La libertà nella chiesa
“L’opera educativa della chiesa è strettamente legata al momento e al contesto in cui essa si trova a vivere, alle dinamiche culturali di cui è parte e che vuole contribuire a orientare. Il ‘mondo che cambia’ è ben più di uno scenario in cui la comunità cristiana si muove: con le sue urgenze e le sue opportunità, provoca la fede e la responsabilità dei credenti”. Un’ottima premessa allo studio della situazione culturale dei nostri giorni, reperibile all’inizio del documento sull’educazione della Conferenza Episcopale Italiana che, forse, meritava una più approfondita e più completa analisi. Preziosa però l’affermazione immediatamente susseguente che riconosce nella “accresciuta sensibilità per la libertà in tutti gli ambiti dell’esistenza” uno dei segni principali del nostro tempo. Una constatazione da accogliersi con simpatia, dal momento che “il desiderio di libertà rappresenta un terreno d’incontro tra l’anelito dell’uomo e il messaggio cristiano”. Due desideri, allora, due orientamenti che felicemente s’incontrano e su cui merita riflettere seriamente. Così stando le cose, infatti, la libertà, oltre che il presupposto indispensabile per l’educazione della persona, è anche una condizione necessaria per rendere credibile e accettabile la comunità cristiana all’uomo del nostro tempo. Si tratta di un richiamo impellente alla sua vita, al suo comportamento, alle sue prese di posizione. Per questo non era affatto male che il documento richiamasse con forza il bisogno di un severo esame di coscienza e di un conseguente progetto comunitario di conversione. Se è sempre vero che “la chiesa evangelizza esistendo”, questa affermazione raddoppia la sua verità quando si parla di educazione. Per necessità di natura, infatti, l’educatore educa anzitutto e soprattutto con il suo esempio. La chiesa, prima di pensare agli altri, deve pensare a se stessa, prima di evangelizzare gli altri, deve evangelizzare se stessa. Solo una chiesa libera sarà ascoltata quando essa parlerà di libertà. Né l’evangelizzazione, né l’educazione, che con essa inestricabilmente si intreccia, sono a buon mercato. Ma come stanno le cose? L’invocazione a una chiesa più libera e più partecipata è nel desiderio di tutti: una prospettiva sempre all’ordine del giorno, un argomento che domina da tempo gli incontri e le riflessioni dell’intera comunità cristiana. Prima di rivendicare la libertà nelle società umane, prima di rivendicare la libertà della chiesa, c’è da realizzare la libertà nella chiesa, che è per definizione un popolo di uguali, integralmente attraversato dalla presenza dello Spirito Santo, una famiglia indistintamente partecipe della stessa dignità e della stessa missione. Di questa singolare comunità la corresponsabilità dovrebbe essere il segno distintivo e la tessera di riconoscimento, ben visibile anche a occhio nudo a chi l’osserva dall’esterno. Sono sempre di più quelli che affermano che sulla libertà si gioca il presente e, più ancora, il futuro della chiesa. Se ne vedono già i vistosi annunci. Ne nasce un invito pressante ad aggiornare la sue strutture visibili, che rischiano di farla apparire come un enorme fossile storico, ben lontano dai pensieri e dalle aspirazioni dell’uomo di oggi. Si è parlato e si continua a parlare di democrazia nella chiesa. Lo ha fatto da par suo anche il teologo J. Ratzinger, che misura i limiti di questa espressione, ma che ne riconosce anche le possibilità e che ricorda a questo proposito le indimenticabili pagine di storia che mettono chiaramente in luce l’apporto dell’intero popolo cristiano per la vita e per la stessa fede della chiesa. Anzi, se prescindiamo dalle applicazioni tecniche (gioco delle maggioranze e delle minoranze, votazioni come mezzo normale di scelta, esistenza e valorizzazione di veri e propri partiti organizzati), se rimaniamo fedeli ai grandi motivi ispiratori delle vere democrazie, possiamo pensare alla chiesa come qualcosa che è oltre le società organizzate con questo sistema. La parola di Dio è sempre oltre la parola degli uomini. Più che una democrazia, la chiesa è una comunità di fratelli. Una superdemocrazia.Si è parlato anche di opinione pubblica al suo interno, anzi colui che per primo teorizzò questa possibilità fu addirittura Pio XII negli anni ’50. In essa le idee devono avere possibilità di libera circolazione, le proposte si possono susseguire a tutti i livelli e le voci hanno il diritto innato di essere ascoltate e di essere prese in considerazione. Alla gerarchia rimane il diritto-dovere dell’ultima parola. Ma quante sono le parole possibili prima che si arrivi alla fine? Non c’è dubbio che il cammino da percorrere è ancora molto lungo. Giordano Frosini