Nel mondo, ma non del mondo
Prosegue la meditazione pasquale della chiesa. Fra le letture presentateci in questi giorni, ha fatto spicco un antichissimo scritto di cui non si conosce l’autore, ma soltanto il nome del destinatario: la Lettera a Diogneto, composta intorno al 200 d.C., molto probabilmente in quel grande centro commerciale e culturale che era allora Alessandria d’Egitto. Uno scritto riscoperto oggi per le affinità fra il nostro tempo e quello della sua composizione. Tempo di diaspora, cioè di dispersione delle poco numerose e ancora insignificanti comunità cristiane e anche di confuso pluralismo religioso, simile a quello dei nostri giorni. Tempo in cui la minoranza cristiana, specialmente in un centro cosmopolita come quello in cui viveva, avvertiva fortemente il bisogno di definire bene la sua identità e la necessità di farla conoscere a tutti coloro che la stavano riguardando con aria di sospettosa e preconcetta curiosità. Una difesa, ma soprattutto un programma di vita. Che il cristiano si dovesse considerare “nel mondo” (partecipe cioè affettivamente ed effettivamente dei problemi e delle ansie del proprio tempo), ma non “del mondo” (diverso cioè per pensieri e atteggiamenti rispetto alla gente che lo circonda), era un’indicazione precisa e diretta del Signore. E’ interessante constatare che la chiesa da lui fondata, fin da principio, aveva ben capito questa lezione, fino al punto di considerarsi in tutto e per tutto una comunità diversa, controcorrente, eterogenea e alternativa rispetto alle altre società, come se provenisse veramente da un altro mondo. In realtà, dovrebbe essere sempre così. In altre aree di quel tempo, si parlava addirittura dei cristiani come di un “terzo genere”, dopo quello dei giudei e dei pagani. Un mondo a parte, dunque, anche se tutt’altro che separato e relegato in un ghetto. Così, il nostro scritto si sforza di far capire che i discepoli di Cristo “non abitano città particolari, né usano di un qualche linguaggio strano, né conducono uno speciale genere di vita”. Però si aggiunge subito che essi “conducono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, paradossale. Abitano ciascuno la loro patria ma come forestieri; partecipano a tutte le attività da buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera”. Un paradosso certamente difficile a realizzare, che però definisce bene la figura del vero cristiano. Una lezione, quindi, da riesumare e fare nostra nel tempo che stiamo vivendo. Oggi si è tornati a parlare delle comunità cristiane come di comunità alternative, si è riscoperto il senso vero dell’antica espressione “parrocchia” (che indica “periferia”, complesso di abitazioni ai margini delle case, mondo spiritualmente diverso), si torna a ripetere le formule neotestamentarie che parlano di cristiani come “stranieri e pellegrini”, gente di passaggio, carovana senza fissa dimora, popolo in transumanza, all’eterna ricerca della patria definitiva, collocata da un’altra parte. Tutto questo però senza dimenticare la necessità di lavorare nella storia, per avvicinarla sempre di più alla sua meta finale, per anticipare in essa i beni di cui siamo in attesa, addirittura per preparare qui sulla terra la città definitiva che ci attende nel cielo. Uno scritto, quello della lettera di cui stiamo parlando, che fu ben presente ai padri del concilio Vaticano II e che ha ispirato pagine bellissime dei suoi documenti principali. Il cristiano vive oltre il tempo e nel tempo, con lo sguardo fisso oltre le cose, ma con l’animo di chi sa di essere chiamato da Dio a lavorare per la creazione di un mondo nuovo. Nell’attesa, ma insieme con una presenza attiva e instancabile per il progresso dell’umanità, a fianco di tutti gli uomini di buona volontà, che egli incontra sulle sue strade. E’ così che nelle pagine del Vaticano II leggiamo parole come queste: “Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna”. Evidentemente nell’aula conciliare risuonava con tutta la sua forza il racconto del giudizio universale. E la liturgia della chiesa ha tradotto molto bene nelle sue invocazioni lo spirito conciliare. Proprio in questi giorni, più volte (chi recita la Liturgia delle ore lo dovrebbe aver notato), essa ha pregato così: “Tu che ci comandi di attendere operosi e vigilanti la tua venuta nella gloria, fa’ che quanto più attendiamo i cieli nuovi e la terra nuova, tanto più lavoriamo per il progresso e la pace”. Quanto più, tanto più: un rapporto inscindibile. Il paradosso continua. Giordano Frosini