Notiziario - Marzo 2020

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La Quaresima cristiana,

nella “quarantena” Coronavirus

La pandemia del Covid – 19, che come “una tempesta inaspettata e furiosa” si è abbattuta sull’Italia e sul mondo, non ha comunque rallentato la corsa della Parola di Dio che, a partire da papa Francesco, dai vescovi e dai sacerdoti a tutti gli educatori della fede, attraverso gli strumenti multimediali, raggiunge quotidianamente il cuore dei fedeli. Anche il nostro Vescovo Vito, pastore vigilante, attento e premuroso del suo popolo, maestro della fede e araldo della Paola, “primo responsabile dell’evangelizzazione e della catechesi”, giorno dopo giorno, a partire dall’11 marzo, è entrato nelle case della diocesi, e non solo, con la sua voce e un “santino” virtuale, in cui domina la croce dell’altare maggiore della Cattedrale di Ugento. Ha voluto farsi prossimo alla sua Chiesa “in quarantena”, con quelli che egli ha definito “esercizi spirituali in pillole al tempo del coronavirus”. Le sue brevi, ma chiare, opportune e puntuali meditazioni, prendendo spunto dai temi legati all’emergenza sanitaria, si riferiscono alla parola del Vangelo, sono sapientemente arricchite dal pensiero dei padri della Chiesa, dei maestri di spiritualità dei grandi mistici e di testimoni della fede e pensatori del nostro tempo. Si concludono con un invito alla preghiera, potente arma contro la forza del virus. Poche righe, brevi e densi pensieri, benefiche “pillole” spirituali di consolazione e di speranza, per accompagnare il «cammino verso la Pasqua», nella chiara certezza che “mai nessuna notte è tanto lunga da non permettere al sole di sorgere” (Paulo Coelho) Mons. Beniamino Nuzzo

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LA PASQUA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS La Pasqua 2020 al tempo del Covid-19, sarà una Pasqua del tutto anomala e sottotono; sarà una festività tutta casalinga, contrariamente alle abitudini di gite e viaggi di solito programmate in questo periodo, tanto più che si tratta di una Pasqua cosiddetta media, cadendo nella prima metà di aprile in piena primavera. Una Pasqua domestica, in famiglia, a dispetto del famoso proverbio «Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi». Rispetto alla tradizione cristiana, sarà una Pasqua con i riti religiosi a porte chiuse. Siamo costretti a una celebrazione che assomiglia più alla prima Pasqua che a quelle solenni, festose, gloriose alle quali siamo abituati. Una Pasqua vissuta più in casa che in chiesa, come «la cena pasquale», secondo l’evangelista Giovanni, nell’intimità del cenacolo, i cui segni eloquenti sono la lavanda dei piedi, la rivelazione di Gesù agli apostoli dei suoi sentimenti e pensieri più profondi e la sua accorata preghiera al Padre. Una Pasqua di “interiorizzazione”, a cui giungiamo, dopo circa i 40 giorni di clausura forzata, più allenati, più pronti e decisi a declinare, nello scorrere del tempo che il Signore ci darà di vivere, il comandamento dell’amore, nella sua duplice espressione di relazione con Dio e con il prossimo, attraverso la preghiera che ci consegna al cuore di Dio e il servizio che apre il cuore nostro ai fratelli. Questi speciali e inattesi esercizi spirituali, sono stati un’occasione salutare per discernere comunitariamente che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. Abbiamo imparato a vivere le relazioni, a dialogare e a educarci a vicenda per recuperare i rapporti familiari, a ritrovare e gustare la centralità della preghiera e della Parola di Dio. Preziose, a tal proposito, sono state le quotidiane e attese riflessioni del nostro Vescovo Vito. Brevi, chiare e profonde meditazioni, salutari pillole di incoraggiamento e di speranza, nel tempo quaresimale, in preparazione alla Pasqua. Abbiamo, altresì, capito che il bene è più forte del male e che la solidarietà è più grande dell’individualismo e dell’egoismo. Che essere uomini moderni significa riscoprire la creaturalità e i propri limiti, sentire il bisogno degli altri ed amare di più la comunità. E’ quanto ci auguriamo a vicenda, impegnandoci a metterlo in pratica, a partire dalla Pasqua ormai vicina, quando tutto, lentamente, ritornerà alla normalità. Approfitto volentieri, di queste pagine del Notiziario diocesano, per porgere al nostro Vescovo Vito, a nome del presbiterio, mio personale e dell’intera comunità diocesana, i più fervidi e cordiali auguri pasquali: Buona Pasqua! Gioite nel Signore Risorto e vivo nella sua Chiesa, tra i suoi fratelli. A tutti egli rinnova la sua parola incoraggiante e consolante. Pace a voi! «Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. Ecco io faccio nuove tutte le cose». (Ap. 21, 4-5)

Il Vicario Generale – Mons. Beniamino Nuzzo 2


riflessioni “peregrine” di un povero parroco di campagna di don Stefano Ancora

Carissimi amici, ci prepariamo a celebrare la Santa Pasqua in modo unico e straordinario nel tempo dell’emergenza sanitaria dovuta all’espandersi del contagio del Covid-19. Sarà una Pasqua tristissima, perché dobbiamo celebrarla in chiesa a porte chiuse e stando chiusi in casa. In queste condizioni, più uniche che rare nella storia bimillenaria della Chiesa, è proprio difficile esprimere il senso della gioia che la festa di Pasqua porta con sé. Il 2020 sarà ricordato, nei secoli a venire, come l’anno in cui si poteva dire a chiare lettere di non essere stati felici come una Pasqua! Siamo la generazione che sta vivendo e scrivendo questa pagina di storia! Dobbiamo farlo per amore delle generazioni future; dobbiamo farlo per l’intera umanità; dobbiamo farlo per il nostro amato Paese, l’Italia; dobbiamo farlo nella consapevolezza “che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18). I numeri che ci vengono forniti dall’Istituto Superiore di Sanità italiano sono davvero impressionanti (ad oggi 3 aprile mentre vi sto scrivendo): oltre 115.000 i contagiati con più di 14.000 morti, solo in Italia, mentre nel mondo sono oltre un milione i contagi e più di 53.000 i morti; purtroppo sono numeri destinati a salire! Sembrano numeri di guerra! In realtà stiamo vivendo e attraversando un momento di guerra planetario, nessun paese al mondo è escluso. 1. Com’è potuto accadere? Il coronavirus Covid-19 è una bizzarria della natura o lo scivolamento di una pericolosa strategia del delirio d’onnipotenza della tecnica moderna? Le ipotesi che sono circolate in questi giorni sono le più varie e ondeggiano tra una semplicistica fatalità, dovuta all’evolversi della natura in un ambiente corrotto e inquinato, e tra il complottismo che vede la mano fraudolenta e delinquenziale, di chi ha voluto far precipitare il mondo nel caos, per colpire l’economia

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mondiale, già fortemente destabilizzata dagli egoismi corporativi di società multinazionali della prima ora e nazioni emergenti dell’ultima ora. Non so quale sia la verità e non so se la sapremo mai! Una cosa però è certa: il virus sta facendo il suo corso e la sua strage, mettendo a nudo il nostro sistema di vita con le presunte sicurezze sanitarie, economiche e sociali. 2. Il coronavirus nel cambiamento d’epoca Papa Francesco già nel 2015 parlando alla Chiesa Italiana riunita a Firenze aveva detto: “oggi non viviamo un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca”. L’espressione “cambiamento d’epoca” al suo apparire mi faceva qualche problema e mi chiedevo: In che senso deve cambiare questa epoca? In quale direzione deve andare il cambiamento? Mi sembrava uno slogan ad effetto. Forse si tratta di piegare la mente e l’animo alle evoluzioni tecnologiche più moderne, per cui non è più l’uomo ma la macchina il centro della vita del mondo? Le conquiste scientifiche e tecnologiche più all’avanguardia dettano le leggi del modo dell’essere umano: biotecnologia, cibernetica, intelligenza artificiale. È giunto il momento di innalzare la macchina a livello di divinità, tant’è che l’uomo dipende totalmente da essa? Forse si tratta di ridisegnare la mamma valoriale dei doveri dell’uomo partendo dai tanto invocati e conclamati diritti civili e sociali della modernità: divorzio, aborto, unioni di fatto, teoria e pratica del gender, eutanasia e diritto al suicidio assistito, sopravvalutazione dell’animale rispetto all’umano. Sono questi i contenuti del nuovo ordine morale ed etico che sostituiscono in pieno la legge della natura e quella stessa di Dio? Forse si tratta di convenire che l’unica legge economica possibile per un mondo globalizzato e ridotto a villaggio universale sia quella del capitalismo dominante? Il cui compito non è solo quello di soddisfare i bisogni dell’uomo; ma di crearli sempre di nuovo e sempre più sofisticati per poterli poi produrre e vendere, facendo così credere in chi li acquista il soddisfacimento reale del suo piacere e non più di un suo presunto bisogno. Intanto pochissimi si arricchiscono sulla pelle di moltissimi poveri e diseredati. In nome del capitalismo s’inquina l’ambiente, si abbattono foreste tropicali, si sfruttano risorse energetiche e il mondo va verso il collasso. Quanto potrà ancora andare avanti un tale sistema? Forse si tratta di sciogliere le vele a quelle grandi religioni storiche e naturali che per millenni hanno contribuito a dare vita e speranza all’umanità riscattando continuamente gli uomini dall’abisso dei loro errori e dei propri mali? Si tratta di inventare una nuova grande e universale religione che si fonda sul sentimento comune di potenza, avvalorata dai mezzi di comunicazione di massa che dipanano, per mezzo della nuova classe sacerdotale mediatica, il nuovo verbo dell’amore universale e come un grande fratello nulla gli sfugge e tutto controlla? Se è così, allora nulla rimane del sentimento religioso insito nel cuore dell’uomo. Anzi, ancora di più, a nulla serve Dio, soprattutto se è il Dio con noi, incarnatosi in Gesù di Nazareth, il Verbo della vita, Cristo Signore. Si comprende sempre meglio l’acerrima lotta del mondo contro il

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cristianesimo e soprattutto contro la Chiesa Cattolica che fa di Cristo il modello dell’uomo nuovo: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Cristo rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione” (GS, 22). Se il cambiamento d’epoca significa tutto quanto espresso sin d’ora, allora io non ci sto. Non posso pensare che la macchina sia superiore all’uomo. Non posso comprendere che l’agire dell’uomo sia informato e formato da una legge morale creata artificiosamente dall’istinto del vizio e dal capriccioso libertinaggio, piuttosto che dall’incontro, sempre nuovo e fecondo, tra la natura e la ragione dell’uomo. Non posso accettare che il capitale economico sia più grande del capitale umano e quello tecnologico più importante di quello sociale. Non posso credere che il mondo sia divisibile tra i pochi che hanno tutto e i molti che non devono avere niente; non posso pensare che la giustizia sia vinta dall’ingiustizia sociale; che la pace sia affossata dalla guerra; che l’amore sia infangato dall’odio; che la convivenza umana sia dettata dalle ragioni dei più potenti. Non posso credere ad una umanità senza Dio, ad una comunità senza Cristo, ad un uomo senza l’anima. 3. Il coronavirus e le conquiste della modernità È apparso il coronavirus Covid-19 e la nostra vita è stata messa in subbuglio. Un virus, quasi invisibile, è riuscito a mettere a soqquadro paesi tecnologicamente all’avanguardia, economie strutturate e forti, stili di vita sociali consolidati. Lentamente e progressivamente questo virus l’ha fatta da padrone su tutti i sistemi di vita sociale, civile, economica, religiosa. Ad un tratto questo nostro mondo si è trovato talmente impreparato ad affrontare la sfida di una pandemia che, a tutt’oggi, anche i più autorevoli tra gli scienziati non sanno come fronteggiare e come andrà a finire. Però alcune riflessioni vanno fatte. Questo virus ha provocato un vero cambiamento d’epoca. Con il passare del tempo ne vedremo meglio gli effetti e sicuramente saremo anche capaci di comprenderne le cause. a. La crisi dell’individualismo moderno “Distanziamento sociale”, “isolamento sociale”, “io resto a casa” sono state e lo sono ancora le parole d’ordine che gli stessi scienziati hanno suggerito ai governanti i quali, per il nostro bene e la salvaguardia della salute pubblica hanno dovuto imporre delle restrizioni così pesanti che nemmeno in tempo di guerra si sono viste. Hanno chiuso le scuole, le fabbriche, i negozi (ad esclusione di quelli alimentari e di necessità), persino le chiese hanno dovuto chiudere le proprie porte per evitare gli affollamenti e il diffondersi dell’epidemia.

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Naturalmente tutte azioni volte a contenere il contagio e a sostenere il servizio sanitario nazionale, duramente messo alla prova dall’emergenza sanitaria. Di colpo ci siamo trovati a rimanere soli e distanti dagli altri. È strano che per combattere questa epidemia ci siamo dovuti isolare. Il virus ci ha costretti a fare i conti anzitutto con noi stessi e a guardarci dagli altri, possibili veicolo di contagio. La modernità non è nata dallo slogan “homo homini lupus” (l’uomo è lupo per l’atro uomo)? Questa considerazione di Plauto diventa assioma nel pensiero del filoso Hobbes secondo il quale la natura umana è fondamentalmente egoistica, e a determinare le azioni dell'uomo sono soltanto l'istinto di sopravvivenza e di sopraffazione. Egli nega che l'uomo possa sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un amore naturale. Questo pensiero porterà all’individualismo, cioè all’affermazione individuale del soggetto che per esistere non ha bisogno degli altri tantomeno di Dio. È un automa, basta a se stesso, la sua libertà è assoluta, la sua volontà è potenza. I diritti dell’individuo prevalgono su quelli della collettività. L’attuale pandemia ci ha costretti a fare i conti con la necessità di aver estremo bisogno degli altri. I canti dai balconi hanno visto tanta gente guardarsi negli occhi, chiamarsi per nome, sentirsi profondamente uniti nella comune battaglia e magari, fino al giorno prima, nemmeno ci si conosceva o a stento ci si porgeva un saluto, pur abitando vicini o nello stesso condominio. Il coronavirus ci ha fatto vedere quant’è brutto l’isolamento sociale e averlo dovuto praticare ci dovrebbe far comprendere che l’individualismo come caposaldo della modernità deve essere certamente corretto. b. La fine del disincanto della morte e del mito dell’eterna giovinezza Persino chi è morto, durante questa pandemia, è dovuto morire da solo; senza il conforto e la vicinanza dei propri familiari, senza un funerale dignitoso. Assolutamente da solo nel proprio dolore e nella propria morte. Anche questa dolorosissima circostanza deve aiutarci a comprendere pienamente il senso della morte umana, non solo nella dimensione della fede cristiana, ma anche nella dimensione della dignità della persona umana. Siamo avvolti da una cultura di morte che ha dichiarato la fine della morte. La stessa parola “morte” è stata del tutto cancellata dall’orizzonte comunicativo. Si adottano artifici linguistici per non dire la realtà della stessa morte. Eppure il mondo moderno propina immagini e concetti di morte in ogni situazione. Guerre, violenze, abusi, tutto parla di morte. L’aborto viene definito come un’interruzione di gravidanza a sostegno della maternità (bugia più grave non esiste!); e poi c’è la morte dell’amore, la morte dolce, la morte violenta, la morte assurda, la scelta di morire e basta. L’uomo moderno, aggrovigliato su se stesso in quell’egocentrismo dominante, ponendosi continuamente fini intermedi per la sopravvivenza ha cancellato il fine ultimo dell’esistenza. Il mito dell’eterna giovinezza nasce per esorcizzare la paura del morire, facendo credere che la morte fosse solo l’immagine di un universo simbolico, in realtà strapiomba nel non senso della morte e nella banalità del morire. Ciò ha prodotto quegli atteggiamenti fuorvianti per cui l’uomo nell’atto stesso del morire deve essere lasciato solo e tenuto lontano dagli altri, perché

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tali paure non creino turbamenti esistenziali, soprattutto ai più giovani. La nuda e fredda stanza mortuaria di un obitorio sostituisce il calore della casa familiare. Il funerale diventa esibizione; la preghiera è trasformata in oratoria; la memoria è ridotta a un cumulo di ceneri da spargere ai quattro venti, quasi a volersene liberare al più presto dello stesso ricordo. Il tutto è scientemente condito dall’elaborazione del lutto, ulteriore affronto a voler negare il diritto al dolore, negazione stessa della speranza. Il coronavirus ci ha mostrato la parte più orribile dell’isolamento di chi muore e dell’impossibilità di voler e poter stare accanto ai propri cari nel momento dell’ultimo addio. Ancora una volta, questa terribile tragedia ci ha detto che siamo una comunità e senza la comunità il vivere è difficile e il morire assurdo. L’uomo ha bisogno degli altri. È il frutto di una relazione d’amore e solo nell’amore dato e ricevuto si comprende pienamente come uomo. Nessun uomo nasce da solo e nessun uomo può morire da solo.

c. Il limite di una scienza esatta Il coronavirus ha messo in crisi anche la moderna scienza. Gli addetti ai lavori ci hanno subito confessato la loro impreparazione e incapacità a fronteggiare una tale situazione. La “gaia” scienza ha dovuto spogliarsi delle vesti dell’esattezza scientifica e della ricetta pronta e indossare i panni dell’umiltà del ricercatore, di chi combatte in prima linea contro un nemico subdolo e sconosciuto. L’attuale emergenza ha fatto emergere la dimensione umana della comunità scientifica e della comunità sanitaria, dei tantissimi operatori e volontari che hanno dovuto far leva sul loro maturo senso di umanità e su pochi rimedi medicinali e tecnici per salvare i malati e per accompagnare i moribondi. Abbiamo scoperto la bellezza e la grandezza di dottori, molti hanno pagato anche a prezzo della loro stessa vita, di infermieri infaticabili che hanno dovuto fare i conti con lo stesso terribile contagio, di operatori sanitari, portantini, impiegati, volontari, forze dell’ordine, militari. Tutti impegnati a far fronte al male in una battaglia impari, anche senza le dovute protezioni personali, a tutti loro dobbiamo dire mille e mille volte grazie e anche di essere fieri, come italiani, ad avere un personale così attento e ricco in umanità. Il coronavirus ha messo a dura prova il nostro sistema di servizio sanitario nazionale, che tuttavia regge, e come monito per i nostri politici, pone il serio interrogativo se le scelte politiche degli ultimi 30 anni, in campo sanitario, siano state le più giuste e opportune. d. Il superamento del tempo libero e dello spazio pieno L’emergenza sanitaria causata dalla pandemia del coronavirus Covid-19 ci ha obbligati a rimanere chiusi in casa per evitare il diffondersi del pericoloso contagio. Le mura delle nostre case e il calore della propria famiglia si sono dimostrate luogo sicuro per salvaguardare il bene supremo della salute e della stessa vita. Forse mai, come in questo tempo, abbiamo avuto la possibilità di valorizzare la casa e la famiglia a cui apparteniamo. Siamo stati costretti a rivedere e riformulare la nostra concezione di tempo e di spazio, che poi sono le uniche categorie con cui è circostanziato il proprio esserci.

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La modernità ci ha abituato alla fretta, al mordi e fuggi, alla consumazione istantanea di emozioni e interessi. Il virus ci ha obbligati a fermarci, a dosare attentamente i lunghi momenti di permanenza nello stesso luogo. Noi che eravamo abituati facilmente ai tanti spostamenti per lavoro, per svago, per il puro piacere di stare lontani, ci siamo dovuti adattare alla rinuncia e a fare i conti con i tempi lunghi dell’attesa, anche per fare semplicemente la spesa, e a liberare i posti che orgogliosamente avevamo occupato postandoli di continuo su tutti social. Dalle relazioni corte e virtuali per scelta abbiamo dovuto optare per le relazioni lunghe e virtuali per necessità. Mai, come in questi giorni, la moderna tecnologia ci è servita tanto, rivelando le sue nobili potenzialità e tralasciando, anche se non per tutti e per tutto, il fascino subdolo della leggerezza e dell’inconsistenza comunicativa. Abbiamo riscoperto che la famiglia, da tanti dichiarata inutile perché tradizionale e malefica perché negatrice delle libere espressioni amorose, è stata l’ancora di salvezza per molti, soprattutto per i bambini e i ragazzi, per i giovani e gli anziani. L’unico antidoto all’isolamento è stata proprio la famiglia. Fortunato per chi c’è l’ha, fortunato per chi l’ha riscoperta, fortunato per chi vorrà ricostruirla ed edificarla.

e. La necessità del far festa In questa lunga quarantena non ancora finita, e chissà quanto durerà, non abbiamo potuto esprimere la gioia della festa, dello stare insieme, del condividere insieme gioie e dolori, speranze e angosce. Né feste di compleanno, né battesimi, né matrimoni, né altre particolari ricorrenze legate alle nostre tradizioni familiari e paesane. Nemmeno la santa Pasqua possiamo celebrarla con la gioia che le è dovuta. Una coltre di fitte e oscure nebbie sono scese su tutta la terra che ci spaventano obbligandoci a mettere tra parentesi quell’innato senso della gioia di vivere di cui la festa è l’espressione più evidente. La modernità ci ha fatto credere che tutti i giorni sono uguali. I grandi magazzini e le città mercato, i luoghi del divertimento e dello svago, la smania di viaggi in terre sempre più lontane, la frenesia di consumare la vita in ogni weekend ci hanno inculcato l’idea che la festa me la faccio da solo e quando e come voglio io. Ora, dobbiamo fare i conti anche con questa bugia moderna. Ora, ci è data la possibilità di comprendere pienamente il senso del tempo. Imparare a distinguere i giorni tra feriale e festivo non è una cosa da antichi, ma è modernissima. Perché il tempo si colora delle nostre emozioni e assume la gradualità dei colori della nostra anima. Il tempo siamo noi che lo viviamo. Il tempo si adatta al nostro sentire e al nostro vivere. La festa è partecipazione di una gioia, è comunicazione di una speranza, è condivisione di una prova e di un dolore. Se manca la famiglia e la comunità qual è il senso della festa? Posso mai pensare di far festa da solo? Da soli non si va da nessuna parte. Nessuno può salvarsi da solo. f. La fine del materialismo metafisico e l’insopprimibile desiderio di spiritualità Nei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni (ho ripreso la lettura di questo bellissimo romanzo storico in questi giorni e quante analogie vi ho ritrovato tra quella storia e la nostra di oggi!), ci sono due brevi passi, due dialoghi tra Lucia e l’Innominato e tra l’Innominato e il Cardinale

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Federigo Borromeo che ci danno il senso della dimensione spirituale della vita dell’uomo di ogni epoca. Lucia è stata rapita dall’Innominato per fare un favore a Don Rodrigo, invoca e prega: “In nome di Dio...” e l’Innominato, dal cuore di pietra, risponde: “Dio, Dio, sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola?”. Lucia candidamente replica: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”. La notte non fu quieta per quell’uomo senza Dio. All’indomani, saputo che il Cardinale Borromeo era nei paraggi, risoluto, volle incontrarlo. Il Cardinale lo aspettava, come il Padre il figliol prodigo. Ma l’Innominato, quasi volendosi giustificare disse: “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”. Il Cardinale, prontamente, rispose: “Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?”. E sì, proprio così, Dio ritorna sempre. Cacciato con forza dalla porta del cuore degli uomini; bandito dai sistemi totalitari vecchi e nuovi; dichiarato inesistente, inutile e morto dai pensatori di grido; umiliato, offeso, deriso, bestemmiato da molti giovani, donne e uomini; Dio torna sempre, anzi non si è mai allontanato, è stato sempre con noi e da più di duemila anni ha inchiodato il suo amore per noi sul legno della Croce e da lì attira tutto a sé. Davanti a Lui non si può rimanere neutrali e immobili; dinanzi a questa Croce si può solo confessare il proprio peccato invocando il perdono: “ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo Regno”, oppure si può continuare ancora a bestemmiare: “scendi dalla croce e salva te stesso e me”. Dal trono della clemenza e della misericordia di Dio potremo ascoltare l’invito alla gioia: “oggi sarai con me in Paradiso” oppure il silenzio della nostra condanna. In queste settimane, sempre più forte e da ogni angolo della terra, si è levato il grido della preghiera. Una preghiera silenziosa, umile, corale, implorando Dio perché cessi questa terribile pandemia. Il nostro amato Papa Francesco, facendosi interprete dei dolori e delle angosce delle donne e degli uomini di tutto il mondo, più volte ci ha invitato a pregare, insieme a lui, perché il Signore manifesti la sua misericordia e il suo amore debellando questo male e incoraggiandoci nella speranza e nell’impegno alla carità verso gli ammalati, i bisognosi, i poveri di sempre e quelli ancora più poveri di oggi. Il suo insegnamento quotidiano sta tracciando le linee guida per la ricostruzione di un mondo più umano e fraterno, più giusto e solidale, superata l’attuale situazione d’emergenza. Piazza San Pietro vuota fisicamente, era stracolma di una presenza spirituale, e dalle nostre case, come stretti e uniti gli uni agli altri, abbiamo ascoltato parole di vita nuova e abbiamo ricevuto la benedizione del SS. Sacramento. Il nostro vescovo Vito, infaticabile nel suo impegno di pastore, ci è vicino quotidianamente con i suoi messaggi e preghiere carichi di passione e di verità, di fiducia e di speranza, senza nascondere i timori del male presente ed esortandoci alla pazienza e alla prudenza.

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Anch’io, nel mio piccolo, vi sono vicino quotidianamente con la mia povera preghiera personale e con i video messaggi e la preghiera comunitaria di ogni giorno, specialmente la celebrazione della Messa, per continuare a vivere la normalità della nostra vita comunitaria in un tempo per niente normale. Molti di voi, lo so di certo e l’ho percepito e sentito, pregano incessantemente con tutte le forze, rifugiandosi in quell’unica consolazione che viene dalla potenza dello Spirito Santo. Mai, come in questo tempo, sentiamo vicini la Vergine Maria e tutti i Santi; mai come oggi sentiamo il bisogno di abbracciare la Croce di Cristo, sapendo che è il nostro unico sostegno, ancora della nostra salvezza, porto di rifugio, ponte che unisce le opposte sponde, albero di vita, sorgente di pace e amore. In tutto il mondo, ognuno con la propria fede, eleva il sentimento più genuino e veritiero in quel Dio che solo può salvare. Mi ha colpito, che al di fuori dei sentimenti religiosi più naturali e semplici, non ci siano stati manifestazioni di integralismi e fondamentalismi religiosi e spiritualistici. Verranno anche questi, non ora ma dopo la tempesta; ora, anche i più balordi e blasonati, hanno una tremenda paura e se ne stanno accovacciati, come sotterrati nel loro vuoto esistenziale e nella vacuità del loro pensiero. Anche per questi, che sono pur nostri fratelli, dobbiamo pregare! Infatti, solo chi nutre una speranza, come fiore gemmato di una fede viva è capace del frutto maturo della carità di una vera preghiera: lode a Dio e soccorso verso i bisognosi. La modernità ci aveva inculcato l’idea che solo ciò che è materiale e cade sotto l’osservazione dei nostri sensi, alimentando i suoi istintivi appetiti, ha diritto d’espressione. Mentre ciò che è spirituale e riguarda l’anima umana è superstizione, arretratezza culturale, bassezza morale, inutilità storica. Il pragmatismo ha svuotato il pensiero; il narcisismo ha obliato il desiderio; l’edonismo ha catturato il piacere; il materialismo ha imprigionato lo spirito; il relativismo ha imposto l’unica legge della inutilità delle leggi; lo scientismo ha negato la verità; lo storicismo ha banalizzato la memoria. Tutto ciò ha comportato ad un declassamento dell’umano e al suo continuo annientamento. Perciò, all’uomo di oggi come al cristiano, è stato insegnato che non ci sono valori, non ci sono verità eterne, che il paradiso è “un’astuta bugia”, la religione è “oppio dei popoli”, Dio non esiste, anzi “è morto”. Ed ecco che anche i cristiani sono morti nell’anima: non pregano, non amano, non vivono. La Domenica è il giorno dello shopping; i sacramenti sono inutili in sé, ma possono servire, ridotti a cerimonie, per l’esaltazione di una saga familiare e sociale; le feste solo occasioni consumistiche per esaltare il “dio” denaro. Il coronavirus, anche in questo campo, ci ha dettato la legge della verità sull’uomo: è solo una materia composta da cellule e molecole o è uno spirito vivo che ha un’anima con cui pensa, vive, ama, soffre, e muore? 4. La cura pastorale del seme e del lievito nascosto Domenica 8 marzo, appena appresa la notizia del decreto governativo che estendeva a tutto il Paese il regime di restrizione di movimento e di assembramento, il vescovo, nel primo 10


pomeriggio, mi chiama, insieme a don Beniamino, per comprendere come dovevamo comportarci e quali indicazioni dare a tutto il clero diocesano. Arrivato alla presenza del vescovo Vito, paventando la soluzione, resasi oramai necessaria, di chiudere le nostre chiese dissi: “quanto non sono riusciti a fare i sistemi totalitari è riuscito a farlo un’invisibile virus”. Infatti, la storia della Chiesa è colma di persecuzioni, di restringimenti delle sue libertà, di chiare opposizioni, di continue umiliazioni, molte dovute anche per le colpe dei propri figli e figlie, ma mai si era arrivati a chiudere le porte delle chiese. È vero che il decreto governativo non ha imposto la chiusura fisica delle chiese, ma impedendo ogni forma di celebrazione, di fatto è come se lo avesse attuato. La decisione è stata dei vescovi e della loro responsabilità e, col tempo, potremo giudicare sulla opportunità di tale grave decisione. Il coronavirus Covid-19 ci ha imposto di rivedere tutta la nostra azione pastorale. Potete immaginare l’imbarazzo di molti sacerdoti e di moltissimi fedeli. Niente più comunioni, niente più sacramenti, tutto rinviato. È iniziata una lunga, lenta e capillare catechesi per far comprendere l’incomprensibile. Alcuni, bonari e sprovveduti, tra i sacerdoti si sono, legittimamente, chiesto: “cosa dirà la storia di noi che abbiamo chiuso le chiese e abbandonato il gregge?”. Non sono mancati i “superman mediatici” che con Madonne e Croci hanno girato per le strade delle loro città lanciando benedizioni rassicuranti, né sono venuti meno quelli che hanno colto l’occasione di aderire alla campagna di “visualizzazioni”, dei tanti “mi piace”, dei followers come nuovi seguaci telematici. Questa è l’ora degli eroi. Non dei scalatori solitari o dei facili gregari; di chi non perde tempo per mostrarsi e far parlare di sé, a caccia di tutti i contatti possibili, affinché sia risaputo il proprio impegno e ricevere lodi e onori; di chi vuole stare in prima linea a tutti i costi, senza nemmeno il minimo di preparazione e di precauzione, purché non si dica, passata la tragedia, che non c’era o peggio ancora che gli altri, quelli che sono dovuti stare in prima linea in ragione del loro ruolo e delle proprie competenze, hanno potuto fare anche meglio e di più. Questa è l’ora del vero eroismo: del seme nascosto e del lievito nella massa. Il vero eroismo l’ha dimostrato quel sacerdote, don Berardelli, che ha lasciato il suo respiratore per un giovane. Il vero eroismo l’hanno esercitato tantissimi preti e religiosi che, pur chiusi e isolati da tutto e da tutti, hanno continuato a stare vicino al proprio popolo con la celebrazione della Messa, con la preghiera silenziosa, con le piccole catechesi in video messaggio o in streaming, continuando ad infondere fiducia e speranza. Accettare, in un momento come questo, a far parte delle retrovie non è esaltante, ma è necessario. Stando nelle retrovie si ha il tempo per meditare e raccogliere le forze per l’immane lavoro di ricostruzione che verrà dopo. In questo tempo di isolamento anche noi sacerdoti abbiamo dovuto fare i conti con il coronavirus che ci ha imposto di rivedere le nostre impostazioni pastorali. Certamente, lo dico chiaramente e con piena coscienza, ci è mancato moltissimo il contatto diretto con la gente, con il popolo, in ogni sua forma d’incontro.

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La modernità ci ha imposto il criterio dell’efficientismo anche in campo pastorale: fare, costruire, inventare forme sempre più nuove e accattivanti. Siamo scivolati, con estrema facilità, nella logica della concorrenza e dell’efficienza. Strategie pastorali sempre estrose e originali, agende sempre piene di piccoli e grandi impegni. Fagocitati dall’eresia dell’attivismo, non avevamo più il tempo di stare con noi stessi e con il Signore. Non più la volontà di Dio e il magistero della Chiesa con la conseguente disciplina sono stati i caposaldi dell’essere pastori. Piuttosto l’estrosità nel dimostrarsi diversi dagli altri confratelli; l’accaparramento di consensi per dire a se stessi che si vale più degli altri; l’accomodamento pastorale per giustificazioni morali di amici e conoscenti; l’essere etichettati a secondo del gusto del momento: preti di strada, di frontiera, alla mano, alla moda, all’occorrenza, progressisti, tradizionalisti; tutto ciò ha snaturato la nostra vocazione e missione, facendoci diventare, nostro mal grado, come i “mercanti del Tempio”. L’attuale quarantena, come il grande esodo nel deserto, è stata ancora una volta la voce di Dio a chiamarci, a chiamare tutta la Chiesa: “Ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d'Egitto. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell'amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2, 16-22). In questa dura prova, abbiamo di nuovo dovuto imparare l’essenziale, a ritornare alla logica del piccolo seme nascosto nella terra e del piccolo lievito nascosto nella massa. Come il seme scompare e muore per diventare spiga e come il lievito scompare amalgamando la massa perché diventi pane fragrante, così è del nostro ministero oggi. Lasciamoci immergere totalmente nella oscurità di quest’ora buia e pesta, lasciamoci vincere dall’attuale tragedia, confessando la nostra totale impotenza, lasciamoci sopraffare dall’isolamento che ci tiene chiusi e lontani fisicamente da tutti, soprattutto dal nostro amato popolo. Le tenebre dell’epidemia non possono però spegnere la luce della nostra fede, la potenza della nostra speranza, l’ardore della nostra carità. Questa tragedia può colpire i nostri corpi ma non può ferire i nostri animi; può limitare le nostre azioni ma non può impedire il nostro amore; può fiaccare la nostra volontà ma non può spegnere il nostro desiderio; può diminuire le nostre parole ma non può incatenare la Parola; può far tenere chiuse le porte delle chiese ma non quelle dei cuori; può annullare le nostre feste ma non può cancellare il nostro incontro con il Signore. Nel tempo di quest’esodo abbiamo dovuto rivedere molte delle nostre azioni e abbiamo riscoperto le più importanti. 1. Il primato dell’ascolto. “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”. (Sal 119, 105). Veramente la Parola di Dio in questo tempo è luce che dipana le fitte tenebre della paura e dell’angoscia. Molti, in questi giorni, hanno riscoperto la bellezza, la grandezza, la verità della Parola di Dio. Anche noi, come Pietro, dobbiamo confessarlo: “Sulla tua Parola getterò le reti”. (Lc 5,4).

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2. La forza della preghiera. “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41). È l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli nel momento della sua prova, della sua agonia nel monte del Getsemani. L’apostolo Paolo, insegna: “State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1Ts 5,16-22). La preghiera del cuore è fonte di ogni vero rinnovamento. 3. Il coraggio della predicazione Annunciare il Kerigma, la buona notizia, che Dio è amore, in un tempo di grande afflizione può risultare difficile, tuttavia è quanto mai necessario. In questo momento le parole potranno anche mancare di forza, di coraggio, di denuncia, di verità, di amore, di misericordia per mancanza di volontà, per debolezza, per scoraggiamento, per viltà, per quelle situazioni della vita che lasciano senza parole. Allora che fare? Non si comunica più? Non ha più senso dire qualcosa? Non ci sarà più qualcuno disposto all’ascolto? No! Perché proprio ora viene incontro la forza e la dolcezza della Parola unica e creatrice, che rinnova ogni cosa e tutto dispone secondo un piano di salvezza, perché “Il Verbo di Dio si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Allora, come Paolo viene la forza di credere in Gesù perché “Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12,9). 4. La semplicità nella celebrazione La costrizione a celebrare la Messa senza il concorso dei fedeli è il dolore più straziante che può provare ogni sacerdote, soprattutto la Domenica, specialmente la Settimana Santa e la Pasqua. Che dolore, o Signore! Eppure, a pensarci bene, anche tu sei rimasto da solo sulla Croce. Sono queste le Messe più belle, o Signore. Liberate dalle incrostazioni delle nostre tradizioni, spogliate dalle aureole liturgico-pastorali, abbellite dai desideri di tanti cuori, che volendo ricevere l’augustissimo Sacramento dell’Eucarestia, non possono se non con il vivo desiderio, e spiritualmente, pur non sapendolo, forse perché mai sperimentato, si uniscono più profondamente a te, o Signore. Hai permesso anche questo. Forse anche tu eri stanco di tutte quelle Messe celebrate per abitudine, per le più svariate circostanze, secondo il dettame delle nostre voglie e interessi. Ci hai fatto provare il deserto per desiderare ardentemente l’acqua che ci disseta e il pane che ci alimenta. Sì solo tu, o Signore, sei la roccia da cui zampilla l’acqua viva; solo tu sei il pane che sazia perché disceso dal cielo. Ci hai voluto umiliare o Signore? Perché le nostre celebrazioni tornassero a parlare solo di te e non delle nostre usanze, avanguardie, restringimenti, accomodamenti. Ci hai fatto capire che la Messa è per il tuo popolo e non per noi stessi. Noi dobbiamo rimanere solamente dei poveri ministri, servi inutili a tempo pieno, mentre solo tu sei il centro di tutto. 5. L’essenzialità nella testimonianza

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Lo sconcerto più grande è avvenuto in conseguenza delle restrizioni imposte, al fine di contenere il diffondersi del contagio del coronavirus, per cui non abbiamo potuto più fare tutte quelle attività di catechesi, di preghiera, di incontro, di scuola, di organizzazione di piccoli e grandi eventi in ogni dimensione della pastorale. Un totale black out organizzativo. Sospensione, chissà fino a quando, di ogni attività con i ragazzi, con i giovani, con le famiglie, con i gruppi, con gli ammalati, con gli sposi, con i bambini da battezzare, con i fanciulli della prima comunione e con i ragazzi della cresima. Anche l’attività caritativa, mai sospesa, la si porta avanti con non poche difficoltà e grazie alla piena e totale collaborazione di pochi volontari. Tutto ciò impone di ripensare in modo fondamentale alla testimonianza cristiana. Ricordo, con grande emozione, il raccontò del Cardinale vietnamita Van Thuan, di santa memoria. Nel 1975 era stato fatto prigioniero dal regima dittatoriale che s’era imposto nel suo paese con un colpo di stato. Mentre veniva portato lontano dalla sua città, dentro la stiva della nave che lo conduceva in un posto sperduto delle montagne del Nord del paese, e avrebbe lì vissuto in totale isolamento per ben 9 lunghi anni, nel totale sconforto si rivolse a Dio supplicandolo. Dal profondo del suo cuore il Signore gli rispose: “Francesco chi hai scelto: Dio o le opere di Dio?”. Cioè, tutto quanto hai fatto nella tua vita è per il Signore o perché gli uomini ammirando le tue opere, compiute in nome del Signore, lodassero te? Anche oggi, mi sembra che risuoni nel mio animo la stessa domanda: chi ha scelto? Hai scelto Dio o le opere di Dio? L’essenzialità della testimonianza consiste nel far percepire chiaramente agli altri chi abbiamo scelto di servire nella nostra vita e non tanto di dimostrare ciò di cui siamo capaci servendoci di Dio stesso per ricevere plausi e applausi. La vera carità è dunque una vita totalmente sottomessa a Dio, in totale obbedienza alla sua volontà, capace di spingerci fino all’annientamento di noi stessi, perché prevalga il suo amore e non il nostro, la sua parole e non le nostre, la sua potenza e non la nostra. Come disse il Battista: “io devo diminuire e Lui crescere”. La clausura a cui ci ha costretti l’attuale pandemia ci obbliga a rivedere ciò che conta di più nella vita di ciascuno di noi, anche e soprattutto nella vita di un prete. E questo non potrà che farci bene. g. La memoria come cura dell’avvenire Tutto ciò che ci è capitato in questo tempo non può essere dimenticato. Deve essere tramandato, di generazione in generazione, come una lezione di vita. Gli antichi affermavano che Historia magistra vitae, la storia è maestra di vita. La modernità, al contrario, ci ha abituato alla memoria corta, come quella dei nostri cellulari, perché – secondo la mentalità odierna - solo il presente è vivo. Alcuni filosofi della modernità hanno preso in prestito dalla natura una pianta chiamata “rizoma” la cui caratteristica è quella di essere una radice rigonfiata, orizzontalmente occupa tutto lo spazio del terreno senza affondare le sue radici ed emergere in un fusto che porti dei frutti.

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È l’emblema dell’orizzontalità dell’uomo moderno il quale non ha più bisogno di radici, il legame con la sua storia, né ha bisogno di elevarsi verso l’alto, il desiderio del Bene. Il rizoma è un anti-albero, un’anti-radice, un’anti-struttura. Colpisce come questo virus stia imponendo la sua malefica azione verso le persone più anziane le quali, come foglie d’autunno, cadono precipitosamente. Ha sottolineato, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in alcuni paesi un’intera generazione di anziani è stata cancellata da questa epidemia e con essi una fetta di testimoni della storia di quelle comunità non c’è più. È un dato che deve fare molto riflettere. In un tempo in cui non diamo più spazio alla storia, in cui gli anziani sono sempre più meno valorizzati e relegati in spazi di riposo, arriva un virus che colpisce con ferocia proprio i nostri nonni. Fisicamente è forse inevitabile e, nostro malgrado, anche comprensibile. Tuttavia è un segno e come tale va interpretato. Alcuni hanno davvero una memoria così corta, pensano che tutto finirà presto e si tornerà alla vita di prima, alle abitudini di sempre. Ma sarà proprio così? Tornerà tutto come prima? Altri, i più attenti, sanno già che il passaggio di questo tsunami lascerà profonde tracce nel vissuto della propria quotidianità: ferite da rimarginare, legami da riannodare, lavori da ristabilire. Il mondo non sarà più lo stesso. Come sarà? Altri ancora, i più coraggiosi, sanno che devono compiere una immane opera rieducativa per riportare ordine in tutto il sistema, perché altre emergenze, più profonde e inquiete, sono dinanzi a noi sul piano sociale, economico e politico. Il ricordare e raccontare, se saremo sopravvissuti, sarà il primo inevitabile modo per ricostruire la speranza del futuro dei nostri figli, del domani del mondo. 5. Il cambiamento che ci sta dinanzi Ritorno così al punto di partenza. Il coronavirus ha dettato la legge per il cambiamento della nostra epoca? Il cambiamento che ci aspetta non è questione di “tornare indietro” o di “andare avanti”, piuttosto, a me sembra, che è questione di “andare in fondo” alle questioni. La vera e unica questione è: chi è l’uomo? Papa Francesco che ha introdotto l’immagine del “cambiamento d’epoca” nel dicembre del 2019, parlando alla Curia Romana, ha detto: “il cambiamento va compiuto a partire dal centro stesso dell’uomo, cioè una conversione antropologica”. Sì è proprio vero. L’uomo con il suo egoismo e i suoi peccati ha inquinato la terra, i mari e i cieli; ha ridotto a schiavitù popoli di antica cultura sfruttando le loro risorse a favore di pochi grandi potenti e prepotenti; ha stravolto l’ordine naturale delle leggi inventando nuovi diritti e stravolgendo millenarie concezioni di vita; ha trasformato gli aratri in missili e le falci in armi di distruzione di massa; ha annullato le diversità e manipolato il codice genetico per il proprio delirio d’onnipotenza; ha svuotato di valore le fedi e le religioni dei popoli innescando integralismi e fondamentalismi biechi e laceri; ha tolto Dio dalle sue leggi, dalle sue usanze, dai

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suoi costumi inculcando nelle menti, soprattutto dei più giovani l’inutilità delle pratiche religiose e insegnando loro lo stordimento narcotico, il sesso sfrenato e il bullismo violento. Strano che in questo momento così tragico, proprio i cantori delle estreme libertà e delle pazzie vincenti si siano arresi e nascosti. Dove sono i buontemponi, i tracotanti, i boriosi, gli immorali, gli avidi e gli impavidi, gli iracondi e guerrafondai, i terroristi e i mafiosi? È facile cantare i propri vizi nei tempi di bonaccia, difficile è mostrare le virtù in tempo di guerra! Sono sotterra, ma spunteranno come viscidi molluschi a inquinare nuovamente ogni cosa e come astuti serpenti trovare il proprio profitto e interesse. Ma il loro antico mestiere risulterà meno facile se ad aspettarli ci sarà una nuova coscienza sociale e civile. È questo il tempo in cui non si tratta più di dividersi tra chi vuole il mondo in un continuo progresso senza una meta, e chi vuole invece fermarlo per tornare indietro ad una nostalgia passata, ma morta. Bisogna andare al fondo della questione antropologica. È proprio strano, ma è così, nel momento in cui l’umanità tocca con mano il fondo, deve risalire la china per il riscatto della sua stessa vita. 6. Gli auguri non facili, ma necessari Carissimi, perdonatemi se sono stato eccessivamente lungo. Ho voluto condividere con voi questi miei pensieri, mossi non dalla paura, ma dalla speranza. Il mio augurio per voi, in questa Pasqua 2020, non sono auguri facili, ma sono auguri necessari perché la speranza della vita è più forte di ogni male e il desiderio del domani resiste nonostante questa lunga notte, che finirà, certo che finirà e non vediamo l’ora di vederci ancora una volta negli occhi e di riabbracciarci senza le mascherine. Auguri di una Pasqua santa a ciascuno di voi: nonne e nonni, padri e madri, bambini e ragazzi, giovani e adulti. Auguri a quanti combattono negli ospedali e quanti servono il Paese in ogni ambiente della vita sociale.

Ci siamo detti, sin dall’inizio “andrà tutto bene”, lo speriamo! Già possiamo intravedere quell’alba di Pasqua, che ci sta dinanzi, in cui potremo a squarcia gola gridare, tutti insieme, è andato tutto Bene. Il Signore Gesù è risorto e vive sempre con noi. Risorgeremo, risorgerà la nostra bella Italia, più forte e più unita di prima. Risorgerà il mondo intero e ognuno tornerà alla sua vita con più lena e rinnovato vigore. Risorgeremo! Vi benedico di cuore! Ugento, 3 aprile 2020

il vostro Parroco Don Stefano Ancora

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Mercoledì, 11 marzo 2020

Messaggio 11 marzo 2020

Carissimi, in questi giorni quaresimali, intendo raggiungevi con un breve pensiero che vi accompagni nel vostro cammino spirituale e vi aiuti a riflettere sul significato della Pasqua. Oggi, ci soffermiamo su questo aspetto: la Pasqua come passione. Un gruppo di Padri della Chiesa, come Melitone di Sardi, Ireneo, Ippolito, Tertulliano, collegano il termine pascha con il verbo greco páschein che significa soffrire. Il riferimento è alla passione (páthos) di Cristo. In lui, è riassunta tutta la sofferenza del mondo. La passione di Cristo è la passione dell’uomo. Leggiamo così la sofferenza che sta procurando il coronavirus. Il vangelo di Giovanni, riportando la profezia di Zaccaria, afferma: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Ecco l’esercizio spirituale da compiere in questo giorno: guarda più volte la croce di Gesù! Non fare tante considerazioni: semplicemente guarda! Anche Dio soffre! Nel dolore di Cristo riconosci la sofferenza tua e quella che tante persone vivono in questi giorni. Prega per tutti i sofferenti. Se vuoi, condividi con altri questa riflessione. Il vescovo +Vito

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Pagina A10 Venerdì, 20 Marzo 2020 Gli Esercizi spirituali in pillole (e in quarantena). Con il cellulare

LA PROPOSTA DELLA DIOCESI DI UGENTO-SANTA MARIA DI LEUCA Giorno dopo giorno entra nelle case della diocesi del “tacco d’Italia” con la sua voce e un “santino” virtuale in cui domina la croce dell’altare maggiore della Cattedrale di Ugento. Poche righe, un pensiero per accompagnare il «cammino verso la Pasqua», si legge in alto sulla pagina digitale quotidiana indirizzata alle famiglie e alle parrocchie. Il vescovo di Ugento–Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, si fa prossimo alla sua Chiesa “in quarantena” con quelli che possono sembrare Esercizi spirituali in pillole al tempo del coronavirus. Il ritiro c’è già: ognuno lo fa dovendo restare nelle proprie abitazioni da cui non è possibile uscire. E le brevi meditazioni del presule arrivano via WhatsApp o tramite Internet. «A ben vedere – spiega il vescovo – questa epidemia non solo si è manifestata nel tempo che noi cristiani chiamiamo Quaresima, ma presenta una certa analogia con il tempo quaresimale. Il termine “quarantena” deriva da quaranta giorni. Anche la Quaresima è una sorta di “quarantena spirituale”, un periodo di purificazione dell’anima dal peccato per vivere in novità di vita, un tempo di benefica “potatura” delle falsità, della mondanità, dell’indifferenza e di tutte le altre malattie mortali causate dal “virus del peccato”». Le riflessioni di Angiuli prendono spunto dai temi legati all’emergenza sanitaria. Ad esempio, il presule critica i «governi europei che, invece di fare fronte comune per debellare insieme lo stesso nemico, camminano in ordine sparso» e cita don Tonino Bello, figlio illustre di questo angolo del Salento, che «parlava dell’Europa come di “cassa comune” e non come di “casa comune” ». In un’altra meditazione, invece, il vescovo definisce «un meraviglioso spettacolo a cui stiamo assistendo in questi giorni» la mobilitazione «da parte di coloro che si stanno impegnando a contrastare il virus e a guarire i malati »: tutto ciò è «segno di grande umanità », afferma. Angiuli richiama ancora il “pastore degli ultimi” quando affronta la questione del dolore. «È giusto dire con don Tonino che la croce è “collocazione provvisoria”. E la sofferenza, anche questa del

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coronavirus, è destinata a passare ». Più volte il presule sprona alla speranza. «Non dobbiamo cedere allo scoramento – chiarisce in un suo pensiero – ma dobbiamo riscoprire le gioie semplici e quotidiane della vita. Perché la vita è fatta per la gioia». E, non potendo partecipare all’Eucaristia, esorta «a praticare la comunione spirituale, cioè a pregare e a desiderare ardentemente che Cristo dimori in ciascuno di noi». Il vescovo accenna anche a una «lezione che l’attuale epidemia ci rappresenta in modo evidente e inequivocabile »: è «l’accettazione convinta del senso del limite e il riconoscimento della connaturale fragilità della nostra umanità ». Poi sollecita: «In questo particolare momento di difficoltà dobbiamo elevare una grande preghiera al Signore. La preghiera non è fuga dalla realtà, ma sincera confidenza e fiducioso atto di abbandono in Dio».

La quaresima al tempo del COVID-19

Messaggio alla Chiesa di Ugento- S. Maria di Leuca per la quaresima 2020

Cari fratelli e sorelle, l’epidemia del coronavirus COVID-19 si è abbattuta su tutto il mondo come una tempesta di sabbia nel deserto. In alcune zone desertiche, capita che le forti raffiche di vento sollevano le particelle di sabbia facendole vibrare e rotolare sul terreno. Queste si rompono in particelle di polvere più piccole che cominciano a viaggiare in sospensione fino a diventare una tempesta che sposta enormi 24


quantità di sabbia, tanto da sembrare un muro di polvere, che può raggiungere anche un chilometro e mezzo d'altezza. Necessariamente tutto si deve fermare e attendere che la tempesta passi. Quando essa sopraggiunge, non si può fare altro se non rifugiarsi in un luogo coperto e aspettare che la tormenta si plachi e diminuisca d’intensità. Il coronavirus ha bisogno di essere decifrato nella sua composizione e nelle sue dinamiche. Gli esperti si sono attivati con molta generosità e competenza, ma sanno bene che, per conoscere adeguatamente il virus in modo da trovare l’antidoto giusto, occorrerà un congruo periodo di tempo per lo studio e la ricerca del vaccino. Per ora, non si può fare altro se non formulare ipotesi e accumulare dati scientifici che possano condurre a una completa diagnostica del fenomeno. Nel frattempo, per chi è affetto dal contagio, soprattutto nei casi più gravi, non c’è altro da fare se non entrare in “quarantena”. È la parola che sentiamo ripetere più spesso in questi giorni. Gli esperti sottolineano che, per evitare il contagio e il propagarsi dell’infezione, bisogna sottoporsi a un periodo di isolamento forzato e prendere tutte le necessarie precauzioni. Positivamente si deve registrare che non mancano casi sempre più frequenti di guarigione. Ma la soluzione tarda a venire. Occorrerà ancora altro tempo. Con il diffondersi dell’epidemia (si comincia già a parlare di pandemia) molte cose sono cambiate nelle relazioni interpersonali e nella vita sociale. Sono state decise dalle autorità alcune misure restrittive e imposti alcuni divieti. Sono state indicate norme da rispettare e comportamenti da evitare. La questione è diventata più problematica se si considera che in gioco non c’è sola la malattia, ma anche il contraccolpo sull’economia. Le due cose sono interdipendenti. Le conseguenze sul piano produttivo, industriale e commerciale si annunciano per il futuro piuttosto problematiche. Insomma, mentre ci si deve preoccupare di combattere gli effetti del virus, si deve anche programmare un piano che permetta di arginare le conseguenze negative dal punto di vista economico, occupazionale, lavorativo. A ben vedere, questa epidemia non solo si è manifestata nel tempo che noi cristiani chiamiamo “quaresima”, ma presenta una certa analogia con il tempo quaresimale. Il termine “quarantena” deriva da quaranta giorni. Anche la quaresima è un periodo di quaranta giorni, una sorta di “quarantena spirituale”, un periodo di purificazione dell’anima dal peccato per vivere in novità di vita, un tempo di benefica “potatura” delle falsità, della mondanità, dell’indifferenza e di tutte le altre “malattie mortali” causate dal “virus del peccato”. Come per i mali fisici, anche per quelli spirituali possiamo incorrere in tre atteggiamenti sbagliati. Il primo consiste nel far finta di niente, nel minimizzare la portata negativa o addirittura nel convivere con il male e il peccato, magari pensando che il virus non ci contagerà o giustificandoci sostenendo che in fondo il nostro cattivo comportamento non è peggiore di quello degli altri. Questo atteggiamento assomiglia a chi non vuole vedere ciò che è evidente e per questo chiude volontariamente la porta dall’interno, rimanendo prigioniero di se stesso e della sua pericolosa condizione. Un altro ostacolo consiste nella vergogna così forte per il male commesso da essere incapaci di confessarla. In questo caso, ci si comporta come chi ha paura di andare dal medico e di confidargli il proprio malessere. La terza insidia è quella di chi non solo non cerca di aprire il proprio cuore, ma si rintana nella propria misera condizione, rimuginandola continuamente, fino a sprofondare e a rimanere

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inabissato nel buio e nell’oscurità della propria anima. Allora, non solo non si guarisce, ma aumenta la tristezza e il disgusto della vita. Ciò che occorre, invece, è cercare di venire fuori dalla propria condizione di male e dal proprio labirinto interiore e, seguendo il “filo di Arianna”, cioè ascoltando i buoni consigli che vengono da persone esperte e dalla Parola di Dio, uscire dal tunnel e ritornare a vedere la luce del sole. Come per guarire dal contagio del virus è necessario un periodo di quarantena, così la prima cosa da fare per guarire dal peccato è ritirarsi nel deserto, in un luogo appartato per rimanere soli con se stessi e con Dio. I quaranta giorni quaresimali sono un tempo cronologico con un forte valore simbolico. Sono, infatti, un’esortazione a rivedere il proprio stile di vita e a cambiare le abitudini più dannose. Il numero quaranta richiama i quaranta giorni del diluvio universale, della permanenza di Mosè sul monte Sinai, del pellegrinaggio del popolo di Israele nel deserto prima di giungere alla terra promessa, del percorso del profeta Elia per giungere al monte Oreb, del periodo di predicazione del profeta Giona nella città di Ninive per indurre gli abitanti di quella città alla conversione. Anche Gesù digiuna quaranta giorni e quaranta notti nel deserto e, dopo la sua risurrezione, rimane ancora quaranta giorni sulla terra per istruire i suoi discepoli e inviarli nel mondo, mentre lui ascende al cielo. D’altra parte, come l’epidemia del coronavirus richiede un periodo di cure per riacquistare la salute corporale, così la quaresima è un tempo di “combattimento spirituale contro lo spirito del male” per vivere in pienezza la propria vita. La quaresima, come la quarantena, si presenta come un «tempo favorevole» (2Cor 6,2) nel quale attivare gli anticorpi necessari per vincere la difficile battaglia. Tre sono le medicine che guariscono dal pericoloso virus del peccato: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. Queste tre opere quaresimali sono intrecciate l’una nell’altra. Non si possono scindere, ma devono essere attuate insieme. Con ragione, san Pietro Crisologo afferma che «preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia è la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia» (Discorso, 43). Il coronavirus ci sta obbligando a un profondo cambiamento delle nostre abitudini. Anche la quaresima intende scuoterci dal nostro torpore spirituale e spronarci a ricuperare i valori essenziali della vita attraverso «la preghiera, quale apertura verso Dio; il digiuno, quale espressione del dominio di sé anche nel privarsi di qualcosa, nel dire “no” a se stessi; e infine l’elemosina, quale apertura “verso gli altri”» (Agostino, Enarrat. in Ps., 42, b). Digiunare vuol dire non solo astenersi dal cibo, ma anche fare verità nella propria anima. Questo, per sant’Agostino, comporta che «nessuno, con il pretesto dell'astinenza, cerchi di cambiare piaceri invece che eliminarli del tutto: come avverrebbe se uno andasse in cerca di cibi ricercati perché non mangia carne e di bevande insolite perché non beve vino. In questo caso l'occasione che ha di domare la carne si trasforma piuttosto in ricerca di piacere. Per i puri di cuore infatti tutti gli alimenti sono mondi, ma l'intemperanza li rende tutti immondi» (Discorso, 205,2).

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Il digiuno spirituale consiste nel mettere in atto una molteplicità di atteggiamenti positivi per far risplendere la bellezza della vita umana e cristiana: l’uso moderato dei mezzi di comunicazione sociale e dei social, la sobrietà nell’utilizzo delle parole, la ricerca di momenti di silenzio e di riflessione, il superamento della frenetica voglia di novità, la capacità di vivere con calma e tranquillità allentando il convulso ritmo della vita, la moderazione nel soddisfacimento dei propri desideri, l’autocontrollo nella sfrenata brama di divertimento, la sincerità e la serenità nelle relazioni interpersonali, l’equilibro e l’obiettività nei giudizi, la pacifica accoglienza della diversità delle opinioni. Tra questi atteggiamenti, la lezione che l’attuale epidemia ci rappresenta in modo evidente e inequivocabile è l’accettazione convinta del senso del limite e il riconoscimento della connaturale fragilità e finitudine della nostra umanità. L’accettazione del proprio limite aiuta a ricuperare il valore dell’elemosina, ossia dell’alterità, della solidarietà e della fraternità. Sono questi gli aspetti positivi che l’epidemia del coronavirus sta mettendo in evidenza in modo esemplare. In questi giorni, stiamo assistendo a un meraviglioso spettacolo: una splendida gara di solidarietà, di dedizione, di condivisione. Il dialogo, la disponibilità verso chi è più debole, la costruzione della fraternità sono la vera ricchezza che dobbiamo condividere e incrementare. È questa l’elemosina che bisogna offrirsi reciprocamente. «Tutti concordi, - scrive sant’Agostino - tutti fedeli coerenti, tutti, in questo pellegrinaggio, sospirando per il desiderio e ardendo per l'amore dell'unica patria. Nessuno invidi, nessuno disprezzi nell'altro un dono di Dio che lui non ha. Nei beni spirituali ritieni come tuo ciò che ami nel fratello; e lui ritenga come suo ciò che ama in te» (Discorso 205,2). La carità infatti, «copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8) perché è il regno dell’ascolto, della dedizione, della crescita spirituale, della gratuità. La carità è gioia, è slancio, è vocazione alla prossimità, è mano tesa che non smette di portare i pesi dell’altro. E, alla fine, è l’unica cosa che rimane. Sant’Agostino insegna che il digiuno e l’elemosina sono «le due ali della preghiera» (Discorso 205,3). Insieme, queste tre opere quaresimali consentono di superare le difficoltà, di aiutare chi è nel bisogno, di raggiungere il fondo della propria anima per andare, di slancio, incontro a Dio. In questo particolare momento di difficoltà che l’Italia e il mondo intero stanno attraversando, dobbiamo elevare una grande preghiera al Signore. La preghiera non è evasione, astrazione o fuga dalla realtà, ma è immersione nella storia. Non è rifugio consolatorio, ma sincera confidenza e fiducioso atto di abbandono in Dio. Come insegna Gesù nel “Padre nostro”, pregare è chiedere di essere liberati dal male, dalla paura e da ogni calamità. Allora, cari fratelli e sorelle, non stanchiamoci di elevare al Signore la nostra insistente e fiduciosa preghiera. Preghiamo per i malati e per i loro familiari. Preghiamo per i medici, gli infermieri e tutti gli operatori sanitari, perché continuino a fronteggiare questa calamità con professionalità e dedizione. Preghiamo per le autorità civili, perché sappiano prendere le giuste misure per il bene dell’intera popolazione. Esorto tutti ad attenersi alle indicazioni date e a quelle che saranno proposte in futuro per sconfiggere il coronavirus. Invito a vivere questo momento con fiducia e speranza nella convinzione che insieme potremo debellare la malattia. La quaresima, infatti, è un cammino verso la Pasqua, festa della guarigione corporale e della salvezza spirituale.

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Formulo l’augurio che la lotta contro questa epidemia si risolva positivamente e ritorni in tutti la gioia di una vita serena e fraterna. La Vergine de finibus terrae ci sostenga e ci accompagni con la sua materna protezione. Dal Palazzo Vescovile Ugento, 8 marzo 2020 Seconda Domenica di Quaresima Il vostro Vescovo + Vito

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EMERGENZA SANITARIA

10 Marzo 2020

Coronavirus Covid-19: mons. Angiuli (Ugento), “accettazione del senso del limite e riconoscimento della fragilità della nostra umanità” “Come per guarire dal contagio del virus è necessario un periodo di quarantena, così la prima cosa da fare per guarire dal peccato è ritirarsi nel deserto, in un luogo appartato per rimanere soli con se stessi e con Dio”. Lo scrive mons. Vito Angiuli, vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, nel suo messaggio alla diocesi dal titolo “La Quaresima al tempo del Covid-19”. “I quaranta giorni quaresimali sono un tempo cronologico con un forte valore simbolico. Sono, infatti, un’esortazione a rivedere il proprio stile di vita e a cambiare le abitudini più dannose”. Tre le “medicine che guariscono dal pericoloso virus del peccato” indicate dal vescovo: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. “Queste tre opere quaresimali sono intrecciate l’una nell’altra”. Riferendosi al Coronavirus, mons. Angiuli nota che “ci sta obbligando a un profondo cambiamento delle nostre abitudini”. “Anche la Quaresima intende scuoterci dal nostro torpore spirituale e spronarci a ricuperare i valori essenziali della vita attraverso ‘la preghiera, quale apertura verso Dio; il digiuno, quale espressione del dominio di sé anche nel privarsi di qualcosa, nel dire ‘no’ a se stessi; e infine l’elemosina, quale apertura ‘verso gli altri'”. Infine, la lezione che l’attuale epidemia rappresenta “in modo evidente e inequivocabile”, cioè “l’accettazione convinta del senso del limite e il riconoscimento della connaturale fragilità e finitudine della nostra umanità”. “L’accettazione del proprio limite aiuta a recuperare il valore dell’elemosina, ossia dell’alterità, della solidarietà e della fraternità. Sono questi gli aspetti positivi che l’epidemia del Coronavirus sta mettendo in evidenza in modo esemplare”. Quindi, la richiesta alla comunità diocesana di “elevare al Signore la nostra insistente e fiduciosa preghiera”. 30


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Diocesi di Ugento - Santa Maria di Leuca Curia Vescovile

AI Presbiterio e alla Comunità diocesana Carissimi, anche la nostra chiesa diocesana è invitata a condividere e a partecipare alla campagna di solidarietà promossa dall'Unione dei Comuni TERRA di Leuca per sostenere l'Azienda Ospedaliera "Card. Panico" di TRICASE, contro il Covid - 19. Aiutiamo la popolazione del Salento e oltre. Diamo un contributo volontario per rafforzare e incrementare le TERAPIE INTENSIVE del nosocomio tricasino. «L'emergenza Coronavirus sta cambiando le nostre abitudini quotidiane in maniera repentina: Il trattamento della patologia nelle forme più aggressive richiede il ricorso a sale di rianimazione terapia intensiva. Non c'è tempo da perdere! Si tratta di tutelare e salvaguardare la salute e la vita di tutti». IO RESTO A CASA. MA IL MIO CUORE VA OLTRE E DO IL MIO CONTRIBUTO . E' possibile attraverso questo link https://www.gofundme.com/f/una-lotta-quotintensivaquotcontro-il-covid19?utm_source=whatsappvisit&utm_medium=chat&utm_campaign=p_cp+share-sheet già diffuso sul gruppo presbiterio di WhatsApp, seguire le indicazioni per fare una donazione. Al momento sono state fatte 320 donazioni. (8.944 Euro raccolti su un obiettivo di 1.500.000 Euro). Nella certezza che "il Signore ama chi dona con gioia", vi saluto cordialmente! Ugento, 12 marzo 2020 Il Vicario Generale Mons. Beniamino Nuzzo

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L’EPIDEM IA

Coronavirus: Cei, a San Giuseppe in preghiera per il Paese invitando ogni famiglia, ogni fedele, ogni<br>comunità religiosa a recitare in casa il Rosario (Misteri della luce), simbolicamente uniti alla stessa ora: alle 21.00 di giovedì 19 marzo, festa di San Giuseppe, Custode della Santa Famiglia. L’EPIDEM IA

Coronavirus: Cei, a San Giuseppe in preghiera per il Paese invitando ogni famiglia, ogni fedele, ogni comunità religiosa a recitare in casa il Rosario (Misteri dellaluce), simbolicamente uniti alla stessa ora: alle 21.00 di giovedì 19 marzo, festa di San Giuseppe, Custode della Santa Famiglia.

L’EPIDEM IA

Coronavirus: Cei, a San Giuseppe in preghiera per il Paese invitando ogni famiglia, ogni fedele, ogni comunità religiosa a recitare in casa il Rosario (Misteri dellaluce), simbolicamente uniti alla stessa ora: alle 21.00 di giovedì 19 marzo, festa di San Giuseppe, Custode della Santa Famiglia.

PREGHIERA A SAN GIUSEPPE A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio, insieme con quello della tua santissima Sposa. Deh! Per quel sacro vincolo di carità, che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno, la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto soccorri ai nostri bisogni.

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Proteggi, o provvido Custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo; allontana da noi, o Padre amantissimo, la peste di errori e di vizi che ammorba il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta contro il potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità; e stendi ognora sopra ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso possiamo virtuosamente vivere, piamente morire, e conseguire l’eterna beatitudine in cielo. Amen.

Da Leuca a Bergamo, l’Italia unita nei valori cristiani Leccenew24

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Il vescovo di Ugento Vito Angiuli scrive alla comunità lombarda che affronta il dramma del contagio per garantire la vicinanza delle popolazioni del Salento.

Al tempo del coronavirus anche un saluto, o una stretta di mano ideale e a distanza acquistano un significato forte. Il vescovo della diocesi più a sud della Puglia ha

espresso il sentimento di vicinanza del popolo salentino ai vescovi di Bergamo e Brescia che rappresentano i popoli più colpiti da questa emergenza sanitaria. Il numero dei contagi e dei morti in questo territorio è il più allarmante a livello mondiale dice il vescovo di Ugento – Santa Maria di Leuca Vito Angiuli che ha inviato una lettera per esprimere la solidarietà e la preghiera della diocesi ugentina in questo drammatico momento dell’emergenza Coronavirus, che sta particolarmente provando le popolazioni della bergamasca e del bresciano. Continuiamo a stare vicini con la preghiera a questi fratelli nella fede. Pronta la risposta del Vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada che scrive: “Caro Vescovo Vito, la tua lettera è un segno di affetto per la nostra Chiesa e per me, un gesto che mi riempie di consolazione. Stiamo sostenendo una dura lotta, una grande prova. Vediamo segni meravigliosi di coraggio, generosità e dedizione e ci sentiamo molto uniti. La preghiera è il nostro rifugio. Confidiamo nella bontà del Signore che non chiede mai oltre le nostre forze. Continuate a pregare per noi è sappiate che vi siamo infinitamente grati. Un abbraccio fraterno”.

Da Bergamo al Salento, distanti ma uniti. “State a casa” e “Qui siamo stati superficiali e ora paghiamo un prezzo altissimo”: la drammatica testimonianza di una salentina che vive a Bergamo e lo scambio di messaggi tra il vicario episcopale di Ugento – Leuca e i responsabili della Pastorale Giovanile della diocesi di Bergamo Il 19 Marzo 2020

Bergamo sta diventando, suo malgrado, il simbolo della tragedia che sta devastando l’Italia, in modo particolare la

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Lombardia ed il nord dello Stivale. Di ieri sera le immagini, che tolgono il fiato, della colonna di mezzi militari che portano le salme fuori città per farle cremare. Qualche giorno fa Clarisa Patino Rizzo, originaria del Salento ma che da tanti anni vive a Bergamo, era intervenuta sul gruppo facebook del suo paese (“Sei di Castiglione d’Otranto se…”) e raccontato la sua esperienza. Una testimonianza a dir poco drammatica: “Vorrei raccontarvi cosa vuol dire non riuscire a respirare. Si, avete capito bene: non riuscire a respirare. (…) La febbre sale e venerdì mattina chiamo il medico, appena gli dico i sintomi, mi risponde che sono da tampone, ma che non mi manda in ospedale perché è peggio, è un lazzaretto, così mi dice(…). Nel pomeriggio non riesco a respirare bene e chiamo il numero d’emergenza coronavirus, spiego quello che mi succede e loro mi rispondono che devo stare a casa e di richiamare solo se ho una crisi respiratoria, non ci sono tamponi per chi ancora riesce a respirare, mi confermano la terapia del medico, 3 antibiotici al giorno, Tachipirina o Brufen, fermenti lattici e, dopo 2 giorni, uno sciroppo per la tosse”. Poi il monito che vale per tutti, anche per chi vive nel Salento e non ha ancora capito bene cosa sta veramente accadendo: “Passano i giorni, a momenti alterni non respiro bene, ma penso a tutte le ambulanze che passano ed ai morti che si moltiplicano e mi incazzo, perché vedo tanti deficienti in giro, che se la stanno cercando. Io mi sono preso sto bastardo di virus perché qualcuno asintomatico se ne andava in giro ed io, avendo un negozio, non potevo stare a casa. Quindi amici miei, cosa fate ancora in giro? Cosa non avete capito ancora?”. Facciamo nostro l’appello di Clarisa: “State a casa, state a casa. Vi auguro ogni bene, non potete immaginare cosa sia respirare, si respirare. Lo diamo per scontato, ma com’è difficile farne a meno”. Ancora Bergamo nello scambio di messaggi tra il vicario episcopale della diocesi di Ugento – S.M. di Leuca, don Beniamino Nuzzo e don Emanuele Poletti e Marcello, responsabili della Pastorale Giovanile della diocesi di Bergamo. “Li abbiamo conosciuti con i sacerdoti all’aggiornamento del clero di tre anni fa”, spiega don Beniamino che ha espresso la solidarietà e la vicinanza nella preghiera da parte della Chiesa di Ugento – Santa Maria di Leuca Nel ringraziare don Emanuele Poletti si è raccomandato: “Attenetevi scrupolosamente alle indicazioni: sono vere e soprattutto utili. Qui siamo stati superficiali e ora paghiamo un prezzo altissimo, purtroppo. Chissà che almeno ci insegni a riscoprire alcuni fondamenti!”. Gli fa eco Marcello: “Grazie don! Abbiamo bisogno di tutto il sostegno e la preghiera possibili. Soffrono le nostre comunità, così come gli ospedali. Abbiamo avuto 3-4 casi di coronavirus in curia, diversi sacerdoti nelle parrocchie ci hanno lasciato, un vero bollettino di guerra. Speriamo che la situazione possa migliorare e teniamo duro”. Giuseppe Cerfeda

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– Vescovo di Brescia – risponde al nostro

Vescovo Il nostro Vescovo Vito ha inviato una lettera ai vescovi di Bergamo e di Brescia, per esprimere la solidarietà e la preghiera della diocesi Ugentina in questo drammatico momento dell'emergenza Coronavirus che sta particolarmente provandole popolazioni della bergamasca e del bresciano. Continuiamo a stare vicini con la preghiera a questi fratelli nella fede. Allego la lettera di risposta del Vescovo di Brescia.

Caro Vescovo Vito La tua lettera è un segno di affetto per la nostra Chiesa e per me che mi riempie di consolazione. Stiamo sostenendo una dura lotta, una grande prova. Vediamo segni meravigliosi di coraggio, generosità e dedizione e ci sentiamo molto uniti. La preghiera è il nostro rifugio. Confidiamo nella bontà del Signore che non chiede mai oltre le nostre forze. Continuate a pregare per noi è sappiate che vi siamo infinitamente grati. Un abbraccio fraterno. + Pierantonio Tremolada, Vescovo di Brescia.

Giornalista Buongiorno, Eccellenza! Vescovo Buongiorno anche a voi

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Giornalista Eccellenza, partiamo dalla situazione di emergenza Coronavirus. Come va dalle vostre parti? Vescovo Diciamo che ancora il coronavirus non è arrivato in maniera forte. Siamo in un certo senso preoccupati e in allarme. Dalle immagini mandate in onda c’è, comunque una grande attenzione alle disposizioni che il Governo ha emanato e quindi c’è tanta osservanza. Tutti restano a casa, eccetto per soddisfare le necessità impellenti: lavoro, salute e approvvigionamento alimentare. I cittadini, nella maggior parte dei casi, hanno compreso che rispettare le regole significa evitare i contagi e bloccare la pandemia. Giornalista Nei giorni scorsi c’era stata in Puglia questa grande polemica dovuta al fatto che molti giovani studenti e non si erano messi sui treni, lasciando Milano e altre città del Nord, per ritornare in famiglia, con il rischio di contagiare i familiari, soprattutto quelli più fragili, come i nonni. Vescovo Sì, effettivamente questo rischio si è rivelato un grave pericolo. Ciò ha indotto il Governatore della Puglia a lanciare un appello riguardo la necessità obbligatoria di dichiarare l’avvenuto spostamento e la volontaria quarantena. Pare che la situazione sia sotto controllo, anche se i contagi da coronavirus, purtroppo, ci sono stati. Encomiabile è il grande lavoro che stanno compiendo medici, operatori sanitari, forze dell’ordine, responsabili delle varie istituzioni, protezione civile e volontari. Giornalista So che anche lei non sta facendo mancare la vicinanza della Diocesi, la cura pastorale. Vescovo Devo dire che, per certi versi, in questo tempo difficile e preoccupante, stiamo riscoprendo il valore della Quaresima. L’aspetto positivo che questo momento tragico ci sta consentendo, a livello personale, ma anche comunitario e diocesano di ricomprendere i valori della Quaresima: il silenzio, la preghiera, la riflessione, la fraternità, che si esprime attraverso il prendersi cura gli uni degli altri, e particolarmente delle persone povere, fragili e in solitudine. Giornalista Mons. Angiuli ho visto che ogni giorno lei pubblica sul sito della Diocesi un messaggio di incoraggiamento e di speranza a tutti i fedeli. Di che cosa c’è più bisogno oggi? Mi dica brevemente in sintesi, il messaggio che ha offerto oggi ai suoi fedeli.

Vescovo Ho detto che bisogna considerare insieme il dolore e la gioia. Gioia e dolore stanno insieme. Ho voluto proprio richiamare il fatto che, da una parte c’è il dolore e, dall’altra parte, c’è tanta

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gente che sui balconi cerca di cantare, per darsi forza e coraggio, per esorcizzare la paura e anche per esprimere quel desiderio di vicinanza alle persone in una maniera più allegra, più semplice, più familiare. Per cui penso che sia un momento estremamente positivo anche per noi. Nel messaggio, che quotidianamente offro, desidero far comprendere il mistero pasquale, per fondare la propria esistenza sulla morte e resurrezione di Gesù, nel duplice aspetto del dolore da una parte e del superamento dello stesso. Giornalista A proposito di questo, ormai mancano pochi giorni alla Pasqua. Come possiamo immaginarcela questa Pasqua, che sarà diversa dal solito? Il Papa ha già annunciato che i riti del triduo pasquale saranno senza concorso di popolo qui in Vaticano. Vescovo Ovviamente non solo in Vaticano, ma in tutte le Diocesi italiane le celebrazioni saranno senza il concorso del popolo. In questi giorni, la Conferenza Episcopale Italiana, sta predisponendo delle norme comuni a tutti, in maniera tale che tutta la Chiesa Italiana si muova concordemente e in piena sintonia con le disposizioni governative. Giornalista Non si interrompe però questa linea di preghiera continua che sta animando i media e i social. Noi la vediamo video collegato, sempre tecnologico Mons. Angiuli. Vescovo Ho scoperto con mia grande gioia che il breve messaggio che mando ogni giorno alla nostra Diocesi, pian piano, proprio come una catena di S. Antonio, arriva anche fuori Paese. Proprio ieri mi hanno telefonato dalla Svizzera, perché era giunto anche lì un messaggio con l’acrostico di S. Agostino sul nome greco di Adamo. Mi hanno chiesto tante spiegazioni a riguardo, sorprendendomi per l’interesse e il desiderio di conoscere. Giornalista Il messaggio di oggi, Eccellenza, lo offriamo non solo ai suoi diocesani, ma a tutta l’Italia che ci sta seguendo, perché la speranza si è un po’ spenta in queste ore. Le chiedo di offrirci parole di speranza per chiudere; ci dia questa iniezione di fiducia sul futuro. Vescovo Io vorrei semplicemente ricordare quello che ha detto Papa Francesco. Mi sembrano parole di grandissima speranza il suo invito alla preghiera, perché la preghiera è la speranza resa nella forma più bella. C’è un parallelismo bellissimo tra preghiera e speranza, a proposito del quale S. Agostino e anche S. Tommaso dicevano che “pregare è sperare, sperare e pregare”. In questa sintesi tra preghiera e speranza, credo che si collochino i due appelli del Papa. Invito, pertanto, tutti quelli che ci stanno ascoltando a unirsi alla preghiera del Papa, mercoledì e venerdì, perché quella preghiera comune rafforzerà la speranza di ognuno e sarà anche una salutare iniezione di gioia per tutti.

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AVVISO ALLA COMUNITÀ DIOCESANA DI UGENTO – S. MARIA DI LEUCA Comunico che Mercoledì prossimo, 25 marzo, Solennità dell'Annunciazione del Signore, alle ore 12.00, ci uniremo in preghiera con il nostro Vescovo Vito che, nella Chiesa Cattedrale, eleverà una preghiera di Supplica alla Beata Vergine di Leuca. Possiamo sintonizzarci sull'emittente televisiva Teleonda canale 90 che, in serata alle ore 18.30 e 21.30, trasmetterà la replica. Buona domenica! Il Vicario Generale

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Il Vescovo in Cattedrale per una preghiera alla Madonna Coronavirus, Mons. Angiuli supplicherà la Beata Vergine di Leuca: “Ci rifugiamo sotto il tuo materno manto…”. La sera in tv su Teleonda Pubblicato 23 Marzo 2020 Da Il Gallo 

Una preghiera di supplica alla Beata Vergine di Leuca “per trovare protezione e coraggio nella lotta contro un virus tanto invisibile quanto pericoloso” Il Vescovo della diocesi di Ugento – S.M. di Leuca, Mons. Vito Angiuli (foto di repertorio in alto), eleverà la sua preghiera di supplica dopodomani, mercoledì 25 marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, alle ore 12, nella Chiesa Cattedrale. Dalla Diocesi fanno sapere che “potremo pregare con il nostro Vescovo Vito” in tv, su Teleonda (canale 90 del digitale terrestre) che, in serata (alle 18,30 e alle 21,30), trasmetterà la registrazione del momento di preghiera. 

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Tutta la storia della salvezza nel “SÌ” di Gesù e di Maria Introduzione alla supplica alla Madonna di Leuca

Mons. Vito Angiuli Cari fratelli e sorelle, accogliendo l’invito rivolto da Papa Francesco, ci uniamo alla preghiera universale con tutti i cristiani del mondo, e iniziamo questa supplica con la recita del Padre Nostro. In questa solennità dell’Annunciazione del Signore, viviamo nella nostra Diocesi la supplica alla Vergine di Leuca. Il motivo per cui abbiamo scelto questo giorno risiede nel fatto che questa festa liturgica celebra il mistero dell’incarnazione del Verbo, compiuto per opera dello Spirito Santo e per la fede obbediente di Maria. La Vergine concepisce e porta in grembo il primogenito dell’umanità nuova. L’incarnazione non è una decisione improvvisa di Dio, ma un progetto di salvezza pensato dall’eternità. L’Angelo annuncia a Maria il piano di Dio adoperando le parole di due profezie: quella di Isaia ad Acaz (cfr. Is 7,10-14) e quella di Natan a Davide (cfr. 2Sam 7,1-16; 1Cr 17, 1-15). Il Verbo obbedisce al disegno di salvezza del Padre e accetta di incarnarsi e offrirsi in sacrificio pasquale per la santificazione di tutti gli uomini: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). L’incarnazione si attuta nella storia, ma è da sempre un progetto d’amore della Trinità. Tutta la storia della salvezza si sintetizza nel “SÌ” di Gesù e di Maria. Fin dal secondo secolo, questo mistero ha trovato una precisa espressione nelle formule del Credo e nell’arte cristiana. Dal settimo secolo in poi, è stato celebrato con particolare solennità il 25 marzo, nove mesi prima della nascita del Signore. Secondo la tradizione di antichi

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martirologi e di alcuni calendari medievali, in questo giorno sarebbe avvenuta la crocifissione di Gesù. Questa solennità mi permette di ricordare e di raccomandare la recita della preghiera dell’Angelus, pio esercizio in memoria del mistero dell’incarnazione e della divina maternità di Maria. Ci uniamo all’angelo Gabriele tre volte al giorno, al mattino, a mezzogiorno e alla sera per salutare la vergine Maria e glorificare il momento in cui lo stesso Figlio di Dio si compiacque di assumere la carne umana in lei. Ricordando l’Incarnazione in questi tre momenti della giornata, invochiamo Maria “soave come l’aurora” al mattino, “splendente come il sole” nel meriggio e “bella come la luna” la sera. La sublimità del mistero dell’Annunciazione ha attirato l’attenzione di grandi pittori, musicisti e poeti. Tra i pittori: Leonardo, Botticelli, Beato Angelico, Simone, Martini, Caravaggio, ed altri; tra i musicisti: Bach, Mozart, Corelli Scarlatti ecc.; tra i poeti: Alda Merini, P. P. Pasolini, R. M. Rilke. Vi suggerisco di navigare in internet per vedere i quadri, leggere le poesie, ascoltare la musica di questi grandi artisti sul mistero dell’Annunciazione. In questa supplica, volgiamo lo sguardo alla Vergine di Leuca, Signora e Madre della nostra Chiesa di Ugento - S. Maria di Leuca. Come figli fiduciosi e servi devoti, vogliamo chiedere a lei, consolatrice degli afflitti, salute degli infermi e aiuto dei cristiani di proteggere la Chiesa, l’Italia e il mondo da questo morbo maligno. Preghiamo per i morti e per i malati e coloro che li curano. Affidiamo a lei i medici, gli operatori sanitari, gli infermieri e i volontari. Le chiediamo di assistere e sostenere i nostri governanti e tutti coloro che sono impegnati a mantenere l’ordine pubblico. Ringrazio i nostri sacerdoti per l’efficace azione pastorale che stanno compiendo in questi giorni volta a mantenere viva la speranza del popolo di Dio. Incoraggio gli operatori e i volontari della caritas per il loro generoso servizio nei riguardi degli anziani e delle persone sole e in difficoltà, nel rispetto delle norme che sono state emanate. Uniamoci nella preghiera e affidiamo alla Madonna la nostra Chiesa diocesana. La Vergine de finibus terrae ci protegga e ci custodisca.

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Cari fratelli e sorelle, abbiamo ascoltato le letture che la liturgia ci propone per la prossima domenica V di Quaresima. Abbiamo voluto, in un certo senso, anticipare la celebrazione domenicale. La viviamo, però, nel contesto di questo cimitero dove i nostri fratelli defunti riposano nella pace e nella misericordia del Signore. In questo difficile momento per la pandemia del coronavirus, le due letture ci aiutano a comprendere la grande sofferenza che dilaga nel mondo. Questa sera, alle ore 18,00, il Papa presiederà in Piazza San Pietro una preghiera universale con la solenne adorazione eucaristica, la benedizione urbi et orbi. Chi si unirà, almeno con il desiderio, a questo rito liturgico potrà lucrare l’indulgenza plenaria. Ci uniremo a questa preghiera che si eleverà al Signore da tutto il mondo per chiedere la liberazione da questo male che ha colpito l’umanità. Intanto, riflettiamo sulle due letture. La prima lettura è del profeta Ezechiele. Il popolo d’Israele sta vivendo la catastrofe dell’esilio. Un’esperienza durissima. Il profeta annuncia una parola di speranza e di fiducia. Profetizza alle ossa morte e queste riacquistano la vita. È un simbolo potente che dà concretezza e pregnanza di significato alla frase che Dio dice per mezzo del profeta: «Io apro i vostri sepolcri e vi faccio uscire dalle vostre tombe» (Ez 37,1-14). La potente parola del Signore è capace di eliminare il nemico più grande della nostra vita: la morte. Pensiamo ai nostri fratelli defunti. Il Signore attesta che sono nelle sue mani. Nessun tormento le toccherà (cfr. Sap 3,13). Questa è la nostra fede nella risurrezione. La fede che il Profeta anticipa con l’altra espressione: «Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete» (Ez 37,114). Siamo deboli e fragili. Lo stiamo constatando in una maniera evidente in questo tempo. La risurrezione di Lazzaro diventa simbolo della risurrezione di Cristo e questa, non più simbolo, esprime la

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realtà che toccherà ciascuno di noi. Ripercorriamo dunque lo straordinario racconto evangelico. Gesù si ferma spesso a Betania nella casa dei suoi amici Lazzaro, Marta, Maria e Lazzaro. Betania, infatti, è poco distante da Gerusalemme. Tra di loro era nata una grande amicizia. Per questo Marta manda a dire a Gesù: «Colui che tu ami, il tuo amico, è malato» (Gv 11,3). Anche noi, in questi giorni, riceviamo notizie che qualche amico che si è ammalato. Venuto a sapere questo fatto, Gesù afferma: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio» (Gv 11,4). Di fronte all’annuncio della malattia, Gesù dichiara che sarà debellata e sconfitta. Tuttavia, in un modo per noi strano da capire, si ferma per due giorni. Noi forse saremmo andati di corsa a trovare l’amico che sta male. Gesù, invece, sembra disinteressarsi o almeno prende la cosa alla leggera. Anche noi all’inizio di questa pandemia del coronavirus l’abbiamo sottostimata. Gesù, però, non va subito dall’amico, non perché non gli interessava la sua malattia, ma semplicemente perché sapeva che doveva arrivare il momento stabilito per mostrare a tutti la gloria di Dio. Trascorsi questi due giorni, Gesù dice ai discepoli: «Lazzaro il nostro amico si è addormentato e io vado a svegliarlo» (Gv 11,11). La morte non è una catastrofe, non è l’annientamento. Per noi credenti è riposare nelle braccia della misericordia di Dio. I discepoli non capiscono. Gesù allora spiega apertamente che Lazzaro è morto (cfr. Gv 11,14). Quindi va a Betania. Marta gli va incontro e gli dice: «Signore se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21). Anche noi avremmo detto la stessa cosa. In questi giorni non diciamo forse: «Signore, ma dove sei». Gesù risponde: «Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me anche chi muore vivrà e chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11, 25). Questa frase la scriviamo nei nostri cimiteri, la stampiamo sulle tombe perché vogliamo ricordarci del suo significato. Gesù dice a Marta: «Credi tu questo?» (Gv 11,26). Ecco, cari fratelli e sorelle, la domanda che Gesù, in questo tempo di grande dolore, ci rivolge. Ascoltiamo continuamente il numero dei morti che giorno per giorno ci viene consegnato e magari dentro di noi sorgono sentimenti di paura, sgomento e smarrimento. Tutto questo è comprensibile. Tuttavia, quando sentite queste notizie, fate risuonare dentro di voi questa frase: «Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me, anche se è morto vivrà» (Gv 11,25). Poi ascoltate la domanda che Gesù rivolge a Marta. È rivolta a noi, a ciascuno di noi. Marta risponde: «Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, che deve venire in questo mondo» (Gv 11,27). Questa è la risposta che dobbiamo dare anche noi. Si susseguono dolore, sofferenza, tristezza. Tanti nostri fratelli muoiono senza avere accanto la consolazione dei familiari. E’ una morte dolorosissima. Quando sentiamo queste notizie ricordiamo le parole di Gesù e alla sua domanda rispondiamo con le stesse parole di Marta.

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Il racconto continua. Gesù che va al sepolcro. La tomba è chiusa e sigillata. Sono passati quattro giorni. La gente piange e le sorelle di Lazzaro sono addolorate e in pianto. Accade così per noi, quando andiamo alla casa di una persona defunta dove troviamo i parenti e i familiari in lacrime. Anche Gesù si commuove e piange (cfr. Gv 11,33). Il pianto di Cristo mostra che Dio non è impassibile, non se sta in cielo per conto suo, non ci guarda da lontano come persone che non gli interessano. Gesù sta con noi e piange insieme a noi. Di solito quando capita un funerale, si mette un’immagine della Madonna o di Gesù a indicare la vicinanza di Cristo e di Maria. Gesù sta con noi. È un uomo. Ha sentimenti umani. Il suo cuore si commuove. È un Dio che si commuove e piange. Ma anche asciuga le lacrime. La sua non è soltanto compassione e partecipazione al dolore, ma è potenza che consola e fa rinascere a nuova vita. Prima prega il Padre. Cristo è sempre in preghiera e in unità con Dio Padre. A lui rivolge questa bellissima preghiera: «So che sempre mi dai ascolto» (Gv 11,41). Gesù interiormente aveva pregato il Padre perché Lazzaro risorgesse. Il Padre lo aveva rassicurato con la sua approvazione. Gesù ringrazia il Padre. Anche noi abbiamo recitato il Padre nostro qualche giorno fa insieme al Papa. La nostra non è una preghiera a un Dio ignoto, ma a Dio Padre. Gesù ci ha insegnato a riconoscere che la sua paternità. Dio è Padre suo e Padre nostro, Dio suo e Dio nostro. Un Padre non insensibile alle invocazioni dei suoi figli. Naturalmente bisogna invocarlo con la fede e con insistenza. Dobbiamo pregare di più. Non soltanto nei momenti di sofferenza. Ogni giorno dobbiamo riconoscere la paternità di Dio e ringraziarlo dei suoi doni. Rafforzato dalla testimonianza del Padre, Gesù si avvicina alla tomba di Lazzaro. La pietra era stata ribaltata. La tomba era stata aperta. E, senza aver paura del morto, anche se era in stato di decomposizione, grida a gran voce: «Lazzaro vieni fuori» (Gv 11,43). Basta questa parola. Al comando di Gesù, il morto viene fuori con le bende. Gesù ordina: «Scioglietelo e lasciatelo andare» (Gv 11, 44). Non si tratta solo delle bende di lino, ma delle catene della morte. Lazzaro ritorna alla vita. Non solo risorge, ma è un uomo liberato e libero. C’è una differenza tra la risurrezione di Lazzaro e quella di Gesù. Lazzaro morirà nuovamente. Gesù risorge per sempre. Sconfigge la morte definitivamente per lui e per noi. Certo moriremo, ma legati a lui per mezzo del battesimo, parteciperemo alla sua resurrezione. Il racconto si conclude con la professione di fede dei molti che erano presenti (cfr. Gv 11, 45), simbolo di tutti coloro che nei secoli crederanno in Cristo. E tra questi, anche noi che crediamo che la sua risurrezione è la forza della vita.

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Vescovi in preghiera nei cimiteri per ricordare le vittime del Coronavirus ed i fratelli andati via senza nemmeno un funerale Di Amleto Abbate -27 Mar 2020

Nardò – Ugento – Cerimonie semplici ma quanto mai toccanti quelle di stamattina nei cimiteri di Nardò e Ugento per il “Venerdì della misericordia” con i vescovi delle rispettive diocesi. Il pensiero è andato alle vittime della pandemia in corso e a quanti sono deceduti in questo periodo che impedisce anche la celebrazione dei funerali. A Nardò insieme a mons. Fernando Filograna presenti anche il sindaco Giuseppe Mellone ed una rappresentanza di sacerdoti neretini, tra cui il parroco della cattedrale e vicario generale della diocesi mons. Giuliano Santantonio (di Racale). Dopo aver sostato in preghiera, il vescovo ha rivolto un pensiero di solidarietà a quanti sono stati colpiti dal lutto a causa della pandemia da Coronavirus, ma anche di gratitudine verso medici e operatori sanitari, forze dell’ordine, pubbliche istituzioni sacerdoti e volontari esposti in prima persona nell’assistenza, ricordando anche il patrono San Gregorio.

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La benedizione nel cimitero di Ugento Una Messa (trasmessa in diretta televisiva sul canale 90 del digitale terrestre) è stata, invece, celebrata nel cimitero di Ugento da mons. Vito Angiuli, presente solo il parroco della cattedrale, don Rocco Frisullo. «È un momento di grande sofferenza per tutto il mondo. Questa sera ci uniremo con la preghiera del Papa per chiedere al Signore la liberazione da questo male che ha colpito l’umanità», ha affermato Angiuli ricordando la parola del profeta Ezechiele, “il quale immagina che le ossa morte riacquistino vita: è un simbolo naturalmente, ma l’immagine straordinaria, in questo luogo, acquista tutta la sua concretezza e la sua pregnanza e consolatoria diventa la frase che Dio dice al profeta: “io apro i vostri sepolcri e vi faccio uscire dalle vostre tombe”. «Siamo deboli, siamo fragili. Lo stiamo constatando in una maniera così evidente in questo tempo. Tutta la nostra realtà umana si fonda sulla debolezza umana. Sarà il cammino di Cristo, prima nella passione, nella morte e poi nella resurrezione. La resurrezione di Lazzaro diventa, come dire, un simbolo, un simbolo della resurrezione di Cristo e la resurrezione di Cristo non è più un simbolo, ma una realtà che toccherà ciascuno di noi», ha concluso il vescovo di Ugento – S. Maria di Leuca.

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Vito Angiuli Vescovo di Ugento – S. Maria di Leuca Prot. N. 11 /2020

NOTIFICAZIONE al Presbiterio e alla Comunità Diocesana Cari sacerdoti, cari fratelli e sorelle, vi invio questa Notificazione sulle celebrazioni della Settimana Santa, che conferma le precedenti ed ha valore fino al 12 aprile 2020.

Nello scorrere del tempo, la Chiesa celebra il Triduo Pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, culmine di tutto l’anno liturgico, e illumina il senso della nostra vita cristiana. Tutti i giorni della Settimana Santa, dai primi Vespri della domenica della Passione fino ai secondi Vespri di Pasqua, pur con un’intensità diversa, hanno un innegabile carattere fondamentale nella dinamica dell'anno liturgico. Le celebrazioni del Triduo pasquale

Il mistero della Croce è il cuore della celebrazione della Passione del Venerdì Santo. La Chiesa con la meditazione della Passione del suo Signore e sposo e con l’adorazione della Croce commemora la sua origine dal fianco di Cristo crocifisso e intercede per la salvezza di tutto il mondo. Il mistero del Sepolcro caratterizza l’ufficio di preghiera del Sabato santo. La Chiesa sosta presso il sepolcro del Signore, meditando la sua passione e morte, la discesa agli inferi, attendendo, nella preghiera e nel digiuno, la sua risurrezione. Il mistero del sepolcro vuoto è l’oggetto della celebrazione della Veglia pasquale, che si protrae con particolari accentuazioni fino all’intera Domenica di risurrezione. Nella veglia notturna la Chiesa rimane in attesa della risurrezione del Signore e la celebra con i sacramenti dell’iniziazione cristiana.

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Queste celebrazioni sono introdotte, a mo’ di prologo, dalla Messa nella Cena del Signore del Giovedì santo. La Chiesa dando inizio al Triduo pasquale ha cura di far memoria di quell’ultima cena in cui il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, offrì a Dio Padre il suo Corpo e il suo Sangue, sotto le specie del pane e del vino, e li diede agli apostoli in nutrimento, comandando ai loro successori nel sacerdozio di perpetuarne l’offerta in Sua memoria.

Orientamenti per la Settimana Santa

Mercoledì 25 marzo, il Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede ha pubblicato un Decreto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, con cui aggiorna – “su mandato del Santo Padre” – le indicazioni generali e i suggerimenti già offerti in un precedente Decreto dello scorso 19 marzo. Il testo della Santa Sede disciplina le celebrazioni della Settimana Santa, dando disposizioni specifiche per i Paesi colpiti dall’emergenza sanitaria. Dopo aver chiarito che – nonostante la pandemia – la data della Pasqua non può essere rinviata, indica i criteri con cui celebrarla. Alla luce delle misure restrittive in atto, che riguardano gli assembramenti e i movimenti delle persone, e del Decreto della Congregazione, ribadito anche dalla CEI, STABILISCO

quanto segue: - si eviti la concelebrazione e si celebrino tutti i riti della Settimana Santa senza concorso di popolo. Dove sono presenti altri sacerdoti (vice parroco ed altri) possono unirsi alla celebrazione; - le celebrazioni avvengano sempre senza concorso di popolo. Tuttavia, accanto al celebrante può prendere parte un diacono, chi serve all’altare, un lettore, un cantore, un organista ed, eventualmente, due operatori per la trasmissione. Si ribadisce l’obbligo di rispettare le misure sanitarie, a partire dalla distanza fisica. Il parroco rilasci, a ciascuno dei ministri indicati, una certificazione utile per comprovare il servizio che egli svolge nella celebrazione: con giorno, ora e luogo della celebrazione; - i parroci invitino i fedeli a unirsi alla preghiera nelle proprie abitazioni, anche grazie alla trasmissione in diretta dei vari momenti celebrativi e alla valorizzazione di sussidi curati per la preghiera familiare e personale. I media della CEI - a partire da Tv2000 e dal Circuito radiofonico InBlu - copriranno tutte le celebrazioni presiedute dal Santo Padre; il sito https://chiciseparera.chiesacattolica.it/ è un possibile riferimento anche per la sussidiazione; - a livello diocesano, le celebrazioni presiedute da Sua Ecc.za, Mons. Vito Angiuli, saranno trasmesse in diretta su Canale 90. Si allega a questa Notificazione, la locandina degli orari. Saranno disponibili i sussidi informatici necessari per seguire le varie celebrazioni;

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- le altre espressioni della pietà popolare e le processioni saranno trasferite a una data conveniente, che sarà indicata successivamente; - tutte le celebrazioni avvengono solo in Cattedrale, nelle Chiese parrocchiali e nel Monastero di Alessano. Sono escluse le chiese confraternali e le rettorie. Note per i singoli giorni - Domenica delle Palme. In cattedrale, il Vescovo celebra come stabilito dalla seconda forma prevista dal Messale Romano, con una processione all’interno della chiesa con rami d’ulivo o di palma. Nelle Chiese parrocchiali la celebrazione avvenga in forma semplice, recitando l’antifona di ingresso, senza la lettura del Vangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, la benedizione e la processione (cfr. terza forma del Messale Romano). - Messa crismale. La celebrazione è trasferita ad altra data che verrà comunicata a suo tempo. Si ricorda che, in caso di vera necessità, se viene a mancare l’olio degli infermi benedetto nel precedente anno liturgico, ogni presbitero, quando amministra il sacramento, può benedire l’olio per l’Unzione degli infermi (cfr. Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Introduzione, n, 21 e 77bis). - Giovedì Santo. In via eccezionale, la celebrazione avverrà senza il concorso di popolo. Sono omesse la lavanda dei piedi e la processione al termine della celebrazione. Il Santissimo viene riposto nel Tabernacolo nel modo consueto. Sono abolite tutte le altre forme di pietà. - Venerdì Santo. L’atto di adorazione alla Croce, mediante il bacio, è limitato solo al celebrante. I parroci ricordino a tutti il digiuno e l’astinenza, segno di penitenza e di unione alla passione del Signore; suggeriscano di leggere a casa la passione secondo il vangelo di Giovanni e di trattenersi in preghiera davanti al Crocifisso chiedendo perdono per i peccati, unendo la propria sofferenza e quella di tutti gli uomini alla passione di Cristo. La Conferenza Episcopale Italiana ha inviato la seguente formulazione della X intenzione. Pertanto si sostituisca quella del Messale con la seguente: X. Per i tribolati Preghiamo, fratelli carissimi, Dio Padre onnipotente, perché liberi il mondo dalle sofferenze del tempo presente: allontani la pandemia, scacci la fame, doni la pace, estingua l’odio e la violenza, conceda salute agli ammalati, forza e sostegno agli operatori sanitari, speranza e conforto alle famiglie, salvezza eterna a coloro che sono morti.

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Preghiera in silenzio; poi il sacerdote dice: Dio onnipotente ed eterno, conforto di chi è nel dolore, sostegno dei tribolati, ascolta il grido dell’umanità sofferente: salvaci dalle angustie presenti e donaci di sentirci uniti a Cristo, medico dei corpi e delle anime, per sperimentare la consolazione promessa agli afflitti. Per Cristo nostro Signore. - Sabato santo. I parroci esortino i fedeli a continuare il digiuno e l’astinenza e a vivere in maniera del tutto speciale il silenzio, proprio di questo giorno santo. Si invitino i fedeli a pregare per i defunti a causa del Coronavirus e per la consolazione di quanti hanno perso le persone care. - Veglia pasquale. Si ometta l’accensione e la benedizione del fuoco. Si accenda il cero e, omessa la processione, si canti il Preconio pasquale. Si rinviino i battesimi e si mantenga soltanto il rinnovo delle promesse battesimali. - Pasqua. Si celebri una sola Messa, “per il popolo”, ma senza il popolo. Il suono delle campane a distesa, annunci la celebrazione a porte chiuse. I parroci suggeriscano ai fedeli di recitare al mattino la Professione di fede (Credo) in ricordo del battesimo e il canto dell’alleluia. Prima del pranzo la famiglia sia invitata a pregare e a benedire la mensa pasquale con la recita del Padre nostro. Nel pomeriggio i parroci suggeriscano di leggere a casa il racconto dei due discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35). - I parroci rendano noti ai fedeli gli orari delle celebrazioni, così che nelle famiglie ci si possa collegare o, comunque, unire in preghiera. Invitino i fedeli a pregare personalmente e in famiglia, meditando le letture bibliche dei giorni della Settimana santa e seguendo sui mezzi di comunicazione sociale le varie celebrazioni. Le chiese rimangano chiuse. - Si ricordi, inoltre, ai fedeli, che l’atto di dolore perfetto, accompagnato dall’intenzione di ricevere il sacramento della Penitenza, da se stesso comporta immediatamente la riconciliazione con Dio. Se si verifica l’impossibilità di accostarsi al sacramento della Penitenza, anche il “votum sacramenti”, ovvero, anche il solo desiderio di ricevere a suo tempo l’assoluzione sacramentale, accompagnata da una preghiera di pentimento (il “Confesso a Dio onnipotente”, l’Atto di dolore, l’invocazione “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di me”) comporta il perdono dei peccati, anche gravi, commessi. (cfr. Concilio di Trento, Sess. XIV, Doctrina de Sacramento Pænitentiæ, 4 [DH 1677]; Congregazione per la Dottrina delle Fede, Nota del 25 novembre 1989; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1451-1452).

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- Si ponga attenzione alle necessità dei poveri, degli anziani, delle persone sole e di quanti hanno bisogno di qualsiasi genere di aiuto. In accordo con la Caritas diocesana, ed eventualmente in unità di intenti con i Sindaci e i Comuni, si attivino tutte le iniziative necessarie per venire incontro a tutti coloro che sono nel bisogno. Tutto si svolga secondo le disposizioni governative per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica. Il Signore Gesù, che con la sua croce ha redento il mondo e con la sua risurrezione ci ha ridato la vita, effonda sulle nostre Chiese abbondanza di luce, forza e consolazione. In comunione di affetto e di preghiera invoco la potente intercessione della Vergine “de finibus terrae” e dei Santi Patroni Vincenzo, Cosma e Damiano e Rocco.

Dalla residenza del Palazzo Vescovile. Ugento, 29 marzo 2020. Vi benedico di cuore!

Messaggio di padre Gino

Ciao a te padre Spero tu stia bene e ti auguro ogni bene. Di fronte a questa situazione a causa del virus Corona nel mondo e in particolare in Italia (molto toccato), vorrei rassicurarvi delle nostre umili preghiere e delle nostre preoccupazioni. Possa il Signore avere misericordia del nostro mondo e dell'Italia in particolare, e possa permetterci che

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qualsiasi sforzo fisico, scientifico o spirituale contribuisca notevolmente all'eradicazione di questa malattia e delle sue conseguenze ... Unione di preghiera David Marie Blanchard Ndong Ogono

Tra lettura, riflessione e preghiera in un sabato di Quaresima al tempo del coronavirus Andrea Antonio Ciardo Anche oggi una giornata di solitudine e di silenzio. Anche se mia moglie oggi è a casa. E’ una benedizione. Dopo una lunghissima giornata trascorsa in ospedale. Grazie a Dio…TUTTO BENE. Ed oggi riflettevo che dopo duemila anni di buona-novella, in piena pandemia, come impieghiamo il nostro tempo noi cristiani? Riaprendo le vecchie macellerie, quelle che Cristo, a più riprese, definì illegali, diaboliche, maledette per l'anima. Tutte supportate da rivelazioni private che, guarda caso, diventano pubbliche a giochi-fatti. “Vedete: la Madonna aveva detto che sarebbe successo questo tre mesi fa!” Però, lo dice adesso, incidendo sulla tastiera le visioni a-domicilio. “Dio mi ha detto di dirti di pregare per placare la sua rabbia”, leggo in qualche post che mi giunge dai diversi gruppi con i quali interagisco. E chi lo fa, lo scrive a toni forti e convinti: non convincenti. Il Dio cristiano, il mio Dio di Abramo, di Isacco e di Gesù Cristo, è davvero un macellaio che, mentre il popolo langue, si diverte ad infettare il mondo per vincere la sua solitudine? A che cosa è valsa, dunque, l'avventura di quell'Uomo che, dal silenzio di Nazareth, è partito, con nulla addosso eccetto la sua voglia di Redenzione, per conquistare i cuori? Una pandemia, a sentire questi “amici illuminati e più cristiani degli altri”, è la campanella che Dio suona per dire: “Adesso voi finite, che inizio io a divertirmi!” Scusate, di un Dio così non solo non so che farmene, ma ve lo lascio volentieri: un Dio irrazionale, non solo diabolico. «Io vi dico che se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo» (cfr Lc 13,1-9). Dunque? La pornografia del Male tiene in ostaggio il mondo, anche una porzione di mondo "cristiano", in questi giorni pestiferi, pestilenti, pestilenziali.

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Ha ragione Emile Cioran a scrivere che «all'interno di ogni desiderio lottano un monaco e un macellaio». Leggere questa situazione come castigo di Dio è firmare un'autocertificazione per dichiararsi fuori dalla Grazia di Dio, letteralmente. “Sei fuori dalla grazia di Dio!” diciamo di qualcuno che parla a sproposito, con parole a vanvera. E' la Grazia di Dio, infatti, ad offrire parole giuste in tempi apparentemente ingiusti: «Dio si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Può, dunque, il Dio che sposa l'umanità volerla poi distruggere infettandola di male? “La Chiesa dov'è in questi giorni?” grida, a sproposito, qualcuno. Non la vedete? Togliete le eccezioni – c'è sempre qualcuno che scambierà il lutto-cittadino della Via Crucis con un bambinesco “Tana libera tutti!” - e guardate cosa stanno facendo i preti: stanno pregando. “Con tutto quello che c'è da fare, sono barricati in Chiesa!”, dicono in tanti. Sono barricati in Chiesa per un semplice motivo: sanno che il Dio cristiano non è un Dio che condivide il dolore e la morte, è un Dio che libera dal dolore e dalla morte. La differenza è un abisso: se lo condividesse e basta, sarebbe un Uomo altruista come tanti. Invece l'Uomo in causa è anche Dio: se non ci liberasse dal dolore e dalla morte, non sarebbe più Dio. In questi giorni vedo mia moglie e i suoi colleghi in ospedale, vedo i miei colleghi che operano nelle strutture sanitarie territoriali: mettono a disposizione ingegno, professionalità, cuore-straordinario per operare, curare, guarire la gente, servire i Cittadini. Hanno segni sul volto, sguardo sofferto, la preoccupazione di chi staziona alla frontiera. È la cura orizzontale del virus. Quella verticale non la vanifica affatto, la potenzia, completandola: «Ho chiesto al Signore di fermare l'epidemia: “Signore, fermala con la tua mano. Ho pregato per questo» ha confidato PAPA FRANCESCO dopo la sua visita a san Marcellino al Corso. “Fermala!” non è affatto dire “Smettila di divertirti!” E' l'opposto, è dire: “Solo tu puoi riscattare il Male, noi possiamo condividerlo tra noi, sostenerci a vicenda, curarci. Ma non basta!” È tantissimo, ma solo Dio, con un intervento potente, può caricarsi di tutto il male e annullarlo. È Dio. La Chiesa, inserita nel tempo, opera: si adopra, si mette all'opera. Come fa ogni giorno il MIO VESCOVO, MONS. VITO ANGIULI, suggerendo atteggiamenti di solidarietà dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno. PAPA FRANCESCO e il VESCOVO ANGIULI ci stanno dicendo che la Chiesa è nata per essere il presidio di Dio quaggiù, il luogo dentro il quale l'uomo possa gridare a Dio: “Intervieni tu, fai presto!” Non è un'accusa blasfema di divertimento, distrazione. È una supplica devotissima: “Da soli, non ce la facciamo!” Non che Dio non se ne accorga, sia chiaro: è che, certe volte, attende d'essere invocato, per non apparire un despota. Non è da Lui mettersi-in-mostra, fare l'invadente: soffre, in attesa d'una chiamata, per riscattare tutto il male. Per riscattare, non per condividere: quello l'ha già fatto per trent'anni e passa. “È un macellaio!” bisbiglia Lucifero. Dice così perché è un animale da macello Lucifero. Tricase, 21 marzo 2020

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Perdono senza sacerdote? Il Papa ricorda come riceverlo Persone in fin di vita senza cappellani, famiglie chiuse in casa e impossibilitate a raggiungere il prete a causa dell'emergenza Covid-19: nell’omelia a Santa Marta Francesco cita il Catechismo e la “contrizione” che rimette i peccati in attesa di andare a confessarsi VATICAN NEWS La salus animarum, la salvezza delle anime, è la legge suprema della Chiesa, il criterio interpretativo fondamentale per determinare ciò che è giusto. È per questo che la Chiesa cerca sempre, in ogni modo, di offrire la possibilità di riconciliarsi con Dio a tutti coloro che lo desiderano, che sono in ricerca, in attesa o che comunque si rendono conto della loro condizione

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e avvertono il bisogno di essere accolti, amati, perdonati. In questi tempi di emergenza a causa della pandemia, con le persone gravemente ammalate e isolate nei reparti di terapia intensiva, come pure per le famiglie alle quali viene chiesto di rimanere in casa per evitare il diffondersi del contagio, è utile far tornare alla memoria a tutti la ricchezza della tradizione. Lo ha fatto Francesco durante l’omelia della Messa a Santa Marta di venerdì 20 marzo.

20/03/2020

Il Papa prega per i medici e gli operatori sanitari che stanno dando la vita «Io so che tanti di voi, per Pasqua - ha detto il Papa andate a fare la confessione per ritrovarvi con Dio. Ma, tanti mi diranno oggi: “Ma, padre, dove posso trovare un sacerdote, un confessore, perché non si può uscire da casa? E io voglio fare la pace con il Signore, io voglio che Lui mi abbracci, che il mio papà mi abbracci… Come posso fare se non trovo sacerdoti?” Tu fai quello che dice il Catechismo». «È molto chiaro: se tu non trovi un sacerdote per confessarti - ha spiegato il Pontefice - parla con Dio, è tuo Padre, e digli la verità: “Signore ho combinato questo, questo, questo… Scusami”, e chiedigli perdono con tutto il cuore, con l’Atto di Dolore e promettigli: “Dopo mi confesserò, ma perdonami adesso”. E subito, tornerai alla grazia di Dio. Tu stesso puoi avvicinarti, come ci insegna il Catechismo, al perdono di Dio senza avere alla mano un sacerdote. Pensate voi: è il momento! E questo è il momento giusto, il momento opportuno. Un Atto di Dolore ben fatto, e così la nostra anima diventerà bianca come la neve». Papa Francesco si riferisce ai numeri 1451 e 1452 del Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato da san Giovanni Paolo II e redatto sotto la guida dell’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. A proposito della “contrizione”, il Catechismo, citando il Concilio di Trento, insegna che tra gli atti del penitente «occupa il primo posto. Essa è “il dolore dell'animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire”». «Quando proviene dall'amore di Dio amato sopra ogni cosa - continua il Catechismo - la contrizione è detta “perfetta” (contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale». Dunque, in attesa di poter ricevere 61


l’assoluzione da un sacerdote non appena le circostanze lo permetteranno, è possibile con questo atto essere subito perdonati. Anche questo era già affermato dal Concilio di Trento, nel capitolo 4 della Doctrina de sacramento Paenitentiae, dove si afferma che la contrizione accompagnata dal proposito di confessarsi «riconcilia l'uomo con Dio, già prima che questo sacramento realmente sia ricevuto». Una via per la misericordia di Dio aperta a tutti, che appartiene alla tradizione della Chiesa e che può essere utile a chiunque e in maniera speciale a quanti in questo momento sono vicini ai malati nelle case e negli ospedali.

Questa carne divina è la mia carne* Cari fratelli e sorelle, all’inizio di un nuovo anno siamo soliti cercare di interpretare i segni del futuro. Lo fanno i sociologi, gli analisti, i giornalisti. Tutti ci auguriamo che i nostri desideri si realizzino veramente nella nostra vita. La liturgia ci indica un’altra prospettiva: Dio ci dona il suo figlio Gesù, il principe della pace, e lo fa attraverso la maternità di Maria. Divo Barsotti afferma: «L’aspetto straordinario non è solo che una creatura chiami Dio “Figlio”, ma che il creatore chiami una creatura “Madre”». Questo mistero diventa per noi il segno della benedizione divina. Siamo così invitati guardare all’anno nuovo con gli occhi di Maria. Dio è venuto nel mondo attraverso di lei e lei, la Madre di Dio, ha guardato il Figlio con stupore e con meraviglia. Anche noi dobbiamo guardare Gesù e il mondo con gli occhi di questa Madre. *

Omelia nella Messa della Madre di Dio, Cattedrale, Ugento 1 gennaio 2020.

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La solennità di Maria, Madre di Dio, celebra e confessa il mistero della Theotókos , di “colei che partorisce Dio”, della “Deipara” secondo il corrispondente termine latino. Questo primo dogma mariano, definito dai Padri nel Concilio di Efeso (431), è intimamente legato alla divinità del Figlio e al mistero della sua incarnazione nel grembo verginale di Maria. I due aspetti si rapportano vicendevolmente. «Il figlio che matura in Maria - scrive Massimo Cacciari è il Figlio. La sua relazione con lui definisce la relazione con il divino; questa madre e questo figlio insieme decidono dell’intera relazione col divino propria dell’Evo che la loro immagine inaugura»1. L’importanza di fare riferimento a questa prospettiva mariana risiede nel fatto che, in lei, la divina maternità si è manifestata nella sua umanità, come in Gesù si è realizzato il meraviglioso scambio tra la divinità e l’umanità. Dalla maternità divina di Maria deriva un’altra consolante verità: la sua maternità spirituale, già implicita nel suo sì all’annunciazione e ratificata da Gesù in croce con il solenne atto di affidamento del discepolo prediletto: «Donna, ecco il tuo figlio!» (Gv 19,26) e di lei al discepolo: «Ecco la tua madre!» (Gv 19,27). La maternità spirituale di Maria si estende a tutti i redenti. Per dirla con le parole di san Pio X: «Tutti noi che siamo uniti a Cristo […] dobbiamo considerarci usciti dal grembo della Vergine come un corpo attaccato alla sua testa. Per questo in verità noi siamo chiamati, in un senso spirituale e tutto mistico, i figli di Maria ed ella, per parte sua, è madre di noi tutti»2. L’icona della maternità divina è un’immagine piena di mistero e di riservatezza. Così la tramanda la tradizione iconografia bizantina e la raffigurazione latina. Il mistero è così attraente che anche un “cattivo maestro“, come il filosofo francese Jean Paul Sartre, nel Natale del 1940, mentre era prigioniero dei tedeschi a Treviri, durante la seconda guerra mondiale, non ha resistito da dedicare una pagina, bella come poche, al travaglio umano di Maria di fronte a quel Dio che in lei si fa uomo. Questo è il testo sartriano: «La vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio, lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: Dio è là! E si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino che mette paura. Poiché tutte le madri sono così attratte davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino che si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, poiché egli è Dio ed oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio. Lo guarda e pensa: questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei

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M. Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, Bologna 2018, p. 99. Pio X, Ad diem illum laetissimum, Lettera enciclica, Roma, 2 febbraio 1904

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sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive »3. In Maria, la maternità di tutte le donne si mostra come vita, fecondità e generatività 4. Come lei, ogni madre è apertura, istinto, calore, nutrimento, liquido caldo e profumato che prima avvolge e poi nutre di sostanza e d’affetto; è disponibilità, spazio, contenimento, elasticità e flessibilità, rifugio sicuro, trampolino verso la vita a cui fare ritorno in caso di difficoltà; base sicura dalla quale sperimentare, già nel grembo e ancora prima di nascere, l’affettività e la relazione con l’altro. È capacità d’amare d’istinto, sentimento che non è un’entità astratta, ma è connaturale ed essenziale all’essere donna. La maternità di Maria fa rima con la sua semplicità e umiltà. Nella nostra società, invece, le madri sono troppo spesso addestrate a delegare all’esterno il loro ruolo: esperti, giornali, libri, corsi che le indottrinano senza ascoltarle e sostenerle nella propria individualità. Maternità è anche fiducia nelle proprie sensazioni, ascolto di sé, sensibilità, libertà di movimento per sintonizzarsi meglio su di sé e sul bambino, e poi aprirsi insieme al mondo ed alla vita. Non c’è che da augurarsi che si faccia strada nel nostro mondo una sensibilità materna simile a quella della vergine Maria. «Uniti nella carne - scrive Massimo Cacciari - essi esprimono insieme lo svuotarsi del divino, in quanto estrema insuperabile rivelazione della sua stessa essenza. E nei loro tratti, allora, dovranno simbolizzarsi kenosi, humilitas, malinconia perfino, coscienza del proprio essere invincibili nella stessa pena e del valore escatologico del proprio terreno apparire»5. In questa prospettiva, I nostri auguri non devono esprimere solo aspirazioni, sentimenti, auspici, ma devono guardare Dio e il mondo con gli occhi materni di Maria. Ella ha guardato Gesù con affetto, amore e passione. Lo ha guardato come il Figlio che le appartiene, come la creatura che lei ha generato. Anche nel momento in cui Cristo è stato ripudiato e ucciso, sua Madre lo ha seguito fin sotto la croce ed è rimasta imperterrita a soffrire con lui. Ha continuato ad amare il Figlio e si è affidata a Dio. È stata capace di guardare dentro il mistero del male, e ha continuato a scorgere l’opera salvifica del Figlio. Maria insegna alle donne che la maternità è sempre fiducia, libertà, apertura al mondo, a ciò che accadrà in futuro, consapevolezza che Dio don abbandona e non lascia mai soli. Sotto la croce, ella ha espresso la più profonda professione di fede: mentre vedeva morire il Figlio, ha continuato a credere in Dio e ha avuto fiducia in lui. Insieme al Figlio, si è abbandonata nelle braccia del Padre, come una nave che entra in porto sicuro, superando così ogni insecuritas e paura del futuro. Lasciamoci afferrare da questi sentimenti. Dobbiamo recuperare lo sguardo di questa madre, fatto di misericordia, di affetto e di tenerezza. Il mondo ci appartiene, fa parte della nostra storia. È in nostro mondo. Non dobbiamo essere spettatori, affacciati alla finestra, a guardare da spettatori se non da estranei l’evolversi delle vicende alterne della storia, magari criticando e inondando la rete con espressioni offensive e volgari. Aleggiano nella nostra società forti sentimenti di rabbia, di rancore e di odio. L’altro è diventato un nemico. Il futuro genera 3

J. P. Sartre, Bariona o il Figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti, Christian Mariotti Editore, Milano 2003, pp. 90-91. 4 Cfr. E. De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2006; G. Mieli, Il bambino non è un elettrodomestico, Apogeo, Milano 2009; M. H. Klaus, J. H. Kennel, P.H. Klaus, Far da madre alla madre, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1994; C. Gonzalez, Un dono per tutta la vita, Il leone verde Edizioni, Torino 2007. 5 Massimo Cacciari, Generare Dio, cit., p. 101.

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paura e apprensione. Smorza ogni entusiasmo e ogni desideri. Anche il desiderio di paternità e di maternità si è affievolito. I genitori hanno paura degli figli perché la loro venuto li invecchia, ha scritto Mattia Torre in un recente monologo teatrale. Da qui anche il triste fenomeno della denatalità. Un modo senza novità e speranza. Guardiamo, invece, questo nuovo anno con gli occhi di Maria, madre di Cristo e madre nostra. Questo è ciò che, in definitiva, occorre nel nostro tempo: la Chiesa che, come una madre, si prenda cura dell’uomo. Solo l’istinto materno è capace di assicurare il miracolo di un uomo nuovo. «Ciò che occorre, infatti, è un uomo / non occorre la saggezza, / ciò che occorre è un uomo / in spirito e verità; / non un paese, non le cose / ciò che occorre è un uomo / un passo sicuro e tanto salda / la mano che porge, che tutti / possano afferrarla, e camminare / liberi e salvarsi»6.

Il cristiano, un riflesso dello splendore della Trinità* Cari fratelli e sorelle, questa celebrazione intimamente legata alla festa del Natale. Noi contiamo le feste seguendo lo svolgersi del tempo che scorre. La liturgia celebra le feste seguendo il mistero di fede che esse rappresentano. Le tre celebrazione che viviamo dopo il Natale, l’epifania, il battesimo di Gesù e le nozze di Cana sono una sola grande festa, celebrata in tre momenti differenti. Esse celebrano tre aspetti della manifestazione di Gesù al mondo. Il battesimo Gesù nel fiume Giordano rappresenta il secondo segno della manifestazione di Cristo al mondo, dopo l’epifania e prima delle nozze di Cana. Egli non ha soltanto ha preso la natura umana, ma è venuto per tutti gli uomini, la sua salvezza ha un valore universale, tocca il passato, il presente e il futuro. Il viaggio dei Magi rende evidente questa verità di fede. Il battesimo manifesta l’identità di Gesù come Messia. È lui l’inviato del Padre. Su di lui scende lo Spirito Santo e lo accompagna nella sua missione nel mondo per realizzare il disegno della salvezza degli uomini. Le nozze di Cana indicano lo sposalizio di Cristo con la Chiesa. Le nozze sono affigurate dagli sposi terreni e sono celebrate in modo definitivo nell’assemblea celeste. Cristo non è solo il pastore, ma è anche lo sposo della Chiesa e dell’intera umanità. Egli viene per legare a sé l’umanità in un abbraccio e in un amore sponsale. L’importanza del mistero del battesimo si evidenzia già dal fatto che i Vangeli sinottici iniziano il racconto della vita di Gesù a partire da questo avvenimento. Questo evento segna l’inizio della rivelazione pubblica di Cristo al mondo. È la porta per comprendere il suo mistero e, nello stesso tempo, è la chiave per interpretare il suo ministero. Senza questo episodio iniziale, i Vangeli sarebbero come se gli Atti degli Apostoli fossero senza il racconto della Pentecoste. Il battesimo evidenzia l’identità di Cristo, Messia venuto per purificare il mondo dal male e manifestare il mistero della Trinità Gesù è dunque l’unto di Dio, colui che viene nel nome del Padre. La narrazione evangelica sottolinea che Gesù riceve la testimonianza pubblica del Padre che lo riconosce 6 *

C. Betocchi, Dal definitivo istante, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, p. 247. Omelia nella Messa del Battesimo di Gesù, parrocchia S. Maria delle Grazie, Tutino, 12 gennaio 2020.

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come il figlio, amato in cui ha posto il suo compiacimento (cfr. Mt 3,17; Mc 1,11; Lc 3,12). Il Padre attesta davanti a tutta l’umanità e a tutta la storia la messianicità e figliolanza divina di Cristo. L’invisibile e l’ineffabile esce dal suo silenzio e fa sentire la sua voce potente e autorevole. È un momento di rivelazione, di manifestazione e di riconoscimento dell’identità di Gesù davanti alle genti. Cristo è il Messia venuto per liberare dal peccato. Pur non avendo peccato, Gesù riceve il battesimo da Giovanni. Ur essendo l’agnello innocente e senza peccato, venuto per togliere i peccati del mondo (cfr. Gv 1,35). Gesù si fa peccatore con i peccatori, manifestando la piena solidarietà con ognuno di loro. Entra nel fiume Giordano non per lavare i suoi peccati, che non ha, ma per purificare l’acqua che servirà per liberare gli uomini dai loro peccati. Il battesimo di Gesù santifica il Battista e tutta la storia umana. Colui che battezza riceve, a sua volta, la grazia da colui che è battezzato. Giovanni stesso riconosce che dovrebbe essere lui a riceve il battesimo da Gesù (cfr. Mt 3,14-15). Lo Spirito unge l’umanità di Cristo e, in lui, tocca e unge ogni uomo. La storia ha un nuovo inizio. La grazia riempie il mondo intero. Se nell’incarnazione si trattava della “grazia personale”, ora si tratta della “grazia capitale”. La prima riguardava la persona di Cristo e la santificazione della sua umanità. La seconda indica la grazia che egli comunica in quanto Capo della Chiesa e che si riversa in tutti quelli che sono innestati in lui. Cristo si immerge e ci immerge con lui per purificarci da ogni sorta di male. Con il suo battesimo nel Giordano, Cristo seppellisce per sempre l’uomo vecchio. Da essere simbolo del male, l’acqua viene santificata e diventa il segno e lo strumento della santificazione. Da qui l’importanza che la Chiesa primitiva e i Padri della Chiesa hanno sempre annesso a questo evento. Le parole di san Gregorio Nazianzeno offrono un’evidente conferma: «Cristo - egli scrive - riceve il battesimo, inabissiamoci con lui per poter con lui salire alla gloria. Giovanni dà il battesimo, Gesù si accosta a lui, forse per santificare colui dal quale viene battezzato nell'acqua, ma anche di certo per seppellire totalmente nelle acque il vecchio uomo. Santifica il Giordano prima di santificare noi e lo santifica per noi […]. Tutto è stato fatto perché voi diveniate come altrettanti soli cioè forza vitale per gli altri uomini. Siate luci perfette dinanzi a quella luce immensa. Sarete inondati del suo splendore soprannaturale. Giungerà a voi, limpidissima e diretta, la luce della Trinità»7. Il battesimo di Gesù, infine, è una grande teofania della Trinità: il Padre parla e fa udire la sua voce, lo Spirito Santo scende sul capo di Gesù sotto forma di colomba e Gesù emerge dall’acqua per manifestare l’uomo nuovo. Le tre persone divine si manifestano ognuna a suo modo: la voce del Padre, la presenza dello Spirito, la santa umanità di Gesù. Il battesimo di Gesù, dunque, non è soltanto lavacro dal peccato, ma è anche rivelazione della Trinità. Anche la nostra vita spirituale inizia con il sacramento del battesimo. È la nascita alla vita della grazia. La vita naturale si arricchisce di quella soprannaturale. Come quella naturale, la grazia battesimale segna l’intera esistenza. I battezzati, infatti, sono chiamati a vivere nella fedeltà al dono ricevuto, cercando di crescere nella santità per una sempre maggiore conformazione a Cristo. Cari fratelli e sorelle, contemplando il mistero di Cristo, facciamo memoria del nostro battesimo. Pensiamo al momento nel quale siamo stati lavati dal peccato e siamo stati inseriti i

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Gregorio Nazianzeno, Discorso, 39 per il Battesimo del Signore, 14 e 20; PG 36, 350-351. 359.

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una relazione d’amore con la Trinità. Divenuti figli nel Figlio, ci siamo rivestiti del suo splendore. Siamo così diventati un “sole per gli altri”, come uno specchio che riflette la luce radiosa della Trinità.

A servizio della comunità civile* Cari fratelli e sorelle, abbiamo celebrato da poco la festa di Natale, e ora abbiamo iniziato a vivere l’anno liturgico nella sua ordinarietà. La prima lettura del profeta Isaia ci ha riproposto lo stesso brano proclamato nella Messa della notte di Natale. Ha inizio la vita pubblica di Gesù. Il vangelo richiama le parole del profeta Isaia. C’è una grande unità tra i due testi biblici. La vita di Gesù non è un avvicendarsi di episodi e di eventi, staccati uno dall’altro, che si susseguono secondo i ritmi del tempo o della storia, senza che vi sia un progetto già segnato, ma la realizzazione delle antiche profezie. Dobbiamo imparare a leggere con grande attenzione le letture domenicali per scoprire la stretta unità che vi è tra di esse. Il Nuovo Testamento non è altro se non il compimento delle promesse contenute nell’Antico testamento. L’evangelista Matteo pone in maggiore risalto rispetto altri sinottici il rapporto tra antica e nuova alleanza. Questa verità teologica mi spinge a ricordare l’importanza che la Parola di Dio deve avere nella vita del cristiano. Papa Francesco ha istituto in questa domenica la giornata della Parola con l’intento di collocarla al centro della vita e della missione della comunità cristiana. E’ l’insegnamento del Concilio Vaticano II continuamente richiamato dal magistero pontificio. Domenica dopo domenica, dobbiamo imparare a vedere l’unità del progetto di Dio. La profezia prefigura, il vangelo la realizza. Insieme, il profeta Isaia e l’evangelista Matteo, sottolineano che Gesù è la luce che brilla nelle tenebre. Il popolo che cammina nelle tenebre è l’umanità di oggi, di ieri e del prossimo futuro. Il cammino dell’uomo è immerso in una serie di difficoltà, che cambiano secondo i tempi, ma sempre si manifestano nella loro invincibile problematicità. Cambiano le situazioni storiche, ma rimane la contrasto tra luce e tenebre. A questo popolo che brancola nel buio, Dio invia ”una grande luce”: la luce è Cristo. Egli viene per liberare dal male, aprire il mistero dell’esistenza e far vedere che Dio è all’opera. Le parole, con le quali Gesù inizia alla sua predicazione, sono il contenuto fondamentale e la sintesi di tutta la sua predicazione. Esse si condensano in questa frase: «Il tempo è

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Omelia nella Messa del giuramento dei vigili urbani, Parrocchia Trasfigurazione, Taurisano 26 gennaio 2020.

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compiuto, il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Gesù annuncia la vicinanza e la regalità di Dio. Lui solo ha il potere di cambiare le vicende della storia. È un messaggio straordinario. Gesù ci rassicura. Non siamo soli. Dio è con noi. Le sue parole sono l’annuncio di una liberazione e di una trasformazione del mondo che, pian piano, non in forma magica e miracolistica, si realizza nella storia. Convertirsi significa cambiare il proprio modo di pesare e di agire. Occorre cambiare la mentalità, avere altri valori di riferimento. Il brano evangelico si conclude con la chiamata dei discepoli. È l’invito, da parte di Cristo, a essere uniti, a camminare insieme, ad operare tutti nella stessa direzione. Il cammino da intraprendere deve essere compiuto con fiducia, coraggio, partecipazione. Solo allora potremo dare un nuovo volto alla società, al mondo e alla storia. Accogliamo allora, cari fratelli, questo messaggio che ci invita a cambiare prima di tutto noi stessi, e poi la nostra società. In questo senso, mi rivolgo a voi, cari vigili urbani, servitori della società civile. Ogni giorno lavorate per il bene comune. Oltre al controllo del traffico urbano, svolgete molte altre mansioni. Vi occupate di pubblica sicurezza dei cittadini, verificando la regolarità e la presenza delle dovute autorizzazioni in campo edilizio e il rispetto delle norme contro l’inquinamento dell’aria (emissioni di gas), del suolo (rifiuti) e delle acque (scarichi). Prestate l’attenzione a quelle persone che vivono in stato di disagio sociale, intervenendo in casi di abbandono dei minori, di violenze sulle donne, di degrado o di emarginazione degli adulti e degli anziani. Vigilate anche nelle situazioni delle persone senza fissa dimora e in quelle dei migranti. Il vostro lavoro non è sempre gratificante. Non tutti vi dicono grazie. Talvolta, qualcuno vi rivolge anche parole offensive. Voi, però, continuate a vivere la vostra professione con coraggio e abnegazione. La nostra società reclama il soddisfacimento dei propri “diritti”, ma non sempre si mostra riconoscente nei riguardi di coloro sono ligi al proprio dovere. In questo clima, la vostra professione non è sempre fonte di soddisfazione. Molti pretendono che si risolvano i loro problemi, ma si sottraggono alla propria responsabilità personale. La società, invece, si costruisce insieme. Per questo occorre collaborare senza scaricare sugli altri la costruzione del bene comune. Marciamo tutti nella stessa direzione. Chi ha una responsabilità civile la assolva con diligenza, e ogni cittadino porti il suo contributo per la costruzione di una società fraterna e conviviale.

Siate il buon profumo di Cristo* Cari consacrati e consacrate, nel presente cambiamento d’epoca anche la vita consacrata cambia. Qualcosa rimane, qualcosa finisce. Cambiano le forme, rimane la sostanza: essere profumo di Cristo. Ogni uomo ha un suo odore speciale, una sua identità olfattiva, tanto che si parla di “firma chimica”, di “passaporto olfattivo”. Anche se, da un certo punto di vista, è il senso più primitivo e più grezzo, quello che più degli altri mostra la nostra natura animale, l’olfatto è anche il più raffinato e sofisticato, il solo che fa penetrare nell’intimità delle persone, ne aspira gli stati d’animo, aprendo persino le *

Omelia nella Messa della Presentazione del Signore, Cattedrale, Ugento 1 febbraio 2020.

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porte della nostra intimità. Il credente è colui che rinuncia al suo profumo per assumere il profumo di Dio e lasciarsi riconoscere da quel soave odore. L’esperienza di fede col Dio vivente coinvolge tutto l’uomo, nella sua anima, nella sua corporeità e nei suoi sensi. È l’esperienza fatta da sant’Agostino: «Mi chiamasti e il tuo grido lacerò la mia sordità; balenasti e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te; gustai e ho fame e sete; mi toccasti e arsi dal desiderio della tua pace8. Credere è respirare la fragranza di Dio con “l’olfatto spirituale” e farne il respiro personale; è far coincidere il proprio odore con l’aroma e il profumo di Dio. Nell’Antico testamento si parla spesso di profumi. A volte vengono indicati con nomi misteriosi, altre volte sono espressi con termini più familiari. per tutti vale il detto: «Profumo e incenso allietano il cuore» (Pr 27,9). Il Cantico dei cantici richiama il reciproco gioco dell’incontrarsi e del cercarsi, del conoscersi e dell’amarsi tra l’amato e l’amata in una mescolanza di profumi del corpo e dell’anima. Questo perché, secondo un commento ebraico alla Scrittura, l’olfatto è l’unico dei cinque sensi che non ha partecipato al peccato delle origini e per questo ha una sua nobiltà al servizio dell’anima. Anche il Messia che verrà «avrà il profumo del timore del Signore» (Is 11, 3). Il Cantico del Cantici utilizza due termini: reach e shemen (Ct 1, 3a-b). La parola “shemen” è associata, a livello sonoro e semantico, a “shem” e rappresenta l’identità della persona. L’amato si personifica nel profumo, e nel profumo dà tutto se stesso. L’identità dell’amato si insedia nel cuore dell’amata. A questo proposito, pensiamo anche alla celebre scena lucana dove la peccatrice rompe un vasetto di olio profumato con cui cosparge Gesù (cfr. Lc 7,37-38). il significato simbolico del gesto è che la donna ha offerto il suo shem attraverso il dono dello shemen. Ha letteralmente versato se stessa. Il secondo termine è reach, che ha le stesse consonanti di ruach. Il profumo ha a che fare col soffio, col respiro, sia fisicamente sia in senso traslato. In questo caso, indica il soffio dello Spirito che dà vita. Il canto d’amore passa attraverso il profumo ed manifesta la potenza della vita che si radica direttamente in Dio. Come tale, può sfidare la morte e traghettare gli amanti e la loro umanità al di là del suo scacco mortale (cfr. Ct 8,6). In altri termini, il profumo rive la qualcosa della persona umana e delle tre persone divine. Anche i vangeli sono come una vera festa di profumi. Incominciano i magi con la mirra donata al neonato Gesù e terminano le mirofore, le donne che portano profumi per ungere il corpo del maestro la mattina dopo il sabato santo. Anzi, intorno alla morte del maestro vi è un eccesso di profumi: ben trentadue chili quelli portati da Nicodemo per la sepoltura (cfr. Gv 19,39) e almeno tre vasetti di aromi dalle tre Marie all’alba di Pasqua (cfr. Lc 24,1). Possiamo paragonare questo concentrarsi dei profumi sul corpo di Cristo come «profumo che ispira serenità». Così infatti veniva definita quella mescolanza aromatica e fumosa che pervadeva il tempio con i sacrifici e stordiva (cfr. Is 6,4). L’Apocalisse parla di essenze odorose, in «coppe d’oro piene di profumi» (Ap 5, 8), un’espressione che riecheggia un passo della Torah (cfr. Nm 7, 86). L’icona del profumo si espande senza limiti ed esprime la volontà d’amore con cui Dio raggiunge tutti gli uomini. Siamo chiamati a partecipare a questa profumazione del mondo con un balsamo che Dio non versa direttamente su Cristo. Egli lo versa su di noi e, attraverso la 8

Agostino, Confessioni X, 27, 38..

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nostra vita profumata, raggiunge il mondo intero. «Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo» (2Cor 2,14). Questa unzione con il profumo di Cristo ci rende profumati di lui. L’unzione del suo Spirito, per che sant’Ireneo è «la nostra stessa comunione con Cristo 9. Lo Spirito ci unge (nel battesimo, nella confermazione, nel sacerdozio), ci rende profumati di Cristo. A tal proposito, così scrive Sant’Atanasio: «L’unzione è il soffio del Figlio, di modo che colui che possiede lo Spirito possa dire: “Noi siamo il profumo di Cristo”. Il sigillo rappresenta il Cristo, cosicché colui che è segnato dal sigillo possa avere la forma di Cristo» 10 In quanto unzione, lo Spirito ci trasmette il profumo di Cristo; in quanto sigillo, la sua forma o la sua immagine. La celebrazione del mistero di Cristo coinvolge tutti i sensi in un loro affinamento e in una loro trasfigurazione. Nell’esperienza cristiana, i sensi non sono evitati, ma sono orientati dalla fede, coltivati dalla preghiera, inseriti in Cristo, trasfigurati dallo Spirito. Pertanto chi vive l’esperienza cristiana è una nuova creatura che davvero “vede” e “riconosce” il Figlio come suo fratello. “Ode” e “ascolta” la sua parola, lo “tocca” con le sue mani, “si nutre” di lui, pane di vita eterna e bevanda di salvezza, lo “gusta”, respira il profumo del suo mistero personale e la santità della sua vita. Richiamando la dottrina origeniana dei “sensi spirituali”, sant’Agostino scrive: «Il Cristo diventa l’oggetto di ciascun senso dell’anima. Egli chiama se stesso la vera “luce” per illuminare gli occhi dell’anima, il “Verbo” per essere udito, il “pane” di vita per essere gustato. Parimenti, egli è chiamato “olio” e “nardo”, perché l’anima si diletti dell’odore del Logos. Egli è divenuto “il Verbo fatto carne” palpabile e attingibile, perché l’uomo interiore possa cogliere il Verbo di vita»11. La liturgia eucaristica è esperienza spirituale in cui sono coinvolti tutti i sensi del credente: ascolto della parola di Dio, visione di icone, di luci e dei volti dei fratelli, gusto del pane e del vino eucaristici, abbraccio di pace, odore di profumi e di incenso. Se essere profumo di Cristo riguarda tutti i cristiani, quanto più si addice ai consacrati. Santa Teresa d’Avila si domanda: «Cosa sarebbe il mondo se non ci fossero i religiosi?»12. La vita consacrata, infatti, si può paragonare alla scena del profumo che si spande nella casa di Betania (cfr. Gv 12,1-8): «Da questa vita “versata” senza risparmio – scrive san Giovanni Paolo II - si diffonde un profumo che riempie tutta la casa. La casa di Dio, la Chiesa, è oggi, non meno di ieri, adornata e impreziosita dalla presenza della vita consacrata»: per questo la Chiesa «non può assolutamente rinunciare alla vita consacrata, perché essa esprime in modo eloquente la sua intima essenza “sponsale”»13. Cari consacrati e consacrate, a voi non è chiesto di fare molte cose, ma solo il essere il profumo di Cristo. Agli uomini basterà fiutare l’aroma che promana dalla vostra persona per orientarsi e scoprire Cristo, fragranza che inebria la vita.

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Ireneo, Adv. Haer. III, 24, 1. Atanasio, Lettere a Serapione, III, 3. 11 Origene, Commento al Cantico, II,167,25. 12 Teresa d’Ávila, Vita, 32, 11. 13 Giovanni Paolo II, Vita consecrata, 104. 10

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La Madonna di Loreto in pellegrinaggio al Santuario di Leuca * Cari fratelli e sorelle, ogni giubileo è un tempo di grazia, un momento particolare della vita di una persona o di una comunità. In questo caso, celebriamo il giubileo dell’aeronautica. Cento anni fa il corpo dell’aeronautica fu affidato alla protezione della Madonna di Loreto. L’Ordinario militare, con l’approvazione pontificia, ha voluto dedicare quest’anno a questa ricorrenza giubilare. È un momento di grazia, innanzitutto, per voi cari avieri, affidati alla Vergine di Loreto. Ella vi ha accompagnati nel recente passato, vi assiste in questo momento storico e vuole sostenere la vostra missione nel futuro. Il giubileo è un avvenimento di gioia; una gioia che le parole non possono esprimere perché troppo grande. È la gioia incontenibile, una gioia talmente esplosiva da rendere impossibile la sua espressione attraverso la manifestazione verbale. Le parole, in un certo senso, sono incapaci di manifestare il gaudio interiore. Allora si gioisce con gli occhi, con il cuore, con un volto che esprime serenità e felicità. L’aeronautica Italiana vive questo grande momento di gioia, nei diversi luoghi e comunità, dove la statua della Madonna di Loreto sosterà. La gioia arricchisce voi e tutti coloro che partecipano al vostro gaudio. Oggi tocca alla nostra Chiesa di Ugento- S. Maria di Leuca, riunita in preghiera nel santuario della Vergine de finibus terrae. Ella vi benedice, vi accompagna, fa sentire la sua presenza materna. Maria, infatti, è il segno della tenerezza e dell’amore materno di Dio. Vivere il giubileo come tempo della memoria e dell’affidamento alla Vergine Maria vuol dire comprendere il valore che la presenza della Madonna di Loreto ha per tutta la Chiesa. La tradizione riferisce che la santa casa di Maria sarebbe stata trasportata dagli angeli da Nazareth a Loreto. Il titolo di Madonna di Loreto fa riferimento è alla casa di Nazareth, al luogo dove ha avuto inizio il nuovo cammino della storia della salvezza. Questo paese era un piccolo villaggio, tanto che le cartine geografiche del tempo non ne facevano addirittura menzione. In questo luogo sconosciuto ha avuto inizio il mistero della redenzione. Dio non parte dal centro, ma dalle periferie storiche, geografiche ed esistenziali e inizia la realizzazione del suo progetto da un luogo sconosciuto. La grandezza del mistero avviene nel nascondimento. Nazareth richiama le radici della fede. Per questo la Madonna è cantata nella liturgia e nelle preghiere della Chiesa come “aurora della redenzione”. *

Omelia nella Messa del Giubileo dell’Aeronautica militare e dell’arrivo della Madonna di Loreto al santuario di Leuca,, Basilica di Leuca, 12 febbraio 2020.

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In questo luogo periferico è accaduta l’incarnazione del Verbo, un evento che avrà un peso fondamentale nella storia e nella vicenda degli uomini. La tradizione richiama la presenza di Maria a Nazareth sotto molteplici titoli e forme pittoriche: la Madonna della fontana, la Madonna che tesse la lana, simbolo del “filare la parola di Dio”, ossia di “tessere il corpo di Cristo”. Diventato adulto, Gesù lascia Nazareth per andare a Gerusalemme dove vivrà il mistero di morte e di resurrezione. La Vergine rimane nel suo paese e, da lì, segue le vicende che riguardano il Figlio. Nazareth è, dunque, un simbolo. Paolo VI, nel suo viaggio in Terra Santa, visitando Nazareth ha scritto un bellissimo discorso sul luogo dove è vissuta la santa famiglia, indicando Nazareth come la casa del silenzio, dell’amore vicendevole, della preghiera, dell’educazione dei figli. Cari avieri, siete stati affidati alla Madonna di Loreto. Ella vi richiama questo nucleo fondamentale della fede. Quando vi rivolgete a lei, pensate a questa radice della fede, agli episodi dell’infanzia di Cristo, all’inizio del cristianesimo Il secondo aspetto si riferisce al volo degli angeli che portarono la casa della Vergine da Nazareth a Loreto. Simbolicamente quel viaggio rappresenta la trasmissione della fede dall’Oriente all’Occidente. La fede non è un insieme di dottrine, ma un’esperienza viva che si diffonde, si trasmette, si consegna ad altri. La fede cristiana parla di eventi storici, di fatti realmente accaduti. La santa casa rappresenta fisicamente, non solo simbolicamente, la consistenza storica della fede, la presenza in un determinato ambiente geografico, l’intreccio tra le culture. La Madonna di Loreto richiama, pertanto, la necessità del dialogo tra le culture, del confronto con religioni differenti dalla propria, dell’accoglienza di tradizioni differenti. Viviamo in un mondo dove le culture si intrecciano una con l’altra e, a volte, addirittura si scontrano. La casa di Loreto indica che il dialogo deve esprimersi quasi come un “volo angelico”, come una trasmissione che avviene senza opposizione, senza resistenza o invadenza, ma come fosse un trasporto nel cielo. Guidando gli aerei, anche voi solcate i cieli. Siete simbolo di leggerezza, di bellezza dell’incontro, di dialogo e confronto tra le culture. È un messaggio questo di cui oggi abbiamo tanto bisogno. Sottolineo anche un altro aspetto. Celebriamo nel santuario di Leuca il vostro giubileo, alla vigilia dell’incontro tra di Vescovi cattolici del Mediterraneo che si terrà a Bari dal 19 al 23 febbraio. A questo incontro prenderà parte anche Papa Francesco per ribadire che il Mediterraneo deve essere frontiera di pace. La Chiesa, la società civile, le istituzioni italiane, rappresentate dal Presidente della Repubblica e quelle europee, rappresentate dal Presidente del Parlamento Europeo, intendono lavorare insieme perché il Mediterraneo diventi un mare di pace. Il piazzale di questo santuario è come una finestra affacciata sul Mediterraneo. L’incontro tra la Madonna di Loreto e la Vergine di Leuca sottolinea che la Madonna deve essere il faro di luce che si spande sul Mediterraneo, Affidiamo questo vostro giubileo alla Madonna di Loreto e alla Vergine di Leuca auspicando che nell’incontro di Bari si elevi una grande preghiera alla Vergine, perché ella continui ad essere per tutti un segno di speranza e l’aurora di un mondo nuovo. Un mondo di pace e di fraternità.

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Saldi nella speranza * Cari fratelli e sorelle, celebriamo la terza domenica di quaresima. Il cammino verso la Pasqua si fa più intenso, anche se in una modalità del tutto differente rispetto agli altri anni. La pandemia, provocata dal coronavirus, ci impone una serie di restrizioni che dobbiamo rispettare con molta serietà e precisione. Anche in questa circostanza, vi invito a farlo per il bene vostro e di tutti gli altri. Dobbiamo cercare di contenere il contagio, rispettando scrupolosamente le norme che sono state emanate. Certo, cari fratelli e sorelle, questa è una celebrazione eucaristica inconsueta. È la prima domenica senza il concorso di popolo. La vostra mancanza si sente. Ci mancate, cari fratelli e sorelle. Mancate a me e a tutti i sacerdoti della diocesi. Vorremo vedere i vostri volti, ma siamo costretti a guardare i banchi vuoti. Vorremmo stringervi la mano e conversare amichevolmente. Ma non possiamo e non dobbiamo farlo. Sono sicuro che anche voi sentite la nostalgia della liturgia eucaristica domenicale. Ora che siamo impossibilitati a partecipare, ne avvertiamo di più il bisogno e riconosciamo il bene spirituale che la Messa riversa nella nostra vita personale e comunitaria. Offriamo al Signore il sacrificio di non poter vivere insieme la celebrazione eucaristica e apprezziamo di più questo memoriale della sua Pasqua. Il dono dell’Eucaristia è di una bellezza incomparabile. Per questo con i martiri di Abitene, diciamo «sine dominico non possumus»1 e viviamo questa celebrazione eucaristica con un’intesa partecipazione spirituale. La Parola di Dio di questa domenica ci aiuta a considerare con attenzione la situazione che si è creata con l’epidemia e ci esorta a vivere questo momento con pazienza e fiducia in Dio, evitando le chiacchiere inutili e la mormorazione. La prima lettura, infatti, racconta la vicenda accaduta agli Ebrei presso Massa e Meriba: il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua e, per questo, mormorò contro Mosè (cfr. Es 17,3). Il lamento arrivò fino al punto da dubitare della presenza di Dio. Il popolo, infatti, si domandava: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17,7). Non dubitiamo, cari fratelli e sorelle, della presenza salvatrice e redentrice di Dio. In Cristo, egli si mostra come l’Emmanuele, il Dio con noi. E lui, leggiamo nella Lettera agli Ebrei, «non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura» (Eb 2,16). Come una madre premurosa e un medico esperto, Cristo si prende cura di noi. Lo dico a tutti, in modo particolare a voi, cari fratelli e sorelle ammalati, Cristo, come il buon samaritano, viene oggi incontro a voi attraverso il servizio dei vostri familiari, dei medici e degli operatori sanitari che prestano il loro servizio negli ospedali o nelle case. Ringrazio, in modo particolare, voi, comunità ospedaliera di Tricase e le suore Marcelline, per la vostra abnegazione e la vostra dedizione. In questi giorni, dobbiamo essere saldi nella speranza «che non delude» (Rm 5,5). La virtù della speranza, infatti, non è primariamente un desiderio che si apre al futuro, ma è la certezza del compimento della promessa. La speranza cristiana si sintetizza in alcuni elementi che la esplicitano e la definiscono: l’attesa della piena e definitiva rivelazione del Signore; la fiducia nella sua promessa che certamente si realizzerà; la pazienza, che non cede allo scoraggiamento e sa perseverare nella sofferenza; la libertà di agire con e nello Spirito che consente di muoversi in questo mondo, anticipando la liberazione totale del futuro. Dobbiamo imparare a varcare la soglia della speranza. 73


Possiamo farlo innanzitutto con la preghiera. Pregare è sperare e, viceversa, sperare è pregare. La speranza e la preghiera coltivano la certezza che Dio ci ascolta. In questi giorni, ognuno di noi deve dire a se stesso: «Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi […] Egli può aiutarmi. Se sono relegato in estrema solitudine»2, Dio mi è sempre vicino. La speranza si esprime anche con l’offerta della nostra vita al Signore e ai fratelli. Con le parole di san Paolo, anch’io «vi esorto, […] per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). In questa liturgia eucaristica e durante tutti questi giorni così difficili e carichi di tanti problemi, offriamo al Signore la sofferenza dei malati, la grande dedizione dei medici e di tanti operatori sanitari, il generoso impegno di tanti volontari che si stanno prodigando per andare incontro alle quotidiane necessità delle persone sole e degli anziani. Invochiamo il Signore con le parole del Prefazio: «Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli, infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi: fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti»3. Sentiamoci uniti da una comunione più profonda che va oltre le attuali difficoltà. Il Signore risorto è presente anche nelle vostre case. Soprattutto dove ci sono persone anziane e ammalate. Non potendo venire in Chiesa, fate della vostra casa una vera “Chiesa domestica”. Praticate la comunione spirituale, cioè desiderate ardentemente che il Signore abiti nei vostri cuori e voi nel suo cuore. Coltivate il dialogo tra di voi, impegnatevi a mettervi a servizio gli uni degli altri, «siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12, 12). Soprattutto rafforzate la vostra fede in Cristo Gesù. Egli è «veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42).

Gustiamo la gioia dell’unzione, del lavacro e dell’illuminazione battesimale * Cari fratelli e sorelle, la quarta domenica di quaresima, tradizionalmente chiamata domenica “Laetare” è la “sorella gemella” della terza di Avvento, la domenica “Gaudete”. La liturgia ci fa pregustare in anticipo la gioia pasquale. L’antifona d’ingresso ci ha invitati a esultare con queste parole: «Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, riunitevi. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione». Lasciamoci incantare da questo poetico appello alla gioia. È bello vedere la quaresima come un’aurora che annuncia il sole di Pasqua! Questa domenica rappresenta un momento di serenità in mezzo alla mestizia di questi giorni. In fondo, è un bisogno umano vivere nella gioia. Il battesimo è il sacramento della gioia. Dopo la nascita alla vita naturale, dà inizio a quella

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Omelia nella Messa della quarta settima di quaresima, Cattedrale 22 marzo 2020.

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spirituale. Un fremito di gioia pervade i genitori, i familiari e tutta l’assemblea liturgica. La “nuova creatura” è una nuova primavera a livello personale, familiare ed ecclesiale. In queste ultime tre domeniche di quaresima dell’anno A, l’itinerario penitenziale assume una più evidente tonalità battesimale. Dobbiamo fare memoria del nostro battesimo e vivere gli impegni spirituali che abbiamo assunto. Le tre figure evangeliche della samaritana, del cieco nato e di Lazzaro rappresentano i tre simboli battesimali: l’acqua, la luce e la vita. Possiamo così riscoprire i significati spirituali del rito battesimale: siamo stati lavati dal peccato, abbiamo riacquistato la vista spirituale e abbiamo stretto un’indistruttibile alleanza con le tre persone della Trinità. Il cristiano è una persona purificata dal male, illuminata nel cuore e nell’intelligenza, e rinata a vita nuova per opera dello Spirito Santo. Ecco la nostra nuova identità! Pertanto, vi esorto con le parole di san Leone Magno: «Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo»14. Cari fratelli e sorelle, non passate troppo facilmente sopra il mistero dell’unzione sacramentale15. Essa realizza la nostra mistica trasformazione! La prima lettura ha richiamato l’unzione regale di Davide (cfr. 1Sam 16, 1.4. 6-7. 10-13). Il battesimo ci conferisce anche l’unzione profetica e sacerdotale. L’unzione regale ci spinge a lottare contro Satana. L’unzione profetica ci invita ad annunciare il Vangelo a ogni persona, fino ai confini del terra. L’unzione sacerdotale ci esorta a pregare e a fare «in ogni cosa eucaristia» (1Ts 5,18). I gesti di Gesù nei riguardi del cieco nato sono molto eloquenti (Gv 9,6-7). Tocca gli occhi del corpo e guarisce anche quelli dell’anima. Nelle sue mani esperte, il fango, ossia la debolezza dell’uomo, diventa una medicina spirituale che, insieme all’acqua della fonte, cioè allo Spirito Santo, risana e dona la vita nuova. La fragilità della carne è sostenuta dalla grazia dello Spirito. Diventati luce nel Signore, dobbiamo comportarci come figli della luce, gareggiando «in ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5,9). Essere veri cristiani significa cercare, scegliere e compiere solo ciò che è gradito al Signore (cfr. Ef 5,10). Cari fratelli e sorelle, a me sembra che la particolare situazione che si è venuta a creare con il coronavirus ci impone molti limiti, ma ci offre anche un “tempo favorevole” per vivere più profondamente il cammino quaresimale. Durante questo tempo siamo invitati a praticare le tre opere penitenziali: la preghiera (rosario, lectio divina, lettura della vita dei santi), il digiuno corporale e spirituale, l’elemosina. La forzata permanenza a casa può trasformarsi in un’occasione propizia per vivere meglio questi fondamentali esercizi spirituali. Soffermiamoci ancora una volta a esaminarli. Per pregare più intensamente è necessario costruirsi la “cella interiore”. Attingendo al Vangelo (cfr. Mt 6,1-18), i Padri della Chiesa hanno insegnato il dovere di coltivare la vita interiore per entrare in profonda comunione con Dio e non trovarsi sballottati da qualsiasi vento di dottrina (cfr. Ef 4,1). È nota l’esortazione di sant’Agostino: «Non estraniarti, rientra in 14 15

Leone Magno, Discorso I per il Natale, 13. Cfr. R. Cantalamessa, I misteri di Cristo nella vita della Chiesa, Ancora, Milano 1992, pp. 123-190.

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te stesso, la verità abita dentro di te»16. È l’invito a non andare vagando al di fuori della propria anima, disperdendosi nell’esteriorità, ma a rientrare in se stessi. La verità abita nel fondo del cuore. In quell’abisso, Dio prende dimora e dialoga silenziosamente con l’anima. Gesù ha detto: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Questa era anche una delle convinzioni più care a santa Caterina da Siena. Il suo biografo, il beato Raimondo di Capua, scrive che la santa «si costruì un eremo mentale, una cella tutta interiore, dalla quale stabilì di non uscire, benché fosse impegnata in qualsiasi negozio esterno»17. In numerose lettere, la santa senese confida che si era costruita una celletta nel cuore erigendola sulle fondamenta dell’umiltà, con le pareti di speranza, imbiancata di purezza, con lo zoccolo della fede, col soffitto di prudenza, con la finestra dell’obbedienza, la porta della carità, la chiave della povertà, l’ornamento di un crocifisso. Rimanendo nella sua “cella interiore” svolse un’intensa attività, viaggiando per il mondo, assistendo gli infermi, e dialogando con i potenti della terra del suo tempo. Il digiuno ci chiede di vivere la contritio e la compuntio cordis. L’uomo moderno si illude di potersela vedere “a tu per tu” con Dio senza vivere il pénthos cioè il dono delle lacrime. Il termine pénthos ha la stessa radice del vocabolo pathos. Sul piano etimologico derivano entrambi dal verbo pathein, che significa soffrire. Il pentimento è un dolore interiore che apre a una relazione con Dio e con il prossimo ed ha, come obbiettivo, la ricostruzione di queste relazioni fondamentali. Il pénthos opera in una duplice maniera: come acqua, estingue la fiamma delle passioni e purifica l’anima dalle sue macchie; come fuoco, grazie alla presenza dello Spirito santo, vivifica, infiamma e riscalda il cuore, accendendolo d’amore e di desiderio appassionato di Dio. Le lacrime sono un secondo battesimo. Nel primo, l’acqua è simbolo delle lacrime. Nel secondo, il simbolo cede il posto alla realtà. Nel IV secolo, la via delle lacrime si affermò in tutta la sua ricchezza nelle espressioni ascetiche e mistiche. I padri del deserto e i Cappadoci furono tra i primi a sottolineare il valore delle lacrime. Papa Francesco è ritornato più volte su questo tema18, anche perché non è altro se non lo sviluppo della beatitudine evangelica: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Mt 5,4). In questi giorni difficili, sperimentiamo la bellezza del pentimento, del pianto e della contrizione! L’elemosina ci impegna a vivere la carità attraverso le opere di misericordia corporali e spirituali. La fantasia della carità è grande. Seguendo le indicazioni della caritas diocesana e rispettando le norme civili, nella misura del possibile, aiutate le persone anziane e sole a risolvere le incombenze quotidiane. Porgete a tutti parole di consolazione e di speranza. Non potendo accostarvi ai sacramenti, rafforzate i vincoli di comunione e di fraternità, amandovi di vero cuore e pregando gli uni per gli altri. Invochiamo insieme il Signore perché ci sostenga in questo tempo di prova e, con il salmista, gli chiediamo: «Rendici la gioia per i giorni di afflizione, per gli anni in cui abbiamo visto la sventura. Si manifesti ai tuoi servi la tua opera e la tua gloria

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«Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas» (Agostino, De vera religione, 39,72). Raimondo da Capua, Vita di Santa Caterina, Edizioni Cantagalli, Siena 1934, p. 49. 18 Cfr. Francesco, Christus vivit, 76; Discorso ai giovani dell’Università S. Tomas, Manila, 18 gennaio 2015; Omelia nel Mercoledì delle Ceneri, 18 febbraio 2015. 17

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ai loro figli. Sia su di noi la bontà del Signore, nostro Dio: rafforza per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rafforza» (Sal 89, 15-17).

La risurrezione di Cristo è la forza della vita* Cari fratelli e sorelle, si conclude oggi la grande catechesi battesimale che la Chiesa ci ha proposto in queste tre ultime domeniche di Quaresima, attorno ai simboli dell'acqua, della luce e della vita. Abbiamo percorso l’itinerario di quest’anno sotto la guida dell'evangelista Giovanni. È la forma antica e il cammino ideale e paradigmatico che la liturgia ci presenta per comprendere il sacramento del battesimo e vivere la nostra conversione personale e comunitaria. La narrazione della risurrezione di Lazzaro si colloca poco prima dei racconti della passione, morte e risurrezione di Gesù. Evidente è l’intenzione dell’evangelista di mettere in relazione i due episodi, facendo risaltare la somiglianza e la differenza che esiste tra di loro. Al centro del racconto c'è la perentoria affermazione di Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25). Se mettiamo in parallelo questa espressione con quella del libro dell'Esodo, «Io sono Colui che sono» (Es 3,14), le parole di Gesù diventano un'eco di quelle pronunciate da Javhè. Sono la manifestazione e l'autorivelazione che Dio fa a Mosè e, in modo insuperabile, in Gesù. Nel Figlio amato, crocifisso e risorto, conosciamo il vero nome e il vero volto di Dio. Egli è il «Dio dei vivi e non dei morti» (Mt 22,32). Se poi accostiamo la frase di Gesù alla prima lettura, comprendiamo ancora di più la sua portata. Al popolo in esilio, il profeta Ezechiele annuncia un intervento salvifico da parte di Dio (cfr. Ez 37,12-14). In esilio, il popolo assomiglia a una persona defunta. Dio interverrà per liberarlo dalla schiavitù e riconsegnargli la sua autonomia e la sua libertà. Le ossa morte rivivranno. Si realizzerà una nuova creazione. Le reminiscenze anticotestamentarie manifestano la ricchezza delle parole di Gesù. L’evento delle risurrezione di Lazzaro è un “segno” che evidenzia la verità, la concretezza e l’aderenza alla realtà dell’espressione pronunciata da Gesù. La risurrezione non è una bella teoria, ma un fatto. Quanto è accaduto Betania ne è l’esempio concreto e, nello stesso tempo, l’anticipazione di ciò accadrà a Cristo. Non la stessa cosa, perché Lazzaro morirà nuovamente mentre Cristo risorto «non muore più, la morte non ha più alcun potere su di lui» (Rm 6,9). Anche noi siamo inseriti in questo avvenimento di grazia. Il battesimo è partecipazione alla morte, alla sepoltura e alla resurrezione di Cristo (cfr. Rm 6, 3-11). Con noi, anche la creazione geme e soffre nel travaglio del parto perché anche lei è in attesa della pienezza della redenzione (cfr. Rm 8,19-22). La risurrezione di Cristo cambia radicalmente e definitivamente non solo il destino dei singoli e dell’intera umanità, ma anche tutta la creazione. Bisogna, pertanto, leggere l'episodio su due livelli: quello naturale e quello simbolico. Sul piano naturale, Lazzaro muore realmente. Il Vangelo insiste sulla verità della sua *

Omelia nella quinta domenica di quaresima, Cattedrale, Ugento 29 marzo 2020.

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morte. Non si tratta di una morte apparente, ma di un evento reale tanto che il corpo è ormai in uno stato di decomposizione. La sottolineatura cronologica che Lazzaro era nel sepolcro da quattro giorni, serve a testimoniare la certezza della morte. Nella cultura ebraica del tempo, si pensava che fino a tre giorni l'anima del morto stesse ancora vicino al cadavere e, in un certo senso, vi si aggirasse attorno. Dopo tre giorni, quando cioè cominciava la decomposizione del corpo, l'anima abbandonava definitivamente il luogo dove giaceva il morto. Parlare di quattro giorni e insistere su questo aspetto, significa sottolineare che si trattava di una morte reale. Non c'era più nulla da fare. Era cominciata la fase di decomposizione del corpo. La frase di Gesù, allora, va letta in questa prospettiva. Cristo ridona la vita all’uomo che è morto. Egli è entrato nel mistero della morte dell'uomo. Conosce per esperienza personale cosa vuol dire morire, anzi cosa significa stare nella condizione di morte. Non ha visto la morte da lontano, in quella degli altri, ma l’ha provata nella sua stessa persona. Ha subito la nostra stessa sorte. Ha attraversato il tunnel e l’oscurità della morte, ed è diventato risurrezione e vita dopo esser entrato nello stato di morte. Ha assunto la morte e l’ha sconfitta. Bellissime la parole di sant’Efrem il Siro: «Il nostro Signore - egli scrive - fu schiacciato dalla morte, ma a sua volta egli la calpestò come una strada battuta. Si sottomise spontaneamente alla morte, accettò volontariamente la morte, per distruggere quella morte, che non voleva morire. Nostro Signore infatti uscì reggendo la croce perché così volle la morte. Ma sulla croce col suo grido trasse i morti fuori dagli inferi, nonostante che la morte cercasse di opporsi. La morte lo ha ucciso nel corpo, che egli aveva assunto. Ma con le stesse armi egli trionfò sulla morte. La divinità si nascose sotto l’umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale»19. Dobbiamo considerare il mistero della nostra morte intimamente legato alla persona di Gesù. Lui è la risurrezione e la vita. «Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,9). Nel Vangelo abbiamo ascoltato tre bellissime espressioni di Gesù: «Togliete la pietra» (Gv 11,39 ). È il comando a togliere di mezzo ciò che sbarra l’ingresso nella grotta. «Lazzaro, vieni fuori!» (Gv 11,43). È la mano di Dio tesa a tirar fuori il defunto dalle tenebre in cui è caduto. E, dopo che il morto esce dal sepolcro con le bende e il sudario, Gesù grida ancora: «Scioglietelo e lasciatelo andare» (Gv 11,44). Non si tratta di sciogliere Lazzaro soltanto dalle bende, ma soprattutto di liberarlo dalle catene della morte. La morte non tiene più in suo potere il suo amico. Lazzaro torna alla vita. La parola di Cristo lo ha risuscitato. Con tre comandi la morte è vinta e la vita trionfa. Il secondo significato da considerare è quello simbolico. La tomba è simbolo della morte spirituale. La morte di Lazzaro è simbolo dell’uomo che vive ancora una vita naturale, ma è come se fosse morto dal punto di vista dello spirito. Questo avviene quando uno perde la speranza o quando è sopraffatto dalla depressione, il cosiddetto “male di vivere”, fenomeno oggi, purtroppo, molto diffuso. L'uomo muore dentro, si sente svuotato dentro, perde il senso del suo esistere. E come se vivesse già nella tomba. Questa situazione si aggrava quando subentra il peccato. Viene spontaneo chiederci: come mai di fronte alla morte di una persona cara piangiamo, mentre quando consideriamo il peccato restiamo indifferenti? La morte è l'immagine più significativa per stigmatizzare la natura 19

Efrem, Discorso sul Signore, 3-4.

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del peccato. Gesù piange per la morte fisica di Lazzaro, ma soprattutto per la morte spirituale di chi è sotto il dominio del peccato. Sant’Agostino si domanda: «Quando muore l'anima? Quando manca la fede. Quando muore il corpo? Quando viene a mancare l'anima. La fede è l'anima della tua anima. Chi crede in me - dice Gesù - anche se è morto nel corpo, vivrà nell'anima, finché anche il corpo risorgerà per non più morire. Cioè: chi crede in me, anche se morirà vivrà. E chiunque vive nel corpo e crede in me, anche se temporaneamente muore per la morte del corpo, non morirà in eterno per la vita dello spirito e per l’immortalità della risurrezione»20. Gesù è la risurrezione e la vita perché libera il corpo dalla morte e guarisce lo spirito dalla decomposizione spirituale. Occorre sciogliere l’uomo dalle bende fisiche e dai legami con il male. Cari fratelli e sorelle, Lazzaro è l’immagine più eloquente della situazione creata dal coronavirus. Viviamo con la morte addosso. Si dice infatti che gli asintomatici siano molti di più di quelli realmente accertati. Siamo in balia di un virus che ha molte sfaccettature ed è capace di camuffarsi in mille modi, rivelandosi in modo astuto e imprevedibile. Proprio in questa situazione dobbiamo anche pensare al peccato che ci sovrasta. «La redenzione - scrive Paolo VI suppone una condizione infelice della umanità, a cui essa è destinata; suppone il peccato. E il peccato è una storia estremamente lunga e complicata: suppone una caduta di Adamo; suppone un’eredità che travasa con la nascita stessa uno stato di privazione della grazia, cioè del rapporto soprannaturale dell’uomo con Dio; suppone in noi una disfunzione psico-morale che c’induce nei nostri peccati personali; suppone la perdita della pienezza di vita alla quale Dio ci aveva destinati oltre le esigenze del nostro essere naturale; suppone cioè un bisogno di espiazione e di riparazione, impossibili alle nostre sole forze; suppone l’avvertenza d’una giustizia implacabile, di per sé considerata; suppone una concezione, di per sé ancora, pessimista delle sorti umane; suppone una sconfitta della vita e un macabro trionfo della morte. Suppone, o meglio reclama, un disegno di misericordia divina, divinamente restauratore»21. Siamo in cammino verso la celebrazione della Pasqua. La risurrezione di Lazzaro prefigura quella di Gesù. Ed anche la nostra. Il brano del Vangelo si conclude con questa espressione: «Molti […] credettero in lui» (Gv 11,45 ). La fede in Cristo è la nostra resurrezione. Ed è la fede pasquale che noi dobbiamo accogliere, annunciare e testimoniare in questi giorni di dolore e di afflizione.

20 21

Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni 49, 15. Paolo VI, Catechesi, Udienza generale mercoledì santo, 29 marzo 1972.

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Meditazioni di don Fabrizio GALLO Advocata nostra Una delle prerogative che la Chiesa attribuisce alla Vergine Maria, è quella di Mediatrice e Avvocata. Anche questo, come tutti i titoli mariani è una trasposizione di una specifica caratteristica cristologica; Cristo infatti, è il Mediatore della Nuova Alleanza, il Pontefice sommo ed eterno, Colui che, attraverso la sua persona e il mistero della sua incarnazione, morte e resurrezione ha restaurato il rapporto tra Dio e l’uomo, interrotto dal peccato. Nella Scrittura il tema della mediazione è molto presente già nell’Antico Testamento. Nel libro della Genesi vengono indicati come mediatori di Dio presso il popolo gli antichi patriarchi: Abramo è il mediatore affinché il Dio vivente venga conosciuto e si passi dall’idolatria all’adorazione del Dio unico ( Gn 12), Melchisedek è il primo ad offrire il sacrificio del pane e del vino come mediazione e offerta di comunione (Gn 14), affianco ai diversi sacrifici sacerdotali che la legge di Mosè prescriveva per avere un contatto favorevole con Dio. Tutta la legge di Mosè, ruota intorno al ruolo fondamentale del mediatore; Mosè stesso è figura emblematica di questo. Egli e l’unico a cui «Dio parla faccia a faccia come un amico ad un altro amico» (Es 33 - 11), egli è colui al quale il popolo dice: «Parla tu a noi e noi ascolteremo ma non ci parli Dio» (Es 19, 19). Mose è colui che sta in mezzo tra Dio e il popolo, colui che in nome di Dio è difensore e avvocato del popolo di fronte al faraone. Tutti i profeti dell’antico testamento sono mediatori di Dio, essi parlano al popolo in nome di Dio e senza di essi e della loro mediazione il popolo non può avere la Parola di Dio. Il re stesso, soprattutto Davide è unto da Dio per essere ponte tra Lui e il popolo (1 Sam 16), insomma, in Israele è evidente come non ci sia mai stata la possibilità di accostarsi a Dio senza una mediazione sia di carattere istituzionale e strutturale che di carattere carismatico - profetico. Ovviamente tutto questo in Cristo, il quale assorbe in se tutte queste mediazioni e le compie, nel senso che, Egli essendo allo stesso tempo Dio e uomo, può essere il vero, efficace ed unico Mediatore, della nuova alleanza. «Abbiamo un avvocato presso il Padre, Cristo» (1Gv 2).

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Ma Cristo Gesù non svolge il suo ruolo di Avvocato e Mediatore degli uomini senza associare a se gli uomini stessi ed in primis i suoi discepoli, i quali, sono investiti da Lui di un munus e di un carisma particolare che li abilita ad essere uniti alla missione del Signore, pertanto anche essi diventano mediatori presso Cristo tra i fratelli. Si tratta del mistero della Chiesa mediatrice nel mondo, la Chiesa corpo di Cristo, associata alla sua missione, che diventa, come dice il Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium, «Come un sacramento, o un segno e uno strumento dell'unione intima con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (n.1), perciò, ognuno dei discepoli di Cristo, a motivo del battesimo, è chiamato ad essere mediatore e avvocato dei fratelli per il mondo intero, nella Chiesa e per la Chiesa, non da soli, nel senso che ad essere mediatrice e a partecipare della missione di mediazione di Cristo è la Chiesa, mentre il discepolo vive questa dimensione in quanto membro della Chiesa. Risulta facile allora comprendere come il ruolo di Maria in questo, sia non solo lecito e naturale, ma anche del tutto unico e singolare. Se Cristo associa a se i discepoli, tutti i battezzati, alla sua opera di Mediatore della salvezza, ovviamente la prima in questo è la sua Santissima Madre, la quale è membro eminente della Chiesa, ne è Madre e ne è Maestra, ed essendo anche’Ella discepola, è però, la discepola prima e perfetta; insomma, Cristo è l’unico Mediatore della salvezza, Egli chiama a se i discepolo nella Chiesa a collaborare con Lui, prima tra tutti Maria, che vi si unisce e ne partecipa in un modo unico, come unica e irripetibile è stata la sua missione e il suo ruolo nella storia della salvezza, in quanto Madre del Verbo fatto carne. La tradizione orientale ha sviluppato molto il tema dell’intercessione e mediazione della Madre di Dio. Quello che maggiormente viene messo in evidenza è la sua intercessione nella preghiera continua a favore del popolo cristiano. Si tratta di una preghiera potente, anzi onnipotente per grazia, dal momento in cui è la supplica di una Madre verso il Figlio per i figli. Avvocata perché Madre, madre del “Giudice”, e Madre dei colpevoli,e questo suo ruolo di Mediatrice scaturisce dalla sua maternità particolarissima che la mette in una posizione di riguardo verso Colui che riceve la supplica e in una posizione di grande pietà per coloro che invece la preghiera innalzano. Sarebbe come se la supplica dei miseri e dei peccatori debba giungere a Dio purificata, ma, non essendoci altro modo con cui purificare le preghiere di chi resta immerso nel peccato, allora esse passano per la dignità sublime dell’Incontaminata Madre di Dio. Se le suppliche dei peccatori sono contaminate dall’egoismo, Maria le purifica con l’amore, il suo amore puro per il Figlio e per i figli. Cosa può negare Ella, di buono, ai poveri che Le sono figli? E cosa non può concedere a Lei, il Figlio, del momento che Colei che intercede Gli è Madre? Perciò Maria diventa avvocata potente a motivo della sua potente e purissima supplica. Nell’iconografia bizantina questo è espresso attraverso il tipo iconografico della deesis o della Aghiosoritissa, (vedi immagine).

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La deesis è appunto, l’intercessione. Maria è rappresentata insieme al Battista ai lati del Cristo Pantocratore, in atteggiamento permanentemente orante, quasi che la sua eterna configurazione, anche nella postura del fisico, sia quella. Se Mosè si stancò di tenere le braccia alzate intercedendo per Israele durante la battaglia contro Amalek, tanto da aver bisogno del sostegno di Aronne e Cur, (Es 17, 8 - 16), Maria non si stanca mai di tenere le braccia elevate verso il Figlio in costante intercessione a difesa del popolo cristiano. La Aghiosoritissa è invece l’icona della Vergine da sola, senza la figura centrale del Cristo e senza la presenza del Battista, rappresentata col braccio destro alzato verso il Figlio invisibile, mentre col sinistro sembra toccarsi il petto come per indicare a noi di stare tranquilli, poiché ciò che Ella chiede, lo ottiene, dal momento in cui Dio allattò da Lei; oppure sembra rivolgersi al Figlio stesso, esortandolo ad esaudirla nelle sue richieste, a motivo del latte che da Lei prese. Giovanni Gometra cosi si esprime circa il ruolo di Mediatrice e Avvocata di Maria: «So che la Madre del Misericordioso non può essere senza misericordia, lo provano mentre ancora era in vita, il suo amore per i poveri, l’ospitalità, le intercessioni, le guarigioni dell’anima e del corpo per chi ne aveva bisogno; ora che è stata assunta lo provano i miracoli pubblici e privati in ogni luogo, di ogni tipo, superiori ad ogni parola, più numerosi della sabbia , e ancor più lo provano, perché beni superiori e più sublimi, le conversioni e le continue riconciliazioni dei peccatori. Forse al Re piacque proprio questa particolare bellezza, cioè il desiderio insaziabile di amare gli uomini come Egli li ama, più che tutte le altre virtù, quali la castità, il coraggio, la prudenza e tutte le altre prerogative di questa Regina che superano ogni bellezza della nostra natura. In tal modo, se sia lecito dirlo, Colui che ama immensamente gli uomini diventa ancora più misericordioso, Lui che ha scelto Costei a motivo dell’amore che nutre per gli uomini e l’ha costituita non solo Madre misericordiosa ma anche Mediatrice e Riconciliatrice presso di Lui: in tal modo, il nostro Avvocato presso il Padre ha verso di noi una propensione e un affetto connaturale e irrevocabile per un altro motivo, essendo continuamente supplicato e avendo accanto a se un altro Avvocato, la Vergine, che incessantemente placa la sua giusta collera e fa giungere a tutti in abbondanza le sue misericordie e le sue cure».22 Il testo è molto suggestivo. Viene rimarcato il potere di intercessione di Maria a causa della sua maternità divina che la pone in una posizione, anche affettivamente, privilegiata accanto a Cristo. Ovviamente il linguaggio usato è volutamente iperbolico. Cristo, infinitamente misericordioso, non ha bisogno che la sua misericordia venga accresciuta, dal momento in cui essa è, appunto, infinita, ma l’autore vuole insistere sul legame viscerale e umano che esiste tra il Cristo Dio - uomo e Maria, mostrando come la misericordia di Dio verso l’uomo, in definitiva, si manifesti proprio in quell’atto sommo e impareggiabile del Verbo che umiliò se stesso, condividendo in tutto la nostra condizione umana, e questo si realizzò per la mediazione di una Donna, la Vergine Maria. 22

Giovanni Gometra, Omelia sulla dormizione, in Testi mariani del primo millennio 2, padri e autori bizantini, a cura di G. Gharib, E. M. Toniolo, L. Gambero, G. Di Nola, Città Nuova editice. Roma 1989, pp. 965 – 966.

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Advocata Auxilium christianorum don Fabrizio Gallo

La Vergine Maria è invocata presso il popolo di Dio anche col titolo di aiuto dei cristiani. Ovviamente anche questa attribuzione mariana fa riferimento in primo, luogo ad una specifica caratteristica di Dio, il quale è Egli stesso l’aiuto del suo popolo . Nella Scrittura sono molti i riferimenti con cui viene mostrato questo aspetto dell’opera della salvezza, che di per se è tutta un’opera volta a dare aiuto all’umanità caduta nel dramma del peccato e dunque bisognosa dell’aiuto di Dio che si manifesta ripetutamente e in varie forme. L’episodio emblematico di tutta la storia sacra, almeno dell’Antico Testamento, è senza dubbio, il racconto della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto, narrato in Esodo. In questo racconto, Dio ascolta il grido di aiuto che dal popolo schiavo sale fino a Lui e manda il liberatore, Mosè il quale conduce il popolo fuori dall’Egitto. Ovviamente, per i cristiani, questo episodio rappresenta la profezia che si compie in Cristo, vero Mosè, il quale porta a tutti la liberazione dalla schiavitù del peccato e diventa Egli stesso, nella sua persona e nel suo mistero pasquale, il segno compiuto e definitivo dell’aiuto di Dio. Nella Bibbia, soprattutto nei salmi, ricorrono spesso espressioni come: “Il Signore è il mio aiuto… Signore vieni presto ad aiutarmi… Alzo gli occhi verso i monti da dove mi verrà l’aiuto, il mio aiuto viene dal Signore…”, espressioni tipiche di una invocazione accorata dell’uomo verso Dio, dell’uomo debole e sempre bisognoso di aiuto, verso un Dio sempre pronto a soccorrere e aiutare. Sempre nell’Antico Testamento, possiamo trovare indizi di carattere analogico o tipologico, che ci fanno vedere come l’aiuto che Dio porta all’uomo passi anche attraverso delle donne, tutte prefigurazione della Chiesa ma anche della Vergine Maria. Considerando il racconto della creazione di Eva, in Genesi, sentiamo questa espressione: “L’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse, perciò Dio creò la donna”. La donna viene subito identificata come l’aiuto dell’uomo, un aiuto corrispondente e indispensabile. Questo particolare, è molto significativo, soprattutto se accostato ad altre figure femminili dell’Antico Testamento che furono di sostegno a figure maschili di riferimento per la storia del popolo di Israele, ad esempio: Rebecca, madre di Giacobbe, la quale fu di aiuto al figlio affinché ricevesse la benedizione del padre Isacco, Debora, unica figura femminile tra i giudici di Israele, Ester e Giuditta, paladine di Israele, ed altre ancora.

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Queste figure bibliche ci portano fino a Maria, la quale può essere identificata come la donna perfetta con cui Dio manda l’aiuto definitivo, che è Cristo suo Figlio. Maria dunque è aiuto del popolo, ma anche aiuto del Figlio di Dio nella sua missione. Non sembri strano questo passaggio, ma, se torniamo al racconto di Genesi, in cui la donna viene identificata come l’aiuto corrispondente all’uomo e tenendo presente la tipologia paolina Adamo – Cristo, con la conseguente lettura di Ireneo che aggiunge: Eva – Maria, allora la Vergine Madre di Cristo diventa Colei che, come nuova Eva è unita in modo del tutto unico e particolare all’opera e alla missione del nuovo Adamo e in certa misura, lo sostiene e lo aiuta. Maria, dunque, fu principalmente un aiuto per il suo Figlio. Questo aspetto ci porta a soffermarci anche sul mistero commovente della vera e santa umanità di Cristo, il quale molte volte, da vero uomo, ebbe bisogno dell’aiuto e del conforto della Madre. mi viene in mente la scena dell’incontro tra Gesù, carico della croce e Maria, sulla strada del Calvario, scena consegnata a noi dalla pietà popolare. Il Cristo sfinito e sofferente riceve aiuto e conforto dallo sguardo materno, e dalla sua Santissima Madre viene incoraggiato a proseguire fino al dono totale di se sulla croce, per noi. Lo sguardo della Madre bastò ad aiutare il Figlio. Non è toglie nulla al mistero della divinità del Verbo incarnato, affermare che Cristo ebbe bisogno dell’aiuto di sua Madre nel compiere la sua missione, anzi, questo ci porta a considerare quanto vera e autentica è stata la sua umanità e dunque la sua sofferenza per noi. Ecco allora compiute in Gesù e Maria, le parole della Genesi: la donna aiuto all’uomo. Fatte queste considerazioni viene spontaneo vedere in Maria anche l’aiuto del popolo cristiano. Maria è ausilio dei cristiani in due modi fondamentalmente: come aiuto nella fede e come sostegno nelle avversità della vita. Maria è principalmente sostegno e difesa della nostra fede. La fede incrollabile di Maria, che resta salda anche sul Calvario, diventa aiuto alla nostra fede che rischia di incrinarsi tra le difficoltà della vita. È come l’arbusto più duro che si lega al ramoscello tenero e lo si pianta a terra perché il duro sostenga il tenero quando soffia forte il vento. I teneri siamo noi, che se non rimaniamo legati alla fede rocciosa della Vergine Madre, piantata come la croce sul Golgota, rischiamo di vederci spenta la fiammella della nostra fede dal vento delle sofferenze della vita. Ancora, la Vergine Maria è aiuto di intercessione presso il Figlio, nelle varie necessità, anche di carattere umano e materiale. Dio, che consolò il Figlio suo con la presenza della sua Santissima Madre e volle che Ella Gli fosse di aiuto in tutte le necessità e circostanze della sua vita umana, vuole allo stesso modo, che i cristiani e tutti gli uomini, trovino in Maria lo stesso aiuto e la stessa difesa nei pericoli e nei travagli dell’esistenza. Concludo come sempre con un testo dei Padri della Chiesa: «Ma ora, o Vergine, assistimi, come Tu sei solita, Tu che sei Regina di tutti, inviata dall’Alto. Immacolato specchio di verginità, immagine viva di purezza, sempre benigna verso quelli che implorano il tuo soccorso e dovunque pronta Ausiliatrice, tu che hai generato il Dio Verbo, incarnato e concepito da Te in modo ineffabile, concedi ai tuoi umili servi di esprimersi con 84


facilità di parola affinché manifestiamo in modo splendido la tua dignità anche ai tuoi nemici». (Pietro Siculo, omelia II contro i manichei). Di questo testo mi colpisce molto l’espressione contenuta all’inizio in cui alla Vergine si dice che è solita aiutare e assistere. Si, Maria non fa altro, la sua caratteristica è questa , il suo è un continuo e ininterrotto correre in aiuto dei figli. Perciò, non perdiamo mai la speranza, anzi, alimentiamo in noi la certezza di essere sempre e in ogni necessità sostenuti dall’aiuto della Vergine Madre di Dio, pronta a soccorrerci ogni qual volta la invochiamo.

Ildefonso di Toledo e la consacrazione a Maria Apparizione della Vergine a Sant’Ildefonso di Toledo

don Fabrizio Gallo

Uno degli ultimi padri della Chiesa latina è il vescovo di Toledo Sant’ Ildefonso, colui che diede avvio ad una forma di pietà mariana originale che verrà poi identificata nella “schiavitù d’amore” alla Vergine, oppure atto di consacrazione o affidamento a Maria. Questa corrente teologica e spirituale prende avvio dall’esperienza personale del vescovo spagnolo che a più riprese e in numerosi scritti manifesta la sua personale volontà di vivere sotto la guida e secondo gli ordini della Regina del cielo per servire meglio il suo Figlio23. Ildefonso nacque a Toledo nel 617 e fu arcivescovo della sua città. Scrisse numerose opere tra cui, Messe e inni della liturgia mozarabica, lettere e un trattato sulle personalità più illustri del suo tempo, tra cui numerosi arcivescovi suoi predecessori, con l’intento di risollevare in chiave morale e pastorale la dignità dell’episcopato contro i principi, in una congiuntura dei due poteri24.

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Cf.Ildefonso di Toledo, in Testi mariani del primo millennio 3, padri e altri autori latini, città nuova, 1990, pp. 64748. 24 Cf. idem, in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, 2007, p 2529.

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La sua opera principale è intitolata “Libro sulla verginità della Santa Maria”, contro tre negatori, identificati in Gioviniano, Elvidio, confutati nel IV secolo da San Girolamo 25, e un giudeo anonimo. Nello scritto si evince un fortissimo afflato spirituale personale del santo vescovo di Toledo nel voler difendere le verità della fede ed in particolare quelle relative alla Madre di Dio; in particolare egli si ferma nello sviluppare il tema della maternità divina e verginale di Maria. Da qui una profonda esperienza spirituale che sfocia nello sviluppo dell’idea di consacrazione alla Vergine Maria. Questa “schiavitù mariana”, verrà ripresa più tardi, anche nella tradizione orientale, in particolar modo da San Giovanni Damasceno. Da sant’Ildefonso di Toledo questa spiritualità della consacrazione a Maria è passata poi a San Bernardo di Chiaravalle e nel XVI secolo, a San Luigi Maria Grignon da Monfort26, fino ad essere fatta propria da numerosi papi del secolo scorso, primo fra tutti San Giovanni paolo II. Di seguito, due invocazioni alla Vergine contenute nella principale opera di sant’Ildefonso. Il commento che ne segue é mio. «Ed ora, mi rivolgo a Te o sola Madre di Dio e Vergine, mi prostro davanti a Te o solo capolavoro dell’incarnazione del mio Dio, mi umilio davanti a Te che sola sei stata riconosciuta Madre del mio Signore. Io ti prego, Tu che sola sei stata riconosciuta Ancella del Figlio tuo, di ottenere che siano distrutte le colpe dei miei peccati. Ottienimi di amare la gloria della tua verginità, rivelami la grandezza della dolcezza del Figlio tuo, concedimi di parlare e di difendere la verità della fede del Figlio tuo, permettimi pure di aderire a Dio e a Te, di servire il Figlio tuo e Te, di sottopormi al mio Signore a Te, a Lui come mio creatore e a Te come Madre del mio creatore, a Lui come Signore delle potenze del cielo, a Te come Ancella del Signore dell’universo, a Lui come Dio, a Te come Madre di Dio, a Lui come mio redentore, a Te come cooperatrice della mia redenzione. E veramente quanto Egli ha compiuto per la mia redenzione lo ha attuato derivandolo dalla verità della tua persona. Nell’essersi fatto mio redentore è divenuto Figlio tuo, nell’essersi fatto prezzo del mio riscatto, la sua incarnazione è frutto della tua carne e in essa Egli sanò le mie piaghe, dalla tua carne Egli trasse il corpo destinato alle ferite e con Esso Egli distrusse la mia morte. Dal corpo della tua mortalità, Egli trasse il suo corpo mortale con il quale poté distruggere i miei peccati, che Egli si addossò. Egli prese da te il corpo senza peccato, assunse dalla realtà del corpo della tua umiltà la mia stessa natura che Egli, precedendomi nel suo regno, collocò nella sede del Padre suo al di sopra degli angeli». In questa prima parte della supplica alla Vergine, contenuta nel trattato contro i negatori della verginità di Maria, Ildefonso fa emergere con chiarezza il senso della consacrazione e schiavitù 25

San Girolamo, La perenne verginità di Maria, in Collana testi patristici, città nuova editrice, 1996, Roma. San Luigi Maria Grignon da Monfort, Trattato della Vera devozione a Maria, in opere, centro mariano confortano Roma, 1977. 26

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mariana, soprattutto nella ripetizione dell’invocazione con sui si rivolge alla Vergine desideroso di essere servo, sia di Cristo che della sua Madre. Appare singolare il fatto che questo desiderio di servitù, venga rivolto alla Vergine per il servizio del Figlio. In pratica, il vescovo di Toledo, sembra dire che non è possibile servire il Figlio se non si serve la Madre, e servendo la Madre si serve il Figlio. Questo avviene principalmente a motivo dell’incarnazione, per cui il Verbo divenne servo dell’umanità attraverso Maria, nel senso che, se Cristo si fece nostro servo partendo dal farsi servo obbediente a Maria, del quale fu vero figlio, di conseguenza noi, se vogliamo servire Cristo, lo dobbiamo fare mettendoci a servizio della Madre. Un altro motivo per cui questa servitù di Cristo deve passare attraverso una servitù di Maria, è l’imitazione della Vergine. Ella è la Serva del Figlio suo, perciò noi possiamo imparare da Lei, sua serva e nostra Signora, il giusto modo di essere servi di Cristo. Maria, dunque, nell’atto di insegnare a noi il suo modo di essere Ancella diventa di conseguenza, nostra Maestra dunque Signora. Per questi due principale motivi ricorre, quasi come un ritornello, l’espressione con cui è detto di voler servire Cristo e “Te”, rivolto a Maria. Non sembra esserci mai una distinzione o una dissociazione tra il servire Cristo e il servire Maria, e non sembra esserci nemmeno un’ esclusività tra il servizio di Cristo e quello della Madre, come se si temesse, servendo Maria, di togliere qualcosa al servizio di Cristo, anzi, in Ildefinso, il servizio di Cristo comporta quello della Madre e viceversa. «Pertanto, io sono tuo servo perché il Figlio tuo è il mio Signore, perciò tu sei la mia Signora perché sei l’Ancella del mio Signore. Perciò io sono il servo dell’Ancella del mio Signore, perché tu, o mia Signora, sei divenuta la Madre del mio Signore. Io ti prego e ti supplico o Santa Vergine, affinché io accolga Gesù da parte di quello Spirito per opera del quale Tu lo hai generato. L’anima mia possa ricevere Gesù grazie a quello Spirito per opera del quale la tua carne lo ha concepito, mi sia concesso conoscere Gesù da quello Spirito dal quale ti fu dato conoscere, possedere e partorire Gesù. Che io possa manifestare intorno a Gesù le cose umili e le cose alte per quello Spirito grazie al quale ti sei professata Ancella del Signore, desiderando che a Te avvenisse secondo la parola dell’angelo, che io ami Gesù, in quello Spirito nel quale Tu lo adori come Signore e lo contempli come tuo Figlio, che io tema con tanta sincerità questo Gesù, quanto sinceramente Egli, pur essendo Dio, era soggetto ai suoi genitori»27. In questo secondo passaggio della preghiera emerge un altro singolare sviluppo di questa mariologia della servitù. L’azione dello Spirito Santo. Il santo di Toledo, più volte invoca la Vergine di poter amare Cristo, avere Cristo, servire Cristo, ma sempre per mezzo dello Spirito Santo, lo stesso Spirito per mezzo del quale Maria ebbe Cristo in se. 27

Ildefonso di Toledo, libro della verginità della Santa Maria contro tre negatori, in testi mariani del primo millennio…pp. 683 – 84.

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Questo sviluppo è molto importante. La “schiavitù mariana” è un dono dello Spirito Santo, nel senso che, entrando in stretta sintonia con la Vergine, si entra in stretta sintonia con i suoi sentimenti e con i suoi pensieri, movimenti interiori provocati in Lei dall’azione dello Spirito e, attraverso Maria, si viene resi partecipi dei doni singolari di grazia che la Terza Persona della Santissima Trinità, fece alla Vergine. Certamente i doni di grazia fatti a Maria dallo Spirito Santo, restano doni singolari, appunto, ma il credente, “schiavo” di Maria, ne partecipa in una particolare forma e misura, proprio per mezzo e per tramite di Maria stessa, per cui dallo Spirito e per Maria si ha la possibilità di conoscere, amare e servire Cristo nella stessa misura e maniera, o quasi, con cui la Vergine, sempre per opera dello Spirito Santo, conobbe, amò e servì il Verbo in lei fatto carne. Concludendo, è chiaro che in Ildefonso di Toledo, non si tratta solo di devozione mariana, ma di uno specifico e nuovo modo di vivere la spiritualità cristiana a partire e per mezzo di Maria, in una continua dinamica pneumatologica. Essere “schiavi” o servi della Madre di Dio, non vuol dire, come potrebbero pensare alcuni, impelagarsi in un discorso anacronistico e svilente della dignità della persona che rischierebbe di asservirsi ad una creatura, quale è e resta Maria, allontanandosi pericolosamente dal servizio reso solo a Dio, al contrario, questa “schiavitù” o servizio a Maria è funzionale, propedeutico e permettente il vero e autentico servizio di Dio seguendo le tracce e le mosse di Colei che prima fra tutti e meglio di tutti fu l’Ancilla Domini.

Refugium peccatorum don Fabrizio Gallo Piero della Francesca, Madonna della misericordia, 1445 – 62, museo civico, Sansepolcro.

Un altro singolare titolo con cui i cristiani venerano la Madre di Dio, Maria è: Rifugio dei peccatori. Questo appellativo mariano porta con se, nella nostra riflessione, molti temi, tra cui quello del peccato e della misericordia di Dio. Innanzitutto il peccato. L’uomo creato da Dio per partecipare della vita divina, rifiutando l’amore salvifico del Creatore si è auto estromesso dalla comunione con Lui, e questo ha portato

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ad un allontanamento dalla Grazia, un “cacciata” dalla presenza di Dio. L’uomo peccatore è dunque estromesso dalla salvezza. Ma Dio, infinitamente misericordioso, non rimane indifferente davanti al dramma dell’umanità allontanata da Lui, Egli, nella sua bontà ha mandato il proprio Figlio come Salvatore e attraverso il mistero della morte e resurrezione di Cristo ha ristabilito la comunione con Se per quelli che credono nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio e ricevono l’aspersione della nuova alleanza nel suo sangue. Per questo motivo il rifugio dei peccatori è principalmente il sangue di Cristo; l’uomo cacciato fuori dalla vita divina a causa del peccato, ritorna nella Grazia rifugiandosi nel sangue di Cristo. Le ferite stesse del Salvatore, in particolare quella del fianco, sono state viste dai Padri della Chiesa come quella fenditura che sta nella roccia e che dona rifugio e riparo alla colomba, secondo le parole del Cantico dei Cantici. Il cuore di Cristo dunque, il suo sangue e le sue ferite sono il rifugio e la salvezza offerte da Dio al peccatore. Ma nell’opera della redenzione, Cristo associa a Se e alla sua missione, molti, e in modo del tutto particolare la sua Santissima Madre, la quale, anche in questo aspetto è considerata unita strettamente al Figlio; anch’Ella è rifugio dei peccatori. La tradizione patristica legge in questo senso numerosi brani ed episodi dell’Antico Testamento. Faccio riferimento a due in particolare che mi colpiscono molto: il primo è l’episodio dell’arca di Noè. Cosi come Dio ordinò a Noè di costruirsi l’arca nella quale rifugiarsi con la sua famiglia e tutti gli animali, per scampare alla punizione del diluvio, allo stesso modo Dio vuole che ci si rifugi in Maria. Ma, tra la vecchia arca, quella di Noè e la nuova arca, Maria, vi è una grande differenza, cosi come intercorre differenza tra antica e nuova alleanza, tra simbolo e realtà, tra profezia e compimento. L’arca di Noè fu fatta da Noè stesso, mentre Maria è tutta opera di Dio. In lei, Vergine, nella sua “fattura”, non vi è concorso umano alcuno. Inoltre, nell’arca di Noè poterono trovare riparo solo i giusti, Noè per primo, mentre nella nuova arca che è Maria, tutti i peccatori, nessuno escluso. L’Arca di Noè si fermo sull’Arart, Maria conduce invece al Calvario, poiché il monte della salvezza e l’approdo della redenzione per tutti è e resta sempre il mistero della croce. Consideriamo, in secondo luogo, come nella Sacra Scrittura esistono dei testi in cui si parla di alcune città - rifugio presenti in Israele, città entro le cui mura potevano trovare asilo i colpevoli di numerosi delitti, anche se non tutti. Nel libro dell’Esodo al capitolo 4 versetto 43 si legge, di Mosè, il quale scelse tre città oltre il Giordano, che servissero come rifugio per l’omicida che avesse ucciso involontariamente. Ora, il tema della città nella Scrittura è un tema molto forte, e tutta la tradizione cristiana ha visto nella città santa, Gerusalemme, un anticipo del Regno, della Chiesa, ma anche un simbolo della persona stessa di Maria, nel cui seno, più che in Gerusalemme abita il Santo. Se Maria è accostata alla città, e se in questo passaggio del libro dell’Esodo, la città che sceglie Mosè è un rifugio per i delinquenti, allora viene spontaneo l’accostamento e la lettura mariana: Cristo è il nuovo e vero Mosè il quale stabilisce una nuova città - rifugio; questa è Maria sua madre, il suo Cuore immacolato. 89


Ma, ancora una volta, tra simbolo e realtà vi è un di più. Se nella città - rifugio di Mosè potevano essere accolti solo alcuni rei, non tutti, in Maria possono trovare asilo tutti i peccatori, nessuno escluso. Essi poi sono condotti da Lei alla libertà che consiste nella partecipazione piena al mistero della Pasqua di Cristo. A dire il vero, i riferimenti biblici a questo tema mariano possono spingersi anche oltre, se vogliamo. Mi riferisco ad alcune considerazioni dei Padri della Chiesa che, come ad esempio fa San Giovanni Damasceno, vedono una città - rifugio simboleggiata in Maria, già in Genesi, nell’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Escludendo i progenitori da Eden a causa del peccato, Dio avrebbe preparato per loro un rifugio, una città in cui chiedere e trovare asilo, Maria. Per questo motivo la Vergine Maria viene chiamata dai Padri: madre di Eva, riscatto del pianto di Eva, (Inno Akatistos), conforto e asilo per Adamo cacciato. Solo Colei che fu concepita senza peccato e che del peccato non conosce nemmeno l’ombra poteva essere un valido rifugio dei peccatori, Lei che ad essi si accosta con sicurezza, giacché immune e dunque certa di nessuna contaminazione. Come in un’ epidemia, non ci si accosta al malato per paura di essere contagiati, così Maria immune e libera, può avvicinare i colpiti dalla lebbra del peccato, libera di toccarli e accarezzarli, libera di accoglierli dentro la sua casa, tra le sue forti e corazzate mura, nel suo pietoso e dolcissimo Cuore. Maria è l’ospedale da campo, che in tempo di epidemia spirituale Dio ha preparato per dare pronto ricovero a tutti e trovare in esso la medicina di Cristo, la sua infinita misericordia. I Padri della Chiesa e gli scrittori antichi cosi si esprimono: «Ti saluto o rifugio dei mortali presso Dio, Egli nascendo da Te ha assunto noi ed è divenuto per noi rifugio e forza. (Sal 45, 2.)». (Modesto di Gerusalemme). «I tormenti dell’Ade, gli affanni e le indigenze mi hanno divorato o Vergine Madre di Dio, ma tu porgi la mano a me che invoco la tua supplice difesa e liberami dai peccati». (Andrea di Creta , canone paracletico alla Madre di Dio).

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Maria Consolatrix afflictorum don Fabrizio Gallo

La tradizione cristiana invoca la Vergine Maria col titolo di Consolatrix afflictorum, consolatrice degli affitti. Questo titolo mariano esprime ancora una volta, una precisa dimensione della fede che scaturisce dalla contemplazione del mistero della misericordia di Dio; è lui infatti il Consolatore, colui che si china sulle miserie dell’uomo e lo consola, nel senso di una compassione, spinta a tal punto da portare Dio stesso a diventare uomo sofferente, in Cristo. Nella Scrittura il tema di Dio consolatore è presente sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Nei libri profetici infatti, soprattutto nel profeta Isaia, ricorrono spesso espressioni come: «Consolate, consolate il mio popolo». (Is 40, 1-5), attraverso cui Gerusalemme è invitata a guardare alla propria salvezza e liberazione operate da Dio e che non tardano ad arrivare, oppure, sempre in Isaia il testo al capitolo 66 versetto 23 in cui Dio si esprime in termini di amore materno: «Come una madre consola un figlio, così io vi darò consolazione. In Gerusalemme sarete consolati». La consolazione di Dio per il suo popolo consiste nel far conoscere la sua promessa di liberazione e salvezza e nell’assicurarne la realizzazione certa e piena. Queste promesse di consolazione si realizzano nel Nuovo Testamento, in Cristo, colui che in se porta il compimento di tutte le promesse che Dio aveva fatto per bocca dei profeti; è Cristo la consolazione, è lui il Consolatore. Questa attribuzione, nel Nuovo Testamento, viene spostata da Gesù allo Spirito Santo, chiamato appunto il Paraclito o il Consolatore. È Gesù stesso che nel Vangelo di Giovanni, promettendo il dono dello Spirito lo chiama Consolatore e ne spiega il significato ai discepoli: «Egli vi farà ricordare le cose che vi ho detto». (Gv 14, 26). In questo dinamismo di consolazione e opera consolatoria è ovviamente inserita in modo del tutto speciale la Madre di Cristo. Innanzitutto come la consolata, ossia, colei che in primo luogo riceve la consolazione promessa a Israele, in quanto ella è immagine dell’antico popolo in attesa, ed è per questo motivo la “prima” del popolo consolato, dal momento in cui il Messia promesso, il Consolatore di Israele, si è fatto uomo proprio da lei. Oltre a questo, Maria è immagine dei consolati anche al momento della resurrezione del Signore. La devozione popolare ha individuato nella Vergine ai piedi della croce e soprattutto con il Cristo morto in braccio, la desolata, colei che ormai è lasciata sola, immagine del popolo desolato, senza Dio, secondo un’ espressione del libro delle lamentazioni: «Ah come è desolata la città un tempo ricca di popolo».(Lam 1,1). 91


Se Maria è immagine della città desolata, senza Dio, senza lo sposo, senza il figlio, alla resurrezione ella diventa anche immagine della città consolata. Questa volta ella è la madre gioiosa che rivede il figlio, riabbraccia lo sposo che era andato via ed ora è rientrato, colui che: «Era morto ma ora vive per sempre». ( Cf. Ap 1- 18). Maria è la sposa del Cantico dei Cantici che, avendo cercato lo sposo, lo ritrova piena di gioia. Maria è typos della Chiesa, la Chiesa che, se per un momento perde lo sposo, o lo sposo sembra nascondersi o allontanarsi, successivamente ne è consolata al suo nuovo apparire. Si tratta della dimensione della Pasqua, ma anche della parusia finale. In tutto questo la Vergine di Nazareth risplende come immagine di chi è consolato da Dio in tutte le sue afflizioni, ma di conseguenza, ella è la prima a donare la consolazione di Dio a tutti, per questo passa dall’essere consolata al diventare la consolatrice degli afflitti. Questa dimensione mariana della consolazione, ossia il ruolo di Maria nel consolare i miseri, viene espresso molto bene da numerosi padri della Chiesa, soprattutto in Oriente, i quali coniugano il tema della consolazione con quello della compassione. Maria avendo compatito in tutto il figlio è adesso capace di compatire e quindi consolare tutti i suoi figli generati a vita nuova dalla Pasqua. Questa dimensione viene espressa molto bene in un passaggio, a mio avviso commuovente, dell’inno II del Natale di Romano il Melode, in cui il santo poeta si esprime così circa la compassione - consolazione di Maria per i suoi antenati Adamo ed Eva: «Gli occhi di Maria su Eva e su Adamo, si riempirono di lacrime. Presto però le contenne cercando di dominare la natura, essa che oltre la natura aveva dato alla luce Cristo. Le sue viscere furono scosse dalla compassione per i parenti, perché al Misericordioso era madre, una madre di tenerezza, perciò essa disse loro: «Ponete fine ai lamenti, mi farò vostra avvocata presso il figlio mio, intanto non più tristezza perché ho messo al mondo la gioia, sono venuta al mondo per rovesciare il regno del dolore, io la piena di grazia. Ho un figlio misericordioso e molto compassionevole e lo dico per esperienza, io ne seguo attentamente le mosse. Pur essendo fuoco egli abitò il mio corpo di spine e non mi consumò, umile creatura quale sono. Come un padre ama i propri figli cosi il figlio mio ama quanti lo temono secondo la profezia di Davide. Mettete dunque freno alle lacrime, accettate me per vostra mediatrice presso colui che da me è nato, perché l’Autore della gioia é lo stesso Dio generato dall’eternità. Non vi agitate più, bandite ogni turbamento, io vado da lui, piena di grazia». La Vergine Maria giustamente è stata sempre invocata presso i cristiani come colei che porta la consolazione di Dio, la madre consolatrice, colei che asciuga le lacrime dei disperati e ridona loro speranza nuova nel suo figlio misericordioso. La storia dell’arte ha cercato in molti modi di esprimere questa dimensione consolatoria di Maria e lo ha fatto soprattutto nell’iconografia bizantina mostrandone i tratti materni, specialmente nelle tipologie iconografiche dell’ Eleousa o della Glikofilousa. Anche l’ arte contemporanea ha fatto questo, se pur in modo diverso. Mi viene in mente un’opera molto originale di un pittore francese di fine ottocento, William Adolphe Bouguereau, (vedi immagine), in cui la Vergine, seduta ieraticamente su un trono e con lo sguardo e le mani 92


rivolte al cielo, porta sulle ginocchia una donna che, disperata per la morte del proprio bambino, il quale giace a terra ai piedi della Vergine, è gettata in grembo a Maria. la Vergine non ha uno sguardo rivolto alla donna e non sorride dolcemente, sembra un atteggiamento poco compassionevole invece esprime esattamente il contrario. In questo dipinto la compassione - consolazione di Maria è espressa nel suo ruolo di interceditrice e mediatrice, significato dalle braccia aperte e le mani rivolte al cielo come nel tipo iconografico orientale della sempre intercedente, sulla scorta del brano biblico in cui si narra di Mosè, durante la battaglia contro Amalek, (cf. dt 17, 8-16) e ancora sulla forma del Cristo con le braccia aperte sulla croce mentre offre al Padre con se stesso, il dolore del mondo e lo redime. Maria dunque è consolatrice perché mediatrice, sullo stampo del figlio. Sulle materne ginocchiati Maria, tutti possono trovare accoglienza, rifugio, conforto e consolazione, di lei, che per prima ha sperimentato la consolazione di Dio il mattino di Pasqua, quando si vide rientrare in casa il figlio che ne era uscito per andare incontro alla morte. Concludo con un riferimento ad una celebre poesia di Gabriele D’Annunzio, che credo esprima bene proprio questa mia ultima considerazione circa l’incontro consolatorio e consolante tra Maria e il figlio risorto. La poesia si intitola appunto “consolazione”: «Non pianger più, torna il diletto figlio a la tua casa».

MARIA SALUS INFIRMORUM don Fabrizio Gallo Tra i numerosi titoli con cui la devozione del popolo invoca Maria vi è anche quello di "Salus infirmorum" ossia, salute degli infermi. Con questo titolo vogliamo affermare la nostra fede in Cristo, nato dalla Vergine Maria, Colui che passando durante la sua vita terrena guarì molti, afflitti da varie malattie; Colui che con la sua croce ha salvato il mondo dell'epidemia del peccato; Colui, il cui tocco è risanatore da ogni male. A Lui è unita in modo del tutto unico la Madre sua che, essendo concepita senza peccato, non ebbe mai in vita nessuna malattia ma proprio per questo Ella, stretta più di tutti al mistero del suo Figlio, ha ricevuto da Lui un potere di intercessione che supera quello di tutti i santi, per cui è detta “Grande Mediatrice” e “Salute degli infermi”. Maria è la piena di grazia, colei che dall'Arcangelo si sentì dire che niente è impossibile a Dio e a queste parole credette e perciò concepì il Verbo nel suo cuore prima e poi nel suo 93


grembo verginale e, proprio perché piena di fede, Ella può suscitare la stessa sua fede nell’onnipotenza di Dio, nel cuore dei credenti, che in tal modo hanno la certezza che Dio può liberare anche dalle più atroci malattie del corpo, essendo Egli autore e restauratore della natura, l’unico a cui niente è impossibile. A Lei accorrono da sempre tutti gli ammalati, da Oriente a Occidente e la invocano: "Piscina delle guarigioni", "Medicina dei piangenti", " Farmaco dei miserabili", "Soccorso dei disperati". Ella è la “Fonte della Vita”, la “Fontana sigillata” da cui zampilla di continuo l'acqua pura della salvezza, sia dell'anima che del corpo. Numerosi padri e autori antichi hanno celebrato la Vergine Madre esaltandone la fede nella potenza guaritrice di Dio, ma anche la potenza nell’ottenere, Ella stessa, dal suo Figlio, guarigioni per i credenti. Un testo a mio avviso significativo potrebbe essere il seguente: «Ti saluto o gradita medicina degli ammalati, ti saluto o risurrezione certa dei morti, ti saluto o causa di salvezza di tutti i mortali, ti saluto o inenarrabile gioia del mondo, o Regina Mediatrice della pace». (Tarasio di Costantinopoli, omelia sulla presentazione di Maria al tempio). Colpisce particolarmente, in questo testo appena citato un particolare. Maria non solo viene detta “medicina dei malati”, ma “gradita medicina…” L’autore sembra voler dire, che se il farmaco per guarire, tuttavia deve essere amaro e a volte anche disgustoso, per cui il malato deve sottoporsene con rassegnazione, Maria è l’unico rimedio ai mali anche fisici che provoca dolcezza tanto da essere gradito solo il farmaco, a tal punto da non suscitare più interesse per il suo effetto. Si, Maria è la medicina dolce che provoca il prodigio di accettare anche la malattia e la sofferenza, basta aver assaggiato la dolcezza del farmaco; come se, per assurdo, si desiderasse il malore per assaggiare la medicina. Questo, credo sia anche il senso delle parole di molti ammalati che recatisi in numerosi santuari mariani per chiedere la guarigione per intercessione di Maria, ritornano affermando di non aver più necessita di guarire nel fisico, dal momento in cui, proprio grazie alla condizione di infermità, essi hanno assaggiato il dolce farmaco della Madre di Dio, per cui possono soffrire con gioia e amore, in unione a Cristo crocifisso. Insomma, sembrerebbe gradita la malattia per poter ricevere il farmaco, poiché senza la malattia non si da farmaco. Questa considerazione credo sia molto significativa, come significativo è il passaggio quasi inosservato nell’omelia di Tarasio. Andiamo dunque con fiducia alla Madre di Dio, accorriamo alla fonte della salute, ricorriamo alla grande Mediatrice che interceda per noi presso il suo Figlio misericordioso e pietoso affinché siamo liberati tutti da questo e da ogni altro male.

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Stella matutina don Fabrizio Gallo

Immacolata Concezione, Gianbattista Tiepolo, 1768, museo del Prado, Madrid

Tra i titoli che la devozione del popolo attribuisce a Maria, ve ne è uno molto singolare: Stella del mattino. Anche questo titolo ha i suoi riferimenti biblici, uno in particolare, si tratta del testo del Siracide in cui si tesse l’elogio di Simone, sacerdote al tempo del ritorno dalla deportazione in Babilonia, che aveva restaurato il tempio e ripristinato il culto nella città di Gerusalemme. Di seguito il testo biblico: «Simone, figlio di Onia, sommo sacerdote, nella sua vita riparò il tempio e nei suoi giorni consolidò il santuario. Da lui furono poste le fondamenta del doppio muro, l’elevato contrafforte della cinta del tempio. Nei suoi giorni fu scavato il deposito per le acque, un serbatoio grande come il mare. Avendo premura d’impedire la caduta del suo popolo, fortificò la città nell’assedio. Com’era glorioso quando si affacciava dal tempio, quando usciva dal santuario dietro il velo! Come astro mattutino in mezzo alle nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, come sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, come arcobaleno splendente fra nubi di gloria, come rosa fiorita nei giorni di primavera, come giglio lungo i corsi d’acqua, come germoglio del Libano nei giorni d’estate, come fuoco e incenso su un braciere, come vaso d’oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose, come ulivo che fa germogliare i frutti e come cipresso svettante tra le nuvole» (Sir 50,1-10). Il testo esalta poeticamente la figura del sacerdote, ma ascoltando gli appellativi con cui ci si riferisce a lui viene naturale darne anche una lettura mariana; se queste cose sono vere per il sacerdote Simone, ancora di più lo sono se riferite all’eterno Sommo Sacerdote, Cristo e anche alla sua Madre, Maria; e se il sacerdote Simone fu grande per aver ristabilito il culto di Dio in Israele, Maria è considerata più grande perché porta Colui che del culto e del sacrificio è la pienezza, attraverso l’offerta definitiva di se stesso sulla Croce Cerchiamo ora di considerare in chiave mariana i passaggi più significativi del testo. “Come era glorioso quando usciva dal tempio, quando si affacciava dal santuario dietro il velo”.

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Il Sommo Sacerdote glorioso è Cristo, il tempio dal quale Egli esce è Maria, Ella è il Tabernacolo santo, il vero Santuario incontaminato, costruito non più da Salomone, ma da Dio stesso, preparato per il Figlio veniente nel mondo. Maria è anche il velo dietro al quale Egli si cela e si manifesta, si mostra e si nasconde, anzi, si mostra nascondendosi, nel senso che, attraverso Maria si intravede Cristo, ed Egli è tuttavia nascosto in Lei e per mezzo di Lei vuole svelarsi. Maria contiene e mostra il Figlio, Ella che nella sua divina maternità è diventata più ampia del tempio stesso che e il cielo, poiché, Colui che i cieli non possono contenere, e ancor meno il tempio di Salomone, in Maria si è fatto circoscritto e contenuto per noi.

“Come astro mattutino in mezzo alle nubi”. Ecco il tema centrale del nostro discorso: la stella. Anche questo in realtà è un riferimento a Cristo, Egli è la stella radiosa del mattino; ma questo simbolo può a ragione essere attribuito anche a Maria, considerando che la stella del mattino è quella stella che preannuncia l’aurora e dunque la venuta del sole, per questo Maria è la stella che annuncia il Sole, Cristo, l’Aurora preludio al giorno, il primo bagliore della salvezza, l’alba della redenzione. Tutti questi simboli fanno riferimento al dogma dell’Immacolata Concezione in cui la Vergine viene vista come la prima dei redenti, l’inizio della nuova creazione inaugurata da Cristo senza ormai l’ombra del peccato e della morte. “Come la stella fra le nubi”. La vergine figlia di Sion è l’unica incontaminata tra i peccatori, la prima luce della liberazione in mezzo alle tenebre della schiavitù del peccato, il primo fuoco della vita nuova, nella notte della morte. La simbologia della stella del mattino, è stata letta sempre in riferimento alla natività di Maria. Numerosi Padri della Chiesa, soprattutto in Oriente, hanno visto nella nascita della Vergine lo spuntare di una stella nuova, sempre luminosa, anzi, la più luminosa, che anticipa, come già dicevamo, il giorno, il Sole. La nascita della Vergine è motivo di gioia intima per tutti coloro che, camminando nelle tenebre e aspettando il giorno, vedono la stella e, anche se ancora non gustano pienamente la luce, tuttavia sono rincuorati nel camminare verso di essa. Guardare a Maria durante il cammino della vita cristiana e soprattutto nei momenti di difficoltà, vuol dire questo: essere consapevoli che, se il pieno giorno, la piena felicità ancora non la si possiede, poiché, mentre siamo in questo mondo, camminiamo in una continua tensione tra luce e tenebre, tra gioia e dolore, tra grazia ed esperienza del peccato, questa Stella, ci garantisce l’approssimarsi del Giorno. In una parola: Maria, Stella del mattino, ci dice che il preludio della gioia è già in se stesso la gioia.

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Correlato al tema della stella vi è, dunque, quello dell’aurora, ovviamente sempre riferito alla natività della Vergine. Viene indicata così, l’alba come la madre del sole e il sole spuntare dall’aurora, come se essa lo partorisse. Ebbene, Maria col suo chiarore, cioè la sua santità, riflesso della santità di Cristo, dello splendore del Sole, genera la luce perciò è anche detta Madre della luce, Colei che da alla luce la Luce. Nell’iconografia, questa volta occidentale, questo particolare è espresso attraverso il colore rosato che generalmente si adopera per la veste della Madonna. Il rosa è il colore dell’aurora. Maria è carica del rosso dell’amore di Dio e del bianco della sua luce, perciò da Lei divampa il sole e il fuoco che è il Verbo fatto carne. La maggior parte dei padri orientali celebrano con lodi e inni meravigliosi la festa della nascita di Maria e nel linguaggio poetico, molte volte ritorna il tema della luce, come i questo passaggio di un inno: «O Dio dei portenti e speranza dei disperati, gloria a te! Questo è il giorno del Signore: giubilate o popoli, ecco infatti il Talamo della luce, il libro della Parola di vita che esce da grembo e la porta rivolta verso Oriente è stata concepita per il gran Sacerdote, Colei che fu l’unica a introdurre sulla terra abitata l’unico Cristo per la salvezza delle nostre anime»28. Guardiamo, allora, alla Madre di Dio come alla Stella del mattino che col suo dolce chiarore ci indica la fine della notte l’approssimarsi del Giorno. Ella è per noi la Sentinella che ci rassicura col dirci che della notte rimane ormai ben poco.(Cf. Is 21, 11).

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Sergio Agiopolita, Inno per la festa della natività di Maria, in Testi mariani del primo millenni II, Padri e altri autori bizantini, a cura di G. Gharib, E. M. Toniolo, L. Gambero, G. Di Nola, 1989, Città Nuova editrice, Roma, p. 613.

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Ufficio diocesano per l’ecumenismo

A tutti i fedeli ortodossi, presenti nel territorio della diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca e ai loro pastori.

Uniti nell’invocazione alla Madre di Dio, nel tempo della prova Carissimi, la Chiesa sparsa nel mondo, si riconosce una e unica nella professione dell’unica fede in Cristo, nel suo Vangelo e nel mistero della sua Pasqua. Come cristiani d’Oriente e d’Occidente ci riconosciamo, anche, uniti nell’amore e nella venerazione verso la Sempre Vergine Madre di Dio, Maria, che da tutti è invocata come “Riparo nelle sventure” e “Sicura difesa dei cristiani nelle calamità”. In questo momento difficile, che tutti stiamo vivendo, credo che i cristiani al di la delle diverse appartenenze e confessioni, siano uniti dalla sofferenza oltre che dalla testimonianza di carità verso i fratelli sofferenti, ammalati, verso le loro famiglie e nel sostegno che tutte le chiese danno alla società civile, sia con la preghiera che attraverso l’aiuto umano nel contrastare la diffusione del virus Covid - 19. Per questo motivo, vorrei che giungesse a tutti i nostri fratelli della Chiesa ortodossa, il messaggio di vicinanza da parte della nostra Chiesa ugentina, mentre invito ad unirci tutti in un’ unanime supplica verso la Madre di Dio, la Tutta Santa e Immacolata. Preghiamo insieme affinché la sua potente intercessione presso Cristo Dio, ci favorisca in questo momento di sofferenza, ci scampi dal pericolo e ci conceda di superare la prova riscoprendoci ancora più uniti e maggiormente desiderosi di superare le divisioni ancora esistenti per camminare verso la piena e perfetta unità anche visibile tra i cristiani. 98


Preghiamo la Madre di Dio per i governanti della nostre nazioni, per il papa di Roma e il patriarca di Costantinopoli, per i vescovi, i patriarchi, i presbiteri e i diaconi e per tutti i cristiani. Ella che di tutti è Madre, Ella che della Chiesa è “Recinto sicuro”, “Forte muraglia”, voglia intercedere per noi e ottenerci i doni sospirati. Propongo per tutti una preghiera del santo patriarca Germano di Costantinopoli: «Guarda da questa tua santa dimora, questa fedelissima adunanza che ti circonda, ricchissima di avere Te come Signora, protettrice e padrona, essa che si è raccolta per cantare di cuore a Te o Madre di Dio, ed è custodita dalla tua divina sorveglianza. Allontana costoro da ogni sventura ed afflizione e strappali da ogni genere di malattia, di danni e di offese. Riempili di ogni gioia, di ogni cura e di ogni grazia e, nella venuta del tuo Figlio, nostro Dio, che ama gli uomini quando tutti ci presenteremo per essere giudicati, avendoci allontanati dal fuoco eterno con la tua mano potente, poiché hai ardire e forza di Madre, rendici degni di ottenere in sorte i beni eterni, per grazia ed amore per gli uomini, del Signore nostro Gesù Cristo, nato da Te al quale la gloria e la potenza, ora e per i secoli dei secoli. Amen». Con la speranza di poterci incontrare presto, saluto voi e i vostri pastori. Ugento, 25 marzo 2020, Solennità dell’annunciazione del Signore. don Fabrizio Gallo direttore dell’Ufficio diocesano per l’ecumenismo

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Don Marco Annesi Carissimi accompagnatori, animatori, catechisti e religiosi, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche» (Gaudium et Spes, 4). Così si esprimeva il Concilio Vaticano II con parole che ri- suonano profetiche nel presente della nostra Italia e del mondo intero. Questa è l’identità di noi credenti: siamo portatori della luce del Vangelo in tutte le situazioni della vita. In comunione con i Vescovi e con tutti i pastori delle nostre Chiese locali veniamo a voi in questo momento particolare: da alcuni giorni tutto è cambiato e continua a cambiare, richiedendo una capacità di adattamento sempre nuova. Nel momento in cui ci viene chiesto di adottare comportamenti responsabili come cittadini della stessa nazione, crediamo che chi è impegnato nell’annuncio abbia una responsabilità ulteriore. In primo luogo, abbiamo il compito di diffondere il gusto della buona notizia in modo preciso e accurato, senza esagerazioni o spettacolarizzazioni. Come testimoni del Vangelo nel mondo siamo chiamati a dimostrare che in tempi eccezionali le persone speciali si manifestano facendo cose normali, come il rispetto accurato delle regole che riguardano tutti. Tuttavia, come credenti e annunciatori, possiamo e dobbiamo vivere questo ordinario con un di più di senso evangelico, che possiamo provare a tradurre con tre parole: essenzialità, interiorità e comunità. La raccomandazione “Io resto a casa” può diventare l’occasione per ritrovare l’essenzialità nella vita ordinaria. Paradossalmente la limitazione ad alcune possibilità ci fa scoprire che tante cose non sono necessarie per una vita veramente felice. D’altra parte, sentiamo la nostalgia di qualcosa di pro- fondo a cui non possiamo rinunciare, se non per un tempo limitato. Così, mentre i cammini formativi si sono interrotti, ci rendiamo conto che la catechesi non si limita alla preparazione ai sacramenti, ma nutre l’intera vita cristiana. Mentre ci scopriamo fragili, l’ascolto meditato della Parola di Dio ci fa riconoscere il valore dei doni quotidiani del Signore, come la vita, la salute, il cibo e gli amici. 1 Tra le mura domestiche possiamo coltivare anche l’interiorità. Messa da parte la frenesia, possiamo riascoltare noi stessi e gli altri in modo nuovo, per riscoprire chi siamo, cosa desideriamo, in cosa crediamo. Come credenti non possiamo dimenticare che siamo in Quaresima, quel tempo che la Liturgia ci aveva fatto aprire con l’invito di Gesù ad incontrare il Padre nel segreto (cfr. Mt 6,1-18). Restare soli

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con se stessi non è facile: ma possiamo rieducarci ed educare gli altri a riscoprire il silenzio come spazio necessario per ritrovare se stessi e incontrare il Padre buono, che vede nel segreto. La solitudine fisica forzata può aiutare a recuperare anche un’idea più evangelica di comunità. Si tratta di tornare a considerare la Chiesa come la comunità spirituale dei cre- denti in Cristo, che nella società è lievito e sale (Mt 13,33; 5,13). Pur restando fisicamente a casa, ma senza chiuderci in noi stessi, quanti volti, quante persone, quante storie di vita tornano alla nostra mente e nei nostri cuori? Stiamo poi imparando ad apprezzare l’impegno generoso degli operatori sanitari e di tanti che quotidianamente compiono gesti in favore dei più deboli. Alla logica della paura dell’altro, il cristiano risponde con la cura personale e la preghiera di intercessione soprattutto per i più bisognosi. Questa è la solidarietà cristiana, fatta di impegno concreto, di relazioni solidali e di preghiera. A questo proposito, non possiamo non ammettere che ci mancano le nostre celebrazioni comunitarie. I collegamenti virtuali sono utili e persino necessari: bisogna senz’altro salutare con favore e sostenere le iniziative di chi nelle parrocchie ha sviluppato strumenti come la radio, la tv o i canali streaming per far arrivare la voce o le immagini delle celebrazioni in tutte le case. Al contempo, questo ci fa desiderare ancora di più di tornare presto all’incontro personale, che è anche fisico, con l’eucaristia, centro della vita comunitaria ecclesiale e della comunione con Dio. Proponiamo dunque alcuni suggerimenti da adattare secondo le diverse fasce di età: la preghiera in famiglia può concretizzarsi come la lettura meditata o lectio divina del vangelo domenicale; il tempo libero può consentire di fare spazio ad alcune relazioni, soprat- tutto con le persone più fragili o sole, facendo sentire la vicinanza della comunità cristiana anche con una telefonata o un messaggio; si può suggerire di valorizzare alcuni momenti della vita familiare quotidiana: la preghiera del mattino e della sera, la preghiera prima e 2 dopo i pasti, la benedizione tra familiari soprattutto dei genitori ai figli; 

aiutiamo a celebrare la quotidianità come spazio sacro di consegna e di accoglienza nei gesti semplici e domestici che dicono cura e passione. Uno spazio, in questo momento, abitato da generazioni diverse accomunate dalle stesse domande; si possono preparare le famiglie all’eventuale rinvio della celebrazione dei sacramenti, rammentando che la grazia di Dio è sempre disponibile e che la vita di fede è sempre in crescita; si può infine suggerire di sviluppare una creatività ludica della propria fede, ad esempio, giocando con la Bibbia attraverso la memorizzazione delle storie bibliche (in questo può essere utile il sito di BibbiaEDU), o facendo lo stesso con i Catechismi (in questo può essere utile il sito di EduCat) o con altri strumenti predisposti dalle Chiese locali. Mentre teniamo i piedi realisticamente piantati a terra, guardiamo al domani con speranza: come sarà questo domani dipende anche dalla nostra responsabilità e creatività di credenti oggi. Mentre chiediamo la grazia di poter vivere da discepoli di Gesù questo tempo di Quaresi-

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ma, camminiamo insieme verso la Pasqua del Signore per vivere finalmente la vita nuova del Risorto. Per questo vogliamo consegnare infine a noi stessi e alle persone che ci sono affidate queste parole di Papa Francesco: «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. […] Nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare ed a diffondersi. Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori ten- dono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo» (Evangelii Gaudium, 276).

L’Italia viveva nella miseria, nell’incertezza. Una guerra era da poco finita, ma un’altra stava per iniziare. La gente aveva paura. Come oggi. Abbiamo paura. Tutti , senza distinzione alcuna. Tutti, dal più ricco al più povero, dal più “garantito” al più indifeso. Caro don Tonino il nuovo millennio ci ha portato una nuova paura: la paura del nemico invisibile. Solo ieri si chiamava terrorismo, oggi ha già cambiato nome. Si chiama Covid 19. Paura e virus contagiano, e non so chi di più! Anche tu hai conosciuto questo “ umanissimo sentimento – la paura – che è il segno più chiaro del nostro limite”. (1) Ci credevamo ormai onnipotenti, la scienza , la tecnica, il progresso erano il nostro comodo sgabello; abbiamo oggi riscoperto il nostro limite, la nostra fragilità. Conviviamo con la paura, per la nostra salute, per la salute dei

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nostri figli soprattutto, e per quella di tutti i nostri cari. Paura del domani, della notte, della morte. Le certezze si sono sgretolate, all’improvviso! Le nostre città sono vuote, regna un silenzio tombale sulle nostre piazze, i perimetri delle nostre strade sono segnati da scheletri di ulivi. Qualche albero già in fiore sembra quasi irriverente in questo scenario. Per fortuna c’è il sole. E l’azzurro del mare. E c’è la fede! E tu, caro don Tonino, Maestro di Fede, ci sei accanto. E ci ricordi che anche Maria , donna coraggiosa, ebbe paura. Forse più di noi perché in Lei era chiara la sofferenza del Figlio e di tutti i figli della storia, il travaglio dell’umanità di tutti i tempi, anche il nostro travaglio. In Lei ci fu paura , ma non rassegnazione! Mai! “ una prova difficile la sua. Contrassegnata, come per il Figlio morente dal silenzio di Dio”.(2) Il silenzio di Dio. Tace oggi il nostro Padre. No! Non tacere Padre! Abbiamo bisogno della tua Parola, abbiamo bisogno della Vita, abbiamo bisogno di Amore. Non puoi averci dimenticato. Non Puoi. Te lo chiediamo per intercessione della Nostra Creatura e tua Madre, “Donna mai rassegnata a subire l’esistenza, Donna che ha combattuto, che ha affrontato gli ostacoli a viso aperto. Donna coraggiosa”. (3) Questo periodo di prova servirà a ripensare il nostro mondo. Un mondo miope, che ha venduto la sua libertà al profitto, che ha visto il potere come unico scopo della sua esistenza. Un mondo che aveva pensato di poter fare a meno di Te: un mondo che per raggiungere il profitto e il potere ha messo da parte quanti curano l’anima e il corpo del prossimo. Uomini senza scrupoli, senza fede,senza cultura, senza ideali: questi i modelli che abbiamo proposto ai nostri figli. Abbiamo investito nell’impero del male : come è possibile continuare a far lievitare le spese per nuove armi? Come è possibile chiudere gli ospedali ma continuare a costruire aerei da guerra? Come è possibile pensare di poterci salvare da soli e non comprendere che possiamo salvarci solo tutti insieme? Qui ci ha portato la ricerca del potere e del profitto. Ancora un altro errore stiamo commettendo: la ricerca del prodigio. In un giorno vogliamo il farmaco nuovo, meglio , il vaccino subito: oggi chiamiamo eroi i medici sino a ieri maltrattati, colpevoli, sino a prova contraria. Ma intanto iniziamo a capire che la tecnica senza un’anima non può darci sviluppo, che “il confine “ non esiste, anche il virus non lo rispetta, che da soli non ci salviamo, perché siamo una comunità, una “ comunità di destini “. Tu ci hai invitato, caro don Tonino ad una

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conversione. Ci dicevi: “ Noi dobbiamo passare dall’ isolamento alla solitudine . L’isolamento capite bene cos’è? Oggi ognuno vive per conto suo, se ne infischia degli altri. E’ un disvalore l’isolamento. La solitudine invece no. Solitudine significa capacità di pensare, desiderio di riflettere, di meditare, mettersi davanti a Dio, caricarsi, impregnarsi della sua Luce ….. lasciare spazio alla preghiera, alla meditazione. Oggi non sappiamo più pensare, non c’è tempo per pensare “. (4) Sembra che questi pensieri siano stati scritti per questi giorni, per noi che invece rischiamo l’isolamento , per noi che possiamo fermarci al buio del nostro mezzogiorno ed invece dobbiamo sforzarci di vedere la luce della aurora che sta per sorgere. Caro don Tonino aiutaci a superare questa prova. E a vivere una nuova primavera. Giancarlo Piccinni – Presidente Fondazione don Tonino Bello 1),2),3) Antonio Bello “Scritti Mariani, Maria , Donna coraggiosa “ 4) Tonino Bello, “ Sulla tua Parola “, Omelie inedite a cura di V.Angiuli e G.Piccinni

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COMUNICATO STAMPA PUBBLICATO AVVISO PUBBLICO PER 10 TIROCINI RIVOLTO A DISOCCUPATI RESIDENTI NELLA DIOCESI DI UGENTO – SANTA MARIA DI LEUCA LE DOMANDE DOVRANNO ESSERE INVIATE ENTRO IL 16 APRILE L’Associazione Banco delle Opere di Carità Puglia Onlus, in qualità di soggetto gestore, e la Caritas Diocesana di Ugento – Santa Maria di Leuca, comunicano che nell'ambito del Progetto P.P.I.S. 3 (Punto di Pronto Intervento Sociale. Lotta alle povertà ed inclusione sociale), di aver pubblicato un Avviso Pubblico finalizzato all’individuazione dei 10 soggetti da coinvolgere nelle attività di tirocinio, promuovono I'attivazione di altrettanti tirocini di inserimento/reinserimento lavorativo (ex. Legge regionale n. 23 del 5 agosto 2013). La finalità dell'intervento é quella di garantire ai soggetti, in condizione di particolare fragilità sociale ed economica, I'opportunità di acquisire conoscenze tecnico - professionali e competenze spendibili nel mercato del lavoro contrastando, in questo modo, la condizione di disagio. L’Avviso Pubblico promuove e finanzia l’attivazione di 10 tirocini extracurriculari della durata massima di 4 mesi, da svolgersi presso aziende ospitanti private e/o pubbliche che abbiano sede operativa nei Comuni della Diocesi di Ugento - Santa Maria di Leuca. Al tirocinante sarà riconosciuta un’indennità mensile pari ad € 450,00, al lordo delle ritenute fiscali se dovute. I candidati devono essere maggiorenni; possedere la residenza o il domicilio in uno dei Comuni della Diocesi di Ugento - Santa Maria di Leuca da almeno 3 mesi dal 24 Febbraio 2020, data di pubblicazione dell’Avviso; essere disoccupati/e o inoccupati/e, essere iscritti presso il Centro per I'Impiego competente ed avere un valore ISEE inferiore ad € 9.360,00. Le istanze pervenute verranno valutate da una commissione individuata dal soggetto gestore secondo i seguenti criteri: Valore ISEE - Da € 6.001,00 a € 9.360,00→2 punti;da € 4.501,00 a € 6.000,00→4 punti; da € 3.001,00 a € 4.500,00→6 punti; da € 1.501,00 a € 3.000,00→8 punti; da € 0,00 a € 1.500,00→10 punti. Il Periodo di disoccupazione - da 0 a 6 mesi→2 punti; da 6 a 12 mesi→4 punti; oltre 12 mesi→6 punti. Numero dei figli a carico - Fino a 2 figli→1 punto; Più di 2 figli →3 punti. Coniuge a carico - Se presente il coniuge a carico→3 punti. Se sono presenti disabili nel nucleo familiare→5 punti. I soggetti da coinvolgere nei tirocini saranno avviati entro i dieci giorni successivi alla loro individuazione in un percorso formativo della durata di 30 ore che prevede lo sviluppo dei seguenti argomenti: Sicurezza nei luoghi di lavoro;orientamento;ricerca attiva del lavoro e mercato del lavoro e legislazione sociale. Le aziende, presso cui i soggetti individuati svolgeranno Ie attività di tirocinio, saranno prescelte sulla base del percorso di orientamento realizzato all'interno della formazione preliminare, considerando Ie aspettative e gli obiettivi professionali dei soggetti coinvolti. Le aziende dovranno rispettare i criteri previsti dalla normativa in materia di tirocini e sottoscrivere con il Banco delle Opere di Carità Puglia Onlus una convenzione ed un progetto formativo individuale. La domanda di partecipazione dovrà essere inviata, compilando il modulo “Allegato 1” dell’ Avviso Pubblico, tramite Raccomandata al: Centro Servizi Diocesi di Ugento - Santa Maria di Leuca c/o Auditorium Benedetto XVI - SS 275 Km 23,600 - 73031 Alessano (Le) oppure all’indirizzo mail:

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caritas.ugento@libero.it o puglia@bancodelleoperedicarita.it, insieme alla seguente documentazione: a) attestazione ISEE; b) curriculum vitae aggiornato alla data di presentazione della domanda di partecipazione; c) copia di un documento d’identità in corso di validità e d) DID (Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro) rilasciata dal Centro per l’Impiego competente. Le domande di partecipazione dovranno pervenire entro la data del 16 Aprile 2020, per quelle inviate tramite raccomandata, farà fede la data di invio del timbro postale. L’Avviso Pubblico e il modulo “Allegato 1” sono disponibili sul sito www.diocesiugento.org alla sezione “Caritas Diocesana”. Per informazioni e maggiori dettagli, occorre contattare lo 08331826042 (lunedì - mercoledì venerdì ore 9.30-12.30) mail: caritas.ugento@libero.it o puglia@bancodelleoperedicarita.it.

Di seguito la lettera ricevuta dal Comitato Organizzatore riguardo le nuove date dell’evento internazionale “The Economy of Francesco”. Emanuele G. Rizzello

----------------Assisi, 2 Marzo 2020 Cari e care giovani amici di Economy of Francesco, vi scriviamo prima di tutto per ringraziarvi della generosità, dell’entusiasmo e dell’orgoglio con cui avete risposto all’invito ad essere i protagonisti dell’evento The Economy of Francesco, previsto dal 24 al 28 marzo prossimi. La preparazione dell’incontro ha richiesto e richiede molto impegno e passione da parte di tanti, coinvolto centinaia di persone in tutto il mondo, e suscitato un interesse ampio e diffuso che si è concretizzato in oltre 200 incontri preparatori, molti dei quali vi hanno visto protagonisti. Ma soprattutto e prima di tutto ha trovato concretezza in ciascuno di voi: 2000 giovani economisti e imprenditori da 115 paesi del mondo. Le vostre sono storie di impegno, di innovazione, di coraggio. Ognuno di voi è indispensabile per costruire l’Economy of Francesco, oggi.

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Per favorire il migliore svolgimento dell'iniziativa, vista la difficoltà oggettiva che in questo momento tanti giovani a causa della diffusione del coronavirus Covid-19, stanno avendo negli spostamenti a livello internazionale e nazionale, d’intesa con la Santa Sede, il Comitato Organizzatore ha deciso di rimandare l’evento al 19-21 novembre 2020 preceduto da due giorni di pre-evento (17-18 novembre 2020). La scelta è dettata dalla volontà di assicurare lo svolgimento dell’evento in condizioni di maggiore serenità per tutti i partecipanti, nessuno escluso. Ora abbiamo bisogno di cambiare passo. Eravamo già tutti nell’intensa fase finale dei preparativi dell’evento, ora dobbiamo rallentare e “camminare” ancora alcuni mesi prima di incontrarci ad Assisi, ma lo facciamo con ancora più gioia, motivazione e soprattutto insieme a voi. The Economy of Francesco è un processo già cominciato e di fronte a questa situazione e alle sue conseguenze che sappiamo essere difficili per molti, vogliamo restare uniti nella certezza di superare le difficoltà, con un atteggiamento collaborativo e costruttivo. Nulla di quanto già fatto andrà perso. Questi mesi che avremo a disposizione, serviranno ad approfondire i tanti percorsi di preparazione già avviati, a partire dai lavori dei 12 villaggi tematici che molto presto coinvolgeranno tutti i partecipanti. Intanto, vi invitiamo a partecipare il 28 marzo ad un collegamento Webinar internazionale, per conoscerci e per continuare insieme il cammino verso il Patto con Papa Francesco. Un saluto caro a ciascuno di voi. + Domenico Sorrentino, Vescovo di Assisi Prof. Luigino Bruni, Università Lumsa

RIMANERE IN CASA NON E’ FACILE! Antonio Andrea Ciardo Pensavo: e se provassimo a inventarci alcune “istruzioni per l’uso” per muoversi nel traffico familiare senza fare incidenti? «Io sto a casa!» è il motto di questi giorni critici. Ma come si fa, quando si vive in cas 24 ore su 24 ore, giorno dopo giorno, moglie e marito, genitori, figli, un nonno\a, magari in uno spazio ristretto? Molti specialisti prevedono che questo rientro forzato in casa si traduca in uno “sclero”: tensioni, 108


insofferenze, rabbie, conflitti, claustrofobie, proiezioni, ossessioni, ansie, ipocondrie ecc. Molti sostengono che dopo l’emergenza ci saranno tante separazioni, altri pensano che ci saranno nuove gravidanze, tutti pensano che non sarà più come prima per il lavoro, per la famiglia e per la comunità cristiana! Al di là di queste previsioni, nel mondo d’oggi c’è una notevole difficoltà a rimanere, non solo a casa, ma anche in famiglia e con sé stessi. Di fronte a questa sfida quasi impossibile, ma decisiva per vivere non solo in questi tempi, è bene pensare ad alcune “istruzioni per l’uso” per aiutare a “stare a casa… insieme…senza sclerare”. ABC del traffico familiare 1. Regole per muoversi nel traffico di casa: “Grazie!”, “Scusa!”, “Permesso!” (Papa Francesco, 13 maggio 2015) 2. Le rotonde: guardare insieme il giorno successivo accordandosi sui tempi e le scelte comuni. 3. I semafori: quando si innalza la tensione… Tre mosse: 1)“Stop! Mi fermo”. 2) “Silenzio: stiamo in silenzio per un minuto . 3) Lascia la precedenza all’altro\a, chi vuole prevalere occupa spazio indebito. Il tempo dilata lo spazio: “C’è un tempo per…e un tempo per..” (Qoelet 3,1-11) La sapienza nel gestire “i tempi”, personali e insieme, crea spazi più grandi. Ecco una dieta equilibrata dei tempi essenziali per vivere in casa. * Un tempo per armonizzare i ritmi. * Un tempo per allenarsi: piccoli esercizi ginnici possibili in casa. * Un tempo per servire ogni giorno e imparare e insegnare a gestire le cose di casa (lavatrice, cucina, pulizie, ecc.) * Un tempo per leggere, meditare, fare i compiti. * Un tempo per pregare: un gesto, un segno, un ricordo, una preghiera. * Un tempo per ricordare chi è solo. * Un tempo per incontrare gli amici sui “social media”. * Un tempo per cantare: cantare da soli o insieme. * Un tempo per urlare: gridare tutti insieme…in orari compatibili, naturalmente!!!!!!! * Un tempo per giocare: giocare insieme o vedere insieme un bel film.

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Il punto di equilibrio tra solitudine e vita insieme Una sapiente e incisiva sentenza di D. Bonhoeffer, può essere considerata una pista sintetica per l’equilibrio nelle relazioni: «Chi non sa rimanere solo tema la comunità. Chi non sa vivere nella comunità si guardi dal restare solo». (Bonhoeffer D., Vita comune, Queriniana, Brescia, 1972, 120-121) L’alternanza tra tempi di solitudine e tempi condivisi anche se lo spazio è ridotto, può essere benefico non solo per “stare senza sclerare”, ma anche per un cammino di maturazione umana e spirituale. Nel fare ogni cosa c’è uno spazio di interiorità con se stessi; nel condividere le responsabilità è benefico scambiare i ruoli e rimettersi in gioco perché tutti devono fare la propria parte. Tricase, 23 marzo 2020

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