Lasciar andare

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ANTONIO DE LUCA

LASCIAR ANDARE





ANTONIO DE LUCA

LASCIAR ANDARE


Progetto grafico e impaginazione: Massimo La Corte

© 2020 Diocesi di Teggiano-Policastro Piazza V. Vignone, 1 - 84039 Teggiano SA comunicazioni@diocesiteggiano.it www.diocesiteggiano.it

ISBN 978-88-32222-25-8


Presentazione

Nulla dies sine linea - recita un vecchio adagio latino1. Le pagine che ci offre il nostro Pastore, all’inizio del nuovo anno liturgico 2020/21, in forma di meditazione quotidiana, come linee tratteggiate sulle pagine di questa emergenza sanitaria, è una condivisione spirituale sul tema della generatività: «Generare è l’azione più sublime e incantevole che la natura porta scritto nel suo patrimonio genetico. […] Il segreto recondi-

to della generatività parte dalla sacralità di un incontro, dalla condivisione di sogni e di prospettive, dalla partecipazione all’unica passione per il bene e la ricerca del bello. Lasciar andare è il gesto di generosa donazione che permette agli altri di intraprendere con responsabilità la ricerca di nuovi orizzonti » (pagg. 9-10). Lasciar andare è il secondo percorso di riflessioni in tempo di pandemia. Se nella precedente edizione, Prendersi cura, il Vescovo aveva coniugato la premura di ciò che è stato generato o, tante volte, violentato dalle circostanze di vulnerabilità e di precarietà nelle relazioni ecclesiali e sociali, seguendo il registro della fede che opera per mezzo della Carità 2, nella presente raccolta contempla la Carità in azione, mentre genera percorsi di speranza, di futuro, di crescita all’interno della realtà umana ed ecclesiale. Gli appunti, raccolti intorno al tema Lasciar andare, sono sentieri sapienziali del Pastore, che con sguardo contempl-attivo porta tutti al discernimento della realtà odierna, con una premu1

Letteralmente Nessun giorno senza una linea (Plinio il Vecchio, Storia naturale, 35). La frase è riferita al celebre pittore Apelle, che non lasciava passar giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea. 2 Cfr. A. DE LUCA, Prendersi cura. Pensieri in tempo di crisi, Duminuco editore, Sapri 2020, p. 25.

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ra paterna ed episcopale del dono ricevuto, da custodire e far maturare, ma anche con una generosa opera propulsiva apostolica nell’evangelizzare il campo della tutela dell’ambiente, le nuove sfide globali digitali, l’educazione delle nuove generazioni, senza trascurare i temi dell’attuale Magistero sulla correzione fraterna, le vocazioni, la fratellanza universale. Il tema della generatività è indissolubilmente unito al Mistero dell’Incarnazione: Dio genera vita in Cristo per il grembo umano di Maria! (cfr. pag. 12). Le meditazioni sembrano essere, infatti, scaturite nel grembo della Comunità orante, mentre ascolta il Verbo, in affidamento a Maria, da maggio a ottobre 2020. I verbi della Speranza diventano proposta di crescita al lettore: generare significa anzitutto pregare, stare a contatto con il Mistero di Dio, meditare con la preghiera del Rosario ciò che Dio ha realizzato, vivere la Redenzione di Cristo con uno sguardo ricco di Amore di servizio ai piccoli, ai poveri, ai fratelli. Le pagine sono cariche di questo affetto spirituale, di quell’umana esperienza, densa di incontri gratificanti e di fallimenti avvilenti, che hanno trovato posto nel cuore del Vescovo. Alla luce della Parola sono diventate racconto di redenzione, teologia narrativa, spiritualità e testimonianza coraggiosa del Vangelo, in un’epoca di profonda e inarrestabile trasformazione mondiale. Le riflessioni hanno così un quadro chiaro di sviluppo. C’è un esodo spirituale da realizzare in compagnia di Dio: uscire da sé stessi per fare esperienza di Dio. La prima parte è dedicata ai temi: guardare, studiare, discernere la realtà nella quale siamo posti dalla volontà di Dio (pagg. 9-40). La seconda, nucleo del percorso, chiede di entrare nella volontà di Dio e ascoltare il Redentore, abitare la povertà per trasfigurarla nella luce della Pasqua, attendere nel silenzio il compimento della fedeltà (pagg. 41-52). La terza tappa è un’apertura alla missione: passare dalla fragilità del tradimento alla generosità del dono, trasmettere la fede, cor-

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reggere senza ferire, per essere e divenire tutti fratelli (pagg. 5363). Con la Parola rivolta da Dio a Maria, “Non temere” (Lc 1, 26), quale modello e immagine della Chiesa, il Vescovo apre le meditazioni del Santo Natale (pagg. 64-87), tema caro alla tradizione alfonsiana, con un invito finale ad un singolare apprendistato di semplicità! Auspico che tutti i lettori possano sperimentare lo stesso patos che il nostro Pastore mette in campo con la preghiera, la riflessione, l’annuncio del Vangelo inverato dalla concretezza della Carità. Tutti, infatti, partecipi dei doni che lo Spirito non fa mancare alla Chiesa di Cristo, anche in questo tempo di crisi, possiamo generare vita nuova nelle nostre comunità, prendendo a modello la testimonianza che quest’ultima opera del nostro Pastore ci offre.

don Giuseppe Radesca Vicario Generale

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INTRODUZIONE La pandemia mondiale ha dissolto molti miraggi, ha spento esistenze, ha distrutto sistemi economici, ma ha anche messo in evidenza nuove e più urgenti modalità di prossimità e di vicinanza. Anche nella dimensione evangelizzatrice sono rifiorite originali connessioni tra le comunità e, senza soppiantare la ricca e consolidata modalità tradizionale dell’annuncio, ne hanno sottolineato la continua validità e urgenza. In questo testo ho cercato di raccogliere la condivisione e la forza spirituale che in questi mesi ho avvertito come urgenti per i fedeli e per ogni uomo di buona volontà. Il titolo Lasciar andare non è una resa, né una sconfitta, ma la riassunzione di una nuova responsabilità generativa, nella quale come padri, come educatori, come operatori pastorali possiamo ritrovarci per ridare vigore all’annuncio del Vangelo. Papa Francesco ci ricorda «come cristiani non possiamo nascondere che “se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna”»3.

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FRANCESCO, Lettera enciclica Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 277.

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LASCIAR ANDARE Generare è l’azione più sublime e incantevole che la natura porta scritto nel suo patrimonio genetico. Le piante e gli animali si riproducono, ma l’essere umano, in maniera misteriosa, riproducendosi genera. Accanto al dono della vita consegna, con gli anni, un complesso di valori e di modalità di esistenza che si connotano di libertà, rispetto, crescita, ma anche lentezze, errori e confusioni. L’essere umano dopo aver dato alla luce, si prende cura di ciò che ha generato. E in queste due tappe risiede l’impegno della generatività. Non tutto si esaurisce in successioni automatiche e cronologiche. Sono tempi e condizioni che si intrecciano e si avvicendano integrandosi. Dare alla luce e prendersi cura sono due tappe che raggiungono l’apice ed il compimento del processo generativo attraverso il terzo momento che è proprio il lasciar andare : «Se amiamo ciò che mettiamo al mondo, non possiamo che desiderare la pienezza del suo essere, di cui il distacco è condizione. Un distacco come quello del genitore che vede il figlio lasciare la casa per iniziare la propria vita, un distacco che è insieme doloroso, per la perdita, e gioioso, per la forza della vita che continua, e anche grazie a quello che siamo riusciti a fare e a dare»4. Nel principio della generatività, non solo quella biologica, ma anche quella sociale, educativa, religiosa, esiste la forza prorompente per dare inizio a qualcosa, a un sogno, a un progetto, a una riforma, ad un cambiamento. Ma il segreto recondito della generatività parte dalla sacralità di un incontro, dalla condivisione di sogni e di prospettive, dalla partecipazione all’unica passione per il bene e la ricerca del bello. Lasciar andare è il gesto di generosa donazione che permette agli altri di intraprendere, con responsa4 M. MAGATTI, C. GIACCARDI, Generativi di tutto il mondo, unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, Milano 2014, p. 104.

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bilità, la ricerca di nuovi orizzonti, di incamminarsi su inediti sentieri di libertà e responsabilità. Lasciar andare, non è abbandonare, è piuttosto un rinsaldare, con modalità creativa e diversa, la solidità di legami e di motivazioni. Non si lasciano andare solamente i figli, gli amici o altre persone che rivendicano la propria legittima autonomia. Si lasciano andare anche idee, progetti, parole e posizioni che non sono più generative, che persino occludono la gioia degli inizi e non consentono ulteriori sviluppi. Non possiamo essere ossessionati da ciò che abbiamo concepito, programmato, forse anche per un certo tempo governato. Siamo realmente legati al bene solamente se sappiamo acconsentire che cresca in direzioni e parametri da noi non previsti, forse perché eccessivamente miopi. Lasciar andare è l’atto supremo della maturità, che nel distacco semina e non abbandona, congeda e non sbatte la porta, accompagna e non rivendica. La consapevolezza della comune direzione verso il bene e la forza della nostra identità ci danno un sussulto di nuova vitalità. Scrive Erik Erikson, uno dei teorici della generatività: «Nella giungla sociale dell’esistenza umana, non esiste la sensazione di essere vivi senza un senso di identità». La ripartenza dopo questa dolorosa pandemia ci ha costretti a lasciar andare molte cose, che non ritorneranno più, ma ha anche aperto prospettive e visioni, che saranno di aiuto alla ricerca del nostro futuro.

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MARIA: IL BACIO DEL CIELO Nel disagio dell’attuale situazione sanitaria nelle comunità è stato impossibile celebrare le molte feste mariane, che educano noi cristiani a riscoprire la dimensione del discepolato nell’esperienza di Maria, la madre di Gesù. Il Santo Padre Francesco ha rivolto ai fedeli una lettera nella quale afferma: «Ho pensato di proporre a tutti di riscoprire la bellezza di pregare il Rosario a casa… Lo si può fare insieme, oppure personalmente; scegliete voi a seconda delle situazioni, valorizzando entrambe le possibilità»5. La diffusione del virus ha violentemente fermato le attività delle comunità parrocchiali, soprattutto la Celebrazione Eucaristica, ha mortificato le iniziative e, spesso, ha spento gli entusiasmi. Alcuni avvertono con molta difficoltà la privazione spirituale degli eventi celebrativi nella comunità, manca l’Eucaristia e la Comunità. Siamo chiamati a riscoprire la presenza di Gesù Cristo nella preghiera in famiglia, nella Parola di Dio e nell’esercizio costante della carità. Papa Francesco ricorda che è necessario recuperare la dimensione domestica della fede, pregare e celebrare la fede in famiglia è la possibilità che oggi ci viene offerta. Vi invito a non sciupare questo tempo che, pur nella difficoltà, forse ci sta indicando nuovi percorsi e nuove possibilità a cui non avevamo pensato. Nella tradizione cristiana e nella pietà popolare ci è data l’opportunità per riflettere sulla straordinaria fede di Maria con la preghiera, i canti e i gesti. Meditando e pregando, con il santo Rosario, i misteri della vita di Cristo, ricordiamo colei che, in modo tutto particolare, ha collaborato nell’opera della redenzione attuata da Gesù, senza per questo oscurare l’unico nostro Redento5

FRANCESCO, Lettera a tutti i fedeli per il mese di maggio 2020, 25 aprile 2020.

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re e la sua opera salvifica. Infatti, non c’è nessun pericolo che onorando la Madre non si onori anche il Figlio e viceversa, così come la Chiesa insegna. Maria accolse e generò il Figlio nel cuore e nella carne e così porto la vita al mondo (cfr. LG 53), su di lei la grazia di Dio si è manifestata in modo tutto speciale; in quanto donna, madre e discepola di suo Figlio è chiamata beata da tutte le generazioni (cfr. Lc 1,48); con la consegna di Gesù morente ha esteso la sua maternità a tutti gli uomini «generati dalla morte di Cristo per una vita che non avrà mai fine»6. Ora «accompagna con materno amore la Chiesa e la protegge nel cammino verso la patria»7, indicando e tracciando un cammino sicuro di vita cristiana. In Lei cogliamo l’ostinato ottimismo di Dio, che rigenera la storia con la libertà di un semplice sì! Con accenti poetici, la sensibilità di una donna così ha scritto di Maria: «Quando il cielo baciò la terra nacque Maria che vuol dire la semplice, la buona, la colma di grazia. Maria è il respiro dell’anima è l’ultimo soffio dell’uomo»8. Invochiamo Maria, Madre della Chiesa e Madre nostra, e come lei, viviamo i misteri di Cristo, nell’attesa di contemplarlo un giorno uniti nella stessa gloria.

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CEI, Messale Romano, 3a edizione italiana, Prefazio della beata Vergine Maria III, Roma 2020, p. 380. 7 CEI, Messe della beata Vergine Maria, Prefazio 25. Maria Vergine immagine e Madre della Chiesa (I), LEV, Roma 1987. 8 A. MERINI, Magnificat. Un incontro con Maria, Frassinelli, Segrate (MI) 2002.

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VOCAZIONE, INVASIONE DI ETERNITÀ Esito a parlare di vocazione. L’esitazione nasce dal possibile fraintendimento sulla parola e soprattutto sul legame che immediatamente si stabilisce con la fobia dei seminari ormai svuotati, del ridimensionamento numerico, dell’invecchiamento del clero e dei religiosi. Il vero vuoto non riguarda gli spazi, ma invade l’animo umano. Qualcuno ha parlato della nostra cultura occidentale come ambiente che ormai genera uomini senza vocazione. In realtà il vuoto è sulle visioni, sui sogni, sulle grandi mete e sugli ideali per i quali invece vale la pena spendere la vita e lasciarsi continuamente modellare per scoprire una nuova modalità di esistere, che si costruisce – come ci ricorda Papa Francesco – intorno al vocabolario nuovo delle vocazioni: gratitudine, coraggio, fatica e lode 9. È in gioco una visione di persona che, se da un lato rivendica la propria capacità di autodeterminazione con una esaltante esperienza decisionale, finisce poi per non decidere mai in termini definitivi o quanto meno duraturi. Visione che intende la libertà come immediatezza di revocabilità di ogni scelta e i legami validi solo finché determinano benessere. Il baratro della solitudine e dell’isolamento è in agguato e, dopo una incalzante ebrezza di occasionali e passeggeri riempitivi, si rischia il vuoto di senso, la solitudine e la depressione. La vita diventa insopportabile. In questa triste stagione della pandemia, si sono profilate storie di esistenze spese al totale servizio per ideali e compiti sovrumani. Generosi aneliti di dedizione ai malati e il volontariato come scelta di prossimità; sono maturati sogni e legami con la storia quotidiana, che segnano inevitabilmente per sempre. «Se in questo mondo, che minaccia di sparire, non risvegliamo in noi 9 FRANCESCO, Messaggio per la 57a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 3 maggio 2020.

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questa invasione d’eternità, di contemplazione, di accoglienza, se non creiamo queste oasi di silenzio dove la frenesia si trova sospesa, noi avremo dimenticato la nostra vocazione di uomini e di donne» (C. Singer), da questo dipende molto la radicale svolta sull’uomo, sul mondo e sul suo destino. Papa Francesco rivolgendosi ai giovani, paternamente li ammonisce: «Datevi al meglio della vita»10, ed il meglio consiste in quel misterioso ascolto dell’intima coerenza, a quella direzione che dà senso, all’energica risalita dopo ogni caduta, all’autentica ricerca dell’altro nel quale cogliere lo squarcio di infinito che rivela Dio e il suo amore. Solo così ci saremmo legati per sempre ad un compito, ad una vocazione, che ci avrà permesso di collaborare a realizzare qualcosa che vale per sempre.

10 FRANCESCO, Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit (25 marzo 2019), 143.

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CIÒ CHE DOBBIAMO RECUPERARE Il volume La scommessa cattolica 11, realizzato da due valenti pensatori con il taglio antropologico e sociologico, docenti che contribuiscono notevolmente al dibattito nell’ambito culturale occidentale, riporta in copertina, oltre il titolo, un interrogativo pensoso: «C’è ancora un nesso tra il destino delle nostre società e le vicende del cristianesimo?». La risposta, dopo una riflessione articolata, profonda, realista, sofferta, onesta e schietta, arriva nelle ultime quattro righe del testo: «un compito entusiasmante ci attende, dunque, al quale tutti, ma proprio tutti, possiamo dare un contributo. Il compito di tornare all’intero come relazione vitale, dinamica e plurale. Un compito cattolico». Uno studio avvincente, un appello attualissimo, che se si deve tradurre in compito e missione non può che ripartire, non da dove avevamo lasciato prima del coronavirus, ma da ciò che sorregge in maniera strutturale la presenza cristiana nel mondo: rispondere a quell’appello che ci induce a trasformare il Vangelo in cultura ed animare la cultura con il Vangelo. In primo luogo, è necessario collaborare ad una ricomposizione dei saperi, sottraendoli alla frammentazione che genera anche conflittualità e scontro. Talvolta le sfide diventano contradditorie e sembrano persino smentirsi: la passione per le conquiste scientifiche e per la vita, la ricerca sulla qualità e la difesa dell’esistere, la battaglia per i diritti fondamentali, deve fare i conti con l’isolamento degli indifesi, la noncuranza per la diffusa cultura abortista, il proliferare della povertà, lo sbilanciamento economico verso l’industria bellica e l’accaparramento di risorse nei paesi più poveri. Le multinazionali si appropriano delle immense distese di terra e anche delle persone che le abitano. Una ricomposizione dei saperi crea una dialettica di crescita e di vicende11

C. GIACCARDI, M. MAGATTI, La scommessa cattolica, Il Mulino, Bologna 2019.

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vole arricchimento nel rispetto di tutti e nel sostegno di un’etica globale e condivisa. Bisogna ristabilire il giusto equilibrio tra natura e cultura, nel rispetto di un sano principio di libertà che non può determinare arbitrio ed esaltazione di autodeterminazione. La natura ha regole e percorsi che la cultura non può manomettere, ma solo incanalare, aiutare, senza alterare o rinnegare. L’esaltazione del diritto positivo, a scapito della legge naturale, determina un vuoto di orientamento e innesca una visione individualista della persona. Assistiamo, sempre di più, all’esaltazione idolatrica della privacy, ma allo stesso tempo, in maniera pigra, acconsentiamo sbrigativamente all’utilizzo dei nostri dati, pur di usufruire di una app o di navigare sul web, permettendo il tracciamento dei nostri comportamenti e delle attività che svolgiamo con i nostri device. Questo, attraverso un mix di tecnologia ed algoritmi, aiuterebbe a costruire software e siti web su misura delle preferenze di ognuno, creando un effetto sostanzialmente utile e piacevole. Nella realtà, tuttavia, le necessità puramente commerciali si scontrano con una tendenza ad utilizzare qualsiasi dato sia presente online, creando una profilazione molto più approfondita e quasi sempre lesiva della privacy. Il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR12) viene spesso disatteso, ad esempio, utilizzando carte di credito, tessere di fedeltà, ai distributori di carburante, al supermercato, presso le compagnie aeree. È già praticata la geolocalizzazione attraverso smartphone per arginare il contagio da COVID-19, ma servirà solo a questo? 12

General Data Protection Regulation, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile.

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Nell’insorgere della robotica è necessario ricomporre l’umano, ricomprenderlo alla luce delle fondamentali facoltà che solo alla persona libera è dato di avere: opzioni, sentimenti, responsabilità, decisioni ed emozioni, che esulano dalla competenza degli algoritmi. Per quanto precisi nella sommatoria dei dati e delle impressionanti anticipazioni sui dati sociali, medici ed economici, perciò indispensabili e preziosissimi, gli algoritmi non possono debellare e neanche indebolire la centralità della persona. Di fronte alle inquietanti situazioni del nostro tempo perché non aprirsi al mistero e ricominciare ponendoci sostanziali e decisive domande? Diceva il non credente Giorgio Gaber: «Mi piacciono i cattolici perché si fanno ancora delle domande».

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LA COMPASSIONE È IL DIVINO DELL’AMORE La stagione di questa terribile emergenza sociosanitaria è accompagnata da tante rischiose situazioni che minacciano la salute fisica. Anche le relazioni ne risentono, potrebbe persino prendere corpo l’individualismo e l’indifferenza. Tuttavia, in tanto fitto grigiore, emerge anche la luce di una ritrovata solidarietà, un altruismo che si è manifestato nel servizio, nella prossimità e in tanta compassione. Quest’ultima non va fraintesa con l’elenco delle buone opere. La compassione, in realtà, non si racconta, né la si ostenta, perché è una sottile partecipazione dell’anima che consente appena di essere percepita. Chi vive il nobile sentimento della compassione, mette in atto ogni umano accorgimento per dissimularla, velarla. La compassione si alimenta nel segreto, è troppo grande, è ricoperta da sacra inviolabilità. La compassione respinge i numeri e le statistiche, rifiuta le sovraesposizioni mediatiche. È accanto in maniera impercettibile, con un passo più lento, anche a costo di rimanere travolta da una sbadata superficialità. Ma non importa, perché la compassione è tenace! Com’è d’altronde il destino di ogni intima opzione della coscienza. In questo frangente doloroso del coronavirus siamo stati tutti invitati a non isolarci, ma ad aprirci con compassione ai meno fortunati, ai perdenti della vita. Il Cardinale Carlo Maria Martini scriveva: «Essere nel deserto vuol dire accorgersi di chi, ai lati della strada, è più disperato di noi, più solo di noi; vuol dire vivere la prossimità. Nel deserto, infatti, la prossimità è come più immediata, perché si comprende il bisogno di chi è più solo di noi»13. È proprio vero, nel disagio della prova, nel pieno della tempesta e dello smarrimento, è umano guardarsi intorno per un sussulto di compassione verso chi è meno fortunato. Compassione non si13

C.M. MARTINI, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2004, p. 38.

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gnifica pietosa rimozione di errori e di colpe, anzi significa rivitalizzare le responsabilità delle scelte con coraggiosi gesti di amore e di vicinanza. Accanto alle tante crisi che ci accompagnano, quella politica, economica, finanziaria, culturale, ambientale, ora siamo scivolati in una crisi sanitaria. Non si tratta di tante crisi, ma di un’unica grande crisi socio-ambientale14, perciò è vivo il richiamo di Papa Francesco: «tutto è connesso»15. A noi il compito di abitare le prove e viverle con attenzione umana e cristiana. Alla domanda, che riaffiora in questa emergenza, “cosa si deve fare?”, noi, come cristiani, preferiamo l’interrogativo “come bisogna essere?”. La risposta è semplice: imparare ad essere accanto. Questo cercano di fare, con sincera disponibilità, le comunità, i pastori, i gruppi e i movimenti. L’angolatura è quella di chi sa che è l’unica risorsa, aiutare a portare una croce. «Vi è molta sofferenza e molto dolore nella nostra vita, ma quale benedizione quando non dobbiamo vivere da soli il nostro dolore e la nostra sofferenza. Questo è il dono della compassione»16. La spiritualità della compassione ci aiuta ad entrare nel profondo dell’umano, ma ci solleva anche alle altezze del Divino.

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Cfr. FRANCESCO, Lettera enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015), 139. Ivi, 117. 16 H.J.M. Nouwen, Compassione – Soffrire con gli altri, in https://combonianum.org/2017/07/08/un-grano-di-sale-da-henri-nouwen-8/ 15

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RISALIRE LA CHINA Ciò che abbiamo vissuto non è stata una passeggiata, né può essere archiviato in una labile memoria del passato. Non è solo un brutto ricordo. La grande emergenza sanitaria, ci ha messo soprattutto di fronte alle nostre responsabilità ambientali, sociali, educative ed economiche. Si è ribellato tutto ciò che lentamente, ma inesorabilmente, abbiamo prodotto con un efferato sfruttamento dell’ambiente. Invasi dalla cupidigia di possesso e della smania del consumo, non ci siamo accorti della china che abbiamo imboccato. Ancora più pericolosa è la graduale lacerazione della fratellanza provocata «dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini»17. Il contagio e la diffusione del virus hanno evidenziato come la famiglia umana sia sottoposta, nella sua globalità, ad una insidiosa minaccia che riguarda il futuro e la sopravvivenza della vita sulla terra. Ci siamo tutti difesi con protocolli internazionali, oltre che con l’adozione di strumenti anti-contagio come guanti, mascherine, utilizzo di gel e disinfettanti vari. In parte abbiamo fronteggiato la deriva totale. Nelle sabbie mobili, agitarsi non serve, pena l’ulteriore e fatale sprofondamento. Serve invece il lancio di una cima o di un sostegno cui aggrapparsi per essere tirati fuori dalla limacciosa coltre. Così sembra essere rinata la solidarietà, la vicinanza, l’emergere della passione solidale di ragazzi e giovani, che hanno espresso la loro singolare umanità accanto agli anziani, alle persone sole, ai malati. Una manifestazione di novità che ha segnato i giorni del tempo sospeso. Non sono mancate le vicinanze istitu17 Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.

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zionali e, tuttavia, la risalita non si costruisce solo con l’erogazione di fondi straordinari e nemmeno con il perfezionamento di algoritmi sempre più minuziosi e precisi, vero delirio tecnocratico. Sono insufficienti anche le reali ipotesi di riconversione di grandi aree urbane e il consolidamento di strutture sanitarie, meglio articolate e più capillari. Tutto questo serve tantissimo, ma non può bastare. Ciò che può dare vigore alla risalita è una forza sovrumana attinta alla consapevolezza della fratellanza universale, all’abbattimento del diffuso virus dell’indifferenza globale, all’abbandono della produzione di materiale bellico, costosissimo e micidiale, che produce morte e distruzione insieme ad un profitto vile e iniquo. Tutti siamo in attesa di un vaccino per debellare per sempre il letale virus COVID-19. Ma esistono anche altre urgenze che richiamano l’attenzione all’impegno per la giustizia, l’accoglienza e l’integrazione dei soggetti fragili e vulnerabili della società, l’ascolto del grido della terra e di coloro che sono le prime vittime delle crisi socio-ambientali. La sovraesposizione sociale di molti immigrati, dei quali ci siamo ricordati per la necessaria manovalanza nella filiera agro-alimentare, richiede l’accompagnamento di un sussulto di umanità e di rispetto per la comune dignità che tutti ci rende fratelli. Possiamo metterci sulla via del superamento della crisi sanitaria in atto e non ancora del tutto debellata, ma non con l’intento di rifare le cose come prima. Bisogna recuperare la gioia del servizio nell’educazione, nella sanità, nella tutela della vita degli anziani, nell’accompagnamento dei giovani verso una nuova visione dell’economia, del lavoro e della politica. Per noi cristiani è necessario riconoscere che siamo stati sottoposti ad una forzata “cura dimagrante”, molte futilità sono decadute e sta emergendo un volto di Chiesa attenta ai cambiamenti, capace di servizio, non amante del presenzialismo, sensibile alle famiglie, che finalmente si sono ritrovate insieme a pregare, ad attendere un contatto con la comunità ecclesiale e con22


dividere la gioia delle cose semplici. Papa Francesco ci ricorda che nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno può essere dimenticato, «non pensiamo solo ai nostri interessi, agli interessi di parte. Cogliamo questa prova come un’opportunità per preparare il domani di tutti, senza scartare nessuno: di tutti. Perché senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno… solo così ricostruiremo un mondo nuovo»18. La preoccupazione per il COVID-19 sembra aver fatto dimenticare che l’ingiustizia e le guerre hanno incrementato il numero dei rifugiati, circa 80 milioni: «Troppi di noi credono di vivere in una cittadella di precario benessere sottoposta all’assedio di torme di diseredati. Pensano di essere costretti a sforzi di accoglienza insostenibili. Immaginano che il diritto di asilo sia un grimaldello per forzare i cancelli dei nostri piccoli o grandi privilegi»19. Finché non smascheriamo gli egoismi collettivi e le miopie personali, non saremo mai in grado di intraprendere con coraggio la risalita e ogni tentativo non potrà che risultare fallimentare se non contraddistinto da una visione fatta di inclusione, di globalità ed integrazione. O ci salviamo insieme, o non si salva nessuno.

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FRANCESCO, Omelia alla Santa Messa della Divina Misericordia, 19 aprile 2020. M. AMBROSINI, La realtà dei profughi e richiedenti asilo. Verità da accogliere, in Avvenire.it, 18 giugno 2020, https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/verit-da-accogliere.

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RICOMINCIARE CON AFFANNO Nonostante le forzate chiusure, anche se con esitazione e tanta perplessità, bisogna ripartire. È necessario ricominciare con nuovo entusiasmo, con nuova sensibilità. Non si tratta di ripartire dal punto dove avevamo interrotto, la crisi sociosanitaria mondiale ci ha lentamente addomesticati. Ci ha ricondotti nei limiti di una fragilità diffusa, della quale fino ad oggi ci eravamo illusi di essere immuni. Invece no! Ecco la prima risorsa che ci aiuta a rialzarci, la consapevolezza di essere vulnerabili. Abbiamo anche compreso che non ci sarà mai consentito stare bene e vivere sani se continuiamo a fare scelte che ammalano il pianeta. Una risorsa spirituale che non possiamo ignorare è l’annullamento delle barriere. Il virus non ha rispettato i confini geografici, invisibile e minaccioso si è mosso sulle latitudini planetarie con preoccupante rapidità. Non ha fatto distinzioni di razze e di popoli. Ha colpito tutti, dunque siamo legati da un unico destino di benessere o di fallimento e tutto si presenta irriducibilmente connesso: la sanità, l’economia, l’educazione, la politica, la custodia dell’ambiente, le migrazioni dei popoli. Tutto è connesso! Avere questa consapevolezza ci proietta verso responsabilità globalizzate e condivise. Nella triste esperienza della pandemia mondiale è venuta fuori una fioritura di volontariato e di servizi che hanno impresso il marchio della vera umanità negli ospedali e nelle case di riposo. All’indomani di tristi esperienze di morte, vi è stata la mobilitazione generale per offrire ai malati, alle persone sole, ai morenti, l’esperienza di un umanesimo cristiano che mai smette di indicare il Divino ed il trascendente. È vero, nella solitudine del distanziamento sociale abbiamo imparato a viaggiare sui canali social, ma abbiamo anche compreso che essi possono costituire una soluzione sostitutiva e temporanea. Abbiamo bisogno delle

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relazioni concrete, visive; abbiamo bisogno di un abbraccio, di una stretta di mano, di un sorriso, oggi tristemente velato dalla presenza di una mascherina. Ottimo ritrovato precauzionale, ma chi non l’ha avvertito almeno per un momento come pesante macigno o dolorosissimo colpo sinistro subìto! La forzata inoperosità ci ha spinto anche a metter ordine non solo nelle carte e nelle cianfrusaglie accantonate nel fondo dei nostri cassetti. Il vero ordine ha riguardato la vita, la coscienza, il posto di Dio, la riflessione sulla vita e sulla morte e, soprattutto, sul compito che incombe su ciascuno di costruire relazioni vere e autentiche, improntate all’accoglienza e al rispetto vicendevole. Nella crisi abbiamo avvertito l’urgenza della solidarietà e delle scelte decisive per i valori e per le opzioni che veramente contano al di là di effimeri miraggi e di velleitarie conquiste. Esistono beni che non hanno prezzo e che non possono essere acquistati se non a costo di pesantissime rinunce, sacrifici e lavorio diuturno. Dinanzi a noi si è spalancata la finestra di una mondialità ferita e malata. Con il nervo scoperto della corsa agli armamenti e la sussistenza di una economia che uccide. Una famiglia umana che deve riscoprire i legami ormai ineludibili di una planetarietà che salva o distrugge tutti. Una sfida nella quale dobbiamo assolutamente sentirci coinvolti con il discernimento sui paradigmi tecnocratici che hanno illuso l’uomo di essere capace di tutto e di poter realizzare ogni forma di capricciosa conquista, anche quando questa non solo non rientra nei parametri del vero sviluppo, ma addirittura lo contraddice e lo annulla. Ripartiremo con la consapevolezza che non possiamo fare a meno del lavoro e delle collaborazioni di uomini e donne impiegati nella filiera agroalimentare e nel settore dell’assistenza ai nostri anziani e malati. Li abbiamo nelle nostre case, nelle nostre aziende, eppure li definiamo ancora clandestini. Essi meritano ri-

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spetto e riconoscimento dei diritti, solo così sarà possibile anche per loro monitorare la sanità, organizzare le rimesse verso i paesi di provenienza e, quello che più conta, sottrarre questi lavoratori da iniqui e squallidi mercati sui quali incombe l’ombra di organizzazioni malavitose. Serve una nuova alleanza con la madre terra. La conversione ecologica, tanto invocata da Papa Francesco, attende ancora significativi riscontri. Si tratta di rinunciare ai profitti vantaggiosi che si costruiscono a scapito di minoranze e nello sfruttamento di un lavoro mal pagato e non sempre rispettoso delle necessarie cautele ambientali. I giganti di una economia di profitto e di interessi non equamente ridistribuiti continuano a produrre tracciati di fame e di morte. «Ora, mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia, si insinua proprio questo pericolo: dimenticare chi è rimasto indietro. Il rischio è che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente»20, queste parole di Papa Francesco ci sono di aiuto a comprendere che, per ripartire veramente, dobbiamo lasciarci alle spalle l’egoismo e l’indifferenza che uccide. Ripartire sì, ma con la consapevolezza che abbiamo bisogno di nuovi orizzonti.

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FRANCESCO, Omelia alla Santa Messa della Divina Misericordia, 19 aprile 2020.

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UNA VISIONE INCLUSIVA E PLANETARIA DELLA FAMIGLIA UMANA L’esasperata e strumentale accentuazione del concetto di identità è sempre coincisa con forme di integralismi e di pericolose conflittualità. Ogni tipo di fondamentalismo identitario sconfina in un concetto di rivendicazione di privilegi o, se vogliamo, di indebite precedenze. Che dire poi quando l’ossessiva ricerca dell’identità genera persecuzioni ed emarginazione. La vera logica di una costruzione identitaria non innalza un recinto, piuttosto elabora orizzonti nei quali le differenze e le integrazioni non sono colte come minacce, ma come una rinnovata possibilità di dialogo, di inclusione e di sano convincimento che solo insieme la famiglia umana può crescere e rafforzarsi. È questa la base di ogni singolare identità, chiamata oggi a difendere le differenze, a costruire ponti e a salvaguardare la casa comune, la madre terra, minacciata anch’essa da conflitti e da interessi che spesso si rifanno a insopportabili principi identitari. In più circostanze le identità etniche, religiose e culturali, vengono accentuate con la difesa di simboli e di segni di appartenenza. E se questo può essere comprensibile, non altrettanto lo è l’aggressiva polemica nei confronti di chi osa lanciare coraggiosi messaggi universali di fratellanza e di vicendevole sostegno. Si pensi nel mondo occidentale alle polemiche sul presepe o sul crocifisso, ma anche sul suono delle campane. Le scene di cristiana evocazione della natività di nostro Signore Gesù Cristo, ambientate su un barcone o con pastori chiaramente di colore olivastro, suscitano in alcuni una reazione di disturbo. Si grida alla confusione educativa, al tradimento del messaggio evangelico e della storia che contiene. Non mancano poi coloro che inneggiano a una errata comprensione della laicità, in nome di una identità laica delle istituzioni, dello Stato e della società, ignorando che il vero concetto 27


di laicità contiene in sé semi di generatività rispetto alla libertà, alle differenze, alla custodia delle singole vocazioni; realtà che anche il cristianesimo sostiene e privilegia, proponendo una laicità leale, inclusiva e rispettosa. Chi non comprende questa accentuazione finisce per sostenere un laicismo che è foriero di ostilità, di conflitti, di rifiuto delle minoranze e poco rispettoso questo sì! - delle differenze. Una visione inclusiva e planetaria della famiglia umana inneggia ed esalta la fratellanza e la conoscenza reciproca, valorizza i positivi messaggi politici, religiosi ed educativi che ogni gruppo umano custodisce ed evoca nelle vicende e nelle varie situazioni della vita. Esistono in tutte le culture e in ogni religione, certamente con sfumature differenti, punti comuni di incontro che vanno valorizzati: la nostalgia di Dio e della bellezza, la lotta per l’uguaglianza, la liberazione dall’oppressore, la dignità della donna e dei deboli, la sconfitta delle povertà, l’amore alla casa comune e all’ambiente. La situazione mondiale, che ancora conserva sproporzionate sacche di ingiustizia sociale e di sfruttamento di intere aree del nostro pianeta, la persistenza di conflitti religiosi ed etnici, dietro i quali spesso si nascondono interessi di dubbia natura, determinano lo scontro culturale e generazionale, alimentando un’intolleranza verso tutto ciò che è minoranza e diversità. Permangono situazioni oltraggiose verso appartenenze e identità che sfociano in forme di aggressività e di rifiuto. Intere popolazioni sono violate nei diritti umani fondamentali e ciò che ci rende uguali e capaci di libertà è proprio l’umanità, che ci colloca nel grande orizzonte della famiglia universale. I particolarismi e gli ossessivi cortocircuiti nazionalisti e sovranisti appaiono intrinsecamente anacronistici, la storia è protesa naturalmente verso quel crogiolo di popoli e di culture che costituiscono il ricambio generazionale e ne determinano il futuro. La

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mobilita umana, la multiculturalità e l’incontro tra le razze non sono minacce, ma nuove sfide e segni lungimiranti del futuro. Chi vuole attardarsi in miopi previsioni di benessere individuale e particolare sta ignorando il corso della vicenda umana. Non si ha il coraggio di chiamare per nome le responsabilità di molti governi e di istituzioni internazionali che ancora esitano a prospettare una soluzione globale ai grandi problemi delle migrazioni o dell’inquinamento del pianeta. La cultura dell’incontro e la cura dell’identità propria e degli altri ci spinge a guardare l’altro non sempre e non esclusivamente in termini di minaccia o di aggressione. L’altro non è uno dal quale bisogna guardarsi e perfino respingerlo, non sono questi i presupposti di un umanesimo integrale fatto di sviluppo, di rispetto e di incontro.

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LA REDENZIONE HA UN SIGNIFICATO SOCIALE La generatività ha una delle sue massime espressioni nell’atteggiamento del prendersi cura. L’anello di congiunzione tra il generare e il suo compimento lasciar andare, deve passare attraverso la fatica del prendersi cura. Questo schema dell’ordine naturale si ripropone poi anche nella logica di un’idea, di un sogno, di un progetto. Ma anche nell’adempimento di una missione e di un servizio. Prendersi cura significa chinarsi con discreta attenzione, accompagnare e sostenere chi è debole e fragile, chi aspetta di essere sostenuto ed accompagnato verse mete di umana e spirituale dignità. Chi si prende cura è capace di immettere costantemente in circuiti esausti ed asfissianti nuovi germi vitali, per rianimare le relazioni, gli impegni, la fedeltà e la speranza. In questa logica generativa mi piace leggere il servizio e l’attenzione che i cristiani riservano a tutte le forme di diversità etniche, religiose, politiche, culturali, di genere e di intelligenza. La diversità è un’arricchente campo di azione, non un attacco alle identità. Non si entra nella sfida delle convergenze sovraccarichi di paure e di fantasmi. La comune ricerca della salvezza per la famiglia umana ha un nome concreto e allo stesso tempo una visione sovrumana, la Redenzione. Un principio di umanesimo solidale e trascendente, che si realizza anche nelle componenti multiculturali, nella mobilità umana, attraverso l’accoglienza, l’incontro, il dialogo, l’ascolto e il grande impegno dell’integrazione. Certamente sono in aumento i matrimoni tra persone di diverse nazionalità, crescono alunni e studenti stranieri nelle nostre scuole, ma ancora non sono sconfitte le forme di pregiudizio e di larvato razzismo, che inquinano la conoscenza tra le persone e privano ogni percorso di una solida speranza di incontro e di civile convivenza. Il mondo deve attraversare i sentieri seri e co-

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raggiosi della pace, che non è solo per “minoranze felici”, infatti, essa o è planetaria, o è solo effimera illusione. Come amava ripetere Paolo VI: «lo sviluppo è il nuovo nome della pace»21. Assetati di percorsi di redenzione e di riscatto da tutte le forme di ingiustizia, di strutture di peccato, i popoli della povertà e della fame, vittime dell’ingiustizia e delle guerre, ci interpellano smascherando allo stesso tempo le false ed ipocrite parole di alleanza e di solidarietà, che di solito restano solo confinate nei buoni propositi. I percorsi di redenzione umana, sociale, esistenziale e spirituale, sono sempre contraddistinti da coraggiosi dinieghi verso tutto ciò che è disumano, che è profitto iniquo ed ingiusto. Il pericolo di ridurre il Vangelo ad una mera teoria filantropica e, peggio, a un dialettico confronto di idee, è sempre in agguato. L’accoglienza del magistero coraggioso e profetico di Papa Francesco fa risuonare parole e indicazioni che hanno la freschezza carismatica degli inizi della Chiesa e sono nel cuore dell’annuncio evangelico, sono parole capaci di comporre la divisione e di indirizzare verso l’unica consapevolezza: «Confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi. […] La sua redenzione ha un significato sociale perché Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini»22. Ogni redenzione e tutta la redenzione è sempre inchiodata ad una croce.

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PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum progressio (26 marzo 1967), 76. FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 178.

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SULLA PACE NON CI INGANNI UNA FALSA SPERANZA Il tema della pace interpella quotidianamente la sensibilità umana e cristiana. In un contesto di enormi successi, dove il progresso è diventato un idolo da perseguire, ci si domanda se e quanto la cultura, la scienza e la tecnica, sceglieranno la pace come metodo, obiettivo e condizione per una vera conquista umana. Il mondo dei social, che molto può contribuire a diffondere quella saggia cultura di pace e di relazionalità improntata all’autenticità e alla lealtà, innesca invece, molto spesso, dolorosi scontri verbali ed aggressività comunicativa che esaspera i rapporti e le necessarie visioni d’insieme senza le quali non si costruisce un futuro di pace. Slogan gridati, saccenti al limite della volgarità, inducono ad una meno che mediocre visione di pace, che si genera invece attraverso un’etica non-violenta della risoluzione dei conflitti, a partire da quelli quotidiani, fino alle grandi problematiche nazionali ed internazionali. L’impegno per la pace non si riduce esclusivamente nella militanza in organizzazioni pacifiste, che pur servono. Piuttosto è necessaria una prospettiva inclusiva delle grandi sfide socio-ambientali dalle quali nascono gli enormi squilibri sociali in rapporto alla giustizia, alla libertà di scelta del luogo dove vivere e dove riuscire a entrare in una qualità di vita dignitosa, tipica di ogni essere umano. La madre di ogni guerra è sempre l’ingiustizia e l’indifferenza. Qualcuno guardando ai moltissimi conflitti che vi sono nel mondo (ben 36 guerre e moltissime situazioni di crisi), la definisce la mappa dell’ipocrisia perché, se da un lato si sottoscrivono trattati e si pubblicano le dichiarazioni di intenti, in realtà si continuano a produrre e vendere armi sofisticatissime di distruzione di massa, permangono gli iniqui commerci che impoveriscono i paesi già ridotti alla fame e nulla si fa per offrire significativi percorsi di

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crescita e di progresso sociale a molti popoli vessati da conflitti politici, da avvicendamenti di caste, da interessi derivanti dal petrolio o da altre preziose risorse. I paesi maggiormente dotati di risorse e di una visione planetaria dello sviluppo, attraverso gli organismi internazionali e sovranazionali, devono ristabilire percorsi di pace negoziata, alla luce del principio della solidarietà e della cooperazione, con lo stile dell’amicizia, del negoziato e della vicendevole promozione tra i popoli. Papa Francesco nella severa costatazione di «una terza guerra mondiale combattuta “a pezzi”»23, intende anche evocare lo sforzo di chi deve pensare la pace, non solo come un teorema o un artificioso accordo di non belligeranza, quanto piuttosto una visione inclusiva planetaria che metta insieme l’istanza sociale di giustizia, di verità, di rispetto dei diritti e della dignità umana ed ambientale. Il Concilio Vaticano II, che molto riflette sulla responsabilità di costruire la pace, scrive: «Né ci inganni una falsa speranza. Se non verranno in futuro conclusi stabili e onesti trattati di pace universale, rinunciando ad ogni odio e inimicizia, l'umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste nel campo scientifico, si trova già in grave pericolo, sarà forse condotta funestamente a quell'ora, in cui non potrà sperimentare altra pace che la pace terribile della morte. La Chiesa di Cristo nel momento in cui, posta in mezzo alle angosce del tempo presente, … non cessa tuttavia di nutrire la più ferma speranza. … Essa intende presentare con insistenza … il messaggio degli apostoli: “Ecco ora il tempo favorevole” per trasformare i cuori, “ecco ora i giorni della salvezza”»24.

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FRANCESCO, Omelia Viaggio Apostolico a Sarajevo, Stadio Koševo, 6 giugno 2015. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 82. 24

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GUARIRE L’ANIMO

Incurabili è il nome di un ospedale napoletano dai presagi nefasti, ospitato in un monumentale complesso cinquecentesco. Vi erano condotti coloro che non avevano alcuna speranza di sopravvivenza a causa di malattie irreversibili o per la condizione sociale di povertà e di abbandono. Tuttavia, in quelle mura usufruivano di una umanissima assistenza non solo medica, ma anche caritativa e religiosa. Le corsie di quell’ospedale sono state la cattedra per esimi uomini di scienza, ed anche la palestra di santità di uomini e donne eccezionali, almeno trenta tra Santi e Beati hanno frequentato gli Incurabili. Ricordo per tutti il giovane principe napoletano Alfonso dei Liguori, che dismessa la livrea nobiliare, era solito servire i malati degli Incurabili. Fu proprio in quello spazio e respirando quell’aria che percepì ripetutamente un invito, sulle prime sconcertante, ma poi sempre più convincente: “lascia il mondo…”. Comincia così il travaglio interiore che lo condurrà a scelte di radicalità in favore dei più abbandonati. Resta viva in quei padiglioni anche la venerazione al medico Santo Giuseppe Moscati, memorabile figura di carità ai più poveri. Ciò che stiamo sperimentando in questa crisi sociosanitaria è che la malattia e la sofferenza addomesticano e cambiano! È questa la verità dalla quale ripartire per comprendere la direzione ed il senso di ogni stagione della vita. Quando improvvisamente la condizione del dolore compare nella vita, comincia un doveroso ripensamento che porta a resettare le relazioni, le risorse, i talenti; si cominciano a leggere con sano realismo i ritardi, i fallimenti, le imprese pienamente riuscite, delle quali, in alcuni casi, resterà forse solo il ricordo. La malattia non ridimensiona, piuttosto indirizza verso prospettive inedite ogni attimo ed ogni piccolo talento. È la stagione nella quale si comincia ad inventariare il tempo e le occasioni, tutto appare particolarmente prezioso ed irripetibile. Non solo perché viene amputata una visione funzio34


nalistica ed efficientista della persona, ma perché si resta circondati esclusivamente da ciò che conta. Nella fase della sofferenza insopportabile e del dolore, si fa sempre più urgente la vicinanza e la prossimità non solo della famiglia, ma anche della scienza, onde evitare la tristezza cocente della solitudine e dell’abbandono dentro i quali può anche maturare l’insano desiderio dell’autodeterminazione assoluta e solitaria, con logiche di morte e di suicidio assistito. In un modello sociale selettivo, idolatra della meritocrazia e dell’efficienza, l’infermità stabile e definitiva, la disabilità, appaiono persino un peso nell’economia di una società. Il volontariato cattolico si esprime in una logica di vicinanza e prossimità verso coloro che, provati dal dolore, avvertono il bisogno di un sostegno. Non si tratta solo di dare sollievo a fratelli e sorelle provati dalla malattia, ma è anche l’occasione per ricevere, per avviare processi di discernimento, per riporre nella giusta direzione la visione della vita e del mondo. In tale prospettiva non è affatto educativo sottrarre dalla dimensione relazionale delle giovani generazioni l’impatto con la sofferenza e con il dolore. La morte e il dolore non si possono nascondere, né per una compiaciuta rassegnazione, né per una fatalistica visione della vita. Entrare in contatto con la sofferenza educa all’impegno, alla passione per la valorizzazione di ogni frammento di vitalità e di ingegno, educa all’oblatività offerta e ricevuta di chi vuole scorgere in ogni situazione una rinnovata opportunità di vita e di servizio. La pretesa di isolare la sofferenza è un delirio che conduce a uno scadente impatto con la vita e con la società, perché elabora schemi arcaici nei quali chi ha possibilità è un vincitore e chi è sfortunato è anche un perdente. Siamo di fronte all’eliminazione di ogni ragionevole progetto umano e sociale. Solo la logica dell’inclusione e della generatività aiuta a cogliere, in un tempo

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della vita e per tutta la vita, la gioia di una nuova conquista e contribuisce a debellare le paure. La prima delle quali è proprio la paura dell’inutilità del vivere, del soffrire e del morire. Questo pericoloso nichilismo si dissolve solo attraverso una singolare apertura alla “questione Dio”, al Trascendente e al Divino, via della bellezza e della salvezza, educandosi all’accettazione del limite umano come grazia e come opportunità. L’impatto doloroso con la sofferenza inutile o con quella dei bambini, degli innocenti e di chi vive sofferenze insopportabili, suscita interrogativi inquietanti. Solo l’alleanza con un umanesimo integrale e trascendente può sostenere il riscatto e la guarigione dell’animo umano.

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CAPACI DI DIO, CIOÈ UMILI Parlare di umiltà è rischioso, se non ben compreso si rischia l’impopolarità. Siamo nella cultura dell’immagine, della brillantezza delle ascese e gli arrampicatori sociali sono quelli che seducono e si affermano. Nella vita la prima lezione è quella di imparare a sgomitare per farsi strada. Non importa come, l’importante è riuscire, anche a costo di calpestare gli altri. Spesso l’umiltà è concepita come sterile remissione, insignificante passo indietro o accettazione supina di eventi e di relazioni altrimenti insostenibili. L’umiltà la si identifica con la rassegnazione e la inerme reazione; da incapaci a umili, il passo è breve! In realtà, già la parola umile affonda le sue radici nel concetto di humus, cioè terreno ottimo nel quale rifioriscono e germogliano i migliori semi, ed indica anche la comune generazione di ogni essere umano, veniamo dalla terra. Ecco il primo grande livello dell’umiltà, la consapevolezza di essere portatori di grande passione e di ricerca sincera di verità, nonostante la condizione di comune fragilità. L’umiltà è un vivaio di umanità. La grandezza di un uomo consiste nella mite ricerca della verità che sempre ci rigenera, «nell’umiltà intellettuale di fronte al supremo»25. Siamo circondati da codici comportamentali che si esprimono in formalismi, cerimoniali, con l’esaltazione delle procedure, ma spesso cadiamo nella cultura delle maschere che non possono reggere di fronte ai grandi impegni della solidarietà, dell’inclusione, delle relazioni educative autorevoli e generative. L’umiltà non costruisce apparati di facciata, né di buon senso, ma di profonda consapevolezza di essere destinati ad una umanità che aspetta il nostro impegno. Ecco l’umiltà: è consapevolezza di ciò che si è chiamati da essere nel progetto di Dio. Tradisce l’umiltà chi la sceglie come astuta strategia, essa invece è una 25

A.J. HESCHEL, L’uomo non è solo, Mondadori, Milano 2001, p. 88.

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vita teologale con lo sguardo fisso sul Figlio di Dio che si è incarnato per noi ed ha scelto la croce. Talvolta anche una forma di umiltà erroneamente compresa può generare disimpegno e rinvii di fronte a compiti e responsabilità che vanno energicamente affrontati. Ci si sente sempre costantemente indegni e impreparati! Così compresa l’umiltà indebolisce e non rafforza. Il vero senso dell’umiltà ci apre alla prospettiva di accogliere Dio e di generare l’amore che viene richiesto; l’umiltà ci rende “capaci di Dio”. L’ingresso nel regno di Dio non sarà determinato dalla brillantezza di iniziative umanitarie e intellettuali, né da proclamazioni di principi nobilissimi, piuttosto sarà la silenziosa ed umile fedeltà ad un compito e ad una missione. Papa Francesco ci ricorda che «l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti»26. La coscienza della propria responsabilità genera l’umiltà.

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FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 288.

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DIGITALI AD OGNI COSTO Viviamo ancora prede di un forzato isolamento fisico, tanto che persino i più riottosi si sono piegati ad una diffusa comunicazione digitale, molte ore si trascorrono sulle moderne piattaforme comunicative, spinti dal bisogno di incontrare, rivedere volti, scambiare idee. Al termine di questa stagione avremo molto imparato rispetto al lavoro fatto da casa, al benefico risultato sull’ambiente, sugli spostamenti, ma non possiamo ignorare anche le grandi perdite relazionali con gli amici, i colleghi, «a fianco degli elementi indiscutibilmente positivi che la comunicazione digitale permette… ci scopriamo a vivere una dipendenza forzata e un’ipnosi, esausti ma incapaci di disconnetterci, catturati dalla rete, divorati dall’ossessiva sollecitazione dell’unica vera città che non dorme mai»27. Anche in questo la pandemia ci ha modificati. Ci ha fagocitati una logica di tempestiva istantaneità, si trasmettono non solo notizie, ma sensazioni, emozioni, ribellioni, senza alcuna correlazione, senza sviluppo e senza futuro. Tutto si versa in rete e nulla ha un esito né un risultato prefissato, talvolta solo la chiacchiera e il vuoto. Una pericolosa trasformazione delle relazioni, divenuta senza sguardi e senza volti, si comunica sotto la spinta di una convulsa meccanicità e senza neanche badare alla fondatezza di ciò che si diffonde. Passano su queste onde slogan vergognosi, insulti ed attacchi indicibili, una rabbia repressa che andrebbe rielaborata attraverso altre modalità. Le nuove forme di comunicazione possono diventare le dipendenze-prigioni che isolano e allontanano dalla realtà. Il mondo dei social, che conserva il fascino di una conquista sorprendente e meravigliosa, resta pur sempre uno strumento che richiede preparazione, 27 J.T. MENDONÇA, La città alterata, in Avvenire.it, 10 marzo 2017, https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/la-citta-alterata.

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educazione, capacità di interagire e discernimento. Saper utilizzare i social, vuol dire formazione, partecipazione e responsabilità. Non si tratta di darsi e dare regole, neanche di vivere con sospettosa agitazione il mondo digitale o decidere di sopprimerne la presenza con il totale spegnimento, tantomeno di immergersi nell’indifferenza dell’indiscriminata o, peggio ancora, spregiudicata utilizzazione. Le relazioni digitali sono una realtà, richiedono consapevolezza, bisogna esserci, e soprattutto recuperare il ritardo che abbiamo accumulato. Bisogna saper essere in rete, frequentarla e conoscerla, soprattutto evitare che in questa avventura i ragazzi e i giovani siano lasciati soli con il rischio delle dolorose dipendenze, dell’isolamento e della scelta esclusiva della comunicazione digitale. Avere tra le mani e poter accedere a tanto ingegno comunicativo può anche diventare occasione di condivisione e di conoscenza nella logica di coraggiose prese di distanza da tutto ciò che rende anonimi ed omologa. Possiamo entrare in un uso critico e consapevole dei social, nella logica di un servizio alla collettività e ai grandi bisogni del pianeta e dell’intera umanità. I social nulla ci hanno sottratto, molto hanno aggiunto, ma certamente, come sostiene il prof. Rivoltella, qualche mancanza l’hanno provocata: «la mancanza di silenzio… sottrae la possibilità di fermare l’attenzione sulle questioni che veramente vale la pena di discutere»28.

28 P.C. RIVOLTELLA, Media digitali e social, educazione e famiglia, Nuovo rapporto CISF 2017, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017.

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AIUTARE LE PERSONE FERITE Nella crisi da coronavirus riparte, con gradualità, lentamente, nel rispetto delle misure di sicurezza, perfino il gioco d’azzardo, nonostante una pericolosissima crisi economica che attanaglia famiglie e imprese, e con un’attenzione direi sbrigativa ad un grande male, la ludopatia. Insieme alle costosissime spese medico-sanitarie che bisogna affrontare, vi sono conseguenze collegate al gioco d’azzardo, che determinano le dissoluzioni di legami affettivi, familiari, educativi, fallimenti economici, la scomparsa di attività imprenditoriali, danni incalcolabili. La ludopatia è una dipendenza che va curata per non permettere che si allarghi in maniera pandemica. L’Italia si colloca al primo posto in Europa ed al terzo posto nel mondo tra i paesi che conoscono questa forma di patologia. Un’offerta quella dell’azzardo che si è fatta capillare, nascosta, diffusa anche nei paesi più piccoli della nostra penisola: le macchinette multimediali come il videopoker, le slot machine, il gioco on line, le aste, le scommesse, i gratta e vinci. Insomma, l’accesso immediato al gioco e l’ebbrezza di un risultato istantaneo, senza attesa e con la possibilità di ritentare subito la fortuna! Vi si aggiungono poi quelle forme clandestine di azzardo che costituiscono un mercato nascosto, non sempre chiaramente quantificabile. L’azzardo non rovina solo il giocatore, dietro di lui scendono nel fondo di un abisso la famiglia, i legami, le amicizie, il lavoro. Tutto viene trascinato in questa idrovora che risucchia il meglio delle relazioni e delle risorse. Lo spettro dell’usura e del riciclaggio si defilano dietro questa dolorosa dipendenza. La costante frustrazione della perdita innesca altre e dolorose illusioni che inducono a tentativi sempre fallimentari. Uno stile ossessivocompulsivo è la punta di un iceberg dentro il quale si nascondono fragilità, insicurezza, sconfitte, abbandoni, tristezza e ma-

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linconia. La via del recupero e della guarigione ha dei costi per lo Stato di proporzioni enormi, ma richiede anche competenza, disponibilità e professionalità. Ci vuole soprattutto una politica preventiva. Nessun atteggiamento moralistico deve inquinare l’approccio al problema della ludopatia. Sarà necessario invece riproporre la vocazione alla dignità umana di ogni persona e, da questa consapevolezza, l’appello alla libertà che determina scelte coraggiose ed energici “no!”, che conferiscono il senso di un’altissima responsabilità e di una ricerca di senso autentico per ciò che concerne le relazioni, l’impiego dei talenti, la cura dei legami, l’attenzione ai bisogni dell’altro. Ecco allora che la prevenzione deve passare attraverso l’attenzione a ciò che ci circonda. La gioia non è un narcisistico benessere, spesso immortalato dalla moda dei selfie istantanei, che se da un lato evocano una interiore vacuità, dall’altro sono anche una ricerca, un appello per il ritrovamento di una capacità di relazionarsi nell’amicizia sincera, nella premura verso chi è nel bisogno, nell’ascolto di chi ha perso la speranza. La solitudine non si combatte con il riempitivo allucinogeno di un gioco che deforma le relazioni, ma abbattendo il diaframma dell’egoismo e della smodata ricerca di un godimento estemporaneo che il profitto ed il guadagno lasciano intravedere, ma che non possono dare. Curare la persona significa rimetterla in relazione. Questo è il sogno di Dio.

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UNA LEZIONE PER LA VITA: ASCOLTARE Una delle dimensioni religiose della cultura ebraico-cristiana è proprio l’ascolto. Si deve ascoltare Dio, quotidianamente e più volte in un giorno. Ogni pio israelita riporta alla memoria questo imperativo: “Ascolta, Israele!”. Si ascoltano i genitori, i saggi, l’amico, i precetti, i consigli. Si cresce ascoltando. Si ascolta la propria coscienza, comprendendone i moti interiori, le rivolte, gli assensi liberi e le costrizioni. Si ascolta la natura, si ascoltano le ragioni dell’altro, anche il disagio. Ascoltare è vivere in profondità, è riuscire a percepire le gioie grandi e piccole del vivere, significa corroborare nella prova ogni tenue filo di speranza. Viviamo in una società che ci sommerge di messaggi e di parole gridate oltre all’invasione delle immagini, di slogan. Talvolta manca il tempo per elaborare un messaggio, un contenuto, che si è già incalzati dal successivo. C’è il collasso dell’ascolto perché un’istantaneità informativa ci sovrasta. Abbiamo bisogno di attimi di silenzio e di solitudine per debellare il pericoloso ottundimento nel quale stiamo precipitando. Ecco la prima condizione dell’ascolto, far dilagare la generatività individuando orizzonti di impegni e di sfide. Quante persone sature di vacuità e di banalità hanno smarrito l’essenzialità di ciò che conta davvero. Si ascolta con l’animo grato, con il cuore desideroso, per poter inneggiare al valore della solidarietà, della prossimità e dell’umana convivenza. Ascoltare è una delle modalità che apre la via al discernimento, alla ricerca di indirizzo della vita, ma è anche la forza capace di abbattere il muro della solitudine, dell’individualismo e dell’indifferenza. Nell’ascolto si realizza tutta la vocazione relazionale della persona umana. È la diaconia dell’ascolto come gesto di umile disponibilità, che determina la prossimità e che a nessuno è consentito profanare con un eccesso di fretta e di superficialità, né 43


con un paternalismo saccente. Chi ascolta lo fa per vocazione, per condizione e per edificare il bene sommo della verità. È un allenamento continuo, umile, ma che guarda soprattutto con fiducia l’avvenire e sa che nei piccoli segni di bene sono racchiusi, come in uno scrigno, i sogni del futuro. Il tempo che stiamo vivendo ci sta stimolando ad una inedita ricerca di ascolto delle famiglie, del mondo degli anziani, della scuola, dei poveri e soprattutto dei giovani. Nelle indicazioni del magistero di Papa Francesco i giovani sono al primo posto: «Al coraggio del parlare deve corrispondere l’umiltà dell’ascoltare … L'ascolto aperto richiede coraggio nel prendere la parola e nel farsi voce di tanti giovani del mondo che non sono presenti: È questo ascolto che apre lo spazio al dialogo»29. Ma ancora in maniera più chiara soggiunge: «Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie»30. Una persona cresce nella misura in cui i silenzi, gli sguardi, i gesti, le lacrime e i sorrisi, sono una dischiarata disponibilità di ascolto e di cammino.

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FRANCESCO, Discorso all'inizio del sinodo dedicato ai giovani, 3 ottobre 2018. FRANCESCO, Omelia alla Santa Messa per la conclusione del sinodo dedicato ai giovani, 28 ottobre 2018.

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DOVE SIAMO? Visitando un museo, entrando in un ospedale o soggiornando in qualsiasi immobile di grandi e medie proporzioni, di tanto in tanto, per ragioni di sicurezza, vengono affisse delle planimetrie contrassegnate da un visibile tondino rosso che indica la nostra posizione e la scritta “voi siete qui!”, e l’indicazione dell’uscita di sicurezza più prossima a noi. In caso di pericolo o di improvvisa catastrofe, incendio, terremoto, crolli, l’uscita è a portata di mano, bisogna avere la forza di raggiungerla. I grandi siti archeologici, che arricchiscono l’Italia, ma direi tutta l’Europa, sono corredati dalla stessa segnaletica, frequentemente siamo invitati a fare la scelta di proseguire sui sentieri consigliati o intraprende altri percorsi secondari. Questa immagine mi ha accompagnato nei mesi di incertezza e di latente paura, con l’interrogativo e la ricerca di una risposta:

Dove siamo? E qual è la via da seguire per uscirne? Si sa, non sono mancate energiche e convincenti indicazioni: le lunghe settimane del confinamento, il distanziamento sociale, l’uso di dispositivi anti-contagio, l’allontanamento delle frequentazioni e dalla vita di comunità civile ed ecclesiale, senza assembramento e senza incontro in persona, solo social e virtuale.

“Dove siamo?”, se lo sono chiesti i nostri anziani, sopresi e stupiti dell’imprevedibilità di una condizione di vita finora mai vissuta. Benché nella memoria alcuni custodiscono il ricordo di vicende non meno tragiche, questa del contagio da coronavirus non l’avrebbero mai immaginata. “Dove siamo?”, non può essere solo l’interrogativo che nasce dalla paura e dall’emergenza sociosanitaria. È necessario che tale inquietante incertezza susciti anche coraggiose risposte e non solo in termini di strategie sociali. Non basta un pur doveroso soccorso istituzionale per colmare il bisogno economico. È necessaria una politica che generi visioni, 45


in primo luogo sulla famiglia, sulla crisi del lavoro, sull’inverno demografico. È inoltre urgente una visione ritrovata sulla casa comune, che stabilisca i percorsi educativi per l’introduzione di pratiche virtuose sui consumi, sulle risorse e sulla custodia del creato. Dobbiamo difendere dalla morte il pianeta, perché, come ci ricorda Papa Francesco, «non possiamo pretendere di essere sani in un mondo che è malato»31. Tutto è in connessione, ecco perché la visione per il futuro dell’umanità non può che essere globale, inclusiva, sostenibile e aperta al dialogo e all’integrazione. Imparare a rileggere le vicende in una inestricabile connessione ci conduce anche a porre l’interrogativo su Dio, sul posto che occupa nella vita, sul primato del trascendente e dell’eterno, la vera illuminazione non può che venire dall’alto. Liquidare la questione Dio ha significato compromettere anche l’uomo e il mondo. Si reclama un nuovo umanesimo e un ordine mondiale di condivisione e di fraternità, si è arrivati a ipotizzare anche un umanesimo ateo: «Non è vero che l’uomo […] non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fin dei conti che organizzarlo contro l’uomo»32. Ecco il dramma dove siamo arrivati, ecco la risposta possibile all’inquietante smarrimento e confusione: “Dove siamo?”. Prendere coscienza del punto di arrivo e accettare l’indicazione per un’uscita di sicurezza, che consiste in una fede rinnovata in Dio e nell’uomo, nella riscoperta della solidarietà e nell’amore al creato. Solo l’impatto e la familiarità con il limite della nostra creaturalità ci permetterà anche di superarlo senza paura e con coraggio.

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FRANCESCO, Lettera al Presidente della Repubblica di Colombia in occasione della Giornata Mondiale dell'Ambiente, in L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLX, n. 128, 06/06/2020. 32 H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, Jaca Book, Milano 1992, p. 13.

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IL SILENZIO. UNO SPAZIO PER L’ANIMA Mi ha ispirato un piccolo testo di un esploratore norvegese, “Il silenzio. Uno spazio per l’anima”33, nelle cui pagine ho colto l’inquietudine diffusa di chi vuole ritrovare sé stesso, incontrare sé stesso e comprendersi a partire da un’operazione importante per entrare nelle pieghe recondite dell’animo umano. Bisogna riscoprire la perla del silenzio. «È possibile trovare il silenzio ovunque. Si tratta di procedere per sottrazione». Nella spiritualità cristiana il silenzio non è mai stato vissuto come privazione di relazione o limite alla conoscenza, piuttosto come possibilità inedita di scendere nella profondità delle cose e della realtà. Tutto ciò che viene opacizzato da una coltre sterile di verbosità e di chiassosa euforia, può essere smantellato dall’arma del silenzio. «Solo quando ho capito che ho un intimo bisogno di silenzio, ho potuto mettermi alla sua ricerca: nei miei più intimi recessi, sotto la cacofonia dei rumori del traffico e dei pensieri, della musica e dei macchinari, degli iPhone e degli spazzaneve, il silenzio era lì che mi aspettava»34. Nell’antichità, prima ancora dell’era cristiana, il filosofo e matematico Pitagora era noto per il ricorso al silenzio, che egli praticava nell’educazione dei suoi discepoli: a quelli che resistevano al tirocinio chiedeva cinque anni di silenzio, perché imparassero a dominare la lingua35. La tradizione cristiana custodisce la memoria dei Padri del deserto, figure austere di saggezza e di santità, monaci, eremiti e anacoreti, testimoni di una originale ascesi, la cui presenza popola luoghi e tempi dell’inizio del cristianesimo. Tre imperativi con accentuazioni diverse: fuge, tace, quiesce! 33

E. KAGGE, Il silenzio. Uno spazio per l'anima, Einaudi, Segrate (MI) 2017. Ivi, p. 3. 35 Cfr. I. HAUSHERR, Solitudine e preghiera, Qiqajon, Magnano (BI) 2018, p. 68 34

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Nel deserto ed in compagnia del silenzio, non è solo la decantata fuga mundi, ma avviene l’opposto, la più completa e complessa conoscenza del mondo. I Padri del deserto e figli del silenzio, hanno ispirato relazioni generative con la storia, con il proprio passato, con le prospettive di redenzione e di umanesimo. Si tramanda che i Padri del deserto accoglievano i loro ospiti in silenzio. Quando si presentava qualcuno per la prima volta, non gli rivolgevano la parola. Lo ricevevano con quella disponibilità radicale che è rappresentata dal porsi davanti all’altro in silenzio. Spiegavano così la loro usanza: «Se per lui non è edificante il mio silenzio, non c’è speranza che lo siano le mie parole»36. La lotta spirituale, la vittoria sulla suggestione del male, la disciplina nel cibo, nel vestito e il dominio delle pulsioni; il deserto, la solitudine ed il silenzio, sono stati la palestra nella quale hanno imparato ad “amare senza divorare” (M. Delbrêl). Lasciarsi incantare dalla melodia nascosta e dal canto seducente del silenzio vuol dire percepirne la portata decisiva per un ascolto sapienziale, che mette al bando l’idolatria dell’io, il serpeggiante narcisismo o la sterile autocommiserazione. Nell’ambiguità di un’apparenza esibizionista, solo il silenzio riesce a metter a nudo le ferite dell’animo e, solo svelandole, sarà possibile far uscire da esse i raggi timidi di una luce che mai è spenta per sempre. In noi stessi risiede una grazia che ci consente sempre di rialzarci. Il silenzio lo costruiamo noi. Se vogliamo. Il silenzio è sempre esperienza di cura, l’eco di una prestazione generativa che non si identifica nel mutismo o nella semplice assenza di rumore, ma denuda un apparato di parole eccessive, che attraverso l’esasperata aggettivazione, nasconde e mistifica la verità, che invece passa indenne solo attraverso gesti e silenzi sostanziali. Nella familiarità con il silenzio avviene l’operazione più delicata alla quale non possiamo delegare nessuno: educare il 36

T. MERTON, La saggezza del deserto. Detti dei Padri del deserto, Tea, Milano 2003, CXXX.

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desiderio, indirizzare il cuore, ascoltare la coscienza, irrobustire la libertà e generare l’impegno. Il silenzio può far paura, disorientare anche. Talvolta anche nella preghiera, alla contemplazione orante si preferisce il profluvio di parole biascicate che danno più la sensazione di riempire vuoti inquietanti. Nel libro “Il Silenzio di Tommaso” è descritto l’epilogo cui approda uno dei più grandi scrutatori dello scibile umano e divino: il silenzio. Dopo la straordinaria visione mistica nella Cappella del Convento Domenicano di Napoli, benché sollecitato, Tommaso si rifiuta, fino alla morte, di parlare, di dettare e di scrivere, dopo aver proferito le memorabili parole: «non posso... non posso, perché ciò che ho scritto mi sembra paglia rispetto à ciò che ho visto e che mi è stato rivelato»37. Sembra fuori moda il silenzio, anzi è proprio sotto attacco, sovrastato dal rumore, ma forse è la cifra per comprendere i nostri disagi e il mistero dell’umana esistenza.

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B. FORTE, Il silenzio di Tommaso, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1998.

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LA FEDELTÀ È LA SIEPE DELL’AMORE In una cultura soggetta a molteplici ed immediate mutazioni, risulta difficile parlare di fedeltà: essa viene contaminata con il senso di immobilismo, conformismo e persino come resistenza al cambiamento. La fedeltà diventa trappola o pigra rassegnazione. La fedeltà alla parola data, agli impegni assunti, ma anche ad una visione etica del lavoro, alle regole scelte e, infine, la fedeltà alle diverse relazioni nelle quali ci impegniamo con libertà e, certamente, con autenticità. La fedeltà non è il filo spinato che ci priva di libertà, ma è la pienezza al baratro della solitudine e della incompiutezza umana. Si diventa felici perché si è fedeli. Soprattutto quando riguarda l’amore che si è giurato ad un’altra persona. La fedeltà è una sfida alla nostra visione del mondo, ai principi e valori che sorreggono il nostro impegno, alla cultura, alla politica e, non per ultimo, al proprio credo religioso e alla propria fede. La fedeltà non può essere barattata per un successo, né per un consenso, né per un interesse, essa è insostituibile, pena la mortificazione della nostra stessa identità di persone libere e responsabili. La fedeltà genera sogni, progetti, percorsi, stabilisce anche soste dolorose e pause apparentemente infruttuose, ma anche energiche riprese e coraggiose svolte. Non è mai scontata e quando essa è minacciata reclama un sussulto di coscienza morale, che apre l’uscio di una salutare presa di distanza e genera costruttive obiezioni. Quando, strada facendo, la fedeltà viene percepita come insopportabile macigno, immeritata condanna o montagna da scalare senza averne l’energia, è allora il momento di ripensare il cammino per ricentrare la meta e rimotivare gli intenti. L’esaltazione della cultura delle emozioni ha determinato una mutabilità di adesioni e di appartenenze, l’amore è diventato liquido. Il noto sociologo polacco Bauman afferma: «l’amore liqui-

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do è proprio questo: un amore diviso tra il desiderio di emozioni e la paura del legame. I “legami umani” sono stati sostituiti dalle “connessioni”. Mentre i legami richiedono impegno, “connettere” e “disconnettere” è un gioco da bambini»38. Una variabilità di sentimento religioso che si fa debolezza, pigrizia in ordine all’approfondimento di fede ed una continua mutevolezza di adesioni che determina una frammentarietà di esperienze incapaci di generare fondamento e motivazioni stabili. Né con le creature, né con il Creatore si è capaci di abbandonare posizioni ondivaghe e fluttuanti. Con Dio e con la vita non possono esistere impegni a tempo determinato, ma solo una sorgiva e sponsale alleanza. Un tempo i percorsi educativi avevano un vocabolario limitato, ma inglobavano riferimenti essenziali e fondamentali con i quali si potevano considerare i traguardi e i raggiungimenti di mete che avevano il volto della maturità e della responsabilità. All’interno di questi riferimenti spicca proprio il concetto del “per sempre”, della fedeltà a quella dimensione relazionale della vita che coinvolge le persone e le loro storie, trattate sempre con chiarezza, lealtà, libertà, trasparenza e generosa dedizione agli impegni che determinano la gioia anche degli altri. Sottolineare il valore della fedeltà aiuta a confrontarsi con i percorsi della vita, ma bisogna anche esplicitarne il come. Non basta dire che è essenziale, né che esprime la particolare acutezza di un pensiero intelligente e libero, di nobiltà d’animo e di attitudine al servizio generoso, ma anche la conoscenza di una reale situazione imprime l’assunzione di regole, di obiettivi che identificano ciascuno di noi con la propria vocazione, con i propri compiti e ruoli. Nella vita spirituale la fedeltà si identifica anche con una profonda vigilanza all’interno dell’acrobazia delle numerose sugge38

Z. BAUMAN, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari 2018.

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stioni di successo, potere e denaro. Non poche volte, persino la cosiddetta modernità può diventare l’occasione di piccole e letali forme di abbandono, che non aiutano a crescere né a definire quel volto di saggezza che solo un’armonica declinazione di impegni e di valori riesce a costruire. Per un cristiano la fedeltà diventa anche scoperta della ferialità nella quale riuscire ad incidere con un contributo di fede e di impegno che parlano di Dio e della vicinanza di Gesù Cristo. Un cristiano non confonde la fedeltà con il fondamentalismo, né scambia la fedeltà con una visione rigorista della vita cristiana. Tantomeno una presunta conquista della fedeltà può innalzarci a giudici del mondo o permetterci di assumere i toni e la sfrontatezza degli intoccabili. La fedeltà si coniuga con la libertà, parla di misericordia, di umiltà, di laboriosità e di comprensione della vita degli altri. Non sempre e non a tutti, benché accolto e condiviso il valore della fedeltà, è concesso il raggiungimento di mete spirituali prefissate. La fragilità, i condizionamenti sociali, culturali ed economici, determinano dolorose fughe di fronte alle quali bisogna prudentemente mettersi con il sano principio del discernimento sincero e veritiero. A tal riguardo, riferisco il pensiero di uno scrittore che ha molto contribuito al rinnovamento della Chiesa: «La condizione perché una storia (di fedeltà) sia vera, autenticamente umana, (deve essere) piena di luci e di ombre che nell’unirsi compongono un quadro per nulla brutto, semplicemente modesto, all’interno del quale entrano malgrado tutto, l’essenziale della bassezza nella quale l’umano sprofonda e l’essenziale dell’altezza alla quale aspira»39.

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J. BASTAIRE, La fedeltà, Qiqajon, Magnano (BI) 2012.

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DAL TRADIMENTO AL DONO

«Nella notte in cui fu tradito…», queste parole suonano familiari, quasi abitudinarie, ai frequentatori delle nostre liturgie. Non si tratta solo di un’indicazione cronologica, rivelano una modalità di esistere che diventa paradigma per i discepoli di allora e di sempre. Suonano anche come un’allerta: là dove il buio di attese ambigue e relazioni squilibrate oscura lo splendore della verità, insorge sempre il rischio di un pericoloso tradimento. Sono le parole che Gesù proferisce nell’ultima cena, sono il preludio di un testamento e di un memoriale. Nella sala del Cenacolo, tra gesti inconsueti, come il lavare i piedi, e volti attoniti e sorpresi, si consuma uno dei più grandi paradossi del Vangelo, il tradimento che si fa veicolo di consegna e di dono. Solo una logica Divina può generare questo orizzonte. In tutti i paradossi che Gesù presenta nel Vangelo è chiara la volontà di demolire la banalità di un’immagine di Dio che non salva e la stortura di una sequela che appare più un calcolo che una generosa adesione. La ferita di un tradimento immeritato si trasforma nel paradossale dono “per voi e per tutti”, che nell’Eucaristia diventa anche “per sempre”. L’esperienza del tradimento, ma anche la percezione di un ipotetico raggiro, sfiora, prima o poi, tutti. Ci si sente traditi dagli amici, dai colleghi di lavoro, ci si può sentire traditi anche negli affetti e nei legami; addirittura dalla vita potremmo sentirci ingannati. Il tradimento è sempre una cocente delusione e porta con sé un’amarezza indicibile. Quando il tradimento giunge come epilogo, nonostante l’impegno generoso e sincero, può determinare il senso della vendetta e della ritorsione. Il tradimento apre ferite spesso insanabili, la memoria resta segnata per sempre. Non poche volte il tradimento stabilisce limiti relazionali e tatticismi ispirati dalla delusione e dalla paura. Il tradimento pa-

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ralizza il cuore, blocca la generosità e non consente alla spontaneità di germogliare. Tutto è eccessivamente misurato pur di non ricadere in situazioni di rinnovata sofferenza. Eppure, in tutte la azioni rituali della Chiesa, sugli artistici e sontuosi altari, nella solennità di divine liturgie, come nei più sperduti e reconditi oratori del pianeta, quando si pronunciano le parole “Nella notte in cui fu tradito...”, si apre uno scenario di croce e di redenzione, universale, inclusivo, eterno e generativo. Solo Dio può concepire tanto. Il tradimento del cenacolo diventa dono per tutta l’umanità. Dio non si vendica, non tace, non si ritrae, anzi si dona e diffonde salvezza. Ma chi tradisce quella notte? I vangeli raccontano l’evento; ma inquietanti sono gli interrogativi che nascono sulle altre implicanze e le altre responsabilità, perché “arriva un momento in cui il silenzio è tradimento” (Martin Luther King). Tutti, con i nostri silenzi, con gradualità differenti, possiamo contribuire a perpetrare i più atroci tradimenti della storia. Nella consapevolezza del tradimento, il Figlio di Dio benedetto non si blocca, non si lascia intimidire dalla paura e dalla rivalsa, risponde con una oblatività incommensurabile, trasfigura il tradimento in dono: “prendete, mangiate il mio corpo”. Il tradimento si fa consegna di amore, resa, disponibilità. Dare il corpo non è cosa da poco, esso è il respiro, il passo, il battito del cuore, libertà, assimilazione in dignità. Umanamente appropriarsi di un corpo, al di fuori dell’amore, è sempre delittuosa presunzione e peccaminoso sfruttamento. I corpi sono particole intoccabili, sono immagini del Divino, reliquie del mistero. Ogni superficiale dimenticanza grida vendetta al cospetto della storia, benché distratta, e inoltre non sfugge a Dio. Corpi violati dall’accecamento umano, dalla bramosia del possesso, dalla mai appagata ingordigia del guadagno di chi si illude di metter un prezzo per comprare amore, dignità e lavoro. Così si tradisce l’umanità e l’icona di Divino in essa impressa! L’evento più tragico della storia dell’umanità, quello del Gol54


gota, il corpo martoriato di Cristo, attraverso l’Eucaristia viene per amore ridonato e offerto all’uomo viandante e pellegrino, al deluso e al peccatore, al dotto e all’umile: «…O res mirabilis: manducat Dominum pauper, servus et humilis»40 (Grande meraviglia! Il servo, il povero e l’umile mangiano il Signore). Come ricorda Papa Francesco «l’Eucaristia non è un premio per i buoni, è una medicina per i deboli»41. Da un tradimento umanamente inspiegabile scaturisce un dono dal valore incalcolabile, al cui contatto si sperimenta una effusione di grazia, un conforto e un sostegno alla umana fragilità. Dinanzi all’Eucaristia, un antico inno, l’Adoro Te devote, ci fa pregare, «credendo e con-

fessando (nella divinità e nell’umanità) chiedo ciò che domandò il ladrone penitente», cioè la salvezza, il desiderio ardente di novità e la certezza di futuro. Comprendiamo allora perché «senza l’eucarestia non possiamo vivere»42.

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T. D'AQUINO, Sacris Solemniis, strofa 6. FRANCESCO, 5a puntata del Programma "Padre nostro", TV2000, 22 novembre 2017. 42 Acta Saturnini, Dativi, et aliorum plurimorum martyrum in Africa 11, per la traduzione italiana cfr. G. CALDARELLI, Atti dei martiri, Ed. Paoline, Milano 1985, pp. 619639. Ad Abitene, cittadina dell’Africa Proconsolare, 49 cristiani furono martirizzati durante la persecuzione di Diocleziano (303-305) per aver confessato davanti al magistrato romano «Sine dominico non possumus». 41

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TRASMETTERE LA FEDE In più di una circostanza Papa Francesco ha fatto riferimento al mutamento d’epoca che caratterizza la nostra cultura, segnalando che «non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata»43. Per rispondere alla sfida della trasmissione della fede è necessario cogliere i segnali che più di tutto hanno reso problematico l’incontro con Dio, che è passato da antagonista e scomodo compagno di viaggio ad irrilevante ed inutile riferimento. In primo luogo, colpisce l’antropocentrismo che ha fatto ogni sforzo, illudendosi, di liberare l’uomo! L’attenzione è posta ai bisogni e alla vorace fame di autonomia. Tutto ciò ha confinato l’essere umano in una terribile solitudine, con il pericolo della sussistenza futura. Un’antropologia che inneggia esclusivamente al successo della scienza e della tecnica e l’insano concetto di sviluppo, che ignora il profondo desiderio di infinito che si annida nel cuore di ogni persona, ha finito per rendere l’uomo allergico ad ogni principio di regola e di norma, sicché la coscienza e la libertà diventano concetti autoreferenziali e senza alcuna relazione con il personalismo cristiano fatto di dialogo, incontro, ascolto e crescita condivisa. La coscienza diventa la somma di emozioni e di impulsi che ciascuna persona, accartocciata su sé stessa, riesce ad elaborare solo sotto lo stimolo di un mondo social e globalizzato, che occupa il margine più ampio in riferimento all’informazione e alla formazione. La libertà ha preso il posto di ogni orientamento, ispirato non tanto a ciò che si vuole ma a ciò che si sente come fonte di immediato benessere. «La situazione morale odierna 43

FRANCESCO, Discorso alla Curia per gli auguri di Natale, 21 dicembre 2019.

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procede di pari passo con quella religiosa. In effetti, si percepisce un oscuramento della verità ontologica della persona umana. E questo accade come se il rifiuto di Dio volesse significare la rottura interiore delle aspirazioni dell’essere umano. Si assiste, così, in molte parti, ad un “relativismo etico che toglie alla convivenza civile qualsiasi punto di riferimento morale sicuro”»44. Anche l’arbitrio resta superato da un’accezione di individualismo che finisce per essere isolamento e solitudine. Dio non viene completamente escluso o abbandonato, piuttosto confinato tra gli optional della vita, come una realtà a cui fare ricorso all’occorrenza. Aver reciso il rapporto con il trascendente costituisce il volto di una umanità alla ricerca di soluzioni a cui non potrà mai da sola giungere, finché non recupererà l’armonico collegamento con il Dio biblico della salvezza e dell’incarnazione, ritrascrivendo perciò i tratti di una nuzialità piena di vita, generatività, solidarietà, impegno. La trasmissione della fede non può essere garantita da schemi e metodi che, per quanto aggiornati, non consentono il successo di un incontro umano-Divino, capace di guardare alle parole gravide di speranza e di redenzione e, soprattutto, alla Parola come centro ispiratore di ogni discernimento. È urgente ripartire dall’evangelizzazione per colmare i vuoti che tanti nozionismi, abitudini e ordinarietà hanno reso fin troppo scontata e poco incisiva. Sarà necessario riscoprire i percorsi catecumenali e di un primo annuncio già collaudati nel tempo degli inizi della Chiesa e che il clima di un diffuso paganesimo rendeva particolarmente efficaci. Non solo indottrinamento, né solitudine formativa, ma accompagnamento nella Comunità ed in essa esperienza concreta del mistero. Riscoprire la fede, non limitandola solo ad un codice di comportamento, ma ad una globale visione dell’esiste44 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi, 15 agosto 1997, 23.

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re umano che, dopo aver incontrato Dio, impone anche le scelte conseguenziali dei santi e dei testimoni. Le gigantesche trasformazioni impongono le impegnative rinunce, le inossidabili alleanze, la fedeltà ai giuramenti, la prassi trasformativa della realtà sociale a favore dei diritti degli ultimi e dei più vulnerabili. A ragione il Nuovo Direttorio per la catechesi, sottolinea innanzitutto “che non si fa catechesi per ricevere un sacramento”, ma “per inserirsi progressivamente nella vita della comunità cristiana” e poter dare “anche oggi la nostra testimonianza coerente”. Nel riproporre la gioia del Vangelo è anche urgente ripensare i percorsi di formazione e di spiritualità che devono contraddistinguere tutti gli operatori pastorali. Si tratta di mettere al centro la persona umana, ferita e bisognosa di misericordia, che si aspetta un annuncio di speranza attraverso l’incontro con il Dio della misericordia, del perdono, della vita e dell’universale paternità nei confronti di una fraternità umana che supera le visioni localiste e contingenti per aprirsi all’universalità della salvezza. Nell’evangelizzazione nessun tema che riguarda la persona, l’ambiente, l’economia, la politica, il bene comune, può esser sottaciuto o dimenticato. Per un’autentica trasmissione della fede il Vangelo va reso sempre attuale e portatore di quelle novità che sono state capaci di rinnovare la storia e di consolidare gli sforzi per un rinnovato umanesimo. Non si tratta di un’adesione esclusivamente intellettuale, ma di un’esperienza di incontro con la persona di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che ha dato alla storia dell’umanità un profilo di solidarietà, di impegno, di dignità e di attenzione verso gli ultimi e più diseredati. In tal senso l’attenzione va posta anche al ruolo che ogni impegno di fede rivendica, quello cioè della pace e della fratellanza universale, con una rinnovata e coraggiosa forza profetica che include ogni persona ed ogni visione a servizio della dignità umana.

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CORREGGERE SENZA FERIRE Benché in ciascuno alberghi un sentimento di reciprocità, di vicinanza e di prossimità, talvolta di fronte all’urgenza di stabilire una relazione di aiuto, sopraggiunge la tentazione della diffidenza e della rassegnata resa. Subentrano lo sconforto della prevedibile inutilità di un intervento, le reiterate parole già spese e la sfiducia verso ogni nuova iniziativa. Non raramente, la saccenza e la presunzione di correggere l’altro, incidono in maniera negativa, con ferite profonde nell’animo. Non manca poi la tentazione di delegare la cura ad una specialistica che, se scientificamente merita tutta la fiducia e il nostro sostegno, tuttavia non ci esime da una tenerezza e da una vicinanza che si fa condivisione e ascolto. Non è sempre facile prendersi cura. Ed è nella logica del prendersi cura che possiamo collocare il monito evangelico della correzione fraterna. È una responsabilità che passa attraverso il discernimento della gradualità, della riservatezza e del rispetto per ogni persona. Non si tratta di ergersi a giudici della vita quotidiana, né di puntare il dito di fronte alle fragilità, ma di imitare il gesto del samaritano, che si piega di fronte alle ferite e, senza proferire parole di rimprovero o di moralistica constatazione, semplicemente versa il farmaco umano della consolazione e della speranza. Alcuni assumono un atteggiamento perennemente critico ed insoddisfatto rispetto alla vita quotidiana e alle gigantesche trasformazioni. I rimpianti e le nostalgie emergono in ogni parola ed in ogni gesto, anche nobile, di solidarietà e di cura. Ma inquinare la prossimità con l’orgoglio e la superiorità vanifica sul nascere ogni correzione ed ogni positiva indicazione. In realtà correggere non è un atto isolato e immediato, si colloca in un percorso di relazioni, di ascolto di conoscenza, non è mai un richiamo con la presunzione di un recupero solamente perché si è cita-

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ta una norma, una regola o una legge. Una correzione è prima di tutto sovraccarica di motivazioni affettive e umane, è un appello alla responsabilità e, come ricorda un teologo del nostro tempo, «Aiuta a essere. Niente più di questo. E dobbiamo sempre evitare che la correzione sia la nostra unica forma di relazione con qualcuno»45. Correggere senza ferire diventa la prospettiva e il programma di chi si trova nella condizione di educatore, di genitore, di amico, maestro, consigliere, insomma la sfida di chiunque vuole relazionarsi attraverso una dinamica di reciprocità e di inclusione. Parafrasando il noto adagio “nessuno educa nessuno”, del pedagogista brasiliano Paulo Freire, si potrebbe anche dire “Nessuno corregge nessuno, ma tutti correggiamo tutti”. La correzione è aprire il varco del futuro e della speranza, orientato verso nuovi orizzonti, anche per chi è provato da fragilità e da insuccesso.

45 J.T. MENDONÇA, Ammonire i peccatori. Dio non desiste da nessuno, Emi, Verona 2016.

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FRATELLI TUTTI: NÉ IDEOLOGIA, NÉ SLOGAN L’Enciclica rientra tra gli insegnamenti più solenni ed ufficiali con i quali Papa Francesco si rivolge alla Chiesa, ma anche a tante persone di buona volontà che con cuore sincero sono cercatori della bellezza della verità. Con la Lettera Enciclica Fratelli tutti, Papa Francesco imprime una marcia a quelle intuizioni profetiche e coraggiose che hanno caratterizzato fin ad ora il suo magistero. Il Papa ci riconduce sempre alla gioia del Vangelo, che genera uno stile di risanamento nelle relazioni con Dio, con i fratelli e con il creato, perciò la precedente enciclica Laudato sì è in qualche modo la chiave per comprendere anche il Documento sulla

fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. Papa Francesco, insieme al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, ci hanno ricordato che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro». Ecco la grande proposta dell’ampia e voluminosa enciclica Fratelli tutti: riprende i riferimenti precedenti, ne contiene di nuovi e rinvia alla sfida del futuro con un solo grande strumento e con l’unica possibilità: la fratellanza della famiglia umana. Ritorna il volto e la spinta rivoluzionaria di Francesco d’Assisi, dal quale il Santo Padre ancora intende attingere per dare un titolo alla sua Lettera. Ma le radici profonde rinviano alla Costituzione Conciliare Gaudium et Spes, dove la nozione di famiglia umana riemerge con insistenza. Nozione che appare frequentemente anche in tutti i testi del Concilio. L’icona alla quale ispirarsi è quella del Samaritano e Paolo VI, a conclusione del Concilio Vaticano II il 7 dicembre del 1965, guardava a «l’antica storia del Samaritano», definendola «il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso». Papa Francesco ci ripropone, con interrogativi e provocazioni, il volto e il nucleo 61


essenziale di quel racconto contenuto nei Vangeli. Si aprono spiragli inediti di insegnamento, di indicazioni, di moniti e di coraggiose denunce. Il lessico dell’Enciclica si costituisce intorno ad articolazioni antiche e nuove: le ombre e le luci del mondo attuale, il bisogno del dialogo, dell’inclusione, dell’incontro, dell’accoglienza. È la concezione della carità che, congiunta alla verità, è capace di generare nuovi paradigmi sociali che si sottraggono alla dittatura tecnocratica e alla colonizzazione culturale. In fondo è un’autentica messa in guardia verso quelle forme subdole e ingannevoli di una cultura orizzontale, che vuole debellare per sempre gli aneliti profondi dell’animo umano e della famiglia universale che solo nella pace, nella giustizia, nel riconoscimento dei diritti fondamentali della dignità umana, ricostruisce anche l’immagine di Dio nel mondo, perciò il Papa soggiunge: «Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà»46. In questa ottica rivoluzionaria, il Papa mantiene alta ed esigente la proposta di un umanesimo nuovo e cristiano che si concentra sul futuro attraverso la sostenibilità, il ripensamento dell’economia che uccide, della politica qualunquista e utilitarista, dei nazionalismi che contrabbandano una falsa visione di identità e di civiltà: «Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori»47. Nelle pagine riaffiora costantemente la denuncia per il declino di una coscienza morale sapienziale e la crescita a dismisura di una visione etica funzionalista ed emotiva. Le grandi opzioni si fanno solo alla luce di “ciò che serve!”, “di ciò che piace!” o, sem46 47

FRANCESCO, Lettera enciclica Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 6. Ivi, 15.

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plicemente, “di ciò che si sente!”, indipendentemente dalla relazione con il bene Sommo che è Dio e ignorando l’amore ai fratelli. Il Papa si domanda: «L’individualismo indifferente e spietato in cui siamo caduti, non è anche il risultato della pigrizia nel ricercare i valori più alti, che vadano al di là dei bisogni momentanei?»48. Non mancano i riferimenti all’attuale crisi sanitaria, legata alla pandemia del COVID-19. Un’emergenza planetaria, che ha denudato le fragilità, ha evidenziato la strutturale vulnerabilità ed anche il bisogno di una rete di relazioni e di rapporti che possano garantirci salvezza, senza i quali vi è solo il naufragio totale: «Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme»49. Uno sguardo di speranza è l’indicazione delle religioni che sono capaci di introdurre e coltivare nelle relazioni, nel dialogo e nella comune ricerca, la nozione della trascendente dignità della persona umana, nel riconoscimento dell’unico Padre. In questo sforzo si genera il rispetto, l’ascolto e la capacità di vicendevole sostegno nella lotta contro le ingiustizie, lo sfruttamento e la salvaguardia del creato. Nel trascendente attinge forze e vigore un comune umanesimo che innova. Si tratta di guardare al futuro e mi piace farlo con le parole del filosofo credente Luigi Alici: «Per dare una forma cosmica e ospitale al nostro futuro, dobbiamo preferire la profondità alla superficie, anteporre la cooperazione alla competizione, aprire le risposte piccole alle domande grandi. Dentro, insieme, oltre: ecco tre avverbi che possono accompagnarci sulla via dell’umanesimo»50.

48 49

Ivi, 209. Ivi, 32.

50 L. ALICI, lectio magistralis su “Fragilità globale. La via dell’umanesimo fra natura e tecnologia”, Università di Macerata, estratto in Avvenire del 11 ottobre 2020.

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LE PAROLE DI NATALE A Natale le parole e i discorsi si sperperano. C’è un’inflazione di note e di colori che, seppur suggestivi, finiscono persino per opacizzare i termini veri e fondamentali che “dicono” e raccontano il senso più autentico del Mistero centrale della fede cristiana. «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle cose invisibili»51. Così prega la liturgia della Chiesa, celebrando il mistero del Natale. Un’immersione nel Divino che ci indica la strada ed il destino di tutta l’umanità. Non vi è distinzione di razze o di popoli: laddove c’è un misero, un povero, un escluso, lì arriva la luce del Natale. E se ciò non accade vuol dire che non è ancora Natale! Il mistero del Natale è un appello alla trascendenza, fondamento di ogni umana convivenza e impegno civile: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse52». Il grande cantore del Natale, Sant’Alfonso De Liguori, esprime i contenuti teologici del mistero dell’Incarnazione con quattro “sentimenti” che dinanzi al presepe caratterizzano l’animo di ogni credente: lo stupore, la tenerezza, la compassione e la gratitudine. Questo mondo interiore diventa poesia e canto nelle tradizionali formule del “Tu scendi dalle stelle”, o “Quann nascet51 52

CEI, Messale Romano, 3a edizione italiana, Prefazio di Natale I, Roma 2020, p. 334. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus (1° maggio 1991), 44.

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te ninno a Bettlemme” 53. Non si tratta di indulgere al commovente ed intimistico sentimentalismo, ma imparare ad entrare con concretezza nella storia del mondo. «La notte santa ci immerga in quel silenzio che è il guardiano dell’anima, dilata i nostri orizzonti, rigenera alla speranza di un mondo migliore, qui, su questa terra. Terra che è fango, senza il Cielo. Terra che, con il Cielo, è un giardino, da quando Dio è diventato uno di noi. E, nell’affascinante silenzio, il più bello tra i figli dell’uomo ci innamori della vita di ogni vivente, illumini le nostre tenebre, ci liberi da tutte le nostre paure e ci sussurri che la morte non è l’ultima parola: per chi ha fede, l’ultima parola è sempre “vita”. Vita nuova, nel suo, nel nostro Natale»54. Vieni, Gesù, figlio di David, figlio di Dio, figlio di Maria. Vieni, parola di luce, a dissipare le tenebre della mia mente e del mio cuore. Dammi la luce della fede, quanta ne basta per vederti sulla strada e seguirti con il desiderio struggente di essere da te guardato. Guardami, Signore, e i miei occhi si apriranno per contemplare la bellezza del tuo volto, per vedere la tua bontà infinita ora, mentre vado pellegrino, e poi per sempre nella terra dei viventi. Amen55.

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N. FASULLO, a cura di, Tu scendi dalle stelle, Sellerio, Palermo 2002, p. 22. V. SALVOLDI, Natale 2018, in http://www.salvoldi.org/index.php?id=580. 55 D. MASTRONICOLA, Preghiere bibliche, in “La Madonna del Monte”, Bollettino dell’Abbazia di S. Maria del Monte in Cesena, Anno LXXIV - Ottobre-Novembre-Dicembre 2005, p. 9 anche in Lezionario meditato 1, Tempo di Avvento e di Natale, EDB, Bologna 2011, p. 67. 54

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1. «Non temere, Maria» (Lc 1,26) Dio entra nella storia del mondo e delle persone spesso in maniera impercettibile, talvolta con luminosa irradiazione. Ma la sua presenza può anche suscitare interrogativi, perplessità, talvolta ribellione e paura. L’umana fragilità non riesce sempre a cogliere immediatamente il Dio che viene, nelle vicende della vita e di fronte a tante paure, spesso sorgono criticità e domande. Anche in Maria di Nazareth perplessità e turbamento generano alcuni interrogativi: Come avverrà questo? Come è possibile che Dio sia in azione? Eppure, ciò che conta davvero è allenarsi a scoprire Dio che viene, la sua vicinanza apre al servizio, suscita lo stupore e indirizza alla scoperta di una bellezza etica ed estetica. La vita si fa così, come quella di Santa Maria di Nazareth, abbandono e resa a Dio che chiama! Se la storia delle origini dell’umanità registra tante chiusure e dinieghi a Dio, alla vita, alla pace, al creato, al prossimo, con la disponibilità di Maria, invece, viene pronunciato un “eccomi” decisivo per la nuova storia dell’umanità. In quell’eccomi è «segnato l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo senza macchia e senza ruga, splendente di bellezza»56. Arrendersi a Dio non ci sottrae a sofferenze e a dolorosi enigmi della vita: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35), così il santo vecchio Simeone parlerà alla giovane mamma del bambino Gesù; ci sarà silenzio, pensosità, preoccupazione. Ma innamorarsi del progetto di vita che Dio sogna per ciascuno, suscita anche la forza per mantenersi fedeli per sempre. A Natale Dio si mantiene fedele per sempre all’uomo e nell’Incarnazione di Gesù la prossimità è definitiva ed irrevocabile. Nasce in Gesù un patto indissolubile tra libertà e verità, che in una graduale armonia genera la ricerca del vero bene, dissipa le ombre della 56 CEI, Messale Romano, 3a edizione italiana, Prefazio dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, Roma 2020, p. 682.

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paura e infonde coraggio che «è il primo requisito della spiritualità. I vili non possono mai essere morali» (Mahatma Gandhi).

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2. «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,9) Natale è la festa della gioia, è invasione del Divino nella storia dell’umanità. Non si tratta di una passeggera sensazione di benessere, ma del senso cristiano della gioia, che nasce dalla consapevolezza di essere amati per sempre! La gioia cristiana non è distrazione, né chiassosa dissipazione, nasce dalla profonda e intima conversazione con la misteriosa presenza del Figlio di Dio, con lui e per lui si vive e si soffre, si parla e si tace, si dona pace e si infonde coraggio. Solo l’abbandono e la solitudine possono gettare in uno smarrimento umano ed in una depressione esistenziale. L’amore che Dio dona raggiunge ogni uomo e tutto l’uomo. In quell’amore è scritto tutto il progetto della redenzione. Salvezza e redenzione coincidono con la nostra gioia, generano gioia e costruiscono gioia. Accecato da falsi miraggi e da passeggere emozioni, l’uomo contemporaneo si lascia distogliere dalla profonda domanda su Dio, talvolta liquidando la questione con sterili e improduttive argomentazioni. Ma a Dio che ama ci si arrende, dall’incontro con lui nasce l’impegno per la giustizia e la pace. Nella riconciliazione tra cielo e terra, tra umano e divino, è scritta anche la radicale vocazione ad essere operatori di pace, non per strategia di umana sopravvivenza, ma per essere i custodi dell’immagine e della somiglianza di Dio. A Natale Dio si fa uomo perché l’uomo diventi Dio!57 I primi destinatari di questo gioioso annuncio furono i pastori, gente umile, povera, senza diritti e senza pretese, persino scarto di una società opulenta. Proprio i pastori restano l’emblema di una categoria umana che più di tutti aspetta la redenzione e la gioia: i poveri, gli esclusi e gli emarginati. Verso costoro permane la sfida di ogni credente chiamato a testimoniare che «Il Figlio di Dio, nel57

Cfr. AGOSTINO, Discorsi 371, 1.

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la sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza»58.

58

FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 88.

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3. «Gloria a Dio… e pace in terra agli uomini, amati dal Signore» (Lc 2,14) La gloria di Dio è l’uomo vivente! Ma si può anche affermare che la gloria dell’uomo è Dio solo. Dio si compiace della creatura perché ci ama, ci predilige, ci benedice e, soprattutto, ci redime donandoci suo figlio Gesù. L’incontro e la salvezza conferiscono ad ogni creatura una dignità unica ed inalienabile: «La ragione più alta della dignità dell’uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da Lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e non si affida al suo Creatore»59. Da questa dignità nasce la responsabilità a saper accogliere il dono natalizio della pace, che si costruisce e fruttifica giorno per giorno, non è mai un dato raggiunto, ma è sempre frutto di impegno e di nuove sfide. La pace che l’angelo annuncia è il risultato della riconciliazione, della giustizia, della solidarietà e dell’uguaglianza tra gli uomini. Ma «la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto può apportare la semplice giustizia»60. “Gli uomini amati dal Signore”, e Dio ama tutti gli uomini, Dio non fa parzialità, nessuno è escluso dal compiacimento di Dio! Dove non ci si oppone all’amore di Dio si costruisce la pace; ed è proprio la mancanza di giustizia e di pace che spinge uomini e donne a cercare nuovi orizzonti e nuovi confini, terra e accoglienza per una dignitosa esistenza. La pace è anche lo sforzo per abbattere l’individualismo e l’indifferenza. La ragionevole scelta della non violenza e del rifiuto delle armi può condurre la famiglia umana ad una salvezza planetaria, con l’accoglienza di un 59 CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 19. 60 IVI, 78.

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impegno etico universale che rispetti Dio, la casa comune e gli uomini e le donne di tutto il mondo. Questa è la gloria di Dio e la si tributa con il riconoscimento della dignità di ogni uomo e di ogni donna. Non coincide con effimera affermazione e transitorio riconoscimento delle umane brillantezze, ma si esprime nel servizio e nella realizzazione della fraternità universale. È la visione di un umanesimo totale, non più l’uomo senza Dio. «Se appena percepiamo qualcosa del significato oceanico di questi due termini, Dio e uomo, intravediamo il dramma immenso del Natale» (Paolo VI).

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4. «Prostrati lo adorarono» (Lc 2,11) L’adorazione dei Magi, che ha ispirato pittori e scultori e suggestive pagine della storia dell’arte, segna un ciclo di riconoscimento e di fede da parte di alcuni saggi che, dopo lungo vagare, arrivano finalmente alla Verità. Questi saggi sono l’immagine di chiunque si impegna a ricercare Dio con cuore sincero e la verità che da lui viene generata. Senza pregiudizi e senza pretestuosi motivi non si arrendono ad Erode, il male antico e nuovo che vuole eliminare, anche con la violenza, il volto di Dio dalla storia dell’umanità. Antichi e nuovi martiri ci confermano che non si baratta la verità, non si rinnega la fedeltà, anche a costo della vita. Nessuna forma di arroganza e di prepotenza può invadere il cuore dell’uomo, né può arginare l’autentica ricerca del bene. A nessuno può sfuggire che di fronte al mistero l’uomo è chiamato semplicemente ad inchinarsi e adorare. In questo indicibile incontro di grazia sarà possibile accogliere le frequentazioni di Dio, perciò la comunità prega cosi: «nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro, perché coloro che ti cercano ti possano trovare»61. Nell’esaltazione di un imprecisato principio di autodeterminazione, l’uomo contemporaneo inneggia alla libertà come espressione di totale autonomia e rifiuta il Mistero e il Divino, quasi come oppressione ed ostacolo alla umana realizzazione. In realtà ignora che «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo»62. Inchinarsi di fronte al Mistero non significa ridimensionarsi, ma crescere in pienezza, realizzarsi nella libertà e camminare verso la verità nella carità. “In ginocchio”, ha assunto una connotazione negativa, nel lin61

CEI, Messale Romano, 3a edizione italiana, Preghiera Eucaristica IV, Roma 2020, p. 439. 62 CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

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guaggio comune indica sconfitta, disfatta, totale annientamento. Nel linguaggio della fede, invece, stare in ginocchio indica la consapevolezza che nella solitudine non si va lontani, che lo sguardo al cielo è indispensabile per generare varchi di speranza ed inoltrarsi negli orizzonti della generatività. In ginocchio, adorando il mistero, è l’atto più divino che un essere umano può compiere. Papa Francesco ci ricorda che «Se perdiamo il senso dell’adorazione perdiamo il senso di marcia della vita cristiana, che è un cammino verso il Signore, non verso di noi»63.

63 FRANCESCO, Omelia alla Santa Messa della solennità dell’Epifania del Signore, 6 gennaio 2020.

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5. «Si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto» (Lc 2,14) L’innocenza perseguitata e violata è il dramma che la famiglia di Nazareth è costretta a vivere quasi come prefigurazione di quanti, ancora oggi, sono vittime di prepotenza, di potere e di ogni forma di male. Una santità, quella degli innocenti, che non ha bisogno di particolari riconoscimenti, non attende ulteriori ammissioni, già l’assimilazione a Cristo perseguitato ed escluso è un percorso di santificazione. Eppure, il male non può essere accolto con rassegnazione, né come una fatalistica resa. Al male si resiste, bisogna avere risorse e coraggio per riprendere tra le mani la vita, gli affetti, i legami, i talenti e l’intelligenza. Nel buio della notte della vicenda umana e dello smarrimento, è necessario cercarsi una nuova direzione, trovare una nuova terra ed una nuova casa, consapevoli che indugiare ancora può significare naufragio totale. Siamo tutti invitati ad operare questo esodo spirituale, ma anche ad accogliere chi fa di questo pellegrinaggio una ragione di vita e di speranza. L’indifferenza e le chiusure sono foriere di una pericolosa ideologia egoistica. Dobbiamo accettare che in tutte le forme di isolamento si annida l’origine di ogni nichilismo e depressione umana e spirituale, e che solo nella logica della vicinanza e della prossimità si impara l’arte di amare. Ogni vita risponde alla propria vocazione nella concretezza di relazioni e di impegno comune per costruire fin d’ora il regno di Dio. L’umanesimo cristiano attinge ad una verità inconfutabile, che a Natale si fa storia nella fragile esistenza di un Bambino: «egli è la luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Questa luce, che promana da Cristo e dal suo Vangelo, può ridonare senso e valore alla vita, alla storia, alle rinunce, all’impegno, al dono e a tutte le forme di solidarietà e accoglienza. Ancora oggi «molti fuggono 74


dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali. Altri, con pieno diritto, sono “alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni perché si realizzi”»64.

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FRANCESCO, Lettera enciclica Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 37.

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6. «La grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11) Nella notte di Natale il quadrante della storia ricomincia daccapo. Contemplando il mistero dell’Incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo, fra le suggestive rappresentazioni presepiali e negli scorci ispirativi della scena della Natività, siamo costretti ad una salutare e momentanea battuta d’arresto nell’ansimante corsa contro il tempo. Tra l’essere affaccendati e insoddisfatti, comincia a diffondersi anche una sete di pace ed una nostalgia di bellezza, che nella notte di Natale diventa luce che dirada le tenebre del male. Di fronte al presepe, per un attimo, si arrestano le paure, i timori, gli odi, si rallenta la sofferenza e si accorciano le distanze. Un naturale senso di riconciliazione e di pace ci investe e ci trasfigura. A noi il compito di renderlo sempre vivo ed attuale. Il Natale è una festa cristiana che ricompone la storia e ristruttura la fragile condizione umana perché «è apparsa la grazia di Dio apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11). Sant’Alfonso De Liguori canta il Natale con accenti poetici, ma profondamente teologali e cosmici. Nel Natale si accorcia, fino ad eliminarla, la siderale distanza tra cielo e terra. Il Dio Bambino scende dalle stelle e viene in una grotta : questa riconciliazione tra l’umano e il divino irradia una luce nuova, tanto che era notte e pareva miez iuorno, instaurando un ordine mondiale di pace, di giustizia e di uguaglianza. Natale ci consegna infine una forza straordinaria per rinascere alla vita di figli di Dio, attraverso l’incontro con il Dio fatto bambino, al quale possiamo avvicinarci senza timori e, soprattutto, rispondendo con la conversione a questo infinito amore.

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7. «Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Lc 2,14)

L’attesa arricchisce la vita, anzi conferisce alla vita un dinamismo ed un’operosità inedita. Si attende il ritorno di una persona cara, si attende la nascita di una nuova vita, si attende l’esito di una prova, si attende l’avvicendarsi delle stagioni. E, tuttavia, l’attesa non è mai inoperosa o inerme ottimismo. Attendere significa anche vigilare per riuscire a percepire i segni premonitori e l’impegno da investire per la completa realizzazione di una speranza. Ecco il senso vero e cristiano per vivere autenticamente non solo il Natale, ma anche il tempo che precede e che segue. Natale non può essere solo un evento occasionale, da calendario, ma un percorso esistenziale che spinge all’impegno, motivato da una speranza: la promessa dell’ottimismo di Dio che nel Bambino di Betlemme si fa storia umana e invito alla speranza, alla pace, alla riconciliazione, all’accoglienza, alla solidarietà, all’integrazione tra i popoli. Il tempo che viviamo, richiede un supplemento di speranza, la pandemia ha denudato le fragilità e le precarie condizioni di una società in preda ad un delirio di onnipotenza. La minaccia e la paura hanno determinato un arresto improvviso e repentino rendendo ambiguo e sospeso un tempo sempre ricco di frenetiche corse. L’individualismo è rimasto una parola vuota, perché “siamo tutti sulla stessa barca”, nessuno può dirsi fuori! Sui giovani incombe la privazione di futuro: formazione, lavoro e occupazione diventano il reale appello. Ecco perché il monito del Natale non è un intimistico ed infantile revival di melodie e profumi. Il cristiano sa che a Natale il giorno è ormai vicino, anzi è già presente: il cristiano indossa le armi della luce e, nell’incontro con il Dio fatto uomo, abbandona ogni arma di morte (cfr. Rm 13,12). E le armi della luce sono la verità, la lealtà nei rapporti, la sincerità negli affetti, il coraggio nelle fra-

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gilità, l’impegno nel lavoro, la trasparenza nella cittadinanza, l’autenticità nella festa. Sono queste le dimensioni di ogni persona, anzi tutta la persona si deve confrontare con queste cinque componenti e con la luce che in ciascuno deve entrare. Ecco il senso biblico del Natale, «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia» (Is 9,1-2). Il bagliore del Natale non acceca, piuttosto contagia, non isola, ma riscalda. La spiritualità del Natale ci pone accanto a qualcuno, ci colloca nelle ferite della storia e dell’umanità. L’Incarnazione del Figlio di Dio non ci tranquillizza, anzi ci rende inquieti e ci carica di responsabilità e di solidarietà. Molti, troppi, si attendono da noi un gesto, una parola, uno sguardo, purché profondamente veri ed autentici. Allora è Natale, quando avremo imparato a guardare negli occhi!

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8. «Alcuni Magi vennero da oriente» (Lc 2,1) Il grande mistero del Natale avviene nel buio della notte. Le tenebre avvolgono un evento straordinario, benché poi le dilegua e le sconfigge. Non solo periferia cronologica, nella notte, ma anche geografica. In uno sconosciutissimo lembo di terra, «Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mic 5,1-3), di una remota provincia dell’Impero Romano, vera e propria periferia geografica, una coppia di giovani sposi, custodi di un segreto sovrumano, diventano protagonisti di un evento che segnerà la storia proprio a partire da quella nascita. Dio ricomincia sempre dalla periferia. Il Figlio di Dio osa l’estrema frontiera della fragilità, farsi uomo, per accentuare tutta la disponibilità e la prossimità. Quell’evento aiuta a rimettersi in piedi, a sollevare il capo, a riprendere tra le mani la propria dignità! Un’attesa lunga secoli, logorante, fatta di smarrimento, idolatria, mormorazione, delirio, ma anche pazienza, supplica, invocazione: «quando giunse la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da una donna, nato sotto la legge, affinché riscattasse quelli ch’erano sotto la legge, e ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4). Il Natale racchiude i volti di uomini e donne di periferia. I pastori, i magi, persino Erode nel suo umano e caduco splendore, abita la dolorosa periferia esistenziale e spirituale, fatta di paura, orgoglio, chiusure e ambizioni. Perciò c’è il Natale! Non si tratta di una data, né di una commemorazione e, men che meno, di folklore. Il Natale è una condizione! Il Natale getta una luce di speranza, un sussulto di rinascita proprio per quelle dolorose periferie umane ed esistenziali, che suscitano inquietanti interrogativi alle istituzioni civili, educative ed ecclesiali. Come non guardare negli occhi i nostri migranti, i rifugiati, quanti si sono lasciati alle spalle morte, guerra e distruzione! Ma la periferia della malattia, della discordia e della 79


violenza, oscura non poco il senso del Natale. Il peccato è un’insidia al Natale! Dalle periferie non si sfugge... Perché le verità non si archiviano, piuttosto si generano e ci ri-generano. In questa tragica congiuntura planetaria della pandemia, si fa arduo rintracciare il segno del Divino, che pure ci invade e ci possiede, e nel Natale siamo esposti verso le frontiere, per umanizzarle, invaderle di luce, sostenerle con un profilo etico fatto di impegno e di dedizione. A Natale è certa la consapevolezza che la solitudine è sconfitta per sempre e che l’uomo non è solo, non è un abbandonato, ma è un chiamato, benedetto, amato, ed è questa certezza che ci rafforza nel tentativo limitato, ma sempre autentico, di testimoniare

la fede e portare frutto nella carità per la vita del mondo.

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9. «È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11) Il Dio cristiano a Natale si fa uomo e questo evento straordinario riabilita la creatura umana e la porta a sognare il Divino, a intravedere l’Eterno. Dio a Natale riparte con la creatura, «L’umano non è più pensabile senza Dio e Dio non è più pensabile senza l’uomo, poiché egli ci ha rivelato la sua trascendenza nell’incarnazione di Gesù Cristo e la sua santità con la sua solidarietà con noi nella vita e nella morte»65. Ma a Natale anche noi siamo messi di fronte alla possibile scelta di ripartire da Dio. A fronte di un diffuso senso di sfiducia, di un calo di impegno di civiltà, di una rarefazione di passione per la verità, non serve vivere la festa come un alibi per nasconderci i veri problemi, né indulgere a dolciastre formule beneauguranti, che nulla hanno dell’autentica virtù cristiana della speranza. Ripartire da Dio significa la messa in discussione dei nostri individualistici punti di vista per allargare lo sguardo oltre di noi. La speranza del Natale è che, finalmente, siamo stati innalzati ad una dignità indicibile di intelligenza, bontà, tenerezza, che solo una colpevole negligenza potrebbe farci ignorare. Avviciniamoci con confidenza al Bambino Gesù, solo da lui il mondo può riacquistare la pace. «Il nostro Salvatore affin di darci maggiore confidenza s’è fatto bambino… chi mai si atterrisce di accostarsi ad un bambino? I bambini non ispirano già spavento e sdegno ma dolcezza e amore…»66. Per ripartire da Dio è necessario avere anche chiara la prospettiva della conversione e del riordinare i nostri impegni, la nostra fraternità, la nostra carità verso i più poveri ed abbandonati, ver65

O.G. DE CARDEDAL, L’uomo davanti a Dio. Ragione, fede e testimonianza, EDB, Bologna 2015. 66 A.M. DE LIGUORI, Novena del Santo Natale, Discorso II, Il Verbo Eterno da grande s’è fatto piccolo.

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so chi attende un gesto di cristiana accoglienza e solidarietà. Dio non è una teoria, è una rivelazione. «”Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36). Questa pagina non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo»67. Accogliamo l’invito di Papa Francesco: «Apriamo i nostri cuori a ricevere la grazia di questo giorno, che è Lui stesso: Gesù è il “giorno” luminoso che è sorto all’orizzonte dell’umanità. Giorno di misericordia, nel quale Dio Padre ha rivelato all’umanità la sua immensa tenerezza. Giorno di luce che disperde le tenebre della paura e dell’angoscia. Giorno di pace, in cui diventa possibile incontrarsi, dialogare, e soprattutto riconciliarsi. Giorno di gioia: una “gioia grande” per i piccoli e gli umili, e per tutto il popolo (cfr. Lc 2,10)»68.

67 68

GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 49. FRANCESCO, Messaggio Urbi et Orbi, 25 dicembre 2015.

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10. «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte» (Lc 2,8) La scelta preferenziale dei pastori come destinatari di un evento eccezionale rivela in primo luogo la logica di Dio: scegliere i poveri, rivolgersi a chi davvero sa attendere, a chi sa ascoltare, agli umili della terra, a coloro che sono alla ricerca di un liberatore. Ecco perché i pastori diventano i primi custodi di un Vangelo, ma anche i primi testimoni ed annunciatori. I pastori sono figure deboli, considerate ai margini della società, nomadi e precari, ma quella notte si lasciano incontrare da Dio. I pastori “vegliavano nella notte”, nella notte si mettono in cammino… nella notte ritornano alle loro occupazioni, lodando e glorificando Dio. In quella notte gli ultimi della terra scoprono una nuova ed inedita solidarietà, quella con il Divino perché «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo»69.

“Nella notte” è una connotazione non solo cronologica, ha un significato storico, teologico ed antropologico. La notte è anche il tempo della sofferenza, della malattia del nostro tempo, dello smarrimento, della confusione, della solitudine, della prova. Nella notte la direzione si dissolve e tutto appare particolarmente indefinito, si procede a tentoni! La notte è anche simbolo dell’oblio di Dio e della menomazione di libertà, di verità, di affetti e di legami. I Vangeli ci raccontano che nella notte di quella memorabile ultima e nuova Pasqua, avviene il tradimento più amaro della storia e, in quella stessa notte, dal tradimento si rigenera il dono: l’Eucaristia. Però la notte è anche tempo di adorazione e di preghiera, nella notte si apprezza con maggiore gratitudine la comparsa di una luce, e anche un piccolo bagliore rifulge con tut69 CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.

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ta la forza. La notte ed il buio sono il contesto del Natale, «pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr. Lc 1,79)»70.

Nella notte è anche lo stato d’animo di chi perde i punti di riferimento e di chi, sommerso dalle prove e dalle angustie della vita, è costretto a procedere con timida incertezza. Nella notte dell’umano, quando il mondo sembra completamente e definitivamente sommerso, allora rifulge a noi la speranza di una luce nuova. «Nella pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4). Quando la storia ha smarrito il senso e la direzione, quando un uomo, un imperatore, Cesare Augusto, ha la presunzione di farsi Dio, proprio allora Dio si fa uomo, per riportare nella direzione della giustizia e della pace il corso della storia. In questo senso dobbiamo comprendere le parole dell’angelo ai pastori: È nato per voi un salvatore. In Lui e con Lui la storia ha un’altra prospettiva, egli diventa il paradigma di una nuova umanità: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo»71, e la Chiesa «crede… di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana… per illustrare il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca di 70

FRANCESCO, Lettera apostolica Admirabile signum (1° dicembre 2019), 4. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22. 71

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una soluzione ai principali problemi del nostro tempo»72.

72

Ivi, 10.

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Conclusione A Natale si ripropone per ciascuno di noi, per le nostre famiglie, per le nostre comunità civili ed ecclesiali, la possibilità di un rinnovato senso, di un genuino impegno, di una sincera conversione e audace ricerca del bene comune, con la messa al bando di ogni mediocre adattamento sulla verità e sull’annuncio della carità. A Natale siamo invitati ad un singolare apprendistato di semplicità: di questo ci parlano il buio, la grotta, la mangiatoia, i pastori. A Natale siamo chiamati anche ad una eccezionale apertura al trascendete, al Divino, a cui ci invitano gli angeli e una schiera di creature invisibili che annunciano “agli uomini che Dio ama” di aver finalmente ricevuto il dono di “un Salvatore, che è Cristo Signore”. A Natale si rivela Dio, con la potenza di tutta la sua predilezione di amore. A nulla possono valere i nostri discorsi intrisi di sentimentalismo sulla grotta, la mangiatoia, il freddo e il gelo, se sono diventati solo recinti del nostro egoismo e perciò ostacoli per incontrare il vero volto di Dio e dell’uomo nostro fratello. Il nostro è un Natale singolare, segnato da tante ambiguità del passato, da inquietudini del presente ed incertezze verso il futuro. Eppure, dobbiamo apprendere una modalità nuova ed inedita per vivere da riconciliati in un creato che attende rispetto e custodia premurosa. È l’occasione per «percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e all’impegno serio per una vita più dignitosa»73. Dinanzi a noi si apre un tempo di impegno e di marcia in salita, 73

FRANCESCO, Lettera enciclica Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 205.

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non sempre dall’orizzonte si percepisce la presenza di una necessaria pace, ma è certo che «la Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga»74.

74

CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gen-

tium (21 novembre 1964), 8.

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INDICE

Presentazione

5

Introduzione

9

Lasciar andare

10

Maria: il bacio del Cielo

12

Vocazione, invasione di eternità

14

Ciò che dobbiamo recuperare

16

La compassione è il divino dell’amore

19

Risalire la china

21

Ricominciare con affanno

24

Una visione inclusiva e planetaria della famiglia

27

La redenzione ha un significato sociale

30

Sulla pace non ci inganni una falsa speranza

32

Guarire l’animo

34

Capaci di Dio, cioè umili

37

Digitali ad ogni costo

39

Aiutare le persone ferite

41

Una lezione per la vita: ascoltare

43

Dove siamo?

45

Il silenzio. Uno spazio per l’anima

47


La fedeltà è la siepe dell’amore

50

Dal tradimento al dono

53

Trasmettere la fede

56

Correggere senza ferire

59

Fratelli tutti: né ideologia, né slogan

61

Le parole di Natale

64

1. Non temere, Maria

66

2. Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia

68

3. Gloria a Dio… e pace in terra agli uomini

70

4. Prostrati lo adorarono

72

5. Si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre

74

6. La grazia di Dio, apportatrice di salvezza

76

7. Su coloro che abitavano in terra tenebrosa

77

8. Alcuni Magi vennero da oriente

79

9. È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore

81

10. C’erano in quella regione alcuni pastori

83

Conclusione

86



Finito di stampare nel mese di dicembre 2020

Via degli Edili 101 - Sapri (SA) Tel. 0973 603365 e-mail legatoria.cesare2@gmail.com



La pandemia mondiale ha dissolto molti miraggi, ha spento esistenze, ha distrutto sistemi economici, ma ha anche messo in evidenza nuove e più urgenti modalità di prossimità e di vicinanza. Anche nella dimensione evangelizzatrice sono rifiorite originali connessioni tra le comunità e, senza soppiantare la ricca e consolidata modalità tradizionale dell’annuncio, ne hanno sottolineato la continua validità e urgenza. In questo testo ho cercato di raccogliere la condivisione e la forza spirituale che in questi mesi ho avvertito come urgenti per i fedeli e per ogni uomo di buona volontà. Il titolo Lasciar andare non è una resa, né una sconfitta, ma la riassunzione di una nuova responsabilità generativa, nella quale come padri, come educatori, come operatori pastorali possiamo ritrovarci per ridare vigore all’annuncio del Vangelo.

A D L (1956), redentorista e Vescovo di Teggiano-Policastro dal 2011, è delegato della Conferenza Episcopale Campana per il settore migrantes.

ISBN 978-88-32222-25-8


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