauperismo ma di povertà, intesa come distacco dagli idoli, è anche vero che ogni parola del Vangelo richiede una coerenza radicale a ciascuno di noi ed alle nostre comunità ecclesiali. A noi ci deve prima di tutto premere la ricchezza di un cuore che non fa calcoli nel donare e nel servire e non perde tempo a pensare come accumulare sapendo che questo ci fa diventare schiavi. 24 La libertà dei figli di Dio va pagata a caro prezzo, ma, il Vangelo ce lo insegna, scorciatoie e riduzionismi non ce ne sono per nessuno.


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Domande per la riflessione e la condivisione 1) Cosa sono secondo te “i tesori in cielo” che il Signore Gesù ci invita ad accumulare? 2) “Non potete servire Dio e la ricchezza”, cosa voleva dire Gesù ponendo questa alternativa radicale? 3) Una sbagliata preoccupazione di sé ci rende come “pagani” che non cercano più il regno di Dio e la sua giustizia. Cosa possiamo fare per vivere quell’atteggiamento di fiducia che il Signore ci chiede? 4) Abbiamo mai fatto esperienza della Provvidenza? Ci fidiamo di essa?

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Scheda VII

“In Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande”

Gesù guarisce il servo di un centurione (Mt 8,5-13) Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava:6 “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”.7 Gesù gli rispose: “Io verrò e lo curerò”.8 Ma il centurione riprese: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito.9 Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va’, ed egli va; e a un altro; Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa”.10 All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: “In verità vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande.11 Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli,12 mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti”.13 E Gesù disse al centurione: “Và, e sia fatto secondo la tua fede”. In quell’istante il servo guarì.

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La guarigione del servo/figlio (il greco pais può significare ambedue le cose) è l’episodio centrale dei tre racconti di guarigione che troviamo nella pericope di Mt.8,1-17 e fa parte della più ampia sezione dei capp. 8-9, dedicata alle “opere del Messia”, che raccoglie ben 10 miracoli.

Il contesto antecedente

Gesù ha appena concluso il cosiddetto discorso della montagna, un insegnamento considerato dagli ascoltatori stupefacente, impartito con autorità e differente da quello degli scribi: per questo, scendendo dal monte, molte folle lo hanno seguito (Mt.7,28-8,1). In realtà la sua parola piena di fascino e di bellezza ma anche paradossale, dura e carica di inaudita radicalità, è una vera e propria parola creativa: il suo obbiettivo è quello di dar vita al nuovo popolo di Dio. Mediante la sua opera di liberazione realizzata in parole e gesti, Gesù si propone come il Mosè del tempo finale (Dt.18,15), il Messia escatologico promesso da Dio. La totale obbedienza che egli richiede, il suo insegnamento arduo ed esigente sono però animati da una profonda volontà inclusiva che vuole abbracciare tutti e tutti condurre, in una rinnovata comunione, al cospetto della santità del Padre, comprese quelle categorie tradizionalmente emarginate ed escluse. Ecco perché i tre miracoli narrati in Mt.8,1-17 coinvolgono tre categorie che, sebbene a diverso titolo, non hanno pieno accesso al culto secondo le disposizioni contenute nei capp. 13-15 del Levitico: i lebbrosi, i pagani, le donne. Ormai davanti a Gesù non è più decisiva la condizione socio-religiosa, quella razziale e quella sessuale, ma la fede nella sua parola in quanto espressione di affidamento totale e incondizionato alla sua persona. E’ questa l’unica condizione necessaria per appartenere al 26 gruppo di coloro che lo seguono e che fanno esperienza della sua azione liberante. Così, proprio per affermare la centralità del rapporto con il Cristo nella fede, Matteo riduce ai minimi termini i dettagli narrativi dei miracoli (distinguendosi dai racconti paralleli degli altri evangelisti), mettendo invece al centro il dialogo fra i miracolati e Gesù.


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Analisi del testo

(VV. 5-6) L’inizio del testo che a noi interessa ci dà appena due indizi molto rapidi per inquadrare luogo e protagonisti: il luogo è Cafarnao, un’importante città di confine dove esisteva un ufficio doganale; i protagonisti sono invece Gesù, che entra nella città, e un centurione che gli si fa incontro per rivolgergli un’accorata preghiera. Alcuni biblisti non ritengono credibile la presenza a Cafarnao di soldati romani ai tempi di Gesù e considerano il dato derivante dall’esperienza di Matteo; altri invece sostengono che possa trattarsi di mercenari, soldati stranieri a servizio del tetrarca Erode presenti proprio a motivo della dogana. Comunque sia, non è certo il dettaglio storico ciò che all’evangelista interessa: quello che invece gli preme è il porre in evidenza che a dare prova di una grande fede sarà un pagano, proprio in quella Cafarnao -base operativa del ministero di Gesù (Mt. 4,13)- da Lui aspramente accusata di incredulità nonostante il gran numero di segni in essa compiuti (Mt.11,23). (VV.7-9) L’immediata risposta di Gesù alla preghiera è a sua volta occasione di disputa fra gli studiosi, perché può essere tradotta sia come risposta affermativa (come anche la nuova versione della CEI traduce), sia come interrogativa. In quest’ultimo caso, si tratterebbe di un rifiuto simile a quello opposto in Mt.15,26 alla donna cananea, per cui la frase suonerebbe: “Devo venire io a guarirlo?” Benché sia forse preferibile questa seconda traduzione, più coerente con il resto del racconto di Mt., il risultato non cambia di molto. La sorprendente contro-risposta del centurione infatti, sia che voglia risparmiare a Gesù problemi di contaminazione, sia che cerchi di convincerlo ad operare comunque, ha la capacità di smuovere il proprio interlocutore in virtù di una straordinaria confessione di fede nella potenza efficace della sua parola; inoltre contiene, almeno implicitamente, una cristologia che riconosce a Gesù piena autorità nella sfera del divino. Lo stesso esempio che il centurione trae dall’esperienza militare, mira a mettere in risalto come il fondamento della sua totale fiducia riposi nel riconoscimento dell’autorità di Gesù che, a differenza della propria, non conosce limitazioni. (VV.10-12) La meraviglia di Gesù e le parole rivolte a coloro che lo seguivano, riflettono innanzitutto la meraviglia che conoscerà la comunità di Matteo per la conversione dei pagani che, dopo la Pasqua, aderendo alla fede numerosi da ogni angolo della terra, verranno innestati come l’olivo selvatico nell’olivo buono, alla cui radice sono i Patriarchi (Rm.11,11-24). Nelle medesime parole però dobbiamo leggere anche un avvertimento e un’esortazione che l’evangelista rivolge a coloro che pure hanno aderito al vangelo, ai figli del Regno, affinché non commettano lo stesso errore di quei giudei che non hanno creduto: l’appartenenza al vero Israele infatti, non sarà un dato acquisito una volta per tutte, non sarà una semplice adesione ad un sistema di norme e di pratiche religiose, ma dovrà continuamente alimentarsi della fede in Gesù e nella sua parola che opera, guarisce e crea un uomo nuovo, un nuovo popolo, un nuovo mondo. Al di fuori di questa fede viva e vitale, nella quale ci si consegna al Signore con incrollabile fiducia 27 nella sua parola, nessuno -fossero anche coloro che pur sono entrati a far parte della comunità cristiana- è al riparo dal rischio delle tenebre e del fallimento formulato mediante l’espressione apocalittica del pianto e stridore di denti. Gesù non può essere confuso con uno dei tanti guaritori a lui contemporanei, la cui presenza è ben attestata nella tradizione ebraica: egli è invece il servo


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escatologico di Dio, il suo rivelatore definitivo e il suo Messia. Per questo il suo passaggio va colto con prontezza, e la fiducia che esige non tollera di essere equiparata a quella attribuita ad altre sicurezze umane e religiose, comprese quelle più sacre e vincolanti (Mt. 8,18-22). (V.13) E’ quello che in maniera esemplare fa il centurione, ricevendo in cambio da Gesù tutto ciò che la sua fede ha osato sperare. Così egli permette alla parola di Gesù di manifestarsi in tutta la sua immediata potenza creatrice e liberante, diventando un modello per il lettore di ogni tempo.

Un’osservazione relativa al contesto successivo

Illustrato il racconto di Mt.8,5-13, rimane da fare un’ultima annotazione estremamente importante per comprendere correttamente l’intera attività taumaturgica di Gesù. In Mt.8,17, che conclude il racconto dei primi tre miracoli, si riporta il brano profetico di Is.53,4, un breve frammento del notissimo IV canto del servo di JHWH: Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie. Questa citazione risulta decisiva proprio per evitare di confondere Gesù con un guaritore, equivoco purtroppo sempre presente fra i credenti. In realtà, mentre tutta l’enfasi sembra posta sui risvolti spettacolari del ministero di Gesù, su una potenza che potrebbe suggerire una sorta di culturismo divino, mediante il quale Dio mostra i muscoli e risolve tutti i problemi a suon di miracoli, Matteo invece, attraverso la sua citazione di adempimento, spiazza completamente i cultori di un tale Dio miracolistico, e riconduce l’attività di guarigione di Gesù alla sua autentica dimensione, nell’alveo cioè della sua passione, del mistero della sua croce, segno distintivo della vera potenza del Dio di Gesù Cristo e mezzo della nostra liberazione e guarigione. A tale proposito mi pare preziosa questa citazione tratta dal famoso testo di Dietrich Bonhoeffer Resistenza e resa: “E’ assolutamente evidente, in Mt.8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione.( ) solo il Dio sofferente può aiutare.”

Domande per la riflessione e la condivisione 1) Riusciamo a superare una concezione magica della presenza del Signore? 2) La Parola del Cristo è per noi una semplice istruzione di carattere etico-religioso oppure è una Parola creatrice che ci libera e ci rinnova? 3) Sappiamo accoglierla, custodirla, studiarla, affidare ad essa la nostra esistenza anche quando sembra smentire le nostre aspettative e contraddire i nostri desideri oppure preferiamo riporre la nostra fiducia in altre parole, magari anche di provenienza religiosa, perché si presentano più facili e allettanti? 4) Sappiamo come popolo messianico farci annunciatori del Vangelo a tutti, superando la logica mondana del potere e dell’egemonia, e accettando che solo nella solidarietà con la Croce di 28 Cristo diventiamo efficacemente collaboratori della sua azione universale di resurrezione?


“Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme” La parabola della zizzania (Mt 13,24-43)

Scheda VIII

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Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. 28Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. 29“No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio””. 31 Espose loro un’altra parabola, dicendo: “Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suo33 Disse loro un’altra parabola: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”. 34 Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, 35 perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. 36 Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: “Spiegaci la parabola della zizzania nel campo”. 37Ed egli rispose: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno 39e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. 40Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità 42 e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. 43Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti! 24

La parabola del grano e della zizzania è inserita nel capitolo che Matteo dedica all’insegnamento parabolico e si trova in piena continuità tematica con quella che la precede, la parabola del seme. Da essa, infatti, scaturiscono alcuni atteggiamenti tipo davanti alla Parola che Matteo guarda 29 sotto altre angolature. Forse i destinatari del vangelo s’interrogano su quelli che non danno frutto e vi riconoscevano coloro che non capivano e non sapevano discernere il dono (13,19), su quelli che accoglievano il seme senza mettere radici e vi vedevano quelli che non erano disposti al dono totale della propria vita (13, 20-21), su quelli che soccombevano nelle preoccupazioni e in essi riconoscevano coloro che non erano disposti a perdere le proprie ricchezza e infine su quelli che


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invece vivevano la fecondità della Parola portando frutto in tutti i sensi possibili. Le parabole che compongono il capitolo 13 sembrano sviluppare tali domande e riformularle: - La prima domanda riguarda il discernimento: da dove vengono le piante che non danno frutto come la zizzania e perché non sono state sradicate? Perché non andare ad eliminarla? (Mt 13,24-30) - La seconda domanda riguarda il mistero del Regno, il paradosso in cui cresce di nascosto il seme della Parola: si tratta della parabola del chicco di senape e del lievito con il suo significato. Il più piccolo diviene il più grande. E’ la logica contraria della minorità e della minoranza, la logica del morire per vivere, della croce misteriosa scelta di Dio e nuova mentalità del Regno. (Mt 13, 31-35) - La terza domanda riguarda il perdere e il ritrovare. Come è possibile perdere tutti i beni? Per la gioia di averne trovato uno più grande. E’ la parabola del tesoro nascosto e della perla (Mt13,44-45) - La quarta domanda riguarda i tempi che hanno ancora una volta bisogno di discernimento e interpretazione degli eventi per essere riconosciuti: quando si manifesteranno i figli del Regno? Coloro che portano frutto il cento, il sessanta, il trenta? La risposta viene con la parabola della rete, la separazione dei pesci buoni dai cattivi a cui si ricollega la spiegazione della parabola della zizzania che Matteo ha dato qualche versetto prima (Mt13,36-43). Il tutto si chiude con l’immagine dello scriba buono che sa fare sintesi tra l’antico e il nuovo e divine il simbolo della fecondità della Parola nella vita di un maestro che non smette di essere discepolo (Mt 13,4752). La parabola del grano e la zizzania va dunque inserita in questo contesto tematico. Essa è specificamente matteana e non ha paralleli negli altri evangeli, lo scopo di questo racconto è introdurre l’uditore nel grande tema del discernimento. Mentre Marco continua il suo insegnamento parabolico con il cosiddetto seme automatico (Mc 4,26-29), Matteo allarga il suo insegnamento: nello stesso campo che dà frutto può crescere un seme non buono, seminato da un nemico mentre gli uomini dormono. Prima di tutto cosa è la zizzania? Una specie di gramigna che cresce alta come il grano e gli somiglia, se non ché i suoi grani sono neri. Si tratta in un certo senso di grano degenerato ed è ipotizzabile che Matteo voglia impiegare non solo l’immagine, ma la radice stessa della parola che viene mutuata in greco proprio da un termine rabbinico zun –zunim la cui radice ha a che fare con un verbo ebraico che significa «prostituirsi » (znh). Matteo vuole parlare delle degenerazioni di coloro che sono partiti bene e poi hanno in qualche modo deviato dal cammino, come un giorno Israele, popolo dell’alleanza, si rivolse ad altre alleanze e divinità. Fin dai primi secoli la Chiesa ha letto questo brano evangelico applicandolo ai peccatori e agli eretici, con il compito di distinguerli e di dare loro un tempo di misericordia perché possano tornare sulla giusta via. San Girolamo chiama questo “lo spazio della penitenza”. Un’anticipazione del giudizio potrebbe corrompere anche i giusti con la presunzione: raccogliere la zizzania significa sbarbare anche il grano, illudersi della propria giustizia, sentirsi migliori di altri, sostituirsi a Dio. La frase chiave della parabola è dunque “lasciate che l’una e l’altro crescano insieme”. (Mt 13,30). 30 La parabola insiste sull’idea della misericordia, a differenza della sua spiegazione (Mt13,36-43) che invece applica all’insegnamento una chiave di lettura apocalittica che si concentra sul giudizio finale. Al primo impatto con il racconto parabolico emerge la figura del padrone che è benevolo e saggio e aspetta a sradicare la zizzania; di sicuro il linguaggio della misericordia non va visto come un


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vuoto “buonismo” per cui alla fine non si capisce più qual è il grano e qual è la zizzania, o dov’è la verità e dove l’errore. La misericordia di cui Gesù parla, comporta sempre una gamma di atteggiamenti che divengono i presupposti di un autentico discernimento. L’attesa di tempi maturi che permetta ad ogni seme di rivelare il proprio frutto; il riferimento a criteri di giudizio che non sono autoreferenziali: il discepolo non è Dio ed è Lui che giudica; il tempo della crescita è il tempo del discepolato che dura una vita. Nessuno si può illudere di una presunta bontà, anche il maestro è in questo senso un discepolo che non offre come riferimento se stesso e non tira il vangelo per la giacca. Ma c’è di più, Gesù utilizzerà lo stesso termine, sradicare, quando parlando dei farisei che non sanno valutare veramente ciò che rende impuro dice: “Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste sarà sradicata” (Mt15,13). Il Padre, dunque, estirpa ciò che non appartiene al suo progetto e nel contesto della frase si riferisce a quel popolo che onora con le labbra ed ha il suo cuore lontano da Dio. Così nella nostra parabola il padrone riconoscerà il seme che ha seminato dal suo frutto e lo distinguerà da ciò che sembra appartenere al suo progetto ma che nella sostanza gli è invece estraneo. La zizzania sarà raccolta per essere bruciata e non avere più un futuro, il grano invece verrà riposto tutto insieme e custodito: i suoi chicchi verranno nuovamente seminati. Nella parabola della zizzania e del grano è dunque chiaro lo sfondo tematico dell’apparenza: ciò che sembra secondo la semina di Dio, in realtà è fatta di notte da un nemico. Da questo disastro dice il vangelo ci si difende solo con il discernimento. Il discepolo che s’illude di avere il potere di rendere perfetto il mondo diviene lui stesso nemico del bene. Non è sbarbando la zizzania che ci si salva da essa. Il nemico l’ha seminata proprio per questo, perché il grano venga colto prima del tempo e non sia più buono; perché ci irrigidiamo nella verità e nella paura cedendo alla tentazione dell’integrismo o di una presunta integerrimità. Ci si salva dalla zizzania resistendo sino alla fine, attendendo con speranza i tempi della maturazione. Non ci si deve dunque preoccupare della perfezione, ma del discernimento che rende liberi di aderire al Vangelo e di sceglierlo come bene autentico, tra molti beni apparenti. L’impegno di far crescere il grano, di giungere ai tempi maturi del bene, corrisponde all’adagio paolino: “non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rom 12,21).

Domande per la riflessione e la condivisione 1) La parabola della zizzania ci invita a una misericordia che sa attendere, che non presume di sé e della propria perfezione per farsi giudice degli altri, che sa sperare e attendere, che crede nella possibilità di un cambiamento anche del male in bene. Questa sapiente misericordia Dio usa per tutti noi fino alla fine dei tempi. Anche noi siamo chiamati a imitare il padre in questa misericordia. Ci riesce viverla? 2) Questa parabola ci insegna che non ci si deve dunque preoccupare della perfezione, ma del discernimento che rende liberi di aderire al Vangelo e di sceglierlo come bene autentico, tra molti beni apparenti. Cosa significa questo nella nostra vita personale, familiare e comunitaria? 3) Il Regno dei cieli si realizzerà, nonostante all’inizio sia piccolo come un granello di senape. 31 Questa fiducia incrollabile nel bene guida l’agire del cristiano nel mondo e lo rende forte da renderlo punto di riferimento per gli altri, come un albero che dà riparo agli uccelli del cielo. Abbiamo questa fiducia? Cosa aiuta la maturazione di questa operosa fede amorosa e piena di speranza?


Scheda IX

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“Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” La parabola del giudizio finale (Mt 25,31-46)

Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35 perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40 E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41 Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”. 31

Con questo racconto Matteo chiude il quinto e ultimo discorso di Gesù, il discorso sulla fine dei tempi dove il Figlio dell’uomo (Gesù) si presenta come re nella sua gloria e giudica i popoli ricorrendo alle opere di misericordia come metro con cui valutare la condotta degli uomini. Questo racconto è una parabola? Questo brano non è del tutto riconducibile al genere letterario della parabola in senso stretto. L’esposizione risulta di genere ibrido: un po’ parabola, un po’ racconto esemplare, e un po’ allegoria, con sconfinamenti nel genere apocalittico (cioè riguardante la fine dei tempi). v. 31 Il Figlio dell’uomo Figlio dell’uomo è una espressione semitica che significa semplicemente un essere umano (vedi ad esempio il parallelismo tra “uomo” e “figlio dell’uomo” in Sal 8,5). Così la usa frequentemente il libro di Ezechiele dove Dio indirizza il profeta come “figlio dell’uomo” (Ez 2,1.3.6.8; 32 3,1.2.4.10.16) per risaltare la distanza tra Dio che è trascendente e il profeta che è un semplice uomo. Però in Daniele 7,13-14 l’espressione acquista un significato particolare. Il profeta vede “apparire sulle nubi del cielo uno simile ad un figlio di uomo” che riceve da Dio “potere, gloria e regno”. Si tratta pur sempre di un essere umano, che però viene introdotto nella sfera di Dio. Il testo è stato interpretato sia in senso personale che collettivo, ma sempre in senso messianico.


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Quindi, sia che si tratti di una sola persona sia che si tratti del Popolo di Dio nel suo insieme, il Figlio dell’uomo è il Messia che inaugura il Regno di Dio, un regno eterno e universale. L’applicazione del titolo “Figlio dell’uomo” a Gesù sullo sfondo di Daniele 7,13-14 è diffusissima nei vangeli. Si trova anche in Atti 7,56 e Apocalisse 1,13 e 14,14. Gli studiosi pensano che è stato Gesù stesso a darsi questo titolo. Nel vangelo di Matteo viene messo in bocca a Gesù particolarmente quando egli parla della sua passione (Mt 17,12.22; 20,18.28), della sua resurrezione come evento escatologico (Mt 17,19; 26,64) e del suo ritorno glorioso (Mt 24,30; e 25,31 inizio del giudizio finale e inizio del nostro brano). Gesù re, giudice e pastore Matteo da’ anche il titolo di re a Gesù (Mt 1,23; 13,41; 16,28; 20,21). La regalità di Dio è un tema molto caro alla Bibbia. Perché è il Figlio di Dio, Gesù regna assieme al Padre. Nel nostro testo il re è Gesù ma egli esercita la sua regalità in stretta relazione con il Padre. Gli eletti sono i “benedetti del Padre mio” e il regno in cui sono invitati ad entrare è un regno preparato per loro da Dio come indica la forma passiva del verbo. Questa forma verbale, detta passivo divino, si trova spesso nella Bibbia e ha sempre Dio come soggetto implicito. In questo testo il regno sta a indicare la vita eterna. Come in Daniele 7 (vedi in particolare Dn7,22.26.27), anche nel nostro testo la regalità del Figlio dell’uomo è legata al giudizio. Il re, specialmente nell’antichità, è stato sempre considerato giudice supremo. Il giudizio che fa Gesù è un giudizio universale, un giudizio che coinvolge tutte le genti (Mt 25,32). Eppure non è un giudizio collettivo. Non sono i popoli che vengono giudicati ma le persone singole. v. 32 Come il pastore separa Ugualmente unito alla regalità è il simbolismo pastorale. Nell’antichità il re veniva spesso presentato come pastore del suo popolo. Anche l’AnticoTestamento parla di Dio, re d’Israele, come pastore (vedi ad esempio Sal 23; Is 40,11; Ez 34) e il NuovoTestamento applica il titolo anche a Gesù (Mt 9,36; 26,31; Gv 10). I pastori della Terra Santa al tempo di Gesù pascolavano greggi misti, composti da pecore e capri. La sera però li separavano perché le pecore dormono all’aperto mentre i capri preferiscono mettersi al riparo. Nel nostro testo le pecore rappresentano gli eletti perché sono di valore economico maggiore dei capri e anche per il loro coloro bianco che nella Bibbia spesso indica la salvezza. vv. 35-36 “Mi avete....” I biblisti fanno notare che le opere elencate da Gesù sono espresse tutte con l’aoristo, un tempo della lingua greca che indica situazioni ed azioni di carattere puntuale, con riferimento ad un singolo caso. Come se Gesù dicesse:”In una particolare circostanza della mia vita mi era capitato di avere fame..., e proprio quella volta tu sei (non sei) venuto a sfamarmi.” vv. 40-45 “I miei fratelli più piccoli” Tradizionalmente si interpretava questo brano evangelico come l’identificazione di Gesù con i poveri e gli emarginati. Gesù giudicherebbe tutti, e particolarmente quelli che non hanno avuto l’opportunità di conoscere il suo vangelo, sulla misericordia che hanno dimostrato per i bisognosi. Tutti hanno l’opportunità di accoglierlo o rifiutarlo se non personalmente, almeno nella persona dell’indigente con cui si identifica. L’esegesi contemporanea tende a leggere il testo in senso più ecclesiologico. Mettendolo in stretto rapporto con Matteo 10,40-42 (“Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta e chi accoglie un giusto perché è un giusto avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere

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d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”), gli esegeti insistono che si tratterebbe nella risposta al vangelo del Regno che viene portato dai discepoli di Gesù, non solo dai capi della Chiesa ma anche da ogni fratello anche il più piccolo. Le nazioni, cioè i pagani, sono quindi invitati ad accogliere i discepoli di Gesù, che predicano loro il vangelo e soffrono per esso, come se stessero accogliendo lo stesso Gesù in persona. Nel contesto del vangelo di Matteo questa seconda interpretazione è probabilmente più precisa. Eppure nel contesto della Bibbia tutta intera (vedi ad esempio Is 58,7; Gc 2,1-9; 1 Gv 3,16-19) non si può scartare completamente la prima per cui le due interpretazioni (quella tradizionale e quella ecclesiologica) si integrano e si completano a vicenda. v. 41 “nel fuoco eterno”; v. 46 “al supplizio eterno” Matteo cita qui quasi alla lettera il profeta Daniele, “Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna” (Dn 12,2); utilizzando cioè il linguaggio apocalittico. Nel Nuovo Testamento non esiste la parola inferno ma vi troviamo alcune metafore come supplizio, fuoco e geenna. Il termine latino inferi indicava il luogo e il regno dei morti. Il termine geenna indicava una valle posta a sud di Gerusalemme usata come discarica, dove venivano bruciati i rifiuti. Per i giudei divenne un luogo maledetto da quando vi si facevano sacrifici di fanciulli1. Il re Giosia (VII sec a.C.), dopo aver soppresso il barbaro sacrificio, per mettere in orrore quel luogo, ne fece il deposito delle immondizie della città e dei cadaveri a cui non si concedeva la sepoltura; e per consumare l’ammasso di queste materie, vi si manteneva un fuoco continuo. La letteratura apocalittica giudaica pensò che questa valle sarebbe diventata l’inferno dopo il giudizio universale. Da qui il termine geenna passò a significare un luogo di punizione e i giudei chiameranno così l’inferno degli ultimi tempi anche quando non era più localizzato a sud di Gerusalemme. Nel vangelo troviamo questa immagine del fuoco legata al giudizio oltre che nel nostro testo anche in altri passi di Mt:“Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti” (Mt 13 ,41-42)

Domande per la riflessione e la condivisione 1) “Credi che l’amore del prossimo non sia per te obbligatorio, ma libero? […] Quelli che vengono giudicati sono posti alla sinistra, non perché abbiano rapinato, commesso furti sacrileghi o adulteri, o abbiano perpetrato qualche azione malvagia, ma perché non hanno avuto cura di Cristo nei bisognosi.” (Gregorio Nazianzeno) 2) Come mai secondo te alla fine dei tempi sia i giudicati che i salvati rispondono di non essersi accorti di avere/non avere soccorso Dio nei poveri? Cosa fa sì che non ci accorgiamo nemmeno di chi ha bisogno accanto a noi? E cosa invece rende così caritatevoli da fare il bene senza accorgersene? 3) Da questo vangelo la chiesa ha enucleato le 14 opere di misericordia, sei prese dal vangelo: sfamare gli affamati, dissetare chi ha sete, accogliere gli stranieri, vestire chi è senza vestito, visitare i malati, visitare i carcerati; una aggiunta nel medioevo: seppellire i morti (perché a causa delle 34 Cfr. Lv 18,21: Non consegnerai alcuno dei tuoi figli per farlo passare a Moloc e non profanerai il nome del tuo Dio”; cfr: Re 16,3: “il re Acaz fece perfino passare per fuoco suo figlio secondo gli abomini delle nazioni che il Signore aveva scacciato davanti agli israeliti”.

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epidemie rimanevano insepolti i defunti); le altre sette aggiunte successivamente per venire incontro ai bisogni dell’uomo: consigliare i dubbiosi; istruire gli ignoranti; ammonire i peccatori; consolare gli afflitti; perdonare le offese; sopportare le persone moleste; pregare Dio per i vivi e per i morti. Le opere di misericordia guidano il nostro agire di cristiani? Quale opere di misericordia sarebbe necessario aggiungere oggi nella nostra società? 3) “L’amore preferenziale per i poveri costituisce un’esigenza intrinseca del vangelo della carità e un criterio di discernimento pastorale della prassi della Chiesa. Esso chiede alle nostre comunità di prendere puntualmente in considerazione le antiche e nuove povertà che sono presenti nel nostro paese. Il Vangelo della carità deve dare profondità e senso cristiano al doveroso servizio ai poveri delle nostre Chiese, risvegliando la consapevolezza che questo servizio è verifica della fedeltà della Chiesa a Cristo, onde essere veramente la Chiesa dei poveri”. (Evangelizzazione e testimonianza della carità, 47)

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Scheda X

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“Prendete e mangiate questo è il mio corpo” L’istituzione dell’Eucarestia (Mt 26,17-29)

Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: “Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?”. 18Ed egli rispose: “Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”. 19I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. 20 Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. 21Mentre mangiavano, disse: “In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà”. 22Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io, Signore?”. 23Ed egli rispose: “Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. 24Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”. 25Giuda, il traditore, disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”. 26 Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo”. 27Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, 28 perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. 29Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio”. 17

Il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia è collocato dall’evangelista Matteo in mezzo a due annunci drammatici fatti da Gesù: quello del tradimento di Giuda, che ha già preso accordi con i capi dei sacerdoti (26,14-16), e quello dell’abbandono da parte di Pietro e degli altri discepoli che consegneranno Gesù al suo destino (26,31-35). In mezzo, nei gesti e nelle parole dell’Ultima Cena, sta la consegna che Gesù farà della sua vita sulla croce. La struttura del testo vuole così evidenziare che non sono i capi del popolo con i loro calcoli (Mt 26,5), né Giuda con il suo tradimento o gli altri discepoli con il loro abbandono e neppure il drammatico precipitare degli eventi, a determinare la sorte di Gesù ma la sua libera volontà di consegnarsi nel gesto supremo dell’amore. Il vero “traditore” (tradere in latino significa “consegnare) è Gesù e, in ultima analisi, come dice il IV Vangelo, il Padre che “ha tanto amato il mondo da consegnare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Nel rispetto del calendario ebraico i discepoli prendono l’iniziativa di predisporre il necessario per la cena pasquale. Ma è Gesù a stabilire il tempo e il luogo della celebrazione della “sua” pasqua. I discepoli allora diventano gli esecutori puntuali del suo comando, come i servi alle nozze di Cana a cui la Madre aveva detto: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv 2,5). Per i discepoli di Gesù preparare la sua Pasqua vuol dire “andare in città da un tale”, intraprendere cioè la via della missione, farsi prossimo ad ogni uomo. Ma quel “tale”, a cui Gesù manda a dire: 36 “Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”, è anche ciascuno di noi. Allora preparare la Pasqua di Gesù significa riconoscere il tempo della salvezza, il momento in cui l’amore di Dio si fa vicino a noi, quasi tangibile nel dono della vita del suo Figlio. Preparare la Pasqua vuol dire accogliere con gioia Gesù come Signore della nostra vita; significa, come per Zaccheo, scendere in fretta dai sicomori delle nostre autosufficenze per salire sull’unico albero che ci rende veramente grandi: quello della croce di Gesù (Lc 19,1-10).


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“Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici” (Mt 26,20). La tavola è il luogo delle relazioni più profonde, è qui che si celebra la vita; non a caso i romani lo chiamavano convivium. La tavola rivela, nella disposizione dei commensali, nei gesti e nelle parole, la verità dei rapporti e la relazione che ognuno ha con il cibo, cioè con la vita. L’ora serale della cena è il momento in cui si fanno i bilanci e si lancia uno sguardo di speranza verso il futuro, è il momento dell’intimità in cui si condividono le gioie e le fatiche. Anche Gesù, sembra dire l’evangelista, è arrivato al termine della sua “giornata”, ma può asserire che essa si è svolta secondo un programma prestabilito, le cui tappe sono state segnate dal Padre. Egli ha fatto tutto secondo la volontà del Padre, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti. Il momento conclusivo della propria vita, quell’ultima sera, è per Gesù “il suo tempo”, la fase culminante della sua missione. Durante la cena Gesù predice che uno dei Dodici lo tradirà. Le parole del Maestro gettano nella tristezza i discepoli perché in nessun modo il traditore viene identificato, né da gesti né da parole ma solo da quell’indicazione generica “uno di voi mi tradirà” e da quell’indizio altrettanto generico “colui che ha messo con me la mano nel piatto”: tant’è vero che ciascuno dei discepoli, a turno, si domanda se non sia proprio lui. Tutti considerano possibile la “consegna” di Gesù da parte loro. Certo, il destino di Gesù non è deciso dal tradimento del discepolo ma dal Padre, come è rivelato nelle Scritture, tuttavia ciò non cancella, né attenua la responsabilità del traditore. Sarà proprio Giuda a svelare il suo tradimento quando, rivolgendosi a Gesù, dirà: “Rabbì, sono forse io?”, mentre tutti gli altri discepoli lo avevano chiamato, propriamente, “Signore”. Gesù non è per il discepolo un semplice Rabbi, ma è l’unico Maestro, il Kyrios. Invece “Rabbi” è precisamente il saluto, il segnale di riconoscimento, con cui Giuda tradirà il suo maestro: “Salve, Rabbi” (26,49). Considerare Gesù come uno dei tanti maestri dell’umanità, forse anche il più grande e innovativo, ridurre il suo Vangelo a un’idea da accettare o dalla quale dissentire, a un insegnamento dal quale lasciar fuori la vita, questo è il tradimento di Giuda. Matteo non ha interesse a raccontare lo svolgimento rituale della cena pasquale, ma si concentra sui due gesti che la caratterizzavano: la frazione e la distribuzione del pane, all’inizio della cena e il riempimento del calice, al termine di essa, accompagnati entrambi da una particolare formula di benedizione. Non la descrizione e l’esecuzione puntuale di un rito ma il suo significato per la vita del discepolo: questo sarà il nuovo culto cristiano, “in spirito e verità” (Gv 4,24). Nella cena pasquale il rito della frazione del pane spettava al capo famiglia. Egli prendeva un grosso pane rotondo e tenendolo sollevato, pronunciava la benedizione per il frutto della terra che Dio aveva accordato all’uomo, quindi lo spezzava e ne porgeva una parte ad ogni commensale, senza alcuna parola di commento. Il gesto era di per sé eloquente. Paolo lo spiegherà nella I lettera ai Corinti: “Poiché vi è un unico pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo” (1Cor 10,17). Ma Gesù compie una variante al rito, accompagna il gesto con le parole: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo”; così farà anche per la coppa del vino alla fine della cena: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati”. Le parole non rituali di Gesù conferiscono un significato nuovo alla cena pasquale e rivelano il mistero della vita di Gesù in relazione al Padre e agli uomini. In questo banchetto, come del resto nel vecchio rito pasquale, non si può rimanere semplici spettatori, ma occorre sentirsi direttamente coinvolti. Coinvolti nel “prendere”, cioè nell’accogliere il dono della vita di Gesù, del suo corpo “spezzato” e del suo sangue “versato”. Coinvolti nel “mangiare”, cioè nel “fare questo in sua memoria”. Il comando a ‘mangia37 re’ e a ‘bere’ dice la partecipazione a un banchetto in cui i convitati sono messi a confronto con la morte in croce di Gesù, per misurarsi con la sua coraggiosa obbedienza al Padre, con la sua carica d’amore per gli altri. Egli non ha dato un pezzo di pane agli uomini ma tutto se stesso, la sua vita (corpo e sangue), e chiede ai suoi discepoli di fare altrettanto. Il pane e il vino simboleggiano quanto egli ha compiuto; ma per essere in linea con lui, per rispettare il suo volere non basta rinnovare


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i simboli senza ripetere sul piano storico ciò che essi significano. La cena che i discepoli stavano consumando insieme al Maestro era l’ultima, ma ciò non segnava la fine della loro comune esperienza. La fase storica della vita di Gesù è ormai definitivamente conclusa, ma egli, il Risorto, sarà nuovamente con loro e potrà rallegrarsi insieme ad essi bevendo il vino nuovo della vita senza fine.

Domande per la riflessione e la condivisione

1) L’eucarestia di Gesù si compie nel “dare la sua vita per noi”. Giuda e Pietro invece fanno fatica a donare la propria vita gratuitamente. Cosa in noi impedisce la gratuità del donarsi? 2) Come vivo la celebrazione eucaristica domenicale? Capisco il significato dell’eucarestia? Che relazione ha l’eucarestia con la nostra vita quotidiana? 3) Gesù ha dato il suo corpo “per voi”, perché noi diventassimo suo corpo, perché diventassimo nell’amore fraterno sua presenza viva nel mondo. Come vivi il rapporto con la tua parrocchia, con la tua comunità? Hai mai pensato che il Signore ti chiede di impegnarti a costruire una comunità fraterna a partire proprio dalla tua parrocchia?

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Incontri di formazione per gli animatori dei Gruppi di Ascolto del Vangelo I INCONTRO Mercoledì 29 Settembre ore 21.15 - Seminario vescovile di Pistoia Presentazione del Sussidio per i GdA e introduzione al Vangelo di Matteo II INCONTRO La nuova legge del Regno di Dio. Il discorso della montagna “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,1-13) QUARRATA Lunedì 8 Novembre 2010 ore 21 - Presso la Parrocchia AGLIANA Martedì 9 Novembre 2010 ore 21 - Presso la Parrocchia di S. Piero PISTOIA Mercoledì 10 Novembre 2010 ore 21 - Seminario vescovile CAPRAIA Giovedì 11 Novembre 2010 ore 21 - Presso la Parrocchia III INCONTRO La natura del Regno di Dio. Il discorso in parabole “Lasciate che l’uno e l’altro crescano insieme” (Mt 13,24-52) QUARRATA Lunedì 15 Novembre 2010 ore 21 - Presso la Parrocchia AGLIANA Martedì 16 Novembre 2010 ore 21 - Presso la Parrocchia di S. Piero PISTOIA Mercoledì 17 Novembre 2010 ore 21 - Seminario vescovile CAPRAIA Giovedì 18 Novembre 2010 ore 21 - Presso la Parrocchia IV INCONTRO Sabato 14 Maggio 2011 ore 17-20 - Seminario Vescovile di Pistoia Incontro degli animatori dei GdA con il vescovo M. Bianchi Sabato 11 Giugno 2011 – Veglia di Pentecoste Incontro Diocesano di tutti gli operatori e le realtà pastorali

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Sussidi per i Gruppi di ascolto della Parola di Dio

Breve Bibliografia Da Spinetoli O. Matteo, Assisi, 1983 Fabris R. Matteo, Roma 1982 Fausti S. Una comunità legge il vangelo di Matteo, Bologna 1998 Fusco V. La casa sulla roccia. Temi spirituali di Matteo, Bose 1994 Gargano I. Lectio divina sul vangelo di Matteo I-IV, Bologna Gradara R. Il vangelo della Comunità, Bologna 1992 Gnilka J. Il vangelo di Matteo, I-II, Brescia 1990-1991 Luz U. Matteo, Brescia 2002 Maggioni B. Il racconto di Matteo, Assisi 1990 Martini C. M. Gli esercizi ignaziani alla luce del vangelo di Matteo, 2006 Mazzinghi L. - Tarocchi S. Matteo. Il vangelo del regno dei cieli, Bologna 1998 Mello A. Evangelo secondo Matteo, Bose 1995 Radermakers J. Lettura pastorale del Vangelo di Matteo, Bologna 1974 Schweitzer E. Matteo e la sua comunità, Brescia 1987

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Finito di stampare dalla Tipografia GF Press Masotti nel mese di settembre 2010 Fotocomposizione: Graficamente Pistoia


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