I lavoratori nella stanza dei bottoni Nel tradizionale pensiero sociale della chiesa c’è un capitolo della massima importanza, su cui in Italia (a differenza della Germania) non si è fatto istituzionalmente nulla e di cui ai nostri giorni si torna sommessamente a parlare da più parti. Si tratta della partecipazione dei lavoratori alla gestione o ai profitti delle imprese. Una conclusione quasi logica del principio della superiorità del lavoro rispetto al capitale e della concezione personalistica di ogni attività umana. Giovanni Paolo II ne aveva fatto un’ottima presentazione nella sua enciclica del novantesimo anniversario della Rerum novarum, interamente dedicata al tema del lavoro. Nella luce dei principi fondamentali del pensiero sociale della chiesa, affermava il Papa, “acquistano un significato di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo Magistero della chiesa. Sono, queste, le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili”. Un ventaglio di proposte, che possono anche essere abbinate fra loro e che generano in colui che lavora la convinzione fondata di operare in qualche modo in casa propria. In caso contrario, afferma ancora l’enciclica, “in tutto il processo economico sorgono necessariamente danni incalcolabili, e danni non solo economici, ma prima di tutto nell’uomo”. Un capitolo tutt’altro che secondario all’interno del pensiero sociale cristiano, che sarebbe proprio il caso di riprendere in mano con serietà e decisione all’interno del perenne conflitto fra capitale e lavoro, fra imprenditori e dipendenti della medesima azienda. Come mai i politici di ispirazione cristiana l’hanno lasciato in disparte e non sono mai arrivati a conclusioni operative di carattere legislativo e politico? Una domanda giustificata anche dal fatto che il principio si ritrova pure nella nostra Costituzione, soprattutto, è chiaro, per opera dei costituenti cattolici, che noi ben conosciamo e di cui si sono quasi perdute le tracce. E’ l’art. 46, che suona esattamente così: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle imprese”. La disattenzione dei politici nell’applicazione di queste proposte va di pari passo con l’ignoranza del popolo cristiano, tutti compresi, che, come ci garantiscono anche i rilievi statistici dei nostri giorni, ha adottato in percentuali altissime altre ispirazioni e altre concezioni sociali, ben lontane da questi orientamenti e da questi principi. Come dicevamo, dobbiamo purtroppo constatare che la responsabilità ricade su tutti. L’esperienza ci insegna che di queste cose la nostra gente non ha la benché minima idea. Ma la colpa ricade soprattutto su coloro che dovevano farsi mediatori di quel pensiero che, secondo gli ultimi Papi, appartiene all’essenza stessa dell’evangelizzazione e della teologia morale, e non lo sono stati. Anch’essi galvanizzati e travolti da concezioni oggi in voga in larghi strati dell’opinione pubblica, di cui si sono fatti perfino ardenti e convinti paladini. C’è qualcosa di grave che stride oggi nel comportamento globale della chiesa. Stiamo seguendo le numerose pubblicazioni che escono in questi giorni a sostegno del piano pastorale sull’educazione del popolo cristiano, che dovremmo realizzare nel corso del decennio attualmente in corso. In esse, anche se con accentuazioni e preoccupazioni diverse, leggiamo la stessa paura che, se non interviene qualcosa di speciale e di veramente decisivo, noi rischiamo di ritrovarci al termine con le mani in mano, senza aver scalfito nemmeno marginalmente l’opinione pubblica del nostro popolo. Chi educherà gli educatori? Una domanda che percorre comunemente le pagine sfogliate in queste ore. La prima preoccupazione è esattamente questa, perché è fin troppo evidente che, senza l’esempio e la parola degli educatori, l’educazione è del tutto impossibile. Forse sarebbe meglio distinguere i tempi: prima pensare agli educatori e poi agli educandi. Una cosa certamente non proibita dall’attuale piano pastorale. Ma, se non c’è la volontà decisa di superare le molte difficoltà che si sovrappongono alla sua realizzazione, il progetto rimarrà sulla carta. Sinceramente, domandiamoci quante volte questo è successo nel nostro passato, anche recente. Vogliamo proprio continuare a dilapidare così le nostre ricchezze? Giordano Frosini