Diorama Magazine: ISSUE 02 / Strato

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4 Tom Friedman, Untitled (Garbage Bags), 1992 // 5 Roman Opalka, Fragment of a ‘Detail’, 1965 - 1 // 6 Beth Hoeckel, Ranges, 2011 // 7 Talia Greene, Colony Kadouja (I-III), 2010 // 8 Roman Ondak, Measuring the Universe, 2007 // 9 Colette Justine, Persephone’s Bedroom, 1974 // 10 Flavio Favelli, The World, 2010 // 11 Chad Wys, Nocturne 113, 2011 // 12 Claire Pestaille, The Threshold of Space, 2010 // 13 Francis Bruguiere, Multiple exposure - nude, ca. 1926 // 14 Theodore Kleinschmidt, Drawing of Tui Nadrau, the chief of Nadrau (central Viti Levu, Fiji) wrapped in barkcloth for ceremonial presentation, 1877 //15 John Stezaker, Mask LXV, 2007

3 / WUNDERKAMMER

1 Martin Margiela Duvet Coat Autumn Winter 1999/2000 // 2 Virgil Finlay, Illustrazione tratta da “The Beacon to Elsewhere” di James Schmitz, Amazing Stories Vol. 37, No. 4, 1963 // 3 Brooks Salzwedel, Radiate, 2008 //


4 / EDITORIALE

Manipolando la direzione, il colore e l’intensità della luce, viene prodotta una diversità di effetti scenici; il Diorama, vano all’interno del quale, attraverso uno spiraglio, lo spettatore può scoprire mondi inediti ed osservarli da molteplici prospettive. Diorama Magazine vuole ricreare il meccanismo ottocentesco in una pubblicazione stagionale, autofinanziata, indipendente e gratuita; Definisce una politica editoriale secondo la quale sceglie gli argomenti da trattare non in base all’attualità, ma creando una collezione tematica senza tempo, che in ogni edizione riporta come le diverse discipline artistiche si approcciano ad un argomento. Raccoglie voci in un poliedrico dizionario amatoriale, al fine di condividere la sua ricerca con chi si accinge a sbirciare il mondo delle accademie e delle nicchie.

Henry Miller, da “Tropico del Cancro”

5 / EDITORIALE

“Vi saranno oceani di spazio in cui muoversi, deambulare, cantare, ballare, arrampicarsi, far salti mortali, gemere, violentare, assassinare. Una cattedrale, una cattedrale vera e propria, alla cui edificazione contribuiranno tutti coloro che hanno perso la loro identità. Si potrà entrare coi cavalli al galoppo per le navate. Si potrà battere la testa contro i muri: non cedono. Pregare nella lingua preferita, accovacciarsi sugli scalini e dormire [...] Costruiremo una città attorno alla cattedrale, creeremo una libera comunità. Non ci occorre il genio: il genio è morto. Ci occorrono mani forti, spiriti disposti a piantarla con i fantasmi e a mettere su carne...”


DIRETTORE GENERALE / Zoe De Luca: zoedeluca@dioramamag.com REDAZIONE / Zoe De Luca: zoedeluca@dioramamag.com Virginia Devoto: virginiadevoto@dioramamag.com Lorenza Novelli: lorenzanovelli@dioramamag.com Eleonora Salvi: eleonorasalvi@dioramamag.com COLLABORATORI / Emanuele Amaduzzi, Francesco Balacco, Giulia Bombelli, Francesco Bugli, Maddalena Cecconi, Alessandro Ciacci, Adele Cuzo, Ilaria Doimo, Annaviola Faresin, Samuele Fioravanti, Nicola Giunta, GGP, Roberto Mandia, Jelena Miskin, Silvia Pisani, Chiara Fraise Salvatori, Greta Scarpa, Elia Solverano FOTOGRAFIE / Philippa Nicole Barr, Valentina Pieri, Omar Sartor GRAFICA / Desiree Battivelli: desiree.battivelli@gmail.com WEB/ Giulia Scifoni, GGP, Desiree Battivelli info@dioramamag.com © 2011 Diorama Magazine. Tutti i diritti sono riservati. Qualora troviate contenuti che infrangono la Legge n.633/22.3.1941

INDEX

2 WUNDERKAMMER 4 EDITORIALE 8 INTRODUZIONE

Strato / Virginia Devoto

10 DESIGN

The Rubber Man / Chiara Fraise Salvatori

16 MUSICA

Supporti per musiche concrete / Nicola Giunta

20 LETTERATURA

Samizdat come libertà / Lorenza Novelli

22 FOTOGRAFIA

Challenging Surfaces / Valentina Pieri

28 INTERVISTE di un presente collimato / Zoe De Luca

36 ARCHIVIO

Tree of Codes / Adele Cuzo

38 ARTE

84 West Broadway / Castagna, Malara, Mengozzi, Polenta, Rinaldi

40 BIOGRAFIE

Sybil Ardell Mason / Francesco Bugli

44 TEXTURE

Tessuteca / Virginia Devoto

50 ANIMAZIONE

Il guanto, corazza arrendevole / Lorenza Novelli

54 DESIGN

Wood you like it? / Chiara Salvatori

58 FOTOGRAFIA / Philippa Nicole Barr

64 LETTERATURA

Pane e cipolle / Samuele Fioravanti

66 COSTUME

Interdetto / Virginia Devoto

70 CONCEPT Anais Nin

72 ARTE oltre la pelle / Eleonora Salvi

78 ARCHIVIO di Schott

80 EDITORIALI / Virginia Devoto

104 CINEMA

Alla ricerca / Emanuele Amaduzzi

110 CINEMA

Recensioni

112 INTERVISTE / Greta Scarpa

118 MUSICA

Inter-facce / Jelena Miskin

86 ARTE

122 MUSICA

90 FOTOGRAFIA

124 ARTE

Salvatore Arancio / Eleonora Salvi Inno alla tragicità umano conoscitivo / Omar Sartor

96 BIOGRAFIE

Tra Schliemann e Delacroix / Alessandro CiaccI

102 POESIA

Bogland, Seamus Heaney

Selezione musicale / Jelena Miskin La soglia atavica / Zoe De Luca

132 PUBBLICITÀ

Come François re-inventò il collage / Francesco Balacco

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8 / INTRODUZIONE

/ STRATO Virginia Devoto /

C’era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma ella doveva essere una principessa vera, una fanciulla di sangue blu. Perciò se ne andò in giro per il mondo cercando la giovinetta dei suoi sogni. Di fanciulle che affermavano di essere vere principesse egli ne trovò moltissime, ma al momento di sposarsi il principe era assalito da un dubbio: “Sarà proprio una principessa di sangue blu, oppure no?”. Qualcosa, infatti, nel loro modo o nel loro portamento, era poco reale e non convinceva del tutto il principe. Egli quindi non si decideva a sceglierne alcuna e, Una sera si scatenò un temporale: i lampi si incrociavano, il tuono brontolava, cadeva una pioggia torrenziale: non si era mai vista una bufera così! Qualcuno bussò alla porta del castello, e il vecchio re si affrettò ad aprire. Era una principessa. Ma come l’avevano ridotta la pioggia e il temporale! L’acqua cadeva a rivoli dai suoi capelli e dai suoi vestiti, e le entrava nelle scarpe, uscendone dalla suola. Tuttavia ella si presentò affermando di essere una vera principessa. “E’ ciò che sapremo presto” pensò la vecchia regina, e senza dire nulla a nessuno entrò in una camera e mise un pisello nel letto che era in mezzo alla stanza. Quindi prese venti materassi, li stese uno sopra l’altro sul pisello, e vi aggiunse ancora venti piumini. Era quello il letto destinato alla principessa sconosciuta. La principessa venne acriusciva assolutamente ad addormentarsi. Da qualunque parte si girasse, sentiva sempre qualcosa di duro che le dava fastidio. L’indomani mattina, il re, la regina e il principe bussarono alla sua porta, le diedero il buon giorno e le chiesero come avesse passato la notte. “Male! Molto male!” ella rispose “Non ho potuto chiudere occhio! Dio solo sa quello che c’era nel letto! Era qualcosa che mi ha fatto venire la pelle livida. Che supplizio ho dovuto sopportare per tutta la notte! Ho provato a guardare fra le lenzuola. Ma non ho trovato nulla”. Il re, la regina e il giovane principe si diedero uno sguardo d’intesa: dalla risposta della fanciulla essi avevano capito che si trattava di una vera principessa! Ella aveva infatti sentito un pisello attraverso venti materassi e venti piumini. Chi mai, se non una vera principessa, una principessa di sangue blu poteva avere una pelle così delicata e sensibile? Il principe, convinto ormai che si trattava di una giovane di sangue reale, la scelse subito come sposa.

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9 / INTRODUZIONE


/ THE RUBBER MAN

The History of John Sutcliffe and Atomage

Chiara Fraise Salvatori /

Approcciarsi con l’immaginazione a decenni mai vissuti comporta sempre un certo impegno: la mente necessita inevitabilmente l’apertura e la conseguente analisi del proprio bagaglio culturale, frutto di una ricezione attiva e passiva di

comunque destinate a farsi sentire in maniera prepotente, in particolare nel momento in cui esse vengono concepite da una mente geniale e quanto mai avanti con i tempi, con uno sguardo focalizzato sul feticismo e su mondi paralleli, fu-

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Prendiamo dunque per mano il lettore e incanaliamo la sua immaginazione lun-

era davvero complicato scovare delle tute da motociclista per acquirenti del gen-

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quei minuti e sull’asfalto gretto e sporco della metropoli, un’ insolita creatura bili alla sfera umana: avvolta strettamente in una tuta in pelle, volto sigillato da

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cia di una grande depressione e più tardi a una repentina quanto inderogabile

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o semplicemente una forma di incomprensione da parte di un corpo medico


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lady pillion riders� e fu collocata in una stanza nei pressi di Hampstead, luogo in cui l’artista si prodigava con sperimentazioni sartoriali irrorate da lucidi bagliori -

londinese dell’Anello di Wagner e cappotti dal taglio spaziale e futuristico per

cals, manifatturiera di smalti protettivi anticongelamento per auto ebbe bisogno

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sue creazioni piĂš famose riguarda un abito da gatta completo di stivali col tacco laboratori Atomage non uscivano alla luce del sole ma venivano esclusivamente indossati in privato per puro piacere; avendo sperimentato il fallimento del proprio matrimonio a causa del suo feticismo per la pelle era infatti ben consapevole -

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i lettori accomunati dagli stessi interessi e feticismi non solo potevano tenersi in

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in spazi topici come prati erbosi sfacciatamente irradiati di luce solare oppure


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mente ce le si aspetta, supereroi di nessuno, domatrici di leoni invisibili, divise

per copia ed era reperibile solamente attraverso ordine postale direttamente dada abiti in pelle, ma gradualmente gli indumenti in gomma diventarono piĂš -

la strategia di mercato: il magazine non aveva grande circolazione ma c’era stata

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Royal, e in questa sede si fecero sentire le proteste furibonde dei fans di Atoma ricevere assegni e denaro da parte dei suoi clienti, per aiutarlo a mantenere

condannata a morte, e come testimonianza di essa rimasero solamente alcuni -

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Immagini tratte da Dressing for Pleasure in Rubber, Vinyl & Leather: The Best of Atomage 1972-1980, di Trunk, Murray e Sorrel, FUEL Publishing, 2010


di suono e memoria nelle musiche

Nicola Giunta /

Parlare di stratificazione multisensoriale riferendosi ad artefatti musicali ‘comunemente intesi’ potrebbe risultare impresa tanto ardua per certi versi, quanto banale per altri. L’ aspetto legato ai rimandi sinestetici e agli infiniti rinvii extra-musicali è di sicuro questione ampiamente dibattuta in contesti ed epoche diverse, e tuttora aperta. Esiste tuttavia un ambito che più di altri sembra prevedere al suo interno dinamiche e circostanze che in un modo del tutto unico riescono ad attivare un complesso nebuloso e accidentato di connessioni e piani di fruizione del tutto trasversale. Le musiche prodotte con l’ausilio esclusivo, o quasi, di supporti fonografici (nastro magnetico, disco in vinile, audio cassette, mini-disc, etc.) e delle loro apparecchiature di pertinenza (giradischi, grammofoni, mangianastri, etc.) sembrano presentarsi al nostro orecchio come una ideale zona di confine fra la musica elettroacustica intesa nell’accezione schaefferiana, e il calderone di esperienze sfaccettate e multiformi etichettato con il termine sound art. Ponendo l’attenzione sullo status poetico ed estetico di queste pratiche, l’aspetto che salta all’occhio in maniera quasi prepotente è forse quello legato alla materia prima di cui si serve: altra musica. Già composta, suonata e fissata fonograficamente. Con la nascita, a Parigi nel 1948, della musique concrete e del Groupe de Recherches de Musique Concrète avviene quella graduale emancipazione del supporto fonografico che, per i concretisti francesi, diventa il mezzo assolutamente indispensabile ad immagazzinare, manipolare e riutilizzare i suoni catturati nell’ambiente. Il suo inventore e teorico è l’ingegnere e tecnico del suono Pierre Schaeffer, la sua attenzione e quella dei suoi collaboratori sarà indirizzata alla percezione pura dell’oggetto sonoro. L’esperienza di Schaeffer e dei suoi collaboratori, insieme a lavori seminali come Cartrige Music (1960), 331/3 (1969) e Cassette (1977) di John Cage, Come Out (1966) e It’s gonna rain (1965) di Steve Reich, e Broken Music (1979) di Milan Knizak, rappresenterà un ideale ‘punto zero’ di quel processo di emancipazione del supporto fonografico che, a partire dai primi anni cinquanta, arriverà fino ai giorni nostri. Sarà però il lavoro dello svizzero Christian Marclay a consolidare queste pratiche performative e compositive. Performer, scultore e soundartist, Marclay inizia a sperimentare, comporre ed esibirsi con dischi fonografici e giradischi già nel 1979. Ascoltando le sue primissime composizioni, edite tra il 1981 e il 1982, inizia a delinearsi in maniera abbastanza chiara quale sia il suo modus operandi: al pari di un musicista ’tradizionale’, Marclay arriva anche a predisporre le parti da suonare (i dischi) e gli strumenti (i gira-

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dischi) più adatti alla circostanza. Bisogna però chiarire che questa fase del suo lavoro non viene attuata soltanto come plunderfonia o come un readymade duchampiano: egli infatti manipola fisicamente i dischi tramite abrasioni, graffi, tagli, applicazioni di oggetti sulla superficie del disco al fine di creare una sorta di cut-up dall’effetto straniante e parodistico. Così facendo ‘piega’ il medium alle sue finalità espressive liberandolo, almeno in parte, dal suo ruolo di involucro inalterabile. Si rapporta così alla musica nella maniera forse più diretta e rigorosa possibile: dal suo interno. Prendiamo ad esempio il brano Brown Rain, dall’album Records 1981-1989: al ritmo exotico di un’orchestrina che suona un brano di easy listening, vengono sovrapposti il suono prodotto dalla pallina durante una partita di ping pong, quello di un trombone che suona delle barcollanti linee pseudo-jazzistiche e l’insistente ribattere di un vibrafono. Il tutto sembra funzionare in maniera organica, malgrado la sua forma dai contorni nebulosi. Sono gli elementi stessi che compongo il brano, con il loro corredo di informazioni a se’ stanti, a fornire gli input necessari per una fruizione dell’insieme che sia allo stesso tempo complessiva e dettagliata. In un continuo sovrapporsi di riferimenti e informazioni sfocate che si rincorrono. Ma l’operazione di Marclay travalica i confini strettamente sonori. Con la serie Recycled Records i suoi collage vinilici infatti guadagnano una dimensione fisica risultante dalla fusione di parti, di diversa forma, dimensione e colore, unite assieme in un disco 12 pollici. Nell’installazione intitolata Footsteps (1989) invece, 3500 dischi non incisi ricoprono interamente il pavimento della galleria Shedhalle, a Zurigo. I visitatori, autorizzati, o meglio, obbligati a calpestarli, saranno così gli ‘autori’ inconsapevoli dei suoni incisi sulla superficie dei dischi. L’artista utilizzerà gli stessi per farne un’edizione discografica a conclusione dell’operazione installativa. Un’altra figura fondamentale, che inizia a definirsi artisticamente già sul finire degli anni ottanta, è quella del sound-artist inglese Philip Jeck. Da sempre interessato al processo di degenerazione fisica del vinile, egli procede per accumulo, sovrapponendo elementi sonori e de-strutturandoli ad arte. L’utilizzo di una strumentazione da considerarsi a tutti gli effetti ‘povera’ e fuori standard (vecchi giradischi degli anni cinquanta e sessanta, nastri magnetici e una tastiera giocattolo) sarà di fondamentale importanza per Jeck al fine di creare un corredo espressivo fortemente caratterizzato da sonorità oniriche e indefinite che nascono dai detriti e dalle deformazioni del suono vinilico e si trasformano gradualmente in strutture sonore semoventi che si

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SUPPORTI PER MUSICHE CONCRETE Christian Marclay, Philip Jeck,


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rincorrono sovrapponendosi. Anche Jeck, come Marclay, considera la componente visiva quasi necessaria per il completamento del suo lavoro che, partendo da basi sonore già di per se sfaccettate, riesce a guadagnare quella strana organicità ‘fuori fuoco’ tipica delle sue produzioni, solo nella collaborazione interdisciplinare con la danza, la video-art e l’installazione. Vinyl Requiem è forse l’esempio più lucido e compiuto di questo tipo di approccio alla materia. Realizzata nel 1993 insieme al videoartista Lol Sargent, e presentata per la prima volta alla Union Chapel di Londra, è un’installazione che prevede l’utilizzo di 180 giradischi suonati da tre performer che eseguono una sorta di partitura previamente stabilita con l’autore. Sulla struttura che contiene i giradischi vengono proiettate una serie di immagini fisse e in movimento tramite 12 proiettori di diapositive e 2 proiettori cinematografici. Il tutto assume contorni tanto colossali quanto complessi. L’accumulazione di input audiovisivi che investono per 80 minuti lo spettatore produce una cullante sensazione di spaesamento alla quale dopo un po’ ci si abbandona inevitabilmente. L’imponente lavoro che lo statunitense William Basinski realizza fra il 2001 e il 2003 per i quattro volumi Disintegration Loops I-IV ci fornisce un altro esempio illuminante di come l’oggetto fonografico possa diventare la base di un’architettura sonora complessa pur partendo da presupposti minimi. Il primo volume della serie consiste in un lungo flusso sonoro della durata di 63’:30” costituito da un breve loop dai contorni vagamente orchestrali che, fissato su nastro magnetico alla fine degli anni ’70, viene riversato in digitale dallo stesso Basinski nel 2001 al fine di archiviarlo. Ma è proprio durante questa semplice operazione che l’imponderabile agisce: in questo passaggio analogico-digitale i suoni incisi sul nastro si iniziano a deteriorare gradualmente, e il loop di pochi secondi che ne stava alla base inizia a perdere irrimediabilmente i suo contorni. Il processo di decadimento che ne deriva è frutto dell’accumulazione di detriti sonori che si rincorrono lentamente sovrapponendosi. La figura melodica che ne sta alla base rimane riconoscibile fino alla fine, ma è come se fosse invecchiata, disfacendosi inesorabilmente. Sarà lo stesso Basinski, nel settembre del 2001, a realizzare forse il più plausibile corrispettivo visivo del primo volume dei suoi Disintegration Loops: una lunga inquadratura a camera fissa del fumo che fuoriesce dal World Trade Center Pagina precedente: Christian Marclay, Footsteps, 1989 // Peter J. Kierzkowski, William Basinski / www.philipjeck.com

una qualche presenza. I campioni sono sempre girati a mano, nel senso che il vinile da cui provengono non è mai lasciato tranquillo di scorrere come vorrebbe. Uso i giradischi come strumenti per lo più percussivi, fermo il vinile con nastro adesivo e le puntine diventano dei piccoli microfoni. Poi con bacchette, foglie, sabbia, carta e altro suono sulla superficie del disco [...] “ Anche in questo caso è facile individuare la linea comune che lo unisce, in tutto o in parte, ai personaggi trattati in precedenza: l’attenzione rivolta a materiali sonori che si portano dietro un corredo di segni e memoria evidente e fortemente caratterizzante, e il loro utilizzo al fine di innescare connessioni dai risvolti imprevedibili. In quella zona d’ombra dove sta il ricordo sbiadito di un’immagine che non si è sicuri di aver mai visto realmente. Ma che si conosce alla perfezione.

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oramai distrutto, filmata durante il tardo pomeriggio di quella tragica giornata, mentre la fioca luce del tramonto lascia il posto al buio della sera. A muoversi su coordinate simili, ma con mezzi, metodi e risultati ben differenti, è l’americano Aaron Dilloway, già in forza al combo ultranoise Wolf Eyes. Dilloway porta avanti ormai da alcuni anni un attività solista piuttosto prolifica, che spostandosi in maniera spesso netta dalla produzione del gruppo-madre, sviluppa un discorso sonoro che si potrebbe definire come una sorta di tapemusic antidiluviana che si pregia della sua condizione di bassa fedeltà e di sporcizia acustica elevata a mezzo unico d’espressione. Gli strumenti di cui Dilloway si serve sono fondamentalmente delle cassette Stereo8 (formato intermedio fra la bobina e l’audio-cassetta, in voga fra gli anni ’60 e ’70), macchine per l’eco a nastro e un paio di vecchi mixer. Spulciando fra la sua sterminata discografia, per lo più pubblicata su cassetta e vinile in edizioni limitate che prevedono una cura particolare per gli artwork che le corredano, si evince fin da subito una linea comune che caratterizza la sua produzione: un patchwork di loop si ripete incessantemente sovrapponendosi, disfacendosi, accartocciandosi senza soluzione di continuità. Spesso però i nastri utilizzati vengono lasciati scorrere senza individuarne una porzione da loopare, e la modifica sugli stessi viene fatta tramite le variazioni di velocità applicate intervenendo manualmente. Il continuo sfasamento ritmico e timbrico che ne deriva diventa cifra stilistica caratterizzante che in certi punti tende ad avvicinarlo alla sensibilità dei primi lavori per nastro di Steve Reich. In questo caso però a venire esaltato è il residuo di memoria con tutto il suo corredo di imperfezioni, e non il documento sonoro fissato su nastro da utilizzare come materiale ritmico-melodico. Attivo oramai dal 2002, Claudio Rocchetti (nato a Bolzano, ma di stanza a Berlino oramai da parecchi anni) può essere a buon diritto considerato uno dei rappresentanti attualmente più in vista del panorama noise ed elettroacustico europeo. Fin dagli esordi il suo lavoro è caratterizzato dall’utilizzo di strumentazioni fonografiche (giradischi, cassette, cd-player, miniDISC) con l’intento di immagazzinare, riprodurre, modificare e riutilizzare le sonorità prodotte da queste ‘povere’ attrezzature. Ecco come lo stesso Rocchetti descrive il suo lavoro in un’intervista di qualche anno fa: “ [...] ho sempre avuto un rapporto diretto con il suono nel senso letterale, intendo dire che ho sempre cercato istintivamente di agire sugli strumenti e sui dispositivi. Sono interessato alla malinconia e al rapporto tra un ambiente e la sua storia, i suoi ricordi, siano essi memoria viva o semplice riverberazione di


20 / LETTERATURA

/ SAMIZDAT COME LIBERTÀ

Lottare per ricordare attraverso

Lorenza Novelli /

Dmitriy Aleksandrovich Prigov, Glasnost, 1987

I myself create it, edit it, censor it, publish it, distribute it, and ... get imprisoned for it. Vladimir Bukovsky

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e materiale audio-visivo, e rappresenta la più grande raccolta al mondo del

blocco sovietico venne instaurato un regime censorio organizzato capillarmente, -

costarono a quest’uomo quattro anni di carcere e sino alla caduta del regime -

cie… Chiunque non è ancora precipitato nelle botole, chiunque non è ancora trasportato -

processi e gioire delle pene comminate.”

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accadeva in quell’invisibile arcipelago popolato da milioni di cittadini, accusati di deviazionismo e cospirazione; un insieme eterogeneo di nemici del

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lo trovavano interessante iniziavano a farselo passare di mano in mano, segre-

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molto semplice: l’autore scriveva e nel frattempo realizzava delle copie con la

di sfruttamento attraverso la quale passarono circa diciotto milioni di persone,


CHALLENGING SURFACES

22 / FOTOGRAFIA

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Valentina Pieri /

23 / FOTOGRAFIA


24 / FOTOGRAFIA

25 / FOTOGRAFIA


26 / FOTOGRAFIA

27 / FOTOGRAFIA


/ RIEDIFICAZIONE DI UN PRESENTE COLLIMATO

Intervista ad Abigail Reynolds

Zoe De Luca /

Abigail Reynolds e’ un’artista londinese la cui ricerca parte dalla sua città natale, tramite la registrazione del mutamento urbano e sociale che osserva e raccoglie da guide turistiche, atlanti, enciclopedie e cartoline. Il suo lavoro si condensa in diverse serie di fotografie tagliate, piegate e sovrapposte: inquadrature di uno stesso soggetto in momenti differenti del giorno o della storia, che vengono fatte combaciare nei dettagli architettonici o naturali dell’immagine offrendo così una panoramica temporale o addirittura epocale. Ogni lavoro porta la data di tutte le foto originali, rimarcando la possibilità che lo spettatore ha di vedere il presente attraverso il passato grazie ad aperture triangolari, quadrate o esagonali; da qui il titolo della prima personale dell’artista, The Universal Now. Abigail Reynolds riesce a creare sistemi urbani inediti, interni ed esterni che combinano le atmosfere e le situazioni ospitate in precedenza; visioni multiple che intersecano vissuti. Si interroga sulla fallacia del tempo usando come strumento primario il fenomeno dell’architettura e a tratti, analogamente alla serie Make Mountains di Mark Lazenby, esplorando la monumentale potenzialità degli edifici; concepiti a misura d’uomo, ma costruiti per durare ben oltre la scomparsa di chi per primo li ha abitati. Giocando con la prospettiva e sviluppando strutturalmente e simbolicamente estratti dei suoi archivi visivi, l’artista crea situazioni in cui l’ambiente passa dall’eterno sfondo al primo piano, e invita a riflettere sulla relatività percettiva del continuo divenire che qui si dilata rimanendo sospeso. Il presente effimero viene rappresentato e indagato tramite l’accavallamento di svariate immagini e talvolta anche di volumi interi, concentrando in modo minimalista parte di una ricerca già iniziata da John Stezaker grazie a soluzioni compositive simili a quelle Brian Dettmer. Una continua celebrazione di coincidenze spontanee ma ricercate, che in serie come Country si sviluppa ulteriormente nella terza dimensione: qui l’artista unisce vetro, ferro e metallo in assemblaggi che diventano souvenir ancora più articolati e scultorei, alterando le fotografie che incorniciano o coprono fino a renderle perfettamente omogenee. Risvegliare l’attenzione attraverso piccoli escamotage nostalgici, in un continuo di dettagli che sapientemente incastrati creano pieni e vuoti, suggeriscono presenze e negano assenze.

/Zoe De Luca: To compose by means of collages means to find and to reuse pre-existing images, textures and graphics which therefore adduce the memory of their original meaning; to juxtapose images from remote epochs and realities means to further question the primary nature of each piece. What has influenced the choice of the raw material and how much of its own history do you permit it to preserve?

29 / INTERVISTE

Abigail Reynolds: Some photographs that I find in books utterly captivate me. These are always of place rather than person. A really good photograph transports the viewer, describing a world in arresting particularity. The details of this world as described by the photograph are beguiling. My primary impetus in making my work is to unfold for myself the layers of meaning in a photograph, to expose its formal qualities and its context. My work invites a very close reading of the original images that I use and to put them under tension by associating them with other found photographs. This is like a balancing act in which neither image dominates the other, but affords a conversation. I sometimes tightly compress the book pages, by pushing one image through another. Sometimes I rather loosely associate or combine the photographs. I allow myself to be guided by the photographs that I find. Photographs often call out to me very clearly, but it might take years for that image to find a suitable partner image or images to allow me to mobilise the latent quality that I find so intriguing. It’s the concrete sense of a convincing and coherent world that attracts me to the photographs I work with. I always require the photograph to remain itself, to be absolutely itself, in terms of the paper used, the moment of the shutter closing, the print quality of the time of reproduction and perhaps above all the intention of the photographer. My work is not at all aligned with the surrealist tradition in collage in which the original image becomes by magic another thing (a sausage becomes a nose and so on) I want the origin of the image to remain and rather than subvert the fundamental qualities of the image that interests me, I want them to be underlined. As I search among books there are sets of images that intrigue me, and so my work often resolves itself in seriality. In the studio I weave in and out of different series; all related but focusing their attention slightly differently. My work with book plates began with ‘The Universal Now’, which layers together two moments in time. These works focus on one place, generally a London monument. Working with these images interested me in a more fictive or filmic approach, combining interiors. Following that, my last two solo shows focussed on photographs that describe the British Countryside. This is far more about the culture that produces certain photographs than


/ZDL: The choice to work with heterogeneous materials and to create situations in which you drive them to interpenetrate, leads the viewer to observe them from a different point of view and to assign them new meanings. How much do you emphasize the concept of communication and unity in your work? AR: The drive of my work is idealistic - I do seek to reconcile the disparate. In my most recent works this is often socio-political, so a line of women encircling Greenham Common (the Greenham Common Women’s Peace Camp 1981-91) merges with a line of spectators to a Morris Dance (‘The Maidens’ 2011). One group is considered conservative, the other radical feminist and therefore are often directly opposed. However, I can see many alignments in terms of an attitude to place and the countryside. I often combine works using pre-existing lines through the photographs, so they become formally meshed. This formal reconciliation extends to the subject of the photograph. Within the limits of mass-reproduced photographs (from the 1890’s to the present), ‘The Universal Now’ unifies two moments in time. These moment might be as far apart as 1912 and 1961 (for example ‘The Albert Hall 1912 / 1962’ (2010)). I am simply working with the great subject of all photography which is of course time. I use the time traveling aspect latent in photography in an explicit way. As if one could simultaneously inhabit two moments in time. ‘The Universal Now’ provokes a meditation of time and a human place within time. Often the subject of the photograph, nominally a monument remains unchanged, but the manner in which the monument is imaged and printed is subtly altered. The technique I have developed for ‘The Universal Now’ is an interpenetration of time, as concretised in the photograph. Both images are simultaneously present in one continuous piece of paper. To do this they have to extend into the vertical axis rather than remain flat. The paper buckles when I fold the layers of time together, which furthers the sense of a bucking and compression of time happening in the work. I took the title from debates in Quantum Physics, in which the question of time is probed geometrically and theoretically on a universe-scale; questioning wether there could be ‘now’ across the whole universe; what this might mean. Theories of time, of which the most popular is the ‘wormhole’, are sublime in contemplation. ‘The Universal Now’ occupies itself with the sublime idea but at a human level. There’s quite a lot of geometry in the universal now. The element of ‘The Universal Now’ that most interests me has become the

dark line where one tile of paper meets another - where the image shoots back to meet itself in a different time. These dark slits are abyssal. /ZDL: You model personal and sometimes intimate spaces, recreating them from the collective imagination. From which desire derives the decision to produce something totally individual using, however, highly recognizable material, thus evoking the subtle borderline between public and private?

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purely the photographs themselves. Context is more important here.

AR: The series of work that splice together rooms from different buildings I call ‘interiors’, since the word ‘interior’ carries a freight of ‘interiority’, referencing the emotional world we create for ourselves. Domestic interiors are a projection of our inner worlds. Although I often work with photographs of dynastic houses it is not to be forgotten that these are for families, to suit individuals. They are an explicit projection of a sense of self. Architects spatialise a interiority, self as space. Films relevant here would be the hotel in ‘L’année dernière à Marienbad’ (1962) and also Overlook hotel in ‘The Shining’ (1980). These extraordinary architectural spaces are extremely charged with the psychological state of an individual, though it’s a communal space. The viewer is destabilised by the patchwork of actual spaces which comprise one of the rooms I create. If ‘The Universal Now’ positions the viewer rather exactly, the interiors are the inverse of this. The viewer can’t locate herself in any of the actual rooms - being bewilderingly present in all of them. /ZDL: The visual feature of immediate impact is often the opening which permits to investigate perspectives or to explore new visual combinations. At a sensory level, the primary boost is therefore represented by a real threshold which suggests not only itself, but also a vast potential world that is often pointed at, but never shown or revealed completely. Does this symbolic predominance stem from a contemplative or rather a questioning volition? AR: For me contemplation actually IS a process of questioning. It’s a very active state. I use my work to ask ‘what if?’ on a material and psychological level. A really interesting work of art should operate on many levels, have layers of signification that unfold, even though the work might appear superficially simple. The art works I love best are pleasurable to contemplate intellectually and physically (or optically) and unfold a series of linked questions. There is a certain irrationality in my work, which is essential. All of the largest questions are in any case unanswerable.

/ZDL: So your work also questions the nature of time, of the concurrent presence of more instants melted in one impossible moment of meditation: is this intended as a private or as an inevitably shared moment? AR: Each man’s death diminishes me, For I am involved in mankind. Therefore, send not to know For whom the bell tolls, It tolls for thee. (John Donne) My perception of the present is shaped by social norms. I recognise my moment of vision to be connected (though sometimes subconsciously) to global conversations; a dialogue across territories, history and individualities // /Zoe De Luca: Comporre tramite collage vuol dire ricercare e riutilizzare immagini, texture e grafiche preesistenti, che portano quindi addosso la memoria del proprio significato originario; accostare immagini provenienti da epoche e realtà lontane significa mettere ulteriormente in discussione la natura primaria di ogni singolo pezzo. Da che cosa è influenzata la scelta della materia prima e quanto le permetti di conservare della propria storia passata?

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Pagina precedente: Abigail Reynolds, Magic Mountain (Detail), 2011, Courtesy of the artist // Abigail Reynolds, Admiralty Arch 1951 1980, 2010, Courtesy of the artist

Abigail Reynolds: Alcune delle foto che trovo nei libri mi catturano totalmente. Queste sono sempre di luoghi piuttosto che di persone. Una fotografia davvero buona trasporta lo spettatore, descrivendo un mondo con arrestante particolarità. I dettagli di questo mondo, come descritto dalla foto, sono accattivanti. Il mio primo impeto nel fare il mio lavoro è di distendere per me stessa gli strati di significato in una fotografia, di esporre le sue qualità formali e i suoi contenuti. Il mio lavoro invita a una lettura molto ravvicinata delle immagini originali che uso e di metterle in tensione associandole ad altre fotografie trovate. Questo è come un atto di equilibrio in qui nessuna delle due immagini domina l’altra, ma in cuii permettono una conversazione. A volte comprimo saldamente le pagine del libro, premendo un’immagine attraverso l’altra. A volte invece associo o combino le fotografie piuttosto liberamente. Mi concedo di lasciarmi


/ZDL: La scelta di lavorare con materiali eterogenei e creare situazioni in cui li spingi a compenetrarsi vicendevolmente porta lo spettatore ad osservarli da un diverso punto di vista e ad attribuir loro valenze inedite. Quanto rilievo ha il concetto di comunicazione e di unità nel tuo lavoro? AR: La spinta del mio lavoro è idealista - Cerco di conciliare il disparato. Nei miei lavori più recenti questo è spesso socio-politico, così una fila di donne che circondano Greenham Common (il Campo di Pace delle Donne di Greenham Common 1981-91) si fonde con una linea di spettatori a un Morris Dance (‘The Maidens’ 2011). Un gruppo è considerato conservatore, l’altro femminista radicale e quindi spesso sono direttamente opposti. Comunque, posso vedere molti allineamenti in termini dell’atteggiamento verso il luogo e il paesaggio. Combino spesso opere utilizzando linee pre-esistenti attraverso le fotografie, in modo che diventino formalmente

irretite. Questa riconciliazione formale si estende al tema della fotografia. Entro i limiti delle fotografie riprodotte in massa, (dal 1890 ad oggi), ‘The Universal Now’ unifica due momenti nel tempo. Questi momenti potrebbe essere distanti come il 1912 e il 1961 (per esempio ‘The Albert Hall 1912 / 1962’ (2010)). Sto semplicemente lavorando con il grande tema di tutta la fotografia che è, naturalmente, il tempo. Io uso l’aspetto del viaggio nel tempo, latente nella fotografia in maniera esplicita. Come se si potesse abitare simultaneamente due momenti nel tempo. ‘The Universal Now’ provoca una meditazione sul tempo e su un luogo umano all’interno del tempo. Spesso il soggetto della fotografia, formalmente un monumento, rimane invariato, ma il modo il in cui il monumento viene ripreso e stampato viene sottilmente alterato. La tecnica che ho sviluppato per ‘The Universal Now’ è una compenetrazione del tempo, come concretizzato nella fotografia. Entrambe le immagini sono contemporaneamente presenti in un pezzo continuo di carta. Per fare questo devono estendersi sull’asse verticale piuttosto che rimanere piatte. La carta si deforma quando piego insieme gli strati del tempo, il che favorisce il senso della controtendenza e della compressione del tempo che accade nell’opera. Ho preso il titolo da dibattiti sulla Fisica Quantistica, in cui la questione del tempo è indagato geometricamente e teoricamente su scala universale; domandandosi se ci potrebbe essere un ‘adesso’ in tutto l’universo, che cosa questo potrebbe significare. Le teorie del tempo, di cui la più famosa è la ‘wormhole’ (il buco nero), sono sublimi nella contemplazione. ‘The Universal Now’ si occupa dell’idea sublime, ma a un livello umano. C’è un bel po‘ di geometria nell’adesso universale. L’elemento di ‘The Universal Now’ che m’interessa di più, è diventata la linea scura dove una tessera di carta incontra un’altra - dove l’immagine inquadra di ritorno per incontrare se stesso in un tempo diverso. Queste fessure scure sono abissali.

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guidare dalle fotografie che trovo. Spesso, le fotografie mi richiamano molto chiaramente, ma possono volerci anni prima che quell’immagine trovi uno o più immagini adatte da accoppiare che mi permettano di mobilitare quella qualità latente che trovo così intrigante. È il senso concreto di un mondo coerente e persuasivo che mi attrae alle fotografie con cui lavoro. Esigo sempre che la fotografia rimanga sé stessa, che sia assolutamente sé stessa, nei termini della carta usata, del momento di chiusura dell’otturatore, della qualità della stampa al tempo di riproduzione e forse soprattutto dell’intenzione del fotografo. Il mio lavoro non è affatto allineato alla tradizione surrealista del collage nella quale l’immagine originale diviene per magia un’altra cosa (una salsiccia diventa un naso e così via); voglio che l’origine dell’immagine persista e piuttosto che sovvertire le qualità fondamentali dell’immagine che mi interessano, voglio che siano sottolineate. Quando cerco tra i libri, trovo serie di immagini che mi intrigano, quindi il mio lavoro spesso si risolve nella serialità. In studio, passo da una serie all’altra; sono tutte correlate, ma focalizzano la loro attenzione in maniera leggermente differente. Il mio lavoro con gli ex libris comincia con “The Universal Now”, che stratifica insieme due momenti temporali. Questi lavori si focalizzano su un luogo, generalmente un monumento di Londra. Lavorando con queste immagini mi interessava un approccio più fittizio o filmico, combinando gli interni. Seguendo questo, le mie ultime due mostre personali si focalizzavano sulle fotografie che descrivono la campagna inglese. Questo riguarda molto più la cultura che produce certe fotografie che puramente le fotografie stesse. Qui è molto più importante il contesto.

/ZDL: Plasmi spazi personali e talvolta intimi, ricreandoli però dall’immaginario collettivo. Da quale desiderio deriva la decisione di produrre qualcosa di totalmente individuale sfruttando però del materiale altamente riconoscibile, e di evocare quindi il sottile confine tra pubblico e privato? AR: La serie di lavori composta stanze da diversi edifici, la chiamo ‘interiors’ (interni), dal momento che la parola ‘interno’ porta un carico di ‘interiorità’, facendo riferimento alla mondo emotivo che creiamo per noi stessi. Gli interni domestici sono una proiezione dei nostri mondi interiori. Anche se io lavoro spesso con le fotografie di case dinastiche non va

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dimenticato che queste sono per le famiglie, per soddisfare gli individui. Sono una proiezione esplicita di un senso del sé. Gli architetti spazializzano una interiorità, un sé come spazio. Pellicole rilevanti qui sarebbero l’hotel in ‘L’année dernière à Marienbad’ (1962) e anche l’Overlook Hotel in ‘The Shining’ (1980). Questi straordinari spazi architettonici sono estremamente carichi dello stato psicologico di un individuo, anche se è uno spazio comunitario. Lo spettatore viene destabilizzato dal mosaico di spazi reali che costituiscono una delle stanze che creo. Se ‘The Universal Now’ posiziona lo spettatore in maniera piuttosto precisa, gli interni sono l’inverso. Lo spettatore non è capace di localizzarsi in nessuna delle stanze reali - essendo sconcertantemente presente in tutte. /ZDL: L’elemento visivo di immediato impatto è spesso l’apertura, che permette di indagare prospettive o esplorare combinazioni visive nuove. A livello sensoriale, lo stimolo primario è quindi rappresentato da una vera e propria soglia che oltre sé stessa suggerisce un vasto mondo potenziale, che spesso viene indicato ma non mostrato o svelato completamente. Questa predominanza simbolica nasce da una volontà contemplativa o piuttosto interrogativa? AR: Per me la contemplazione è effettivamente un processo di interrogazione. È uno stato molto attivo. Uso il mio lavoro per domandare “cosa succede se?” ad un livello materiale e psicologico. Un’opera d’arte realmente interessante dovrebbe operare a più livelli, avere strati di significato che si schiudono, anche se il lavoro potrebbe apparire superficialmente semplice. Le opere d’arte che amo di più sono gradevoli da contemplare sia intellettualmente che fisicamente (oppure otticamente) e schiudono una serie si domande correlate. C’è una certa irrazionalità nel mio lavoro, il che è essenziale. In ogni caso, tutte le grandi domande non hanno risposta. /ZDL: Quindi il tuo lavoro si interroga anche sulla natura del tempo, sulla presenza contemporanea di più istanti fusi in un unico impossibile momento di meditazione: è un presente inteso come momento privato o come inevitabilmente condiviso? AR: Each man’s death diminishes me, For I am involved in mankind. Therefore, send not to know For whom the bell tolls,

Pagina precedente: Abigail Reynolds, Perimeter, 2011, Courtesy of the artist // Abigail Reynolds, Descent, 2010, Courtesy of the artist

It tolls for thee. (John Donne) La mia percezione del presente e’ formata da norme sociali. Riconosco il mio momento di visione connesso (seppur a volte in maniera subconscia) a conversazioni globali; un dialogo attraverso territori, storia e individualita’.

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Abigail Reynolds, Woodsmen, 2008, Courtesy of the artist


36 / ARCHIVIO

/ TREE OF CODES

“Jonathan Safran Foer, deftly deploys sculptural means to craft a truly compelling story. In our world of screens, he welds narrative, materiality, and our reading experience into a book that remembers that it actually has a body. “ Olafur Eliasson

Adele Cuzo/

Definito un’autentica e rivoluzionaria opera d’arte dal Times e “tattilmente delizioso” da Vanity Fair, ma comunemente conosciuto come “quel libro pieno di buchi”, “Tree of Codes” è un immancabile cimelio firmato Visual Editions presente nella collezione di ogni bibliofilo che si rispetti. Un tomo che va oltre all’abituale ruolo di semplice supporto o contenitore, ideato da Foer (romanziere americano autore di “Everything is Illuminated”, “Extremely Loud and Incredibly Close” e “Eating Animals”) e sviluppato dal Sara De Bondt Studio, in collaborazione con il designer Jon Gray, già autore delle copertine di varie pubblicazioni di Foer. Questo libro, che molto deve a “Cent Mille Milliards de Poèmes” di Queneau e alle sperimentazioni su sonetti palindromi di Robert Rapilly, è un prodotto concettuale incentrato sulla comunicazione tra livelli e sulle possibilità di fruizione combinatoria che ne derivano. Il supporto interattivo ospita un testo preesistente selezionato da Foer, che dopo aver ponderato diverse letture optò per il suo libro preferito, “The Street of Crocodile” di Bruno Schulz. Questo feticcio cartaceo è prodotto di non poca fatica progettuale: tutto inizia dal desiderio di Foer di sperimentare la tecnica del die-cut, che darà il via ad un’intensa serie di esplorazioni sulla relazione tra le pagine, e su come questa si possa tradurre in una base funzionale alla narrativa. La decisione finale di estrapolare da un testo una nuova storia usando taglierino e righello non era però delle più semplici, almeno dal punto di vista pratico; mentre Foer rielaborava testo, lo studio creativo iniziava una battaglia con innumerevoli tipografie, che una dopo l’altra rifiutavano la commissione definendo il progetto utopico. Finchè la sfida non viene accettata dalla stamperia belga Die Kure e nasce “Tree of Codes”, un vero e proprio oggetto di design ragionato, esempio estremo di collaborazione creativa ed appassionata che ad un anno dalla sua creazione si è già estesa alla produzione degli analoghi poster. Ricavati dai fogli madre della prima edizione del libro, sono autentici pezzi da collezione: firmati, numerati, e se c’era bisogno di sottolinearlo, a tiratura gelosamente limitata.

37 / ARCHIVIO

Tree of Codes, Jonathan Safran Foer, Visual Editions, 2010



40 / BIOGRAFIE

/ SYBIL ARDELL MASON

Dissociazione e follia

Francesco Bugli /

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41 / BIOGRAFIE


42 / BIOGRAFIE

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“Dividersi in diversi io che rappresentavano le difese contro una realtà, non solo insopportabile ma pericolosa. Sybil aveva trovato un modus operandi di sopravvivenza, la sua malattia per grave che fosse era nata come rimedio protettivo” -

“Profondamente nascosta nell’io depauperato, c’era sempre stata questa donna, questa donna completa, cosi a lungo rinnegata” “la presenza di due o più distinte personalità o stati d’identità, queste identità assumono in modo ricorrente il controllo del comportamento” -

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Albero genealogico, autoritratti e disegno tratti da Sybil, Flora Rheta Schreiber, Regnery Publishing, 1973

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“Io sono dio e toro. Io sono Apis. Sono egiziano. Sono indù. Sono indiano. Sono negro cinese e giapponese. Sono straniero e forestiero. Sono un uccello di mare” “Il soggetto si stende sul contorno di cui l’io ha disertato il centro”


44 / TEXTURE

/ TEXTURE

Tessuteca

Trapuntato a quattro strati arricciato Doppio per agugliatura Finto plissè con effetto tubico ripiegato Trapuntato a quattro strati laserato Virginia Devoto /

Jersey denim cotone riciclato misto

45 / TEXTURE


46 / TEXTURE

47 / TEXTURE


48 / TEXTURE

49 / TEXTURE


Da Jiri Barta a Max Klinger alla ricerca di un oggetto perduto

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50 / ANIMAZIONE

/ IL GUANTO, CORAZZA ARRENDEVOLE

pubblico, in particolare ai più piccoli, con il suo primo cortometraggio com-

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Lorenza Novelli /

Max Klinger, Entführung, Ein Handschuh, 1881

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fatto riemergere dalla polvere i guanti e la bobina, torna a casa e spinto dalla

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51 / ANIMAZIONE

guanto bianco un po’ dispettoso e monello, il peggior incubo dei poliziotti rappresentati dai guanti neri costretti ad inseguirlo per cercare di ristabilire un or-


52 / ANIMAZIONE

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del primo episodio girato a colori, l’ambientazione ci rimanda ad alcuni dei ca-

“ l’artista moderno per eccellenza” da sfondo alle vicende di un guanto bianco; questo dopo essere caduto dalla venendo prima travolto dalla sublime forza di un mare in tempesta per poi esStill tratto da The vanished world of gloves, Jiri Barta, 1982

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l’orrido convive con il meraviglioso, il sogno con l’incubo e l’amore ideale con la

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53 / ANIMAZIONE

Max Klinger, Handlung, Ein Handschuh, 1881


WOOD YOU LIKE IT? Per fare un tavolo... ci vuol la carta

Chiara Salvatori /

Pagina precedente: Pencils, Drill Design, 2010 // Newspaper Wood, Mieke Meijer, 2003 Pagina successiva: Baptiste Debombourg, La Redoute (detail), 2009 //

55 / DESIGN

Non bisogna mai smarrire il significato di design, ossia “progettazione”: esso è la realizzazione del nuovo che deve mettere in conto dei bisogni delle nuove generazioni; in poche parole, deve essere la soluzione ad un problema. Soluzioni che sono avvenute in maniera concettuale ma in particolar modo attraverso l’utilizzo concreto di linguaggi, forme e pensieri, differenti per ogni epoca storica. Il design quindi è una cosa per l’uomo creata dall’uomo, sembrerebbe. Bene, oggi non più. Philippe Starck in una recente intervista ha dichiarato che si andrà verso una dematerializzazione del prodotto, tuttavia bisogna dire che la realtà odierna ancora è ben diversa e l’uomo deve ancora rapportarsi alla materialità, soprattutto da quando è avvenuto il distacco rispetto all’antropocentrismo del design durato fino alla seconda metà degli anni ‘90: i pezzi in plastica colorata di Alessi sono forse fra gli esempi più lampanti; essi rappresentano un’epoca ancora poco attenta alla sostenibilità, alla parte finale della vita del prodotto e quindi alla sua idoneità al rispetto ambientale. Era una cultura concentrata sull’usa-e-getta, in grado di rispondere unicamente alla logica di una produzione che non può prescindere dai meccanismi propri dell’industria e dalle esigenze dei consumi di massa, nel quale vi appartiene l’artificio quotidiano e tutto ciò che, finalizzato al comfort e in generale all’hic et nunc, ha valore soprattutto nella nostra storicità e quindi non pensa a un ipotetico futuro. Per fortuna (“meglio tardi che mai” si potrebbe dire) i tempi ora sono molto cambiati e non si pensa più semplicemente a soddisfare gli egoistici capricci umani. L’idea del design sostenibile si è ormai fatta strada, diventando in molti casi una moda e oggetto di continue discussioni. Si può dire ormai passaporto di consapevolezza, indice di forte attaccamento alla realtà: i designer di nuova generazione si prodigano in creazioni versatili che suggeriscono pratiche di vita e comportamenti responsabili, che facilmente possono entrare nel nostro uso comune. Il prodotto del design sostenibile è spesso dotato di quell’organicità propria degli esseri viventi: è in grado di invecchiare e decomporsi imitando così processi e cicli di natura. Le scodelle Eco Ware ideate da Tom Dixon per esempio sono fatte con materiali biodegradabili e hanno pertanto una data di scadenza. Dopo cinque anni non possono più essere utilizzate come stoviglie: diventano vasi da fiori e infine deperiscono, tramutandosi in concime. L’idea di una seconda vita degli oggetti attraversa l’ecodesign sin dalle origini, dato che questo paradigma trova


56 / DESIGN diale, desertico, che si snoda e affossa sinuoso lungo il terreno, creando un effetto cartina topografica) agli oggetti d’arredo. Quest’ultimi possono essere compresi nei creativi mobili del gruppo di designer Vij5, che hanno realizzato A to Z (una scrivania in faggio con la parte frontale dei cassetti e le maniglie realizzati in Newspaper Wood) di Greetje van Tiem e un mobiletto a 4 ante dello stesso materiale e metallo verniciato, progettato da Breg Hanssen; oppure alle menti creative di PaperWood Products, un gruppo di designer giapponesi in grado di creare oggetti dalla linea pulita, che hanno la capacità di creare una stratificazione colorata ottenuta da processi di produzione molto interessanti. Riflessioni frequenti nascono dal tema della sostenibilità; un elemento di per sé non molto lusinghiero, che galleggia nel vasto oceano del motivato “green optimism”: si dice che non esista più nulla da inventare, che il “fare design” sia diventato un mestiere frivolo, sopravvalutato, in grado di elaborare prodotti privi di originalità. Eppure bisogna ricordare le parole di Lavoiser, abusate e studiate ma troppo spesso dimenticate: “Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”. E anche il mestiere del designer è essenzialmente questo: mai un qualcosa di implicito, bensì è un sapersi di giorno in giorno inventare, trasformando sia il proprio ruolo che il saper vedere le cose, che paradossalmente sono già inventate da sé. Sta a lui possedere l’ingegno necessario per individuarle e portarle alla luce, proprio come il risolutore di un rompicapo.

57 / DESIGN

espressione non tanto nell’innovazione, ma anche nel recupero di elementi preesistenti, per cercare in essi qualche funzionalità nascosta e insospettabile che ci consenta di farle sopravvivere prolungando in maniera indefinita il loro utilizzo. La dottrina del riciclo dunque racchiude in fondo l’essenza dello sviluppo sostenibile, che non è altro secondo la concezione del nostro tempo una saggia e oculata gestione delle risorse naturali, per garantire il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni presenti e future. La materia dunque non è una semplice entità che nasce, vive e muore, essa si ricicla e rigenera: l’olandese Mieke Meijer tuttavia è andata oltre questo semplice concetto, inventando un materiale nuovissimo e dall’aspetto decisamente intrigante, che potrebbe dare una svolta al discorso della sostenibilità. Questa giovane designer nel corso dei suoi studi alla Design Academy di Eindoven ha osservato attentamente il circolo del riciclo della carta, riflettendo sulla potenzialità della stessa: essa nasce dal legno, diventa giornale (o altro) e infine dopo essere stata debitamente utilizzata viene mandata al macero, in cui affronta tutti i processi per diventare carta nuovamente utilizzabile. Il tradizionale ciclo produttivo “dal legno alla carta” quindi: ma se fosse il contrario? E’ in questo modo che si crea il Newspaper Wood, ovvero il legno che nasce dalla carta. Questo nuovo materiale non ha la pretesa di sostituire il legno in larga scala e non si identifica come soluzione finale al problema del grande surplus di carta riciclabile. Il tema del progetto è quello dell’upcycling, trasformare cioè un materiale di scarto in un materiale dotato di valore in un contesto diverso, utilizzando meno energie di quelle richieste dal processo di riciclo e prolungandone la vita, il tutto alla scala locale. Il Newspaper Wood è prodotto tramite la stratificazione di giornali incollati fra di loro e quindi pressati, in seguito vengono ridotti ad assi o materiali idonei alla realizzazione di oggetti; i vari strati, una volta tagliati, sono in grado di evocare in maniera squisita nodi e venature tipiche del legno, ma dalle trame più colorate. Una volta che il processo è concluso gli scati della lavorazione (e anche il materiale stesso quando ha concluso il suo compito) possono essere ri-immessi nel circuito del riciclo dal momento che le colle usate sono prive di solventi e additivi. Questo nuovo materiale ha colpito il cuore di artisti e designer: svariate sono le creazioni che si possono trovare nel percorso cybernetico dei blog, e vanno dalle installazioni temporanee (vedi La Redoute di Baptiste DeBombourg, magnifico paesaggio primor-


58 / FOTOGRAFIA

LA DONNA CHE SVELÒ DUE VOLTE

Philippa Nicole Barr /

59 / FOTOGRAFIA


60 / FOTOGRAFIA

61 / FOTOGRAFIA


62 / FOTOGRAFIA

63 / FOTOGRAFIA


64 / LETTERATURA

/ “PANE E CIPOLLE”

Perchè mrs Beckham non può abitare al castello sforzesco?

Illustrazione di Annaviola Faresin

Samuele Fioravanti /

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tava il compito di distrarre il pubblico, insomma, e di non lasciare ai soli semafori

un gesto sbrigativo, per osservare le sagome affollarsi dietro la grandissima tela, -

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65 / LETTERATURA

pure la maglia ortogonale dei lavori in corso si alzava ferma e irrimediabile,


numerabili membrane infinitesimali, veli stratificati che la fotografia, catturando l’immagine del corpo, è in grado di strappare, sfogliare uno ad uno. Il velo allora, coerentemente con le tesi della fotografia spiritista, è anche un filtro tra il mondo terreno e quello ultraterreno, è luogo di rivelazione, è il velo sudario. Secondo Graziano Lingua “nell’atto stesso di coprire il corpo di Cristo sudari, sindoni e veroniche miracolosamente svelano i suoi tratti umani mettendo in tensione tra loro il desiderio della visione celeste che le abita, con lo sguardo terreno rivolto a un volto umano concretamente visibile.” Sono immagini indiziarie, in quanto affermano una presenza attraverso un’altra presenza, quella del sangue e del tempo. Tracce su di una superficie. Ed è proprio la superficie il luogo dove generalmente avvengono le trasformazioni nate dall’incontro tra due dimensioni: interno ed esterno. Il velo fatto sudario si tramuta in abito, che a sua volta diventa simulacro di una ‘casa abitata’ dal corpo dell’uomo, altare sacro dell’esistenza divina. Simulacro, nell’accezione di Jean Baudrillard, è maschera della maschera, pellicola patinata, copia che nella stratificazione delle simulazioni ha ormai perso il suo originale, un velo dietro il quale si nasconde un altro velo. La percezione di questo oggetto di culto risulta così essere piuttosto ambigua, ma rimane segnata da un attributo costante: il velo isola, protegge, rassicura, è una tenda del corpo che riveste la duplice funzione di separazione e di legame, attraverso la quale si lancia un messaggio informativo, si manifesta la propria ‘appartenenza ad un uomo’. Il velo è scudo smagliante tra l’io e l’altro, nasconde contenuti agli occhi profani del mondo, ha una funzione emarginante e repressiva ma anche fortemente caratterizzante. Così come nella pittura ad olio le velature sono il prodotto di un’operazione di riconoscimento delle differenze, anche la quotidiana scelta di indossare il velo sottolinea la propria diversità. Onnipresente nella storia del costume femminile (la prima traccia è attestata in un documento legale assiro del XIII secolo a.C. per mezzo del quale si destinava il velo alle sole nobildonne) è un elemento apparentemente accessorio che, di volta in volta e di luogo in luogo, viene caricato di significati tra loro contraddittori: basti pensare alle velette di primo Novecento, adoperate per coprire il dolore nei momenti del lutto, ma anche come strumento di eleganza e seduzione. Tutt’altro che presente nel corrente gusto occidentale sembra oggi ap-

Patrizia Guerresi Maïmouna, The Sister, 2003

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Virginia Devoto /

Forse non c’è una assoluta e corretta prospettiva per considerare oggi la questione del velo, il cui uso sociale si declina di volta in volta, a seconda delle diverse aree geografiche, verso significati eminentemente antropologici e politici; forse non voglio neanche affrontare queste tematiche cosi cariche di storia e di valori. Tuttavia non posso evitare di tracciarne un piccolo storyboard emozionale e riflessivo … Indipendentemente da ogni valore aggiunto che il velo può assumere, penso infatti sia da considerare anzitutto come una costante della vita umana, dalla nascita alla morte, passando per il matrimonio e per ogni rituale, piccolo o grande che sia, che ne implica l’uso, o l’abuso. Sottrae l’identità e chiede di svelarne l’essenza: il velo è una superficie impenetrabile e trasparente, è uno strato che si frappone fra chi lo indossa e chi, dall’altra parte, osserva. In senso figurato suggerisce il mistero, la non completa conoscenza; copre e avvolge il corpo, ne cela ed esalta l’anatomia, impedisce e solletica lo sguardo. Nasconde una verità mentre la manifesta. È perciò paragonabile a un diaframma in grado di rendere a noi più evidente, e quindi tangibile, la realtà che vela. Non è un caso che questo semplice ed enigmatico ‘oggetto’ sia legato alla donna, da sempre vissuta come un pericolo e, in quanto tale, come un emisfero da rilegare, separare, nascondere, velare appunto. La ‘donna occidentale’ sente di esistere solo quando sa di essere trapassata dallo sguardo dell’uomo; la ‘donna orientale’ si da la possibilità di esistere acconsentendo di non essere guardata: in entrambi i casi il velo, strumento di seduzione o di protezione, accendendo e negando il voyeurismo, rende alle donne la possibilità di essere una scatola magica, sottolineando il rispetto e la sacralità del corpo femminile: ciò che è taciuto alla vista è un bene prezioso che necessita attenzione e un adeguato livello di conoscenza per poter essere scoperto. Giunge spontaneo un parallelismo con l’opera di Christo e Jeanne-Claude, che impacchettavano monumenti della quotidianità occultandoli alla nostra vista, proprio per ricatturare l’attenzione che meritano. Perché ormai è chiaro a tutti quanto sia accattivante ciò che nel mostrarsi si sottrae, sfuggente. Mi viene allora in mente la fotografia di Paolo Gioli, dove la sensazione che prevale nella fruizione è proprio quella di trovarsi di fronte a persone reali avvolte però in uno strato onirico che le rende ancor più vicine e lontane al contempo. Honorè de Balzac sosteneva che ogni corpo è formato da numerose e

66 / COSTUME

INTERDETTO Velo, controversa cortina


68 / COSTUME

Herb Ritts, Tony with Body Mask, Joshua Tree, 1985

partenere soltanto all’emisfero mediorientale, ma, a ben guardare, numerosi sono i fenomeni che stanno intrecciando questi due mondi. Il più eclatante è forse il caso di Princess Hijab, un misterioso artista poco più che ventenne di cui non si conosce con sicurezza né il sesso né l’appartenenza religiosa, che opera prevalentemente nella metropolitana parigina intervenendo sui manifesti pubblicitari delle griffes di moda. Fa parte di una nuova corrente di “graffitari delle minoranze” ma ha acquisito fama internazionale quando ha deciso di mettere il velo sulle donne patinate affisse nei luoghi pubblici. Un velo di vernice nera che cola verso il basso e che non si preoccupa di coprire perfettamente tutte le nudità, ma si concentra principalmente sul volto. La polemica infatti muove dal recente divieto del governo francese di indossare il burqa, provvedimento nato per tutelare i diritti delle donne, secondo la morale dell’occidente, ma che di fatto ha minato l’integrità identitaria dei giovani di terza e quarta generazione discendenti da immigrati e già emarginati dalla società. Dall’altro lato si registra una crescente domanda di moda “stile islamico moderno” tra le donne di fede musulmana: in Turchia da qualche mese la nuova rivista di moda Ala, che ha debuttato mettendo il velo islamico in copertina, raccoglie consensi ed entusiasmi a tal punto da essere considerata da alcuni alla stregua di Vogue, mentre su facebook conta già più di novantacinquemila fan e, nonostante dubbi e polemiche di molti, il successo è tale che ne è stata recentemente lanciata una nuova edizione in Germania, dedicata ovviamente ai lettori turchi. A soddisfare ugualmente la legittima vanità delle musulmane che vivono in Canada ci pensa N-ti, un’azienda specializzata in abbigliamento islamico per la donna contemporanea musulmana, alla quale offre le proprie collezioni di prêt-à-porter. Una personalissima soluzione che unisce Oriente e Occidente è sicuramente quella che Erkan Coruh, giovane designer turco, ha portato sulle passerelle con le sue due prime collezioni, ‘The women of Allah’ e ‘Shirin’. Metafora di un viaggio che celebra la femminilità senza allontanarsi dalla cultura islamica, in cui i capi, ibridi, provocatori, sofisticati e armoniosi decostruiscono la maschera religiosa all’insegna di una bellezza radicale, dove il velo, fluido e trasparente, è anzitutto mistero e dove la modernità e la tradizione convivono in un continuo dialogo con Dio. Senza bisogno di continuare oltre, nasce spontanea una fatua

domanda: fashion style e Islam possono convivere? C’è chi sostiene che l’idea di moda è già di per sé in contraddizione con lo spirito islamico, che vuole una donna nascosta e non soggetta a regole strettamente consumistiche e chi, invece, sostiene che la moda islamica può cambiare ed evolversi senza offendere lo spirito della religione perché il Corano suggerisce alla donna solo quali parti del corpo deve coprire. Ad ogni modo, mentre i veli occidentali oggi vestono volentieri il valore di un gioco di trasparenze e sovrapposizioni per catturare l’interesse dell’altro, hijab e burqa hanno lo scopo di nascondere la donna dallo sguardo estraneo attraverso l’imposizione di spazi fisici separati ed è una separazione esibita come un’elezione, un filtro così sentito da divenire mano a mano una seconda pelle, uno strumento concettuale che implica l’idea di confine sacro, non quella di moda. Statuito che la trasparenza della parete accende la conversazione tra la chiusura del corpo e il suo infinito potenziale immaginativo e che il corpo è oggi vissuto come opera, in quanto risultato di un’azione materiale dell’uomo, voglio allora volgere a forma interrogativa un’affermazione di Andrea Busto: “sacralizzare la visione dell’opera attraverso il suo celarsi corrisponde, quindi, anche al lutto delle possibilità della visione”?

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Attributo a Nuredin & Levin, scene e tipi di donna araba con yashmak c., 1880, stampa moderna a gelatina con argento


NON CRESCIAMO IN MODO ASSOLUTO, CRONOLOGICO. A VOLTE CRESCIAMO IN UNA DIREZIONE E NON IN UN’ALTRA; NON IN MANIERA UNIFORME. CRESCIAMO PARZIALMENTE. SIAMO RELATIVI. MATURIAMO IN UN AMBITO, MENTRE RIMANIAMO INFANTILI IN UN ALTRO. IL PASSATO, IL PRESENTE E IL FUTURO SI MESCOLANO E CI TIRANO INDIETRO, IN AVANTI OPPURE CI FISSANO NEL PRESENTE. SIAMO FATTI DI STRATI, CELLULE, COSTELLAZIONI.


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Matthew Barney, Still tratto Cremaster Cycle #3, 2002

Assodata in arte la democrazia e la conseguente anarchia, è legittimo riscontrarne l’effetto non solo nel crollo dei totem e dei tabù ma bensì nella lacerazione, nella manipolazione e in un onnipotente intervento sulle loro stesse rappresentazioni fenomeniche. Concepite come barriere o reinterpretate come semplici mezzi, le tela, la terra e la pelle si modellano per opera dell’artificio e dell’estro. L’umanesimo si è in realtà concluso nel novecento? Nell’esplosione delle immagini, dei suoni, dei mezzi, delle piattaforme, delle informazioni.. l’uomo moderno incapace di delimitare i confini e di attuare una padronanza delle pulsioni che convergono su di essi, implodendo colloca il suo corpo al centro della sua attività dissacrante. Il post-umanesimo declina la certezza delle teorie antropocentriche ma allo stesso tempo ricontestualizza il corpo da un ruolo espressivamente passivo ad uno più attivo. L’attenzione che si volge ad esso è la medesima, ma differente ne risulta la concezione. Riconsiderato non più come emblema estetico ma piuttosto quale appendice di un esistenzialista impeto rivoluzionario e creativo, il corpo umano nel corso della storia è sempre stato il più idolatrato oggetto di studio, sproporzione, sintetizzazione, scomposizione, mortificazione.. I divi che animano la società dello spettacolo si sottopongono ad un’interminabile metamorfosi, cambiano look continuamente e restano giovani in eterno, nella pia illusione dell’immortalità che lo schermo non riesce a conferire. I progressi scientifici hanno portato a compimento la clonazione animale, riportando in vita lo spirito creatore del dott. Victor. L’arte degli anni ‘90 ha insistito sul corpo non solo come veicolo di bellezza ma riproponendolo quale cagionevole oggetto, capace di riproporre una nuova identità umana. I precursori sono innumerevoli; in questa sede è lecito delimitarne il campo di ricerca ai geni di Goya, Picasso e Lucien Freud, e più specificamente a Bellmer, Bacon e Giger... Come movimento non istituzionale e di chiara spiegazione antropologica, il post-human conta infinite voci. Già Anthony Julius in Trasgressioni rivendica La violazione del Tabù comparando Great Deeds against the Dead di Francisco Goya eseguito nel 1810, in seguito riproposta dai fratelli Chapman nel 1994, e afferma: “L’artista trasgressivo [..] attribuisce al suo lavoro un profilo di disperazione e di sfrenatezza, e lo conduce al nichilismo che distrugge ogni valore, non per amor della bellezza o della verità ma solo per se stesso”. Si approda però al nichilismo passando tra le contraddizioni insite nella fede per i massimi sistemi. Seguendo

questa strada, ci si inoltra in un contemporaneo pellegrinaggio tra vecchi idoli. Ed incapaci del confronto, reinterpretiamo il nostro stesso corpo quale inedito oggetto di sacrificio. Tramite i presupposti qui avanzati, sembra palesarsi la ventura direzione che intraprenderà ed in parte ha già intrapreso l’espressione umana. Tutto ciò risulta un plausibile prognostico, già avvertito dalle più lungimiranti opinioni, ma è evidente che il conservatorismo dilagante non ammette il progressismo di certi postulati. E’ il 1992 quando Jeffrey Deitch conia il termine post-human, inaugurando l’omonima mostra al FAE Musée d’Art Contemporain di Losanna e a seguire, sempre nello stesso anno, al Castello di Rivoli. “Per l’artista post-human, l’opera si identifica in una procedura ricostruttiva del corpo, alterato nella sua identità biologica in un processo di biodiversificazione tra arte scienza e tecnologia, che ha come fine una mutazione genetica, un nuovo corpo, una nuova personalità, una nuova psicologia, talvolta attraverso autoaggressive trasformazioni somatiche, a metà tra performance, body art e chirurgia plastica: il corpo naturale, anacronisticamente superato ed inadatto al mondo tecnologico in cui si colloca, si adegua artificializzandosi in un’esasperata ricerca di identificazione con una nuova realtà”. Non c’è dubbio, Deitch seppe riconoscere i protagonisti che di lì a poco avrebbero smosso il sistema dell’arte contemporanea. Damien Hirst, Kiki Smith, Matthew Barney, Paul McCarthy, Yasumasa Morimura, Thomas Ruff, Mike Kelley, Charles Ray, Cindy Sherman, Jeff Koons e tanti altri. La mostra fece scalpore, dando notorietà a nomi ancora sconosciuti e consolidando una fama internazionale ad artisti già discretamente quotati. Certo l’associazione di alcune di queste personalià al termine post-human, forvia una reale cognizione di questa filosofia. Infatti, con la conseguente calibrazione della reale nozione di presente, un presente che tende la sua evoluzione da un’era postmoderna ad una postumana, la scelta di Deitch potrebbe oggi risultare esageratamente allargata ad una porzione troppo vasta di artisti. Ma, considerando per esempio un artista del calibro di Matthew Barney, che attribuisce alle proprie facoltà espressive e corporee la prerogativa dell’ibridazione, discerneremmo senz’altro il fiuto di quel vecchio volpone di Jeffrey Deitch. Sally O’Reilly commentando la serie Drawing Restraint di Barney afferma: “E’ nata dalla fascinazione dell’artista per una forma di allenamento fisico in cui gli atleti potenziano la muscolatura attraverso l’azione di forze opposte crescenti secondo una progressione attenta-

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Eleonora Salvi /


danno impulso e limitano la nostra vita quotidiana”. Non a caso lo stesso titolo: “Cremaster” -il ciclo di cinque film che comprendono un studio interdisciplinare di sette anni- si riferisce al muscolo che permette allo scroto di abbassarsi e sollevarsi. L’uso di protesi posticce, di comportamenti e travestimenti zoomorfi di Barney incarna espressivamente il concetto di hybris avanzato da Marchesini, la cui tesi dell’ibridazione è confermata da ogni azione umana, che essa sia sensoriale, cognitiva o espressiva. La sua causa scatenante è rintracciabile in un conflittuale senso di incompletezza,

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mente studiata. Nelle sue performance, Barney cerca di realizzare segni gestuali controllati arrampicandosi su pareti a strapiombo legato a robuste corde elasticizzate che lo tengono sospeso; oppure lavora in posizioni volutamente difficili. Queste azioni che presentano ostacoli assurdi possono essere lette come l’incarnazione di desiderio e disciplina, il superamento di obbiettivi e costrizioni; attraverso la scelta di contesti irrazionali, in cui l’artista si presenta nelle vesti di un eroe ridicolo che lotta contro il destino e le leggi della fisica, Barney propone una parodia delle forze conflittuali che

Matthew Barney, Still tratto Cremaster Cycle #2, 1999

Lucy&Bart, Lucy McRae e Bart Hess - Evolution, 2008

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che affligge l’homo sapiens da quando ha posto il suo ruolo in bilico tra il demagogico dualismo natura-cultura. Da questo squilibrio relazionale nasce un senso di incompletezza, dando così forma alla tendenza ibridativa. L’ibridazione avviene in primis con l’acquisizione culturale, secondo Roberto Marchesini, l’uomo lungo il suo percorso evolutivo ha abbattuto ed aggirato il vincolo esercitato dalla selezione naturale. “E’ l’acquisizione culturale, lo slittamento di contesto, il superamento della soglia dell’innato a creare la sensazione di una natura imperfetta, di un corpo che necessita di una complementarietà tecnologica per realizzarsi [..] un meccanismo di proiezione del singolo sul repertorio delle eccellenze modifica fortemente la percezione del sé e quanto più l’uomo riesce a impossessarsi di una virtù esterna – sia essa biologica o macchinica – tanto più impegna a iscrivere tale eccellenza nel proprio repertorio, misconoscendo non solo il suo carattere di specializzazione ma anche la sua natura ibrida, ovvero il suo essere il risultato di un processo di fusione tra una realtà umana e non-umana”.. Barney indossa barbe, trucchi, maschere o scarpe col tacco, per esplicitare la divulgazione più commerciale della protesi corporea; sperimenta così la sua figura attorno al travestimento, reinventa il suo corpo ora in un animale da guerra ora in una figura mitica. In questo senso si colloca anche la poetica zoomorfa dell’opera scultorea di Louise Bourgeois, Kiki Smith, David Altmejd, John Isaacs, Berlinde De Bruyckere e Yolacan Pinar. Inoltre, è degna di nota la collaborazione LucyandBart, tra Lucy McRae e Bart Hess, fotografi visionari che ricostruiscono il fashion sistem. Un’efficace rappresentazione dell’uso dell’artificio quale rielaborazione del nostro stesso corpo, sfogo del senso d’indeterminatezza umana che permane e si propaga, tramite gli idoli mediatici negli spot e nei magazines. La moda, il travestimento convogliano le proprie veementi influenze nella costruzione dell’immagine dell’individuo. Giunti a tale consapevolezza immaginiamo quindi il confronto dialettico tra Roberto Marchesini e Jean Baudrillard, sulla medesima tesi: la ricerca dell’estremo, in opposizione e reazione ai dualismi che sgorgano dall’errato paragone che l’individuo pone tra sé e la realtà. Siamo nell’epoca del superamento del reale attraverso la sua stessa manipolazione. In questo senso si legittima la performance, la body art e la conquista del sangue come materiale plastico in “Self” di Marc Quinn e simili. Si compie un passo verso la ricerca dell’immortalità dell’opera d’arte e della vita stessa. E ciò avviene


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Orlan, La Reincarnation de sainte Orlan ou Images nouvelle images, 1990

gica con un’operazione d’urgenza filmata in video, ma solo dal 1990 Orlan si sottopone metodicamente ad una serie di operazioni chirurgiche, dal titolo “The reinassence of saint Orlan”, i cui reperti, conservati in grandi musei internazionali (Centre Pompidou, Los Angeles Country Museum of Art, Getty Museum), consistono in reliquari, video e foto. Durante queste performance Orlan, anestetizzata localmente, rimane lucida e vigile, conversando con i medici, gli amici, leggendo libri, dipingendo col suo stesso sangue ed interagendo con il pubblico delle gallerie collegate in diretta. Nel 1993, nel corso del suo settimo intervento chirurgico, si è fatta installare due impianti di silicone sulla fronte: da allora il suo volto è caratterizzato da queste piccole “corna”, simbolo evidente della sua sfida alla visione tradizionale di bellezza e al concetto di occidentale di identità e alterità. Per quanto sconcertante, provocatoria ed apparentemente disgustosa, è innegabile la capacità di Orlan di anticipare interrogativi che appaiono sempre più nevralgici. Ora quindi, è inevitabile prendere in considerazione il restauro dell’identità a cui siamo soggetti, il senso di incompletezza estetica che ci affligge, prodotto della vana competizione tra l’individuo e il suo ruolo stereotipato da una realtà virtuale e mediatica. L’uomo contemporaneo è abusato e violentato nell’intimità del rapporto tra il proprio io e il proprio corpo e con inettitudine tenta di ridisegnare quegli opachi confini estetici e fisici senza i quali non sarà più capace di contestualizzare il suo essere e di conseguenza, il suo stesso esistere all’interno della società. E’ arrivato il momento di abbattere i modelli estetici, l’ignavia dell’indeterminatezza critica ed accettare la filosofia post-umanista come prossima frontiera espressiva e sociale.

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per esempio, attraverso il legame tra una cellula cancerogena di un topo ed un globulo bianco di Paul Perry in “Good and evil on the long voyage”. O ancora, nel compiacimento dello specchiarci nell’illusione dell’immortalità, che cercò forse Chen Zhen presentando nel 2000, anno della sua morte, “Crystal landscape of inner body”, la copia in cristallo dei suoi organi ormai devastati dalla leucemia; e con una dose di sana tolleranza fruitiva, osservando in modo coerente l’evoluzionismo delle espressioni umane, potremmo quindi ora concepire come lecito anche il coniglio di Eduardo Kac. Andiamo avanti, passando per la pelle come patina tra noi e il reale, quel reale che distinguiamo quale rappresentazione della divina natura, alla quale attingiamo per ibridazione culturale. Il nostro corpo circoscrive i suoi limiti, la sua presenza fisica nel tempo e nello spazio. Una frustrazione avvertita di fronte alle opere di Jink Sam, Ron Mueck e Patrizia Piccinini: naturalmente l’uso della cera, in grado di conferire il massimo grado di realismo, ci intimidisce, perché ne riconosciamo la tendenza alla deperibilità e all’alterazione delle nostre membra. In questo modo l’artista diventa sia oggetto che soggetto del suo sacrilego intervento. Un’azione dissacrante che tende alla volontaria disumanizzazione dell’individuo nella sua essenza più oggettiva e fisica. Non è più un sistema alienante che interviene sul nostro corpo; tramite la mediazione postumana, raggiungiamo un inedito traguardo nell’intricato percorso dell’autocoscienza, in cui scegliamo di diventare noi l’autorità artefice ora della nostra mortificazione, ora della nostra ricostruzione. Se volessimo quindi riscontare questi assunti quali parti integranti della ricerca espressiva nonché nella stessa vita di un artista, riscontreremmo quest’incarnazione concettuale nelle opere-azioni di Sterlac ed Orlan. Orlan, pseudonimo di Mireille Suzanne Francette Porte, è colei che meglio ha saputo ricontestualizzare il suo corpo all’insegna dell’artificio estetico. Divenne famosa come artista performativa nella Francia dei primi anni ‘70; la sua ricerca esalta la contemplazione estetica, passando per i tableux vivant come allegorie di veneri, madonne e grandi madri; accingendo quindi direttamente dalla storia dell’arte la reale iconografia che la civiltà da sempre designa alla sfera corporea, in quanto opera estetizzante. La giovane Orlan operava una sapiente riconversione idolatrata del corpo ad oggetto mitico, a sacra reliquia ma comunque riproducibile e vendile. E’ grazie a lei che nel 1978 l’arte entra per la prima volta in una sala chirur-


di raccolte di trivia

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Aurelien Juner, un giovane artista e designer di Bordeaux, attualmente a Barcellona, si abbandona nella contaminazione creativa di diverse discipline artistiche. Come parte della sua personale esplorazione di ordine/disordine, e la relazione tra immagine e grafica, ha ideato una serie di fotografie intitolata “Surface”. “Surface” è una riflessione sul ruolo che rivestono le riviste di moda nella diffusione delle immagini e sul modo in cui queste immagini sono collegate alla realtà. Come Juner spiega, si tratta di un tentativo interrogarsi sul mondo finzionale e idealizzato creato dalle riviste, in relazione con il mondo reale dove l’immagine è costruita. Il lavoro di Juner comincia con la copertina di una rivista posta in uno spazio bianco e segue con il suo intervento artistico che, nonostante fosse ispirato dalla cover originale, esprime un significato completamente nuovo. A volte, la copertina è collocata in una scena quotidiana, per esempio tra una ciambella e una tazza di caffè, a volte è ridipinta, bruciata, ritagliata e rielaborata con svariate tecniche. Quando la composizione è completata, Aurelien Juner prende una nuova immagine che, come aveva abilmente mostrato, simboleggia il ritorno alla cultura di massa da cui deriva la copertina originale. Il suo scopo è quello di aprire, in questo modo, un dialogo tra l’immagine e lo spettatore che trova se stesso tra la copertina originale e l’opera d’arte finale. Il lavoro di Juner è un interessante esperimento nel contestare la nascita di un immagine, il largo uso nella cultura di massa mediatica e la sua influenza nella nostra percezione della realtà. Le sue immagini distorte sono pezzi originali d’arte da aggiungere alla nuova dimensione dell’uso consueto delle riviste. Più di questo, le sue eccellenti capacità compositive e una vivida immaginazione danno un nuovo significato alle fotografie di nature morte, seguendo la tradizione di artisti che creano la foto prima di scattarla.

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SELEZIONE EDITORIALE

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Numéro # 117

Virginia Devoto /


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Purlple # 16

Vogue Paris # 845

Numéro # 118

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Hunger # 1

Jalouse # 143

Tiger # 3

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SALVATORE ARANCIO Una sentinella alla prese

Eleonora Salvi /

Salvatore Arancio, Le Grand Rappel De L’Aiguille De Roc, 2011

i collage, nell’atto di costringere assieme diverse immagini, distruggendole per l’incondizionato divenire, rispetto al frenetico progresso industriale e tecno-

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intrinseco nelle immagini di cui si appropria, per poi venir a sua volta enfatizo dinamico, si accavalla nel corso della storia costruendo e reinterpretando via

ad àpeiron

sacro monolito agli ominidi, levigato e freddo, in netto contrasto con la madell’uomo come dell’opera di Arancio, nascono dall’inesauribile incertezza rivolge alla natura nelle sue rappresentazioni più maestose evoca quella dei -

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la sua presenza artistica si avverte laddove un’azione successiva interviene su

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88 / ARTE

Salvatore Arancio, A Fiery Throat Expels a Constant Flow of Incandescent and Viscous Magma, 2007

scorrere delle acque, il cadere della pioggia e il discreparsi delle onde si presenta

tanti altri, ne registra il dialogo con la terra, ancora in sospeso dal principio dei tempi; esprimendo gli eterni enigmi dell’uomo, e allo stesso tempo censurandolo

89 / ARTE

Salvatore Arancio, The Onset of the Eruption of a Volcanic Island Expelling Dense Clouds of Condensed Aqueous Vapour, 2010


INNO ALLA TRAGICITÀ DELL'IMPERFEZIONE DELL'APPARATO UMANO CONOSCITIVO




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/ TRA SCHLIEMANN E DELACROIX

Tra avventurieri e spedizioni archeologiche,

Alessandro Ciacci /

Giovanni Battista Belzoni,William Brockedon 1820

grande veicolo attraverso cui in occidente si plasma un nuovo sentire, un nuovo trait d’union

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taria, decidono di imbarcarsi in prima persona in avventure ben più grandi di -

spropositata di europei, tutti con vere o presunte autorizzazioni a procedere in cum, un hybris

forma mentis dell’uomo occidentale, si arriva ad un uni-

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97 / BIOGRAFIE

pensiero, dell’arte e della technè


quindi a Parigi come venditore di presunte reliquie e immagini votive, ma l’assoluta negazione per gli affari e soprattutto la fame lo riportano miseramente a Padova, dove in seguito a gelosie e dispordini politici e’ costretto a rifuggirne

98 / BIOGRAFIE

in convento in seguito ad una delusione amorosa: ma la calata dell’esercito na-

Wells e al circo Astley come guitto e mago, ma soprattutto, uomo forzuto sic! pezzo forte dello spettacolo vede Patagonian Belzoni caricarsi sulle spalle un giogo e sopra esso una piramide umana di dieci elementi e portarla in giro per il

di un grande progetto ancora irrealizzato, proposto a molti, accettato da nessuriuscire a farsi consegnare il compito di portare a termine l’impresa nelle sue

“Il mio primo desiderio in mezzo a queste rovine fu di esaminare il busto colossale che dovevo prelevare. Lo trovai vicino ai resti del corpo e del trono ai quali, in altri tempi, era unito. Il volto era rivolto verso il cielo e si sarebbe detto che sorridesse all’idea di essere trasportato in Inghilterra. La sua bellezza, più che la sua grandezza, superava ogni aspettativa” -

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dal suo spirito zingaro, dal suo genio e dalla sua buona stella: scopre monumote mai raggiunte da esploratori, con una tenacia e una passione da fare impal-

zoni-1816”

“Scoperta da Bel-

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vi riesce studiando attentamente la struttura interna della vicina piramide di -

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sandro Ricci, medico ed artista, le cui illustrazioni del viaggio rimangono ancor

mente, pesta i piedi a troppa gente durante i suoi scavi e ben presto, come fosse

dra: qui inizia subito a redigere un accuratissimo resoconto dei suoi viaggi e delle Fruits of enterprize exhibited in the travels of Belzoni in Egypt and Nubia: interspersed with the observations of a mother to her children, Lucy Sarah Atkins Wilson, Giovanni Battista Belzoni, Harris and Son, St. Paul's Church Yard, 1821

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seguire favole su tesori sepolti, oggi avremmo musei vuoti e libri di storia più

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sconosciuto traveller racconta: “two vast and trunkless legs of stone stand in the desert…”

“Il gentiluomo che ha messo questa epigrafe sulla tomba del celebrato e intrepido viaggiatore, spera che ogni europeo che visiti questo posto faccia pulire il terreno e riparare lo steccato intorno, se necessario” cali nei paesi e nelle terre in cui aveva operato, non solo a causa del suo carattere del posto: aveva imparato lingue e dialetti e orgogliosamente indossava abiti lo-

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convincere i locali manovali a lavorare duramente, cosa a cui non erano abituati


Emanuele Amaduzzi /

di commerciabilità dei film muti dopo l’avvento del sonoro furono determinanti per la diffusione di questa operazione. Un’altra soluzione non meno letale al problema della conservazione era la pratica del riutilizzo delle pellicole per nuovi film. Veniva grattato il sottile strato di emulsione e ne veniva steso uno nuovo su cui imprimere un’altra opera. Ciò ha portato alla scomparsa dei titoli meno famosi che venivano rispediti alla casa di produzione dai gestori delle sale per far posto ad altri, più vendibili, film. Inoltre la guerra e i suoi bombardamenti, la censura e sentenze giudiziarie drastiche (Nosferatu si salvò miracolosamente da una di queste) diedero il loro contributo alla distruzione del nostro passato cinematografico. Per fermare la distruzione del nostro patrimonio culturale il cinema, già nel 1898 cominciava a pensarsi come arte e come tale, degno di avere musei o depositi nel quale conservare copie delle opere. La pellicola diventa strato mnemonico di importanza storica e culturale. E’ in questo periodo che la Library of Congress, la più importante biblioteca americana, si fa carico di conservare copie della settima arte. Quanto al vecchio continente, l’urgenza di creare cineteche che attuassero una politica di conservazione e archiviazione dei film si afferma negli anni trenta, che vedono il fiorire in tutta Europa di cineteche nazionali. Dobbiamo a loro la salvezza di tante opere che altrimenti non avremmo potuto conoscere. Nonostante questo si calcola che l’80% delle opere del cinema nel periodo che va dal 1894 al 1930 sia andato distrutto; di molti film non sono rimasti che pellicole frammentarie, se non addirittura spezzoni la cui provenienza non si riesce a identificare. In questo materiale reperito vi sono tante opere che attendono solo il momento propizio per ritornare agli antichi fasti, una volta debitamente riparate, opportunamente ricostruite e rimontate. Per riportare alla luce queste opere viene noi in soccorso il restauro cinematografico: è attraverso questa pratica che noi contemporanei siamo venuti a conoscenza di materiale importante per la storia del cinema che altrimenti sarebbe andato dimenticato, perso nell’impossibilità di una visione. Capolavori del passato come “Cabiria”, “Intollerance”, “Metropolis” o “Napoleon” sono il frutto glorioso delle fatiche dei ricercatori senza la cui perizia e competenza non potremmo ammirare. “Restauro” è un termine ombrello che raccoglie in realtà numerose e differenti operazioni che possono andare dalla semplice archiviazione di vecchi nitrati e acetati, in ambienti sicuri ad un lavoro di ricerca e ricostruzione di film considerati perduti. Poiché il fine ultimo di ogni film è l’essere visionato, il lavoro dei ricercatori sarà il più possibile orientato ad una restituzione del “testo” filmico. Si tenta di salvaguardare il contenuto delle pellicole riparando quando possibile i danni che esse hanno

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Ogni appassionato di cinema prima o poi si troverà davanti alla necessità di capire e vedere come l’oggetto della propria passione sia nato, come si sia sviluppato attraverso il tempo, quali tecnologie ne abbiano permesso l’attuazione, quali erano i film prodotti. Ed è giusta sete di conoscenza cui si vuole dare sollievo e pace. Conoscere le origini, il proprio passato, ciò che è stato e più non è. È allora che ci si rivolge a libri ed enciclopedie che spieghino e illustrino la storia e la crescita del fenomeno cinematografico, ma ciò non basta certo. Un film è immagine, esperienza estetica della visione: non si può comprendere se non vedendo con i propri occhi, udendo con le proprie orecchie e provando le emozioni che l’esperienza del cinema genera. Purtroppo per noi la storia del cinema è come un sogno, un ricordo remoto: non ci è dato di poter raccogliere tutti i dati, tutte le informazioni necessarie alla sua ricostruzione. Essa è frammentaria, piena di lacune, di pezzi che non sappiamo ben dove collocare e quale senso conferire ad essi. Il film, in quanto costituito da quel nesso inestricabile di immagine e materia che è la pellicola cinematografica, è soggetto al mondo ed agli eventi che in esso hanno luogo. Una pellicola è l’opera in essa impressa, con tutte le conseguenze che questo fatto comporta. Il contenitore determina il contenuto. Le cause di questa impossibilità di conoscenza sono di varia natura: uno dei motivi principali risiede proprio nella natura stessa della pellicola. La celluloide infatti è un materiale estremamente instabile. Frutto dell’unione tra nitrocellulosa e calfora, inizia immediatamente dopo la sua creazione il suo lento decadimento chimico che porta alla distruzione dell’oggetto. Logoramento inarrestabile come pure lo è la combustione cui può essere essere soggetta in determinate circostanze: la componente di nitrato è estremamente infiammabile e può bruciare per la minima sollecitazione termica. Dobbiamo proprio a questa sua caratteristica se gran parte dei film girati dalle origini del cinema sono andati perduti. Interi magazzini di materiale ridotti in cenere senza poter far nulla per impedirlo, in quanto la combustione della celluloide non può essere in ogni modo arrestata. Anche il diacetato (1909) e il triacetato di cellulosa (1936), usati per il supporto dell’emulsione perché più sicuri del nitrato, non sono esenti da problemi. I supporti a base acetica infatti soffrono della cosiddetta “Vinegar Syndrome”, reazione chimica che avviene quando le pellicole non sono tenute a temperature adeguate, che distruggono prima il supporto e poi l’immagine in esso contenuta, scatenando il caratteristico odore che questo processo genera. Molti film andarono perduti per distruzione intenzionale da parte dei gestori delle sale: le pellicole occupavano spazio e i costi di magazzino era alti. Il ricambio continuo di opere e la scarsa considerazione


restauro ci si trova davanti a problemi di ecdotica, disciplina che studia il problema dell’“originale” di un’opera. Il problema in ambito cinematografico non è irrisorio in quanto i film spesso uscivano (ed escono tuttora, vedasi “Apocalypse Now”) in varie versioni a seconda non solo dei paesi, ma anche della volontà di case produttrici e registi. Uno stesso regista può ad esempio licenziare più edizioni della sua opera come “director’s cut”, ma quale si deve poi intendere quale ‘originale’? Basti pensare ad un film come Intollerance che venne costantemente rimaneggiato dal suo autore, Griffith, per tutto l’arco della sua vita, mai contento del risultato, finché il MoMA non glielo strappò dalle mani per evitare l’ennesimo rimontaggio dell’opera. In questo caso la versione restaurata è l’edizione di cui si hanno più informazioni. In assenza di un’opera completa, o comunque in assenza di una corretta successione delle scene, si è costretti a ricostruire l’unita dei frammenti in possesso attraverso le risorse contingenti al film stesso: visti della censura, sceneggiature, partitura musicale per la colonna sonora, recensioni, articoli di giornali, archivi di case cinematografiche e interviste, sono documenti utili a questo scopo. Oggigiorno grazie a queste informazioni possiamo indicare con sicurezza i titoli e la quantità dei film perduti o di cui non si ha più altra notizia che il nome. I visti della censura in particolare sono preziosi in quanto recano una descrizione estremamente dettagliata della storia del film; inoltre permettono di individuare i tagli rispetto applicati alla pellicola pervenuta dalla casa di distribuzione. Mentre la sceneggiatura originale ci aiuta a dare ordine corretto alle parti del film, la partitura musicale è invece utile per capire i tempi delle inquadrature e il ritmo del film. Inoltre la musica ci aiuta a regolare la lunghezza delle didascalie nel caso dei film muti, spesso andate disperse e ricostruibili attraverso la sceneggiatura originale che tuttavia non ci fornisce più che il testo delle stesse. Se infatti abbiamo, come nel caso del restauro, prefissato nelle nostre operazioni la “ricostruzione” del film originale, proprio come è uscito in sala la prima volta, non possiamo glissare nemmeno sul minimo particolare. La ricostruzione della grafica delle didascalie è molto importante in questa direzione, poiché ci permette di vedere il film nella sua completezza concettuale. Pensare ad esempio ad un film come “Il gabinetto del dottor Caligari” privo delle didascalie originali è impossibile: un’opera cosi’ totale in cui anche la grafia segue una precisa concezione artistica ne risentirebbe infinitamente. I colori sono un altro aspetto che non può mancare di essere consiederato: la ricostruzione delle cromie, anche per film relativamente recenti come quelli di Scorsese, è estremamente importante nell’ottica della restituzione dell’originale. Nei primi anni del restauro cinematografico gli addetti alla conservazione delle opere non si ponevano troppi riguardi nel

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Pagina precedente: Kodak Cine Special Camera // Vinegar Syndrome, Cornell University Photograph Conservation Archive

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subito come graffi, rotture delle perforazioni, imbarcatura, essiccazione, perdita di flessibilità, restringimento, decadimento dei colori; altre volte invece che danni fisici si ha a che fare con il decadimento chimico dei materiali. Dal lavoro sugli originali vengono poi tratte delle copie “riparate” che andranno a far parte dell’archivio. Da questi duplicati si cerca poi, eventualmente, di ricostruire il film generando un positivo in vista di proiezioni o operazioni editoriali. Affinché a noi contemporanei sia data la possibilità di ammirare un film del cosiddetto “cinema primitivo” di cui non si posseggono che pochi frammenti sconnessi, è necessario un lungo lavoro di ricerca e documentazione che interessa molteplici campi quali la chimica, la storia, la filologia, l’ecdotica. Ogni lavoro di restauro si basa sulle pellicole: è quindi bene ricercare dove possano rinvenirsi copie o altri frammenti del film che ci si accinge a restaurare. Per fare ciò le principali cineteche del mondo si sono aggregate in un’ associazione, la FIAF, e si tengono a stretto contatto nella possibilità di mutui scambi al fine di facilitarsi il lavoro di ricerca. È il caso di quanto accaduto per la ricostruzione di Malombra, di Carmine Gallone. La cineteca di Bologna, centro italiano di prim’ordine nell’ambito del restauro, era entrata in possesso di parte di quest’opera ma la parzialità del ritrovamento richiese un censimento di altre possibili copie. Fu così che negli archivi della cineteca di Montevideo, in Uruguay, fu ritrovato una copia del film che fu prontamente inviata a Bologna per il processo di restauro. Altre volte è necessaria anche un po’ di fortuna: emblematico è il caso della ricostruzione di “Metropolis” di Fritz Lang, che ha goduto di un fortuito ritrovamento di una copia a colori del film in una collezione privata in Australia di cui non si conosceva l’esistenza, copia che ha permesso di colmare numerose le lacune che affliggevano i frammenti nelle mani dei ricercatori e di restituire le cromie originali al film. Ogni film vive, dal punto di vista materiale, due storie: una si può identificare con la macrostoria dell’opera, la sua genesi, la sua realizzazione, la sua distribuzione; l’altra consiste nella vita della pellicola: com’è conformata, le sue particolarità, dove e’ stata conservata, come, qual’è il grado di usura. Due storie che scorrono compenetrandosi: citando Michele Canosa “Ciascun esemplare del film non nasce unico, ma lo diventa”. Compito del ricercatore è estrapolare da questa dualità le informazioni necessarie sia alla lavorazione sulla pellicola in quanto materiale, sia in quanto “testo” del film. Un’attenta analisi filologica dell’opera ci permette di arrivare conoscere quante versioni esistono di un determinato film, in che nazioni è stato distribuito, con quali tagli, con quali variazioni, con quali musiche, i metodi di colore usati, tutte le cose che contribuiscono a rendere più chiaro l’ambiente in cui si sta lavorando e impostano la ricostruzione. Spesso nell’ambito del


Harold Brown, primo addetto alla manutenzione pellicole dell BFi, circa 1935

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dettagliatamente? È giusto sistemare (e rielaborare) l’audio di un vecchio film al meglio delle nostre capacità? Il problema che la nuova tecnologia crea consiste infatti, grazie alle sue potenzialità, nella possibilità di superare nettamente i confini qualitativi che l’opera originale invece aveva. Naturalmente non tutto è possibile. Nel cinema primitivo i film non erano che una parte di un evento più grande cui partecipavano altri fenomeni: il cinematografo era quindi un’attrazione tra tante. Questo non è più possibile ricrearlo, i tempi sono cambiati come pure gli spettatori. Non ci fa più paura il treno che avanza dei fratelli Lumiere né la bestia di “King Kong”, possiamo solo immaginare la potenza che quei film così primitivi potevano avere sulla gente dell’epoca. Ma la bellezza di quei film rimane. Ed ora, grazie ai restauratori, quel “vuoto di memoria” del cinema si va sempre più colmando, restituendoci gioielli come la versione a colori di “Voyage dans la lune” di Meliès e “Cabiria” con le cromie originali. Pian piano quelle immagini, impresse nella materia che decade, escono dall’oblio cui il tempo e le circostanze le avevano rinchiuse e ritornano a mostrare la loro bellezza al grande pubblico che sempre più accorre alle varie rassegne per ammirare quella magia che fu perduta, ed ora, ritrovata.

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trasporre un film muto a colori su pellicola in bianco e nero. I motivi d’altra parte erano l’urgenza dell’operazione, e il costo infinitamente inferiore delle pellicole in scala di grigio. Oggi questo è impensabile: la colorazione è essa stessa parte dell’espressione del film e quindi non si può omettere. Il restauro del colore è particolarmente gravoso specie se affligge pellicole girate in Eastmancolor o in Technicolor. Se quest’ultimo è il metodo di colorazione che assicura una più longeva permanenza della cromia, sopratutto in confronto con i primi esempi di Eastmancolor che subiscono un rapido deterioramento dei colori, non è possibile dire sia facile restaurarlo in quanto la coesistenza stratificata delle varie emulsioni di colori è difficilmente scindibile. Nel campo del cinema muto si sono tentate diverse soluzioni per riportare “in vita” il colore dei vari viraggi, imbibizioni, pochoir ma solo negli ultimi vent’anni si è giunti ad un soddisfacente livello di copia e quindi a una restituzione ottimale delle cromie originali. L’arrivo del digitale è stato una rivoluzione nell’ambiente del restauro cinematografico, permettendo la ricostruzione dell’immagine attraverso manipolazioni della stessa, arrivando a guadagnare una risoluzione e una precisione altrimenti molto difficili da ottenere. Separando l’immagine dal suo supporto stratificato permette infatti una correzione immediata e passibile in ogni momento di essere cambiata, cosa che non poteva logicamente succedere lavorando con la pellicola. I risultati del digitale però pongono degli interrogativi: è giusto pulire l’immagine così


Sponsorizzato dalle Churchman Cigarettes, Kaleidoscope e' un cortometraggio che per 4 minuti mostra una fantasia di forme variopinte che si sovrappongono, intersecano ed incastrano tra loro. Realizzato tramite la colorazione diretta sulla pellicola, il corto e' animato da degli stencil ricavati dalle forme di una sigaretta; alcuni colorati, altri ritagliati, per permettere alla luce del proiettore di colpire direttamente lo schermo. Kaleidoscope e' quasi un esperimento sinestetico, dove un tripudio di danzanti silhouette colorate e' condotto dalle musiche cubane di Don Baretto, già' autore sonoro in A 'Colour Box', sperimentazione analoga sul rapporto tra geometria e suono. Pittore, fotografo e poeta, il regista neozelandese Len Lye e' certamente uno degli sperimentatori dell'immagine in movimento, dalla scultura cinetica e del cinema, che considerava 'la Cenerentola delle belle arti'. Attivo anche in Europa e America a partire dagli anni venti, fu artista e tecnico al quale nel 2014 verra' dedicato il Len Lye Centre, dove archivio e collezione saranno aperti al pubblico.

Dinner for one, Heinz Dunkhase, 1963

Il posto delle fragole (Smultronstället), Ingmar Bergman, 1957

Kaleidoscope, Len Lye, 1935

The face of Another (Tanin No Kae), Hiroshi Teshigara, 1966

Tango, Zbigniew Rybczynski, 1980

La camera verde (La chambre verte), Francois Truffaut, 1978

Tratto dall'omonimo romanzo di Kobo Abe. Okuyama, interpretato dal celebre Tatsuya Nakadai, è un uomo di affari, rimasto sfigurato in volto nell'esplosione di un laboratorio chimico. Vaga per la città con il viso interamente bendato tentando di ristabilire un contatto con la società che rinnega la sua identità, alienandolo. Disperato si rivolge al suo psichiatra, il Dr. Hira, interpretato da Eiji Okada, l'affascinante protagonista di Hiroshima Mon Amour. Accetta così di sottoporsi ad un esperimento: un trapianto facciale dallo stampo di uno sconosciuto. Okuyama subito avverte che la maschera è in grado di mutare la sua identità; non rivela alla moglie nulla a proposito dell'operazione: affitta un appartamento e le dice di essere in viaggio per lavoro. In compagnia del Dr. Hira frequenta locali e acquista più sicurezza flirtando con alcune ragazze. Parallelamente si sviluppa una seconda storia: una ragazza, anche lei sfigurata in volto, che si suicida non riuscendo a metabolizzare psicologicamente il rapporto incestuoso avvenuto col fratello. Il dramma del teatro giapponese e l'angoscia insita nel cinema di fantascienza dei primi anni '60 si combinano in un raffinato risultato.

E' una danza ipnotica quella che Rybczynski ci presenta in Tango, produzione con la quale il regista polacco, assoluto pioniere nella sperimentazione tecnico-cinematografica, riuscì a conquistare il Premio Oscar per il miglior corto animato. Si trattò di un lavoro minuzioso, attuato direttamente sulla pellicola: vennero esposti 16.000 fotogrammi all'azione di una stampante ottica e questo processo gli permise di operare ripetutamente su una medesima scena. Una camera fissa si rivolge ad una stanza dove sono presenti quattro soglie: da ciascuna di esse fanno il loro ingresso, progressivamente, trentasei personaggi che vanno a creare un intricata stratificazione di dimensioni. Parallelamente ognuno di loro perpetua nello svolgimento di azioni consuete, rappresentative del loro ruolo nella società. Ad ogni assenza e uscita di scena corrisponde la presenza di un altro. Tempo, spazio e azione sono sospesi, ciò che persiste è la loro condizione di ignara intimità. Le loro esistenze si incrociano senza mai sfiorarsi, accompagnate dalla colonna sonora firmata dal pianista Janusz Hajdun, che contribuisce a enfatizzare la ciclicità peculiare di quest’opera.

Ispirato ai racconti di Henry James e ambientato nella Francia del secondo dopoguerra, il film racconta la storia di Julien Davenne, redattore specializzato in annunci funebri. La moglie Julie e' morta undici anni prima e quando la camera di culto che le ha dedicato in casa viene distrutta da un incendio, Julien decide di trasferire i ricordi superstiti in una cappella da lui scoperta nello stesso cimitero in cui la consorte e' sepolta. Mentre procede nel restauro del santuario, decide di consacrarla anche a tutti gli altri cari che ha perduto nel corso degli anni e delle guerre. Intanto conosce Cécilia, segretaria della casa d'aste dove ha riacquistato un anello appartenuto alla moglie; tra loro sembra poter nascere qualcosa, ma e' solo un'illusione in quanto lui non potrà mai ricambiare il suo amore: non finche' fara' parte del suo stesso mondo, quello della vita. L'adattamento cinematografico e' pieno di emozione e sensualità' rispetto alla versione originale dal titolo 'L'altare dei morti', nonostante la freudiana serie di analogie che intercorrono tra lutto, depressione e il ritiro della libido dal mondo esterno: Davenne è imprigionato nella sua patologia dal senso di colpa di chi è sopravvissuto ai suoi cari. Un film sul rapporto con i morti, sulla regressione nel passato e sulla rappresentazione morbosa di ciò' che e' assente per renderlo presente.

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Il posto delle fragole, uno dei capolavori di Ingmar Bergman nonché di tutta la settima arte, è un film filosofico, ricco di significati, ma che ha il merito esprimersi con semplicità ed immediatezza risultando comprensibile al grande pubblico. Un anziano e burbero dottore deve essere insignito di un premio a Lund. A seguito di un incubo decide di intraprendere il lungo viaggio che lo attende in auto, in compagnia di sua nuora. Viaggio non solo verso la meta prefissata, ma anche attraverso la memoria e l’animo del medico, che si troverà ad affrontare il suo rapporto con gli altri, la sua solitudine, le sue paure. Un percorso sofferto attraverso la vita e la morte in cui passato e presente vengono fusi, attraverso la figura interpretata da Victor Sjodstrom (in una memorabile interpretazione) che, sentendo vicina la fine, indaga e si indaga alla ricerca del vero senso dei rapporti umani, togliendo infine dal suo animo le maschere di una vita per abbracciare l’amore per l’uomo e una ritrovata pace nell’affetto delle persone a lui care.

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Portato in televisione nella DDR nel '63, Dinner for one è un cortometraggio cult delle emittenti di mezza Europa. È infatti divenuto tradizione il passaggio di questo sketch il giorno di San Silvestro, sempre con largo share. Un’anziana signora è abituata a festeggiare i propri compleanni in compagnia degli amici più cari. Se non ché arrivata alla veneranda età di 90 anni i suoi invitati sono tutti deceduti e lei è rimasta sola con il suo maggiordomo. Per non rompere la tradizione e non deludere la sua padrona, il domestico è costretto ad impersonificare a turno i quattro invitati, svuotando i relativi bicchieri ai brindisi che accompagnano le portate. L’effetto comico è generato dalla sempre crescente ubriachezza del maggiordomo e dalla sua imitazione (distorta) dei grandi assenti, instaurando attraverso questo pirandellismo di ruoli un climax scandito dalla frase “Same procedure as every year”. Pronunciata dall’anziana signora ad ogni portata, essa è emblematica della intrinseca volontà di ripetizione e stratificazione non solo del gesto e del meccanismo comico, ma anche dello stesso ciclico ritorno in televisione, a chiudere l’anno, come sempre, con una risata.


NON ABBIAMO PRATERIE CHE TAGLIANO LA SERA UN GRANDE SOLE IN DUE PER OGNI DOVE LO SGUARDO SI APPIGLIA ALLE INTRUSIONI DELL’ORIZZONTE, SI LASCIA CORTEGGIARE DALL’OCCHIO DEL CICLOPE DI UN MINUSCOLO LAGO. LA NOSTRA TERRA SENZA RECINZIONI È UNA TORBIERA SEMPRE PIÙ INCROSTATA FRA GLI SGUARDI DEL SOLE.

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BOGLAND Seamus Heaney

HANNO ESTRATTO LO SCHELETRO DEL GRANDE ALCE IRLANDESE, DA QUELLA TORBA, E L’HANNO MESSO IN PIEDI, STUPEFACENTE CASSA DA IMBALLAGGIO RIPIENA D’ARIA. BURRO AFFONDATO DA PIÙ DI CENT’ANNI LO HANNO RITROVATO ANCORA BIANCO, SALATO. PERFINO IL TERRENO È BURRO BUONO, NERO, CHE SI SCIOGLIE E SI APRE SOTTO I PIEDI, MANCANDO ANCORA DA MILIONI D’ANNI UN SUO DISEGNO DEFINITIVO. NON RIUSCIRANNO MAI A CAVARNE CARBONE, SOLO TRONCHI D’ABETE INFRADICIATI D’ACQUA, RIDOTTI A POLPA TENERA. GLI OPERAI CONTINUANO A SCAVARE SEMPRE PIÙ SOTTO, IN PROFONDO, E SU OGNI STRATO RIMOSSO SI DIREBBE CHE GIÀ QUALCUNO VI SI ERA ACCAMPATO. I CANALI D’ACCESSO POTREBBERO ANCHE ESSERE INFILTRAZIONI ATLANTICHE MA QUELL’UMIDO CENTRO NON HA FONDO.

WHE HAVE NO PRAIRIES TO SLICE A BIG SUN AT EVENING EVERYWHERE THE EYE CONCEDES TO ENCROACHING HORIZON, IS WOODED INTO THE CYCLOP’S EYE OF A TARN. OUR UNFENCED COUNTRY IS BOG THAT KEEPS CRUSTING BETWEEN THE SIGHTS OF THE SUN. THEY’VE TAKEN THE SKELETON OF THE GREAT IRISH ELK OUT OF THE PEAT, SET IT UP AN ASTOUNDING CRATE FULL OF AIR. BUTTER SUNK UNDER MORE THAT A HUNDRED YEARS WAS RECOVERED SALTY AND WHITE. THE GROUND ITSELF IS KIND, BLACK BUTTER MELTING AND OPENING UNDERFOOT, MISSING ITS LAST DEFINITION BY MILLIONS OF YEARS. THEY’LL NEVER DIG COAL HERE ONLY THE WATERLOGGED TRUNKS OF GREAT FIRS, SOFT AS PULP. OUR PIONEERS KEEP STRIKING INWARDS AND DOWNWARDS,

Michelangelo Pistoletto, Installation view, Serpentine Gallery, London, 2011

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EVERY LAYER THEY STRIP SEEMS CAMPED ON BEFORE. THE BOGHOLES MIGHT BE ATLANTIC SEEPAGE. THE WET CENTRE IS BOTTOMLESS.


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Curatela mercato

Greta Scarpa /

Ombretta Agró Andruff vive a New York dal 1998 dove lavora come curatrice, consulente e critica d’arte indipendente. Nata a Torino nel 1971, si é laureata nel 1995 in Arte Contemporanea presso l’Universitá di Siena. Ha inizato la propria carriera lavorando come curatore e assistente del direttore presso l’Associazione Culturale VELAN di Torino, dedicata a mostrare il lavoro di giovani artisti emergenti italiani ed internazionali. Ombretta Agró Andruff ha organizzato mostre personali e collettive in Europa, negli Stati Uniti e in India. La prima mostra da lei curata a New York, nel 2000 è NATO che vede presenti 14 artisti contemporanei, 7 da Napoli, 7 da Torino. Nel 2003 presenta Victor Mathews all’Armory Show con l’installazione Beyond Metamorphosis e sempre in collaborazione con Armory Show del 2005, cura Parthenogenesis di Angelo Musco, performance/istallazione site-specific tenutasi all’Atrium Garden Center. Nel 2006 ritorna alle origini per i XX Giochi Olimpici Invernali di Torino: Echoes from the Mountains, con la collaborazione della galleria torinese OneOff, vuole guidare il pubblico dei giochi olimpici attraverso la sound art, con cinque installazioni sonore e una performance interattiva. Dal 2007 al 2012 Ombretta collabora con Religare Arts Inititive a New Delhi in veste di International Art Adviser; Religare è la prima coorporate indiana per il supporto di organizzazioni artistiche, una piattaforma che guarda all’ arte a 360 gradi e che ha come missione quella di rendere l’arte contemporanea un mezzo in grado di influenzare effettivamente la società. Alla Religate Art Gallery cura inoltre Home Sweet Home nel 2009 e Iconoclasts & Iconodules nel 2011. Ombretta Agrò lavora con espressioni artistiche spesso differenti tra loro con lo scopo di creare ponti tra culture diverse, facilitando la conoscenza di artisti emergenti presso un pubblico internazionale e di ampio respiro.

/GS: Secondo Art Price il centro di gravità del mercato mondiale dell’arte sta marciando verso Est e le scienze sociali dicono che una determinata forma espressiva viene considerata arte in base a contesto sociale, ai condizionamenti economici e culturali. L’Asia sta erodendo importanti quote di mercato all’Inghilterra e soprattutto agli Stati Uniti. Che cosa sta succedendo a livello di mercato? OA: Posso affermare per esperienza personale che dopo il crash di Lehman Brothers nel 2008 (io ero a Delhi quando ho ricevuto la notizia), mentre si avvertiva una paralisi generale del mercato sia in Europa che negli Stati Uniti, gli ingranaggi asiatici continuavano a girare. Questo non vuol dire che la crisi non si sia sentita, ma sicuramente la si é avvertita molto di meno ed i tempi di recupero sono stati molto più rapidi. Senza dubbio l’esplosione della fatidica bubble ha portato ad un ridimensionamento dei prezzi record raggiunti per gli artisti Cinesi e Indiani tra il 2005 ed il 2007 (cosa che era comunque necessaria!), ma negli ultimi due anni con l’avvento di importanti fiere e aste in Asia, dove Hong Kong sembra fare da padrone, la crisi sembra ormai un ricordo lontano. Un fenomeno interessante che ho notato lavorando in India é l’insularitá del mercato locale dove il 95% dei collezionisti locali comprano solo ed esclusivamente artisti indiani, sostenendo quindi con grande energia il mercato locale ma rendendo difficile la circolazione di artisti internazionali. Finalmente ci sono ora alcune gallerie a Delhi e Mumbai che iniziano ad esporre artisti internazionali, sopratutto in fiere dove sanno di poter trovare acquirenti per tali opere. E mi auguro che questo porti anche ad un’apertura da parte

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/Greta Scarpa: Come curatrice lavori ormai da molti anni tra Europa, Stati Uniti e Asia. Ma sei anche critica, collabori con testate come Arte Critica o New York Arts Magazine. Quanto peso ha durante l’attività curatoriale, l’approccio critico e come cambia in base al contesto sociale con il quale ti confronti? Ombretta Agro’: Mi considero sicuramente più curatrice che critica. Al mio arrivo negli Stati Uniti nel 1998 ero corrispondente per Tema Celeste e poi ho iniziato a collaborare con le altre testate che menzioni, ma da qualche anno lo faccio in maniera abbastanza saltuaria. Ho iniziato recentemente una collaborazione con una rivista pubblicata a Delhi, Take on Art, che mi auguro continui, anche se la maggior parte dei testi che scrivo ormai sono cataloghi di mostre da me curate o per artisti che mi

chiedono di scrivere a proposito di un particolare progetto o mostra. Negli anni mi sono resa conto che mi interessa di più scrivere di soggetti che richiedono una ricerca approfondita piuttosto che recensioni “flash”. Ancora non ho fatto il salto nel pianeta twitter e credo che questo approccio sia una diretta conseguenza della mia attivitá curatoriale. Molte delle mie mostre sono progetti che ci mettono anni a germinare e alcune, quali ad esempio Atomica: Making the Invisible Visible nel 2005 e Home Sweet Home nel 2009 hanno richiesto una ricerca approfondita in campi a me alquanto sconosciuti. La prima riguardava l’impiego dell’energia nucleare ed il conseguente problema dello smaltimento dei riufiuti tossici radioattivi e la seconda la violenza domestica. Questo tipo di progetti sono ovviamente molto socially engaged e mi hanno premesso di interagire con comunità al di fuori del mondo dell’arte e a dare voce quindi non solo ad artisti il cui lavoro tratta queste tematiche ma a “addetti ai lavori” nelle rispettive aree che mi hanno aiutato a esaminare tali soggetti da molteplici punti di vista e dare una visione più completa delle problematiche trattate.


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Bharti Kher,The hot winds that blow from the West, 2011 // Pagina precedente: Subodh gupta ufo, 2005

del collezionismo locale. Incoraggiante da questo punto di vista la presenza di gallerie internazionali che mostravano artisti internazionali all’ultima edizione della India Art Fair (gennaio 2012) dove gallerie come Continua di San Gimignano esponevano lavori di Michelangelo Pistoletto accanto alla superstar indiana Subodh Gupta, e la russa Frida Fine Arts mostrava lavori di artisti russi quali Alexander Lysov e Irina Mann.

/GS: Sappiamo che l’India è sempre stata caratterizzata da un sistema di caste che anche se in fase di mutamento, sono ancora presenti. Mi hai segnalato tre coppie di artisti: Jitish Kallat e Reena Saini Kallat con base a Mumbai, Subodh Gupta e Bharti Kher a Delhi, Atul Dodiya e Anju Dodiya a Mumbai. Sono tutti marito e moglie e hanno tutti successo. E’ un caso o a livello sociale si sta affermando un nuovo modello di forza sotto forma di piccola casta famigliare? OA: Il fenomeno delle coppie di artisti che sono diventate negli anni tra i movers and shakers della scena artistica indiana é sicuramente un fatto curioso. Non saprei a cosa attribuirlo in particolare, se non ad un generico rinato interesse negli ultimi 10/15 anni nei confronti dell’ attivitá dell’artista vista come occupazione legittima e non come hobby, alla dimensione ancora ridotta del mondo dell’arte indiana, ed allo scarso numero di accademie e scuole d’arte che facilita l’incontro di anime ‘affini’ che, in alcuni casi, evolve eventualmente in una partnership sentimentale. So per certo che nel caso di Reena e Jistish, i due si sono conosciuti quando erano entrambi studenti alla J.J. School of Arts di Mumbai. La cosa interessante é che i lavori mantengono una identitá ben distinta e che sovente il lavoro della coppia viene rappresentato da gallerie diverse. Per quanto riguarda il discorso delle caste, nelle grandi cittá é ormai di relativa importanza (mentre nell’India rurale il sistema scandisce ancora per molti il destino

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/ GS: Parlaci del progetto da te seguito a Delhi “Iconoclast & Iconodules“ del 2011. OA: Il mio coinvolgimento con l’India inizia nel 2007 grazie all’invito a collaborare in qualitá di International Art Advisor con la Religare Arts Inititiave, una organizzazione con base a New Delhi sostenuta da una wealth management company, Religare. Si tratta della prima iniziativa di tale genere in India, un paese dove é assolutamente assente qualsiasi forma di corporate support e sponsorhip nei confronti dell’arte contemporanea. Grazie a questa collaborazione ho iniziato a viaggiare sovente in India, e spendere tempo tra Delhi e Mumbai. “Iconoclast & Iconodules“ è una mostra da me curata presso lo spazio espositivo della Religare Arts Initiative durante l’Indian Art Summit (ora India Art Fair). Uno degli aspetti che maggiormente ho apprezzato circa la mia collaborazione con questa organizzazione era la possibilità di curare mostre che affiancavano artisti indiani ad artisti internazionali il cui lavoro si focalizzava attorno al soggetto della mostra. Come accennato in precedenza infatti, sono rare le mostre, personali e collettive, che danno al pubblico locale la possibilità di familiarizzare con il lavoro di artisti non indiani. In questo caso la mostra includeva 15 artisti provenienti da background culturali diversi, che attraverso l’uso di stili e media variegati, inseriscono nella realizzazione delle loro opere immagini ‘iconiche’, facilmente riconoscibili ad un pubblico internazionale al fine di commentare, in alcuni casi in maniera alquanto critica, gli establishments che hanno generato tali icone. Il titolo ovviamente si rifá alla definizione etimologica e all’evoluzione storica dei termini iconodule, il cui sinonimo iconophile in italiano é iconofilo (colui che serve l’immagine; che sostiene ed é in favore dell’uso delle immagini religiose, o icone) in opposizione al termine iconoclast (iconoclasta), colui che non approva l’uso e la riproduzione di immagini religiose. Tra gli artisti internazionali in mostra si trovano il tedesco Tom Schmelzer, la bulgara Daniela Kostova, il bielorusso Pasha Radetzki, la coppia Fariba Ferdosi (iraniana di origine) e Lorenzo Pizzanelli, e Federico Solmi; tra gli indiani Reena Saini Kallat, Anita Dube, Jagannath Panda, T.V. Santhosh. e Julius Macwan. /GS: Artisti ormai affermati sulla scena internazionale come Subodh Gupta, nato in Bihar

e Atul Dodiya, nato a Mumbai riportano ancora le tracce del proprio vissuto personale nel loro lavoro? In cosa si differenziano?Qualcuno di loro utilizza l’arte come mezzo di denuncia sociale? OA: Ci sono alcuni artisti il cui lavoro é socially engaged, ma direi che non si tratta della maggioranza. Alcuni, come Chintan Upadhyay, hanno realizzato progetti per denunciare ingiustizie sociali quali lo sterminio dei feti di sesso femminile ancora purtroppo assai diffuso in alcune zone rurali dell’India. Oppure Reena Kallat che attraverso i suoi ritratti della serie Synonims, realizzati con stampi di gomma, ridá vita ed identitá alla massa anonima di persone scomparse a causa di calamitá naturali o durante scontri di varia natura. Ma direi che la maggior parte degli artisti si rifá ad esperienze piú intime che vengono tradotte in un linguaggio che mantiene forti alcuni tratti propri della cultura locale (riconoscibile nei materiali usati o nell’iconografia adoperata) mescolati ad elementi che li rendono accessibili e apprezzabili anche ad un pubblico internazionale (chiari esempi sono la serie di sculture fatte con utensili di metallo di Subodh Gupta, di cui il gigante teschio, dal titolo Very Hungry God, é l’esempio piú conosciuto; e i quadri e le sculture ricoperte di bindi di Bharti Kher).


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Gupta Subodh, Spooning, 2009

dell’individuo). In un libro che ho appena finito di leggere intitolato “The White Tiger” ho trovato una delle analisi piú interessanti dell’India contemporanea per quanto riguarda la stratificazione sociale ed il sistema delle caste. Il protagonista della storia ad un certo punto spiega come l’India sia passata da essere come uno zoo ordinato regolato da leggi millenarie, ad una giungla senza scrupoli dove ha successo solo chi é armato di maggiore ferocia. “This country, it its days of greatness, when it was the richest nation on earth, was like a zoo. A clean, well kept, orderly zoo. Everyone in his place, everyone happy...and then thanks to all those politicians in Delhi, on the fifteenth of August 1947 - the day the British left - the cages had left open: and the animals had attacked and ripped each other apart and jungle law replaced zoo law” (Aravind Adiga, The White Tiger, Atlantic Books, 2008, pg 63-64). In un altro capitolo il protagonista, Balram, spiega, attraverso la teoria del Rooster Coop (la gabbia dei polli), l’origine dell’atteggiamento rassegnato della maggior parte della popolazione indiana (a cui il protagonista si ribella): “It’s because 99.9 per cent of us are caught in the Rooster Coop just like those poor guys in the poultry market...Never before in human history have so few owed so much to so many...A handful of man in this country have trained the remaining 99.9 per cent - as strong, as talented, as intelligent in every way - to exist in perpetual servitude; a servitude so strong that you can put the key of his emancipation in a man’s hands and he will throw it back at you with a curse” (pg. 175-176)

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/GS: Per Weber la stratificazione sociale è instabile e soggetta a trasformazioni cicliche. Che valore potrebbe apportare a livello europeo e americano la poetica asiatica? E’ in grado di modificare un’ estetica di linguaggio consolidata come quella occidentale o rischia di subire il lato negativo della globalizzazione e venirne inglobato? OA: Mi ricordo che agli inizi del nuovo millennio, in un mondo ormai iper-globalizzato, già mi chiedevo quanto senso avesse parlare di un’arte italiana, piuttosto che francese, americana o cinese. Poi, con l’avvento del boom del mercato asiatico tra il 2002 e 2003 le identità nazionali, della Cina prima e dell’India poi, seguite dal Medio Oriente e, anche se in maniera meno forzata, dall’Asia Centrale, si sono ridefinite in maniera più netta per sostenere e dare credibilità ad un mercato fortemente locale, diretto sia ai nuovi ricchi emergenti nelle realtà BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) che si avvicinavano al collezionismo come status quo o per passione, sia ai collezionisti internazionali che per interesse reale o per pura speculazione si aprivano a nuovi orizzonti. A 10 anni di distanza, sembra evidente comunque quanto gli

artisti asiatici che hanno avuto maggior successo, e che hanno saputo sostenere tale successo negli anni, sono quelli che uniscono un carattere fortemente locale che ne rende possibile l’individuazione geografica mediato attraverso un linguaggio che li rende comprensibili sia ai loro compatrioti che al pubblico internazionale. Ad un livello estetico, ma anche sociale, sono convinta che tutte queste realtà possano facilmente coesistere nel mondo dell’arte odierno: al giorno d’oggi la figura dell’ artista rappresenta l’incarnazione del nomade contemporaneo. Una figura in continuo spostamento che assimila alcuni aspetti delle realtà locali presso le quali lo porta il proprio lavoro, ma che rimane fortemente, in alcuni casi meno, radicato nella propria cultura che riesamina e ricontestualizza in maniera costante. A questo proposito sto preparando una mostra dal titolo “No-mad-ness in No-Man’s Land” in collaborazione con la curatrice di origine afghana Leeza Ahmady che esplora proprio questo fenomeno, che si aprirà a Taiwan nell’autunno del 2013 e che ci auguriamo avrà una esistenza nomadica che la porti a spasso per il mondo!


/ INTER - FACCE

Brevi cenni temporali: dal voder alla computer music

Jelena Miskin /

zio, tre pulsanti per selezionare l’articolazione dei gruppi consonanti e -

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scopi, sono prese in prestito per produrre segnali audio al di fuori del visione, comunicazione, azione e reazione tra un soggetto ed un oggetto

di composizione; era un’epoca con una peculiare percezione del con-

ganizzazione e controllo sulla natura delle cose, ma secondo la logica della propria forma mentis; l’interfaccia diviene in questo modo una -

della Warner Bros, nel tempo libero assemblava pezzo per pezzo il primo -

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quell’occasione fu inscenata una conversazione tra una persona e il macreagisce sempre in modo pertinente rispetto alle azioni e reazioni

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dei pionieri vtisionari e terribilmente avanti, uno dei personaggi piĂš in-

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creditato come padre degli strumenti elettronici, afferma di avere attinto

tatore e produceva un tono semplicemente toccandolo, creando un cire dotate di un complesso sistema di accelerometri, sensori di pressione, -

composto da una struttura rettangolare di metallo di grandi dimensioni

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intere, si va verso congegni sempre piĂš piccoli: nella maggior parte dei per i numerosi nostalgici, pannelli di controllo e simil-suoni; oppure delle meta interfacce intuitive, come la piattaforma di programmazione

ricerca e sviluppo di tools per la performance nell’ambito delle arti confronto e la sperimentazione delle nuove interfacce, tecnologie in grado di rivoluzionare il concetto di strumento musicale, attraverso una ma-

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Pagina iniziale: Daphne Oram, Oramics, 1962 // Pagina precedente: Bruce Haack, Dermatron, 1960 // Bell Telephone Laboratory, Voder, 1938


In vinile

Bhob Rainey / Kevin Drumm – 6 Standing Desert / Hasn’t (1-5) Fringes Recordings Vinyl, LP - 2000

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/ SELEZIONE MUSICALE

Thorax-Wach – Euch Geht’s Ja Noch Viel Zu Gut Twisted Knister Vinyl, LP - 2000

Gary War – Horribles Parade Sacre zaaavd Bones Records Vinyl, LP - 2009 Led Er Est – Poll Gorm Captured Tracks Vinyl, 7” - 2009

Jelena Miskin /

John Talabot – ƒIN Permanent Vacation Vinyl, LP - 2012 New Blockaders, The & Nobuo Yamada – Prickle / Crevice PsychForm Records Vinyl, LP - 2005

Ghédalia Tazartès – Tazartès’ Transports Cobalt Vinyl, LP - 1980 Hair Police – Strict Troubleman Unlimited Vinyl, 7” - 2007

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ASHKAN HONARVAR La soglia atavica

Georges Bernanos

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spettatore di percepire i vari livelli attraverso netti tagli di diverse forme la guerra, ma si fa strumento di un’esplorazione quasi induttiva nella spinge ad interrogarci sul concetto di bellezza e sulle sue oscure varianti

Zoe De Luca /

e portano ad una più profonda coscienza di se’; queste manipolazioni -

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Faces, 2009, Courtesy of the artist


(e lo rese collettivo)

2005. Un simpatico trentenne canticchia un motivetto anni ’50. Intona “Out of the picture” dei Robins. Tromba, piano e batteria suonano caldi e sincopati, accompagnando voce solista e coro afro-americano. La musica è tutta nella sua, allegra, mente creativa. “Out of the picture, out of the frame and now when you see me… nothing’s the same.”

Francesco Balacco /

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/ COME FRANÇOIS RE-INVENTÒ IL COLLAGE

Guarda in camera sorridente, ha in mano due cornici bianche. Inquadra il suo viso nella prima cornice. La cornice diventa all’istante una foto, stampata in ottima qualità. Con in mano la prima foto ripete la procedura e ne scatta una seconda. Dà vita a un divertente gioco di prestigio fatto di foto nelle foto. La prima e la seconda immagine si incastrano in una terza. Le cornici bianche diventano scatole cinesi dello sguardo: le foto si inclinano, si rimpiccioliscono, si sovrappongono e affastellano ancora, ancora e ancora, finché il protagonista decide di concludere il numero e uscire di scena. Il voice over promette allo spettatore che la magia a cui ha assistito sarà replicabile a casa; grazie all’alta integrazione dei dispositivi fotografici HP, infatti, è possibile controllare l’intero processo di produzione dell’immagine: dallo scatto alla stampa. Facile, veloce, buona qualità. Et voilà! Il pubblico apprezza il numero e adora lo spot, che diventa subito cult. Chiunque abbia un minimo di tempo libero e/o dimestichezza con Adobe After Effects si cimenta nella creazione del proprio spot HP. I “my HP adv” si decuplicano online, eterogenei nello stile: c’è chi imita, chi fa la parodia, chi diverte, chi ne fa una rivisitazione artistica e professionale. In breve si assiste ad una ri-creazione, a un collage, a una stratificazione di senso collettiva. “Non è solamente quello che dite che smuove la gente, è il modo in cui lo dite” scrisse Bill Bernbach negli anni settanta. E questo commercial ne è la dimostrazione: si va oltre il call to action, si raggiunge il call to creation; lo si fa in modo semplice e divertente. L’idea alla base dello spot è di François Vogler, un regista francese la cui storia è singolare. Autore di diversi corti che non avevano mai valicato i confini nazionali, Vogler guardava anche tanta televisione. Siamo nel 2003 e in un intervallo pubblicitario, Vogler si imbatte nel commercial HP “Pictures of you”. Sulle intense note dei The Cure scorrono scene in cui il presente diventa ricordo, la vita quotidiana si trasforma in still frame fotografici: feste, viaggi, minuti

di studio si scompongono e ricompongono in scatti digitali. A Vogler quello spot piace, ma al suo occhio e alla sua sensibilità da artista della macchina da presa non sfugge un’osservazione: il mood è coinvolgente, ma il concetto di fotografia come mezzo per trasformare il momentum presente in malinconico ricordo seppia è classico quanto la Polaroid. Con l’emergere dei blog, inoltre, l’aria che si respira negli scatti è diversa: è fresca, è vitale. Vogler ci pensa su e in un mese realizza, da solo, un videoclip di pochi secondi in cui mostra l’effetto di creazione di una foto per mezzo di una cornice vuota. Invia il clip alla HP, spiegando come gli piacerebbe rivisitare la campagna. Il team dell’azienda di Palo Alto apprezza il suggerimento e incarica il regista di girare un nuovo spot partendo dalla sua idea. Il risultato è “You” (2004), ambientato per le strade di Stoccolma sulle note di “Picture Book” dei Kinks (1968), su cui HP investe tantissimo (260 milioni di dollari tra Gennaio e Novembre nei soli Stati Uniti secondo Nielsen Monitor-Plus). I risultati arrivano, e son ben immortalati da una battuta di Maggie McCue, worldwide manager della comunicazione pubblicitaria HP, durante un’intervista per AdWeek: “i commenti più originali— e ripeto solo i più originali —che ci sono stati inviati spontaneamente per mail hanno riempito più di centoquindici pagine.” Il mix— la stratificazione —di musica vintage, tecnologia, raffinata video arte e creatività grassroots ha garantito la creazione di uno delle più frizzanti e coinvolgenti campagne dell’ ultima decade. Tutta da guardare, ritagliare, rivisitare, risemantizzare.

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Still tratti dallo spot HP “Out of the picture”, 2005


dissequenze

autunno/ inverno 2011-12 concept volumi e textures della collezione prendono forma da sovrapposizioni e successioni di strati e livelli di stoffa. sequenze,intersezioni, intervalli, dissequenze, danno luogo a vortici, drappeggi illusori e tagli che disegnano, re-interpretandolo, il corpo. costruzione approccio e processo di assemblaggio ricordano le maquettes dei plastici e dei prototipi, utilizzati in architettura e nel product design. stoffe mescolate fra loro in modo discontinuo creano riflessi e dinamiche di plasticita’ e fluidita’ inedite, che vibrano lungo la silhouette del corpo, avvolgendola in modo quasi organico. linee e costruzioni, come in un cortocircuito, si spezzano escono dal loro asse interferendo nelle logiche sartoriali. composizione silhouette asciutte e femminili contrapposte a giacche ampie e cappotti dalle vestibilità oversize. abiti longuette alternati a tubini attillati. gonne dai volumi generosi e pantaloni, alti sopra la vita, si accostano a bluse e shirts come seconda pelle. colori variano dai grigi dei tessuti classici maschili, ai toni dei beige, cammello, rame, con punti di luce in oro rosa, fino ad arrivare ai vinaccia e ai neri. in continua alternanza fra pieni e trasparenze.

www.silviobetterelli.com /

materiali suede di pelle, alternato a crepe, gabardine, panni di lana, sete declinate nelle diverse tipologie di crepe de chine, georgettes e drapee.


Nino Mustica Baumhaus 2012


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16 Matthew Stone, Optimism as Cultural Rebellion, 2011 // 17 Comme des Garçone Shirt Advertisement S/S 2010 // 18 White Fungus, Issue 9, 2009 //19 Harold John Blackham, Humanism, Pelican Editions, 1968 // 20 David Noonan, Untitled, 2011 // 21 Tara Donovan, Moire, 1999 // 22 Thomas Hirschhorn, Caisson Lumineux (Detail), 2007 // 23 Vincent Kholer, Billon, 2007 // 24 Adriana Varejao, Azul Branca em Carne Viva, 2002 // 25 Nils Nova, Im Gegenlicht, 2009 // 26 PÊtur Thomsen, Imported Landscape series, 2003 // 27 Kent Rogowski, Untitled #1, Love = Love Series, 2006-2008 // 28 Aaron Siskind, Peeling Paint, 1950 // 29 Hans Breder, Body/Sculpture, 1972 // 30 Jac Leirner, Dinhero em estrutura de poliuretano, 1986 // 31 Raymundo Collares, Gibi, 1972 // 32 Paul McCarthy, Ketchup Sandwich, 1970 // 33 Kristiina Lahde, Compilation, Altered telephone book, 2009 // 34 Jiri Kolar, Crumplage, 1996 // 35 Kate Carr, Muslin Work, 2007

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