Libere -Quaderno - gennaio 2013

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Pietro Perrone – Muro blu


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SOMMARIO Editoriale Anna Serafini Il seminario dell’8 novembre Antonella Anselmo Titti Carrano Teresa Dattilo Rossana Scaricabarozzi Eugenia Scognamiglio Olga Mammoliti Severi Emanuela Marguccio Annalisa Marino Edda Samory La violenza di genere Maria Rosa Caporali Maria Pia Fizzano Paola Gifuni Francesca Marinaro Maria Rita Parsi Sandra Piperno Sandra Zampa Altri argomenti Silvana Amati Fiorenza Bassoli Elisabetta Bolondi Gigliola Corduas Franca Donaggio Maria Fasolo M. Rinaldi – E.A. Viviani Daniela Valentini

Una svolta nell’azione di contrasto al femminicidio

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Riflettendo sulle proposte normative I tagli ricadono prevalentemente sulle donne Colpire non è virile Una formazione per cambiare la relazione di genere Quando i bambini sono testimoni della violenza Praticamente, una donna uccisa ogni due giorni Adulti 0 – Bambini 10 Attingere problematicamente dalla nostra storia politica di donne Quando le donne non raccontano i maltrattamenti

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Una violenza senza fine Un crimine la cui ragion d’essere non può attribuirsi alle donne Violenza domestica e stalking Incidere su tutti gli aspetti di uno stato moderno La violenza nei confronti delle donne Femminicidio: parola e segno Ad oggi sono più di cento

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Il legame sottile tra l’altra metà del cielo e gli esseri senzienti Il caso Petraeus: perché tanti uomini in difesa del generale? Donne, TV, Costume, Storia: una bella sintesi Le donne della città La battaglia sacrosanta delle donne Dalla Sicilia un evento rivoluzionario La nascita del progetto LibeRe di Viareggio Riflessioni sulle Elezioni Regionali 2013 SCHEDA - Femminicidio. Molte storie di donne in una parola di E. Borzacchiello V. Galanti Note biografiche di Pietro Perrone Una citazione di Rita Levi Montalcini

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Dedichiamo questo numero a Franca Donaggio, senatrice PD, di cui ricordiamo il coraggio, la tenacia, la generosità e la passione politica.

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Occorre una svolta nell’azione di contrasto al femminicidio di Anna Serafini presidente associazione libere Lo sconvolgente, insopportabile aumento del numero delle donne uccise in quanto donne, anche in queste ultime settimane, dimostra quanto sia ancora saldo questo triste primato detenuto dall’Italia, già sottolineato con parole dure di Rashida Manjoo e confermato dal Rapporto Ombra. Questi fatti sollecitano un'azione più determinata e incisiva. C'è la necessità di un'alleanza di tutte le forze che vogliono combattere le discriminazioni alle donne a partire dal femminicidio. Non vogliamo, né possiamo più accettare rassegnazione e giustificazione di nessun tipo rispetto alla violazione dei diritti delle donne. Ci sono concezioni conservatrici e reazionarie rispetto ai diritti delle donne che vanno combattute maggiormente a viso aperto. Occorre togliere l'acqua in cui nuotano luoghi comuni, pregiudizi, discriminazione e atteggiamenti sessisti e violenti. In Italia si sono fatte anche buone leggi a tutela dei diritti delle donne e dei bambini, le associazioni conducono ogni giorno battaglie per affermarli, molti professionisti ogni giorno si spendono per questo, ci sono stati anche dei piani contro la violenza. Ma dobbiamo essere onesti con noi stessi: nonostante l'enorme lavoro non esiste un progetto organico delle istituzioni nel quale ognuno trovi il suo posto. Ciò a cui dobbiamo lavorare è a questo piano organico in grado di far assumere allo Stato per intero le sue responsabilità. Già dalla legge di stabilità chiediamo dei segnali forti nei confronti dei centri antiviolenza e della raccolta dei dati. Veramente non è più comprensibile continuare ad avere banche dati scollegate e non orientate secondo criteri di raccolta efficaci. Come si fa a contrastare in modo adeguato il fenomeno del femminicidio quando non si è in grado di rilevarlo adeguatamente? L'azione di tante forze, dalle associazioni al Parlamento ha prodotto finalmente la firma della Convenzione di Istanbul. Ora però va approvata al più presto la legge di ratifica. Più alto è il tasso di violazione dei diritti delle donne, più alto è il tasso di femminicidio, per cui quasi ogni giorno muore una donna. Ed è quello che accade nel nostro Paese. Ed è per questo che l’Italia deve essere tra i primi a ratificare la Convenzione di Istanbul. Proprio perché in Italia sono più forti che altrove le discriminazioni contro le donne, tanto più l'Italia deve dare il segnale più forte. Con molti altri parlamentari del PD ho presentato un disegno di legge che ha per titolo «Norme per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto del femminicidio». Questo testo riguarda tutti i piani: da quello sociale a quello culturale, passando per la prevenzione e introducendo con una modifica della Legge Mancino, l'aggravante per il reato di femminicidio. Infatti a quelle previste per discriminazioni, odio, violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi o fondati sulle opinioni politiche e sulle condizioni personali o sociali sono aggiunte le aggravanti basate "sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere". E' evidente che i piani da toccare non sono quelli esclusivamente penali, ma soprattutto quelli relativi ai cambiamenti culturali, alla responsabilità e all'impegno, con regole precise, dei media, dell'insieme delle istituzioni dello Stato. E cioè: come si afferma, nella scuola e nella pedagogia dei rapporti tra donne e uomini il rispetto per la libertà femminile, come si afferma la soggettività femminile nei media, come si

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formano le competenze nelle ASL, nei centri di pronto soccorso, nelle forze dell'ordine, affinché una donna ferita venga accolta e sostenuta nell'affermare i suoi sacrosanti diritti, da quello alla vita, a quello della sua autonomia, come si ascoltano e si tutelano le persone minori di età in caso di separazione, quando sono state testimoni di violenza a danno della propria madre. Sono solo accenni. Le barbarie contro le donne si combatte attraverso una visione organica, azioni integrate e soprattutto un'alleanza strategica. E' un segnale chiaro che lo Stato italiano deve dare; è il segnale che lo Stato avverte l'allarme delle organizzazioni internazionali; è il segnale che lo Stato tutela la libertà delle donne; è il segnale che si combatte seriamente la violenza senza attendere altro tempo, perché la violenza e le discriminazioni sono ora, qui, per milioni di donne; è il segnale che l'Italia non vuole essere posta ai margini del continente dei diritti delle donne bensì riconquistare la testa delle battaglie per affermarli.

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Riflettendo sulle proposte normative di Antonella Anselmo avvocato, coordinamento “Se non Ora Quando?” Brevi riflessioni sulle proposte normative per la promozione della soggettività femminile ed il contrasto alla violenza di genere.

“Se non Ora Quando?” non può che esprimere sincero apprezzamento per il disegno di legge n. 3390 che contempla, agli artt. 1 e 2, la ratifica e piena esecuzione della Convenzione n. 210 del Consiglio d’Europa sulla “Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, adottata ad Istanbul l’11 maggio 2011. Con tale strumento i principi della citata Convenzione diventeranno vincolanti e pienamente efficaci nel nostro ordinamento, consentendo all’Italia, che si appresta a legiferare in materia, di raggiungere più elevati livelli qualitativi nella prevenzione e repressione del fenomeno della violenza di genere, e nella protezione delle donne. Inoltre la proposta di intervento normativo, coerentemente fondata su un impianto integrato e di sistema, e la metodologia dell’odierno Seminario, appaiono apprezzabili perché si inseriscono nel vivo del dibattito pubblico e all’interno di un dialogo costruttivo tra operatori del settore, Istituzioni, politica, società civile, in un ambito sia nazionale che internazionale. L’iniziativa si profila dunque come un’importante opportunità – anche in fase di aggiornamento del medesimo disegno di legge in commento, ai fini della piena e coerente esecuzione della Convenzione di Istanbul – per ridisegnare una politica condivisa sulle “soggettività” e sul principio della piena parità tra i generi. Il presente intervento si propone dunque come contributo di riflessione al percorso normativo. Come è noto, gli studi di settore, specie internazionali, su cui si è basata l’elaborazione della produzione normativa in ambito europeo consentono di affermare che - la violenza di genere – quale atto palesemente discriminatorio – è compressione o negazione del godimento da parte delle donne dei diritti umani e delle libertà fondamentali conformemente ai principi generali di diritto internazionale o alle convenzioni sui diritti umani1; - che la stessa violenza di genere costituisce un importante problema strutturale della società fondato su impari rapporti di potere e di forza fra le donne e gli uomini. Di qui la necessità di un coinvolgimento anche degli uomini e della contestuale rimozione degli ostacoli all’uguaglianza di genere, di natura culturale, sociale, politica ed economica. Dunque, una strategia di intervento, ad opera delle politiche pubbliche, di natura anch’essa “strutturale”.

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Tali diritti e libertà comprendono: a) Il diritto alla vita; b) il diritto a non essere sottoposte a tortura né a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti; c) Il diritto ad una pari protezione ai sensi delle norme umanitarie in tempo di conflitto armato interno o internazionale; d) il diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona; e) il diritto ad una pari protezione da parte della legge; f) il diritto alla parità nella famiglia; g) il diritto al più alto livello possibile di salute fisica e mentale; h) il diritto a condizioni di lavoro giuste e favorevoli.

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Si parla infatti di “volto nascosto” della violenza nei confronti delle donne: è certo che, per tutti i tipi di violenza, il numero dei casi denunciati e registrati è sensibilmente inferiore alla realtà. Dunque la stima secondo la quale una donna su sei, in Europa, è stata vittima di violenza almeno una volta nella vita, testimonia solo l’aspetto “visibile” del fenomeno. Appare allora evidente che qualsiasi approccio o azione politica, preferibilmente di natura coordinata ed integrata, deve presupporre la creazione di un clima sociale di fiducia e di sostegno psicologico alle donne per convincerle ad uscire dal silenzio e dalla vergogna, seguendo un percorso di autonomia ed autodeterminazione. Occorre inoltre ricordare che le caratteristiche generali del fenomeno riscontrate dal Consiglio d’Europa sono l’universalità2 e il carattere multiforme3. E proprio da tali caratteristiche discende la necessità di un approccio integrato e di sistema da parte degli Stati, con il più ampio coinvolgimento di donne e uomini, delle ONG e degli operatori pubblici e privati. Dunque, riteniamo che ogni intervento di innovazione normativa dovrà essere accompagnato da campagne di sensibilizzazione e di produzione culturale che ne facilitino la comprensione, la condivisione, l’applicazione e, in ultimo, ne garantiscano l’efficacia. Inoltre le azioni di informazione e sensibilizzazione debbono fondarsi sulla

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La violenza contro le donne riguarda infatti tutti i paesi, tutte le classi sociali, può colpire persone di qualsiasi età, etnia, religione, quale che sia la loro situazione professionale o personale, o la loro appartenenza ad una minoranza nazionale. 3

Inoltre la violenza può assumere diverse forme: fisica, verbale, sessuale, psicologica, economica e morale; può essere perpetrata all’interno della famiglia o entro le mura domestiche nella comunità in generale. Alcune situazioni critiche, quali la disoccupazione e la povertà, le crisi politiche, le forti migrazioni e i conflitti armati costituiscono fattori aggravanti nella misura in cui le donne trovandosi in situazione di precarietà divengono un bersaglio privilegiato. Le violenze – che spesso sono il frutto della combinazione di diversi comportamenti aggressivi – hanno quasi sempre conseguenze durevoli sull’equilibrio fisico e/o psichico delle vittime. Gli studi effettuati dal Consiglio d’Europa riservano un’attenzione del tutto peculiare alla violenza nei confronti delle bambine, che assume caratteri ancor più drammatici e sommersi.

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seguente consapevolezza: spesso la violenza nei confronti delle donne è originata da un contesto di relazioni affettive distorte nonché dalla mancata accettazione delle diversità di genere e dal rifiuto dell’esercizio delle libertà della donna. Per tale ragione si manifesta frequentemente entro le mura domestiche. A mutamenti sociali, culturali ed economici, che hanno messo in crisi l’identità e i ruoli sociali di derivazione familistica e patriarcale, non sono seguite solide strutture - sostitutive, plurali, paritetiche - sulle quali edificare rinnovate relazioni interpersonali, familiari e sociali, nel rispetto delle diversità di genere, delle reciproche libertà e della democrazia paritaria. In un certo senso siamo ancora in “mezzo al guado”, intrappolati nelle contraddizioni dei profondi e radicali cambiamenti succedutisi negli ultimi anni, ma non ancora compiuti integralmente. Il nostro movimento, fin dalla sua nascita, ha posto grande attenzione alle molteplici discriminazioni di genere che ancora oggi subiscono le donne italiane, sia nella vita pubblica che in quella privata, e che possono sintetizzarsi in una condizione di “cittadinanza incompiuta”. La nostra analisi, prima, e le campagne di sensibilizzazione, poi, hanno posto l’attenzione sulla corporeità della donna e sulla sua rappresentazione distorta, anche a livello mediatico, con conseguente effetto di mancata inclusione nella polis. L’appello “Mai più complici”, gli incontri nazionali di “Se non Ora Quando?” a Merano e a Torino hanno scosso le coscienze, rotto il muro dell’indifferenza, cercato nuovi linguaggi e prospettive inesplorate. L’appello ha avuto ampissima diffusione, riscosso adesioni da più parti della società civile, della cultura, delle Istituzioni. Il confronto e la riflessione pubblica si sono oramai avviati. Gli Azzurri dedicano alle donne la partita amichevole Italia - Francia del 14 novembre a Parma “La violenza sulle donne è un problema degli uomini. Insieme possiamo vincere questa partita.” Amnesty International, con il sostegno di “Se non Ora Quando?” ha avviato la campagna di sensibilizzazione a tutela dei diritti umani delle donne del Sud Africa e del Medio Oriente: “Alza la voce per chi non ha voce”. In altri termini, si è compreso che da quella rappresentazione del corpo e dell’immagine della donna – rappresentazione acriticamente immersa nell’indifferenza e avallata da un’interpretazione distorta del potere pubblico – deriva anche una condizione di cittadinanza negata o compressa: violazione di dignità, diritti, libertà, opportunità. Ma al contempo quella corporeità e quella rappresentazione affondano le radici più profonde nell’alterazione della relazione uomo-donna, come delineate nell’immaginario collettivo. La ripetitività quasi ossessiva degli stereotipi culturali, pubblicitari e mediatici, accompagnata dal gravissimo e progressivo indebolimento delle politiche istituzionali, culturali ed educative, si pone come ostacolo ad una autodeterminazione dei singoli nella costruzione delle relazioni affettive, sentimentali e sociali, in chiave di originalità e autenticità. Diviene importante allora che il legislatore introduca ampie definizioni giuridiche di “discriminazione di genere” e “violenza di genere”, oltre ad interventi, mirati e coordinati, di protezione e tutela dei diritti e libertà delle donne e repressione del fenomeno. Ma non solo. Una particolare azione per colpire le radici stesse del fenomeno, oltre al rafforzamento dei sistemi di protezione e repressione nonché formazione degli operatori, è la previsione di

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politiche e iniziative, indirizzate ad uomini e donne, che operino sul piano culturale, educativo e formativo e che siano improntate sul riconoscimento dei “generi”, sulla qualità delle “relazioni” interpersonali, e sulla parità di trattamento tra uomini e donne. In tal senso la legislazione spagnola – seppur non assimilabile al contesto giuridico e sociale italiano, per molti versi dissimile - offre importanti spunti di riflessione. In particolare la Legge Organica n. 1/2004 sulle “Misure di protezione contro la violenza di genere” e la Legge Costituzionale 3/2007 del 22 marzo per la “Parità effettiva tra gli uomini e le donne”, sono considerate tra le più avanzate e innovative nell’ambito europeo. Quest’ultima, di rango costituzionale e concepita in rapporto di rafforzamento della L. 1/2004, prevede che il sistema educativo, in ogni livello e grado, includa tra le proprie finalità l’istruzione nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali e nella parità di diritti e opportunità tra le donne e gli uomini. Analogamente, al fine di combattere le discriminazioni anche de facto esistenti, il medesimo sistema educativo include, tra i principi “di qualità”, l’eliminazione degli ostacoli che avversano la parità effettiva tra le donne e gli uomini e la promozione della piena parità tra le une e gli altri. Importante possono risultare anche le azioni che mirano ad introdurre il principio della parità effettiva tra i generi nell’ambito della creazione e produzione artistica ed intellettuale. Ossia la creazione della “cultura contemporanea”, che tanto incide sulla formazione delle nuove generazioni, accanto ai media, alla pubblicità, alle strategie del mercato. E’ inoltre fondamentale che i sistemi educativi e formativi siano improntati sulla continuità delle azioni. In questa prospettiva sarebbe interessante valutare l’introduzione nel nostro ordinamento di sistemi, di natura strutturale, di trattamento degli uomini autori della violenze di genere, già ampiamente sperimentati nella gran parte degli altri Paesi europei e documentati nell’ambito del progetto “Work with perpetrators of domestic violence”, Daphne II, finanziato dalla Commissione Europea4. Una speranza in più di intervento e prevenzione da ulteriori comportamenti violenti e da casi di recidiva, proprio nelle situazioni e nei contesti in cui il fenomeno si è già manifestato e rischia di aggravarsi o protrarne gli effetti dannosi.

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Si tratta di 170 programmi riferibili da 19 paesi Europei e raccolti nel data base dedicato. A ciò si aggiunge la produzione del Documento “Standards nel lavoro con gli uomini maltrattanti” 2008.

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I tagli della spesa pubblica ricadono prevalentemente sulle donne di Titti Carrano presidente D.i.Re “Donne in rete contro la violenza” "La violenza contro le donne rimane un problema significativo in Italia”, dice la special rapporteur Rashida Manjoo, “In un contesto sociale patriarcale, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine, persiste la percezione che le risposte dello stato non siano appropriate e sufficienti”. Come notato dal Comitato CEDAW, in Italia persistono “attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica”, “l’alto numero di donne uccise dai propri partner o ex partner (femminicidi) può indicare il fallimento delle autorità dello Stato nel proteggere adeguatamente le donne vittime dei propri partner o ex partner”. Affrontarlo è un “obbligo internazionale” con leggi e con azioni reali. Rashida Manjoo chiede che l’Italia si impegni “a eliminare gli atteggiamenti stereotipati circa i ruoli e le responsabilità delle donne e degli uomini nella famiglia, nella società e nell’ambiente di lavoro” (Rapporto della Special Rapporteur sulla violenza contro le donne, NU Consiglio Diritti Umani, 20° sessione) L’uguaglianza di genere, per legge e di fatto, è l’elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne. E’ l’Onu a sollecitare il governo italiano a non sottostimarlo. In Italia emerge un basso tasso di occupazione delle donne, basso tasso di reddito e crescente violenza sulle donne. Ed è all’economia che l’Onu fa appello come strumento di prevenzione: rimuovere gli ostacoli che incidono sull’occupazione femminile, quelli che permettono la disparità retributiva e rafforzare il sistema di previdenza sociale per superare i limiti all’integrazione delle donne nel mercato del lavoro. «La situazione economica e politica in Italia non giustifica la mancanza di attenzione e la diminuzione delle risorse per combattere la violenza contro le donne», dice la rappresentante speciale, «particolarmente oggi in un contesto in cui il numero di violenze fondate sul genere sta aumentando» (Report 2012, Special rapporteur CEDAW – Onu) La lotta alla violenza contro le donne oggi è segnata dalla crisi economica e i principali effetti di tale crisi si riversano innanzitutto sui servizi: le misure intraprese per ridurre i deficit di bilancio hanno una forte valenza “di genere”, nel senso che i tagli alla spesa pubblica, ai governi locali, le privatizzazioni dei servizi, ricadono pesantemente sulle donne. C'è, dunque, forte preoccupazione che le riduzioni dei servizi, conseguenti ai tagli ai bilanci porterà ad un aumento della quantità di violenza contro le donne. Il risparmio sulla spesa pubblica andrebbe piuttosto riparametrato sulla base dell’ingente costo della violenza per le casse della collettività. Le spese, dunque, vanno riviste nel senso di valutare l’efficacia dei servizi, in questo modo la crisi potrebbe offrire un’opportunità per disegnare nuovi modelli di welfare, basati su standard che prevedano budget specifici per i servizi per contrastare la violenza, e attraverso verifiche dell’efficacia delle scelte politiche e gestionali effettuate sulla base del rapporto costi-benefici. (Sylvia Walby, Lancaster University) D.i.Re chiede, dunque, che sia inserita nella legge di stabilità il sostegno e il finanziamento ai centri antiviolenza. Un finanziamento adeguato, costante e diretto ai centri antiviolenza gestiti

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da donne secondo un’ottica di genere, assicurando alle donne vittime di violenza immediata protezione e garanzia di essere accolte in rifugi sicuri e ben finanziati su tutto il territorio nazionale. E’ necessario sottolineare che i centri antiviolenza sono luoghi gestiti da sole donne e sono nati con lo scopo esclusivo di aiutare le donne ad uscire dalla violenza attraverso percorsi individualizzati, affiancate da operatrici specializzate. Si tratta di un tipo di attività ben precisa che nasce dal convincimento che la violenza contro le donne è un fatto culturale tipico di una società patriarcale e che, investendo il piano delle relazioni tra i sessi, va affrontata con una particolare attenzione e un approccio di genere. Per tale motivo i centri antiviolenza in tutto il mondo non coincidono con qualsiasi altro modello di carattere assistenziale. Questa precisazione si rende necessaria in quanto il Piano Nazionale Antiviolenza non definisce il centro antiviolenza anzi vi è una grande apertura ad altri centri non ben identificati, svilendo e disconoscendo il ruolo peculiare e unico dei centri antiviolenza. Nel piano, infatti, si individuano accanto ai centri antiviolenza altri “servizi di assistenza pubblici e privati, di protezione e reinserimento delle vittime”. Le richieste di aiuto delle donne ai centri antiviolenza aumentano di anno in anno ma le capacità di ospitalità ed accoglienza diminuiscono a causa della riduzione dei fondi messi a disposizione dagli enti locali per la protezione delle vittime. Sono quasi 14.000 le donne che si rivolgono ogni anno ai Centri Antiviolenza aderenti a D.i.Re e nella maggior parte dei casi si tratta di donne italiane, che subiscono violenza da uomini italiani. In Italia non tutti i centri possono offrire ospitalità alle donne vittime di violenza e ai loro figli. Non c’è una equa distribuzione di centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale: alcune regioni non ne hanno e nella maggioranza ce ne sono pochissimi. Il Consiglio d’Europa raccomanda un centro antiviolenza ogni 10.000 persone e un centro d’emergenza ogni 50.000 abitanti (Racc Ue Expert Meeting sulla violenza contro le donne – Finlandia 8-10 novembre 1999, sugli standard dei centri). In Italia dovrebbero esserci 5.700 posti letto ce ne sono solo 500. Siamo lontano dagli standard europei richiesti. Le richieste di tante donne restano senza risposta e tante altre sono a rischio di vita: ogni

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anno in Italia vengono uccise oltre 120 donne solo perché donne, dall’inizio del 2012 ne sono state uccise 106 e la maggior parte dei feminicidi si compie nella casa della vittima da partners o ex partners. I centri antiviolenza non sono soltanto attivi per l’accoglienza e l’assistenza, come vorrebbe una immagine diffusa ma riduttiva: rappresentano, invece, luoghi di progettualità e di protagonismo femminile, di saperi e di speranze. Sono veri e propri “laboratori sociali” dove si produce sapere ed esperienza e dove, grazie alla sinergia tra le donne, si è costruita negli anni una cultura nuova. Solo se si crea una cultura diversa si potrà aspirare ad un cambiamento nelle relazioni tra i generi e sconfiggere la solitudine in cui vivono ancora molte donne. E’ necessario anche disporre di dati quantitativi e qualitativi comparabili e precisi su tutte le forme di violenza nei confronti delle donne e di indicatori affinché le azioni e strategie degli Stati possano essere elaborate con cognizione di causa. Mancano dati aggiornati, periodici e sistematici relativi alle varie forme di violenza di genere, in particolare l’Italia è anche uno dei pochissimi Paesi europei nei quali non viene effettuata sistematicamente una analisi dei costi sociali della violenza, in termini di sofferenza umana e perdita economica che ricade sulla collettività nel settore sociale, sanitario, giudiziario ecc.. Mancano anche i dati e un monitoraggio attento sul numero di ordini di protezione richiesti ed emessi a protezione delle vittime di violenza di genere, sulle denunce e sull’esito dei processi, perché la maggior parte delle Procure e dei Tribunali italiani utilizza metodi di raccolta dei dati differenti e non li disaggregano per genere. A oltre dieci anni dalla promulgazione della L. 154/2001 sugli ordini di protezione nei casi di violenza domestica, non è possibile valutare l’efficacia di questa legge ed i motivi per i quali in molti Tribunali risulta disapplicata ed invece in altri è applicata anche in tempi rapidissimi. E’ fondamentale rendere possibile ed effettuare indagini e rilevazioni di tutti i dati relativi al numero di donne che subiscono violenza, in coordinamento con i Ministeri (Giustizia, Interni, Salute, Pari Opportunità) con l’Istat e D.i.Re. Occorre anche invertire la rotta della politica legislativa che inquadra la violenza maschile sulle donne nell’ambito della sicurezza pubblica. Basta soffermarsi sui c.d. pacchetti sicurezza che si sono susseguiti negli ultimi tempi per averne un esempio. Il ricorso allo strumento penalistico torna ad essere la forma privilegiata per contrastare la violenza contro le donne (nuove fattispecie di reato, inasprimento delle pene, aggravanti ecc). Il collegamento alla normativa contro l’immigrazione clandestina non ha fatto altro che costruire il “nemico”. Non c’è alcuna relazione tra la recente politica legislativa e la libertà delle donne. L’approccio alla violenza di genere non deve avere carattere di emergenza perché la violenza sulle donne non è un'emergenza, è una costante della nostra società, non è un fatto privato ma è una responsabilità che ogni stato ha e deve assumersi. Occorre, dunque, un intervento non unicamente repressivo ma di sensibilizzazione e di prevenzione. L’impianto normativo italiano a favore delle donne vittime di violenza maschile si presenterebbe astrattamente idoneo ed efficace. Il problema non sono le leggi, il problema è la loro applicazione. Occorre assicurare la formazione sistematica a tutti gli operatori dei settori

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interessati: dei magistrati che devono applicarle e di tutte le professionalità coinvolte ( forze dell’ordine, avvocati, servizi sociali, psicologi ecc) Ci sono poi leggi che appaiono giuste ma fanno cultura contro le donne perché veicolano un modello familistico delle relazioni tra le persone che, con l’obiettivo dichiarato di tutelare i minori, in realtà tendono a minare la libertà delle donne. La legge n. 54 del 2006 che ha introdotto l’affidamento condiviso che si fonda sul giusto principio della “bi-genitorialità”, non prevede esplicitamente l’esclusione di tale forma di affidamento nei casi di maltrattamento, violenze sessuali, violenze fisiche e/o psicologiche. E si pensi ai disegni di legge di modifica dell’affidamento condiviso (DDL 957, DDL 2800, DDL 2454), che prevedono l’introduzione della PAS (Sindrome di alienazione genitoriale) come causa di esclusione dell’affidamento dei figli. Siamo in presenza di una grave violazione dei diritti delle donne vittime di violenza e dei loro figli minorenni e scompare completamente il riferimento all’“interesse del minore”. Tutto ciò è in contrasto con quanto affermato dal Comitato CEDAW che si è detto “ preoccupato per il fatto che, nell’ambito dei procedimenti relativi all’affido condiviso, in caso di presunti episodi di abuso sui minori, possano essere prodotte consulenze basate sulla dubbia teoria della Sindrome da Alienazione Parentale”. Con raccomandazione 51. Il Comitato chiede allo Stato-membro di “valutare le modifiche normative in materia di affido condiviso dei minori, attraverso studi scientifici, al fine di valutare gli effetti di lungo termine sulle donne e sui minori, tenendo in considerazione l’esperienza registrata negli altri Paesi su queste problematiche”. Anche la violenza assistita è una forma di maltrattamento “sottovalutata” (Terzo Rapporto sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia,2006-2007. www.gruppocrc.net.). E’ fondamentale introdurre esplicitamente la violenza intrafamiliare come causa di esclusione di affidamento condiviso (art. 155 bis c.c.) e la violenza assistita intrafamiliare come causa di decadenza o limitazione della potestà genitoriale (modifiche agli artt. 330, 333 c.c). L’Italia ha firmato la Convenzione di Istanbul lo scorso 27 settembre è indispensabile ora che si proceda alla ratifica entro questa legislatura, così come dichiarato più volte dalla Ministra Fornero.

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La Convenzione di Istanbul è innovativa. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante al mondo a prevedere una serie completa di misure per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. Essa riconosce la violenza come violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Stabilisce anche un chiaro nesso tra il raggiungimento della parità tra donne e uomini e sradicare la violenza contro le donne. La Convenzione di Istanbul adotta un approccio globale e coordinato per combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, invitando tutti, istituzioni e le organizzazioni non governative coinvolti, a lavorare insieme in modo coordinato. Riconosce e sostiene il lavoro delle ONG e della società civile che svolgono un ruolo chiave nella prevenzione e nella lotta alla violenza contro le donne. Il rispetto e il riconoscimento dei diritti delle donne è imprescindibile per lo sviluppo e per la giustizia sociale.

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Colpire non è virile di Teresa Dattilo presidente dell'Associazione “Donna e Politiche Familiari” Sono la presidente di un'associazione tutta al femminile di avvocate e psicologhe che opera dal 1998 all'interno della Casa Internazionale delle donne. Lavoriamo insieme psicologhe ed avvocate sul problema della Violenza Domestica attraverso diverse azioni: • Dal 2000 attraverso uno Sportello di ascolto psicologico e legale congiunto in cui, da prassi, all’interno della Casa Internazionale delle Donne, le donne vengono accolte da una Psicoterapeuta e da un’Avvocata. • Dal 2005 attraverso dei Progetti di Prevenzione alla Violenza di genere negli Istituti superiori di Roma e Provincia, finanziati da Solidea, Provincia di Roma e alcuni dal Comune di Roma. • Dal 2010 attraverso un Progetto rivolto agli uomini autori di Violenza, “Colpire non è virile” finanziato dal Dipartimento delle pari Opportunità, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Primo Progetto rivolto agli uomini autori di Violenza nel territorio romano e seconda iniziativa sul territorio nazionale. LO SPORTELLO Al nostro Centro sono le donne che chiedono aiuto, non perché escludiamo gli uomini, ma perché generalmente sono le donne che, quando c’è un problema, si mettono in discussione e sono pronte ad accogliere un suggerimento. Le donne che incontriamo spesso sono vittime insieme ai loro bambini di una serie di ingiustizie e di situazioni di violenza. Abbiamo deciso di lavorare insieme psicologhe ed avvocate con l’obiettivo di offrire una migliore tutela alle donne, ai bambini, all'intero sistema familiare La separazione da un uomo violento non è mai una questione puramente legale. L’unione uomo-donna è un incastro profondo; la scelta è inconscia e crea legami costruttivi o distruttivi. Quando si crea un legame costruttivo la persona è libera di esprimere se stessa, quando questo non accade è in gabbia, è in un rapporto caratterizzato dal dominio, dal controllo, dalla gelosia: il rapporto è violento. Ma, le donne sono innamorate di questi uomini, non li vedono come violenti; ma come delle creature fragili. Siamo noi psicoterapeute, insieme alle avvocate, che, lentamente riusciamo a far prendere consapevolezza del tipo di rapporto che stanno vivendo; di quanto soffrono in questa situazione, di quanta violenza stanno subendo i loro bambini. La violenza domestica è fortemente traumatica in quanto è perpetrata da chi si ama. Questi uomini fanno sentire la donna unica e speciale in un primissima fase, successivamente instaurano una spirale di violenza (fatta di botte, pentimento, violenza psicologica, botte, pentimento etc): il principe azzurro lentamente è diventato un orco e queste donne sono convinte di meritare quello che subiscono. Lentamente sono diventate sottomesse. La violenza psicologica quotidiana porta ad un annullamento lento della personalità e della individualità della donna oltre a una serie di sintomi anche sul piano fisico: disturbi di somatizzazione, comportamenti autolesionistici che possono arrivare al suicidio, sindromi depressive, veri e propri quadri psichiatrici. Queste donne vivono un plagio sottile e quotidiano che diventa la loro normalità. Non avendo più nessuna considerazione di se stesse, non

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distinguono più la propria capacità di riconoscere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. I numeri delle vittime sono drammatici e nelle case in cui c’è violenza, i bambini facilmente apprenderanno comportamenti aggressivi e condotte devianti oltre che essere a rischio di ritardi dello sviluppo o disturbi di personalità, forme di violenza e bullismo. Una donna che ha subito violenza non riesce dunque a tutelare né se stessa né i suoi bambini e chiaramente non è in grado di sostenere un percorso legale fatto di forze dell’ordine, denunce, processi. Ecco che, in questi casi, il sostegno psicologico finalizzato a recuperare l’autostima e le capacità decisionali è fondamentale per far si che la donna riesca ad uscire dalla difficile situazione in cui grava. L'obiettivo di noi tutte associazioni è quello di far EMERGERE il problema della violenza tra le mura domestiche, problema ancora assolutamente sommerso: il 90% delle donne non denuncia le violenze subite, inoltre la violenza sulle donne rimane la prima causa di morte tra i 15 e i 44 anni. È un problema che ci coinvolge tutti: uomini e donne di ogni classe sociale, credo politico o religioso ed è un problema che va affrontato energicamente perché si autoalimenta. La violenza subita genera altra violenza. L’obiettivo del sostegno psicologico è far rendere consapevole la donna dell’INCASTRO inconscio che si viene a creare all’interno di un rapporto di questo tipo. Il nostro intervento mira ad inserire le donne in una RETE allargata di interventi integrati che tendono a proteggere i bambini e a sostenere le vittime. Collaboriamo con i servizi territoriali, i consultori, i centri di mediazione, i Centri antiviolenza, le questure, i medici di base, perché riteniamo che sia fondamentale muoversi attraverso una forte RETE sul territorio. Questa Rete di cui ci avvaliamo è composta da operatori ed operatrici qualificate a lavorare nell’ambito della violenza domestica, che conoscono le dinamiche familiari che sanno come accogliere ed intervenire in queste situazioni. LA PREVENZIONE Per quanto riguardo l'ambito della Prevenzione devo sottolineare che fare una politica di prevenzione alla violenza significa lavorare sugli STEREOTIPI CULTURALI, sulle premesse epistemologiche, che sottendono gli atteggiamenti di uomini e donne. Il lavoro di prevenzione e lotta ai comportamenti aggressivi ed alla violenza di genere, è stato articolato su diversi livelli all’interno di diversi Istituti di Roma e Provincia. Lo scopo principale di questi progetti è quello di promuovere un processo di formazione e di costruzione di una consapevole identità di genere, che possa consentire un confronto paritario e costruttivo tra maschi e femmine. Nello specifico gli obiettivi hanno mirato a facilitare l’acquisizione di strumenti critici indirizzati al superamento responsabile e consapevole degli stereotipi sessisti, verso l’adozione di comportamenti prosociali, basati sulla cooperazione e responsabilità, nel rispetto di sé e dell’altro sesso. Il lavoro di prevenzione e lotta ai comportamenti aggressivi ed alla violenza di genere, è stato articolato su diversi livelli: -il primo livello, quello più visibile, si è centrato sul discorso di prevenzione e sensibilizzazione all’interno delle classi coinvolte direttamente con le studentesse e gli studenti

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-un secondo livello, ha visto coinvolti, in parallelo ai lavori in classe, i genitori delle classi coinvolte attraverso incontri di informazione e condivisione del progetto e colloqui di sostegno alla genitorialità, -un terzo livello si è focalizzato su di un lavoro di informazione e formazione rivolto ai professori delle scuole coinvolte, -un ultimo livello, ha riguardato il dialogo con le Istituzioni della comunità locale, attraverso convegni di apertura e chiusura del progetto, con l’obiettivo di costruire un ponte tra i destinatari del progetto e le Istituzioni locali e Provinciali, attorno a cui gravitano i bisogni delle scuole-famiglia-docenti-adolescenti. Attraverso questo lavoro abbiamo avuto modo di vedere da vicino un quadro piuttosto preoccupante dei nuovi adolescenti, mostratesi particolarmente inclini alla scelta di comportamenti aggressivi e umilianti nei confronti dell’altro e delle donne in particolare. E’ emersa inoltre una forte tendenza alla tolleranza e all’abitudine nella scelta di atteggiamenti violenti, associata allo sviluppo di un minor senso di responsabilità verso gli altri e verso se stessi, così come una minore sensibilità nei confronti della sofferenza inflitta all’altro. Molti studenti, in prevalenza maschi, hanno considerato una scelta normale e necessaria quella di ricorrere alla forza ed alla violenza, piuttosto che al dialogo ed alla discussione. L’aggressività e il conflitto sono fenomeni così diffusi da indurre una specie di ammissione e tolleranza sia da parte di chi agisce che di chi subisce violenza. Avviare progetti di prevenzione alla violenza a scuola, significa dunque costruire interventi in un’ottica complessa e multidimensionale, che prenda in considerazione la stretta interconnessione tra i piani psicologici, affettivi, socio-culturali e le differenze di genere e nello specifico i modelli culturali, che oggi imperano nella costruzione della personalità degli/delle adolescenti. La violenza fisica è a mio parere l’ultima azione di una catena di stereotipi culturali che vedono ancora le donne italiane assolutamente svantaggiate nei luoghi pubblici e privati.

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COLPIRE NON E’ VIRILE Nel 2010 abbiamo avviato una delle prime esperienze che, in linea con talune iniziative svolte all’estero, sulla base di quanto previsto dalla Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite del 1979 (CEDAW), affronta il problema della violenza domestica a 360° in Italia, integrando alla tutela e al sostegno alla vittima, il recupero dell’uomo autore di violenza contro le donne. Con Colpire non è virile abbiamo deciso di arrivare alla radice del problema della violenza in quanto questo progetto si rivolge direttamente agli autori. In Italia, a differenza di altri paesi Europei, non ci sono programmi di riabilitazione, non abbiamo ancora misure alternative al carcere, e tutti sappiamo che le carceri NON RIABILITANO e che gli uomini violenti sono sempre recidivi. Uno dei momenti più a rischio violenza per le donne è quello dell’uscita dal carcere stesso per i sentimenti di rancore e vendetta covati nel periodo della detenzione. Il tasso di recidiva è infatti al 70% nell’arco dei primi due anni di fuoriuscita dal carcere. Tutti ricordiamo che circa due anni, fa quell’uomo che, uscito dal carcere, nel giro di poche ore assassinò due delle sue ex-donne in due regioni diverse. Credo che non avesse pensato ad altro negli anni di reclusione che al momento del vendetta. Le statistiche dimostrano, che l’uso esclusivo di strumenti repressivi si rivela spesso controproducente, finendo per rinforzare il comportamento violento, attraverso meccanismi di imitazione e di “coazione a ripetere”. Cosa fa il nostro Paese dunque per affrontare questo problema? Abbiamo così deciso, ragionando sull’esperienza della nostra Associazione, di investire su un progetto che scommette su un cambiamento culturale e sociale che passa attraverso una messa in discussione delle premesse culturali, stereotipate e sessiste degli stessi uomini. L’obiettivo è stato quello di individuare tra gli uomini che hanno agito violenza sulle donne, quelli disponibili a rivedere il loro comportamento e ad introdurre dei cambiamenti nel loro modo di pensare, sentire, agire. Il Progetto ha previsto in una fase iniziale l’avvio di una linea telefonica e di un Osservatorio, una ricerca intervento, che ha utilizzato un questionario, da noi creato, volto a tracciare i tratti di personalità degli uomini violenti. Successivamente in una seconda fase abbiamo invece avviato un Gruppo pilota di riabilitazione. Gli esperti del problema di violenza domestica sanno bene che gli autori di violenza difficilmente pensano di avere un problema o si mettono in discussione, piuttosto si sentono provocati dalle loro partner. Sulla base di questa riflessione abbiamo creato una locandina con delle domande che attivassero in chi le legge la consapevolezza di avere un problema. (Allego la locandina) La pratica clinica come psicoterapeuta ci ha aiutato ad individuare le fragilità sulle quali puntare per attivare una richiesta di aiuto nell’autore di violenza; riprendendo le stesse frasi che questi uomini ripetono durante i colloqui. Il problema è che sono convinti di aver ragione nel momento in cui diventano violenti; da un punto di vista psicologico siamo in presenza di vere e proprie distorsioni cognitive. Abbiamo fatto un lavoro enorme per distribuire questa Locandina in TUTTO il territorio romano: tutte le questure, tutti i Pronto Soccorso, tutte le stazioni dei carabinieri, le scuole, gli studi

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medici, oltre ad aver fatto un enorme raccordo con le colleghe ed i colleghi che lavorano in quest’ambito. Il Progetto ha lasciato molte associazioni che lavorano con le vittime perplesse, da alcune siamo state sottilmente osteggiate “Secondo me non chiamerà nessuno a quel telefono” altre invece in modo più sottile dicevano: “Ma ché ora lavorate con gli uomini?”. Credo che schierarsi dalla parte delle donne vittime e rinchiudere gli uomini solo in carcere non fa altro che mantenere il problema. E così con molta calma abbiamo dovute spiegare a cosa mirava il Progetto: a proteggere le vittime, a estirpare il circuito della violenza partendo dai carnefici. Probabilmente, gli stereotipi culturali, non sono solo nella testa degli uomini che picchiano le donne, ma anche nella testa di molte donne che lavorano nel settore della Violenza. Sottolineo che alla linea telefonica hanno chiamato uomini che volevano cambiare e quindi consapevoli delle proprie risorse, gli uomini violenti con quadri psichiatrici importanti non chiedono aiuto; con loro si dovrebbe fare un lavoro mirato nelle carceri. Al gruppo hanno partecipato 12 uomini in totale e l’obiettivo è stato quello di insegnare loro ad interpretare e gestire le loro emozioni, a regolare la rabbia, ad adottare comportamenti non violenti. Al momento il Progetto si regge su forme di volontariato, io stessa rispondo al cellulare ed è una vera pena non poter aiutare gli uomini che fanno richiesta di aiuto perché in questo momento le Istituzioni ci dicono che non ci sono fondi, mentre i bandi che prevedono un aiuto sugli autori non esistono in Italia. In tutti gli altri Paesi Europei ci sono questi sportelli di ascolto, nel nostro, probabilmente per una questione culturale, delle STESSE ISTITUZIONI questo discorso stenta ancora a partire. La violenza domestica in Italia ancora è considerata una questione privata, la parola Femminicidio non esiste ancora nel nostro vocabolario.

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Una formazione mirata al cambiamento nelle relazioni di genere di Rossana Scaricabarozzi associazione “ActionAid” ActionAid è un’organizzazione internazionale impegnata nella lotta alle cause della povertà e dell’esclusione sociale. I diritti delle donne sono tema prioritario e trasversale del nostro lavoro nei paesi in via di sviluppo e anche in Italia. ActionAid è parte attiva della piattaforma “Lavori in corsa: 30 anni CEDAW” e tra le organizzazioni promotrici della Convenzione NO MORE. La violenza sulle donne nelle sue varie forme è ormai riconosciuta a livello non solo nazionale, ma anche internazionale come un’emergenza in Italia. Nel 2011 il Comitato CEDAW dell’ONU ha incluso la violenza tra le due aree di maggiori criticità, insieme agli stereotipi di genere, nella mancata attuazione della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. La Special Rapporteur dell’ONU sulla violenza contro le donne Rashida Manjoo ha dichiarato nel 2012 dopo la sua visita ufficiale in Italia che gli interventi delle nostre istituzioni per prevenire e contrastare la violenza sulle donne rimangono inefficaci e insufficienti, sottolineando inoltre che la crisi economica attuale non può essere utilizzata a giustificazione degli scarsi sforzi nel contrasto alla violenza. Le prossime elezioni politiche rappresentano l’opportunità di una svolta, sia per questi mesi che le precedono che per i prossimi anni, augurandoci si possa dare avvio a un nuovo approccio in cui i diritti umani e in particolare i diritti delle donne siano al centro dell’azione politica, partendo dall’istituzione di una Commissione nazionale indipendente che vigili sulla tutela dei diritti umani nel nostro paese, e che questa commissione includa una sezione dedicata nello specifico ai diritti delle donne, come auspicato dalla Special Rapporteur dell’ONU sulla violenza contro le donne e come più volte sollecitato dalle Nazioni Unite in occasioni di valutazioni sull’impegno dell’Italia nell’adottare misure per dare concreta attuazione a convenzioni internazionali relative ai diritti umani. Insieme alla sottoscrizione e attuazione di strumenti giuridici internazionali – mi riferisco in particolare alla ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e il contrasto alla violenza

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sulle donne e la violenza domestica, che ci auguriamo avvenga nel più breve tempo possibile, e alla sua concreta implementazione – e a prevedere finanziamenti adeguati e prevedibili per la lotta a ogni forma di violenza sulle donne, anche attraverso l’adeguamento a standard fissati in sede europea relativi ai servizi dei centri-antiviolenza, è necessario prevedere una strategia integrata per destrutturare gli stereotipi di genere, punto di partenza indispensabile per la lotta alle disuguaglianze tra donne e uomini in tutti gli ambiti della vita, dalla partecipazione alla vita politica del nostro paese, alla redistribuzione della responsabilità del lavoro di cura, fino alle varie forme di violenza maschile sulle donne, di cui la forma più estrema è il femminicidio. Gli stereotipi di genere sono stati riconosciuti dall’ONU come causa culturale delle discriminazioni contro le donne e quindi ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza di genere in Italia, rilevando quanto tali stereotipi siano ampiamente diffusi attraverso i mass media. La prevenzione della violenza di genere e la diffusione di una cultura dei diritti umani, e in particolare dei diritti delle donne, devono partire dall’istruzione, a tutti i livelli, attraverso formazione specifica che miri a un cambiamento nelle relazioni di genere. In particolare attraverso l’adozione di libri di testo che non veicolino pregiudizi e stereotipi nel linguaggio e nei contenuti, l’aggiornamento e la formazione professionale dei docenti sugli stereotipi di genere e la violenza maschile sulle donne, nonché attraverso l’inserimento in tutti i curricula universitari a indirizzo sociale, medico, legale, storico e politico, dello studio delle Convenzioni inerenti ai diritti umani, della convenzione CEDAW e della violenza di genere. Sono necessarie inoltre campagne di sensibilizzazione rivolte a tutta la popolazione a livello nazionale e locale sul fenomeno della violenza contro le donne. La comunicazione veicolata attraverso i mass media necessita controllo specifico perché promuova e diffonda una cultura più consapevole riguardo le discriminazioni di genere, in particolare nel trattare temi inerenti alla violenza sulle donne, attraverso un linguaggio e immagini che non contribuiscano a ridimensionare la gravità degli atti di violenza. Anche in questo caso è necessaria una formazione volta a promuovere consapevolezza sulla violenza di genere e sul femminicidio in corsi e master relativi al giornalismo. Si auspica inoltre l’istituzione di un Osservatorio sull’informazione che monitori la comunicazione sul tema della violenza contro le donne e che vigili su immagini e messaggi che rafforzano gli stereotipi di genere.

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Quando i bambini sono testimoni della violenza di Eugenia Scognamiglio avvocato associazione “Telefono Rosa” Femmicidi: 101 casi al 28 ottobre 2012 Dati della ricerca del “Telefono Rosa” – “Le voci segrete della violenza 2011”: Campione 1189 casi (978 italiane, 280 straniere) - Violenza fisica 18% - Violenza psicologica 32% - Violenza economica 8% I video proiettati e gli interventi degli illustri relatori mi conducono a delle brevi riflessioni in ordine ad un aspetto spesso sottovalutato dalla società. Mi riferisco alla violenza assistita, vale a dire a quella forma di violenza di cui i bambini sono costretti ad essere spettatori. E sottolineo “sono costretti” perché nessuno ha domandato loro cosa pensano e se accettano di essere “testimoni” di scontri violenti tra i genitori. Il termine testimone di violenza non è casuale perché utilizzato nella Convenzione di Istanbul all’art 26 ed è un termine che colpisce profondamente, perché ci fornisce la reale posizione del bambino, soggetto spesso non in grado di elaborare autonomamente, all’interno di un contesto familiare violento. Il “Telefono Rosa” gestisce una Casa di accoglienza e da tre anni svolge una ricerca sulla violenza assistita da parte dei minori. La violenza sui bambini è la diretta conseguenza della violenza sulle donne. Tale violenza di natura fisica, psicologica, economica avviene in molte famiglie anche in quelle apparentemente più “normali”. Il duplice aspetto attraverso il quale si concretizza la violenza assistita è rappresentato, non solo dai maltrattamenti subiti dalla madre, ma anche da tutti quei litigi violenti e cronici tra coniugi che vedono per l’appunto come spettatori i bambini. I danni provocati dalla violenza assistita non vanno sottovalutati, perché i bambini attuali saranno gli adulti di domani ed un bambino che è stato spettatore di violenza potrebbe potenzialmente essere un adulto violento. Noi accogliamo donne vittime di violenza che nell’infanzia sono state spettatrici di violenza e, dunque, in età adulta ritengono che subire continue vessazioni ed aggressioni rappresenti la normalità. Così come, allo stesso modo, accogliamo donne vittime di violenza da parte di uomini i cui genitori sono stati violenti. Anche in questo caso la percezione della violenza da parte delle donne viene vissuta come un normale modo di vivere la relazione affettiva. Il video proiettato vale più di mille parole e ci pone a confronto proprio con questa dura realtà. I genitori sono il più delle volte i primi a sottovalutare i danni che la violenza domestica provoca sui propri figli, minimizzando e sdrammatizzando. Molte donne vittime di violenza, a nostra esplicita domanda sulla percezione che i loro figli hanno della violenza dalle stesse subita, rispondono che i bambini non sentono ed a volte non capiscono perché chiusi nelle loro camere. Non è così. Perché i bambini, come delle spugne, assorbono tutto ciò che si sviluppa nell’ambiente circostante. In alcuni casi, addirittura, accade che i bambini arrivino ad

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identificarsi con il padre violento ripetendo i medesimi comportamenti (ed è in effetti quello che ci ha proposto il video). Alla luce di ciò, noi abbiamo l’obbligo sociale nell’ambito di un programma di protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza (così definiti nell’art. 26 della Convenzione di Istanbul) non solo di adottare misure che comprendano consulenze psico-sociali adattate all’età dei bambini (come tra l’altro già previsto nella medesima Convenzione) ma soprattutto di fornire attraverso lo strumento legislativo una risposta adeguata. Più precisamente, l’introduzione nei reati di violenza domestica dell’aggravante della “commissione del fatto in presenza di un bambino” (aggravante introdotta all’art 46 della Convenzione di Istanbul) rappresenta una novità assoluta che noi condividiamo pienamente in quanto prevederebbe, conformemente al nostro diritto nazionale, un aumento di pena per i reati di violenza e soprattutto costituirebbe un deterrente per la commissione di tutti i reati di violenza, il tutto ovviamente privilegiando l’interesse superiore del minore. Da ultimo, è necessario che la società metta in atto strategie di prevenzione partendo dalla scuola dell’infanzia affinché i genitori siano i primi a comprendere e ad acquisire, sempre di più, la consapevolezza dei danni che i comportamenti e le azioni violente provocano sui bambini all’interno delle mura domestiche.

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Praticamente, una donna uccisa ogni due giorni di Olga Mammoliti Severi presidente associazione “Il Club delle Donne” Il 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l`eliminazione della Violenza contro le Donne. I dati sono agghiaccianti: c’è una guerra invisibile che, dall'inizio del 2012 conta, solo in Italia, oltre cento cadute. Praticamente, una donna uccisa ogni due giorni. L’Italia è il paese europeo con il più alto tasso di delitti in famiglia, quasi tutti perpetrati contro le donne. Secondo i dati Istat , in 769 casi il maltrattatore è il coniuge o il compagno, una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni , è stata vittima della violenza di un uomo almeno una volta nella sua vita, e nel 63% dei casi alla violenza hanno assistito i figli. Questo primato porta le Nazioni Unite a parlare di femminicidio per l’Italia. Le donne più colpite sono quelle nella fascia d’età tra i 16 e i 24 anni (dato non concordante con quello dell’Indagine sul femminicidio in Italia, per cui la fascia d’età con una percentuale maggiore di vittime è quella tra i 46 e i 60 anni). In Italia, negli ultimi 20 anni, il livello generale degli omicidi è diminuito, ponendosi in linea con gli altri paesi europei. Tuttavia, allo stesso tempo, si è registrato un aumento dei femminicidi pari al 15,3% tra 1992 e il 1994 e del 23,8% tra il 2007 e il 2008. Secondo i dati UNODC nel 2009 tra le vittime di omicidio il 30% sono state uccise da coniugi e familiari e di queste il 22% erano donne. Questo dato, sempre secondo UNODC, supera di 7 punti percentuali quello delle vittime del crimine organizzato. Le donne uccise dai loro mariti o compagni sono state 137 nel 2011, mentre nel 2012 sono già più di cento. Si badi che stiamo parlando dell’Italia, non di Paesi dove lo stupro da parte del marito è ritenuto legale e le mutilazioni genitali alle bambine in tenerissima età (140 milioni nel mondo) sono ancora permesse. Tra il 2004 e il 2009 nel mondo sono state uccise ogni anno 66.000 donne, una quota pari al 17% di tutte le vittime di omicidio (326.000). La maggior parte degli autori di questi omicidi sono uomini, spesso familiari e amici delle vittime. I dati mostrano che il 77% delle vittime di omicidi commessi dal coniuge o ex coniuge sono donne. Il 35% di questi omicidi sono commessi dal partner e il 17% da altri familiari. Le donne maggiormente a rischio sono quelle di età compresa tra i 35 e i 44 anni. A fronte di una generale tendenza alla diminuzione del livello degli omicidi in generale, il livello di omicidi commessi dal partner o dai familiari tende, invece, a una certa stabilità. Nel 70% dei casi le vittime contattano inizialmente le forze dell’ordine per denunciare le violenze o i servizi sociali per esporre la loro situazione. Questo è in linea con gli altri paesi europei, nei quali in media 7 femminicidi su 10 sono preceduti da violenze domestiche. L’”Indagine sul femminicidio in Italia”, eseguita e pubblicata da Casa delle donne per non subire violenza con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, rileva che: Luogo del delitto: Il 70% degli omicidi è stato commesso in una casa familiare alla vittima. Relazione con l’assassino: nel 54% dei casi la vittima aveva una qualche relazione con il suo assassino: il 31% degli assassini è rappresentato dal partner, il 23% dall’’ex partner e solo il 4% da un estraneo. Età delle vittime: le vittime sono più frequentemente di età compresa tra i 26 e i 60 anni, più precisamente il 16,53% ha tra i 26 e i 35 anni, il 22,04% tra i 36 e i 45, il 26,77% tra i 46 e i 60.

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Età degli autori dell’omicidio: essi hanno nel 31,66% dei casi un’età compresa tra i 46 e 60 anni e nel 24,16% dei casi hanno tra i 35 e i 46 anni. Movente: il 19% dei femminicidi avviene in seguito a una separazione, il 10% avviene a causa della gelosia e il 12% per un raptus. Violenze domestiche subite precedentemente: nel 25,19% dei casi sono riscontrabili casi di violenza precedenti e nel 2,36% dei casi addirittura precedenti di omicidio o tentato omicidio. Tuttavia, nel 50% dei casi questa informazione non è reperibile a causa della reticenza diffusa di denunciare questi casi. Zona del delitto: il 50,41% dei delitti avviene nel nord Italia, il 20,66% nel Centro Italia, il 19% nel Sud Italia e il 9,91% nelle Isole. La prevalenza di questi omicidi nel Nord Italia si concilia con una maggiore emancipazione delle donne. In occasione della sua visita in Italia, l’UN Special Rapporteur on violence against women, parlando del caso italiano, ha sottolineato come la violenza domestica è la più pervasiva forma di violenza che colpisce le donne italiane, comprendendo il 70-87% dei casi. Negli ultimi 5 anni il 10% dei femminicidi è stato commesso a causa di malattie mentali e meno del 10% a causa di difficoltà economiche. Fonti: - When Victim is a Woman, in The Geneva declaration on Armed Violence and Development, 2011; - Small Arms Survey, Feminicide: A Global problem, February 2012; - UNODC (united Nations Office on Drugs and Crime), Women and Intimate Partner/FamilyRelated Homicide, inGlobal Study on Homicide, 2011; - Report on the Special Repporteur on Violence Against Women, Its Causes and Consequences, Rashida Manjoo, 23 Amy 2012; - Report of the Special Repporteur on Violence Against Women, Its Causes and Consequences on her mission to Italy, 15 -26 January 2012; - Casa delle donne per non subire violenza e regione Emilia Romagna, Indagine sul femminicidio in Italia, 2011.

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Adulti 0 Bambini 10 di Emanuela Marguccio insegnante di Jesi (AN) Non potendo partecipare al seminario per motivi di lavoro, ho deciso di inviare questo breve contributo per mostrare il mio interesse e la mia vicinanza all’iniziativa promossa dalla sen. Serafini e da LibeRe. Nel leggere la bozza del ddl 3390 ho condiviso profondamente la ratio che ha ispirato il testo come cittadina, mamma, donna e ritengo che la proposta si avvalga di mezzi efficaci per difendere la dignità femminile in tutti i suoi aspetti. Sono convinta che sia necessario inaugurare “una nuova stagione delle relazioni” promuovendo un cambiamento culturale atto ad eliminare alla radice la discriminazione di genere anche attraverso mirati percorsi educativi ed informativi finalizzati a valorizzare la pari dignità sociale tra uomo e donna. Ritengo fondamentale pensare a programmi scolastici che, insieme ad una ritrovata attenzione per lo sviluppo del senso critico, contemplino la tematica in oggetto calibrando i contenuti in base all’età dei destinatari. Sono infatti convinta che si debba ripartire dall’educazione dei più giovani per rieducare gli adulti . Concludo con un brano tratto da G. Quarzo, Tutti amici, I quaderni della scuola, Ed. Coccole e Caccole, 2012 “(…) Prima non ho detto che rischiavo di passare le ricreazioni con le femmine, non è che volevo dire che con le femmine non si può giocare. Non sono mica tutte come Cristina. Claudia Valente, per esempio (…) è capace di giocare a calcio come un maschio o anche di passare metà mattinata a pettinare le Barbie, però si capisce benissimo che si diverte di più a giocare a calcio (…). Con Claudia si parla benissimo, e non è una che si lascia mettere i piedi in testa. Una volta per esempio si è arrabbiata tantissimo con Mario Cortellazzi e Luca Soffici, due fissati con le macchine e i motori, e tutto perché lei voleva dire la sua, e Mario e Luca non la stavano ad ascoltare . Anzi, ad un certo punto Mario salta a dire: “Che cosa vuoi sapere tu che sei una femmina, queste sono cose da maschi!”

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Claudia ha detto che per distinguere una macchina da un’altra non c’è bisogno di essere maschi, basta avere gli occhi! Allora Luca Soffici, che fa tutto quel che dice Mario e gli sta sempre appiccicato come un cagnolino dice a Claudia: “Se sei tanto brava a distinguere le macchine, vediamo se sai dirci cinque scuderie di formula uno!” E qui Claudia si è un po’ inciampata, perché ha risposto che nelle scuderie ci stavano i cavalli e non le macchine. Gli altri due si sono messi a ridere. “Vedi che non sai niente?” dicevano. E poi hanno fatto il coretto: “Non sai niente! Non sai niente! Non sai niente!” Io li avrei strozzati volentieri, ma Claudia non è mica una che si lascia intimidire. E allora voi spiegatemi, come è fatto una lambretta? Che motore ha? Quanti chilometri fa? Luca e Mario si sono guardati. “Una lambretta?” –ha detto Mario. “E che roba è?” E Claudia: “Mio nonno ha una lambretta, fa i cento all’ora, è un pezzo raro, lui dice che è un pezzo di storia dei motori, in salita è una scheggia, e in tutto il mondo ce ne sono rimaste pochissime. Informatevi, ignoranti!” La discussione è finita lì, ma prima che finisse l’intervallo, ho visto che Claudia si avvicinava con aria indifferente alla lavagna, e quando siamo rientrati tutti in classe, sulla lavagna c’era una grande scritta: GARA MOTORI: MASCHI 0 – FEMMINE 1”. … esempio di come una cultura che continua a essere contaminata da una discriminazione di genere che cerca di corrodere anche il mondo dei più giovani attraverso esempi poco edificanti di adulti che sminuiscono l’altro per sentirsi forti non capendo la ricchezza che offre la diversità, possa essere sfatata proprio dalla disarmante semplicità dei bambini. Adulti 0 Bambini 10

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Attingere problematicamente dalla nostra storia politica di donne di Annalisa Marino presidenza dell’A.F.F.I. “Associazione Federativa Femminista Internazionale” Il seminario sul femminicidio dell’8 novembre, così intenso e partecipato, ha messo in luce la volontà di fare sintesi su quanto ragionato e dibattuto a livello internazionale e determinare sinergie ad ampio raggio e sistemi articolati di intervento per contrastare tale fenomeno. A distanza di alcuni giorni dall’incontro è opportuno, a mio avviso, entrare nel merito del ddl 3390, occasione dell’evento che, seppure in fase di aggiornamento, offre alcuni spunti di riflessione e stimola ad una sorta di interpunzione con l’articolato. Il ddl 3390 ha diverse cifre qualificanti, come, ad esempio, la definizione della violenza domestica come fenomeno strutturale, e non di natura passionale, l’estensione dell’aggravante per discriminazione, previsto dalla legge Mancino, anche per le discriminazioni di genere, l’individuazione di forme di tutela lavorativa e previdenziale per le donne, la predisposizione di corsi di formazione per il personale addetto a recepire le denunce e, non da ultimo, la necessità di un coordinamento tra istituzioni e associazioni di volontariato, rispecchiando così una tendenza di questa nuova stagione politica delle donne, espressa anche dalla convenzione No more, contro la violenza maschile sulle donne - femminicidio promossa su tutto il territorio nazionale dall’Udi, Unione Donne in Italia, insieme con la Casa Internazionale delle Donne, le Donne in Rete contro la violenza ed altre associazioni. In nome dell’apertura ad un confronto ampio sul tema, espressa anche nel corso del seminario, si suggeriscono pertanto alcune integrazioni che rendono, a mio avviso, ancora più ampio e articolato lo spazio di manovra consentito da questo disegno di legge. L’art. 4 del ddl, per esempio, pone giustamente il problema di un cambiamento di mentalità a partire dalla normatività delle immagini nei media “l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e il Ministro per le pari opportunità promuovono l'adozione, da parte del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e degli operatori radiofonici, di un codice di deontologia denominato “Codice dei media per la promozione della soggettività femminile”. Tale codice impegna a non rappresentare la donna come oggetto sessuale, a non diffondere comunicazioni che associno il sesso alla violenza, e a sensibilizzare l’opinione pubblica in merito al significato e contenuto del concetto di uguaglianza e pari dignità dei generi, nonché in merito alla violenza di genere come fenomeno sociale. Si propone di aggiungere a violenza il termine “dominanza” o “dominio” al fine di non presentare la dimensione sessuale come un terreno di gioco o competizione che vede di volta in volta vincere chi ha più potere (sociale, economico, fisico, seduttivo, ecc.). L’art 14, comma b) propone di “predisporre progetti di uscita dalla violenza mediante una relazione tra donne che renda ogni singola donna protagonista di un percorso autonomo. Si suggerisce di aggiungere al termine relazione, “spazi di confronto, riconfigurando in questo senso anche i consultori“ oggetto in passato di un’ampia azione politica da parte del movimento delle donne, perché fossero un’espressione strutturata e mirata delle loro istanze e in grado, ancor di più oggi, di diventare luoghi di monitoraggio anche indiretto del benessere psicofisico delle donne e di prevenzione o individuazione di eventuali lesioni o sofferenze dovute a forme di violenza domestica, specie su donne meno abituate, attrezzate o disponibili a confrontarsi con altre istituzioni.

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Sempre nell’art. 14, comma d) laddove si parla di “favorire e promuovere interventi di rete, sia con l’insieme delle istituzioni, associazioni, organizzazioni, enti pubblici e privati, sia con l’insieme delle competenze e delle figure professionali, al fine di offrire le differenti risposte, in merito alle diverse tipologie di violenza, ai danni inferti e a come essi agiscono sulle singole donne, siano esse cittadine italiane o straniere”. Si suggerisce di allargare esplicitamente l’approccio sistemico anche alle associazioni “politiche” di donne, specificando la necessità di un’azione e di un’interlocuzione integrata che sia anche “politica”, affinché si modifichino le condizioni “strutturali” che contrastano il femminicidio, tramite l’affermazione della dignità delle donne, la promozione dell’autonomia e la creazione sistematica ed organizzata dei presupposti per una nuova, forte identità femminile, anche nella dimensione sociale e pubblica. L’inclusione non occasionale, ma sistematica e strutturata, di associazioni di donne, giustamente contemplata in questo ddl, oltre che costituire un supporto funzionale “mirato”, va sviluppata e riletta, a mio avviso, anche nella sua valenza e potenzialità politica: è stato opportunamente ricordato infatti come la legge contro la violenza sessuale n.66 del 1996 sia stata un momento alto di relazioni tra donne, ma occorre sottolineare che è stato lo slancio, avviatosi fin dal 1979, di iniziative ed analisi di donne politicamente organizzate per la raccolta delle firme per la presentazione di una legge di iniziativa popolare, a fare in modo che la nozione di violenza sessuale, intesa come reato contro la persona e non contro il pudore, diventasse senso comune e diffuso, (riducendo significativamente il senso di colpevolizzazione e vergogna che spesso opprimeva la vittima e ne ostacolava la denuncia) ben prima della promulgazione della legge stessa. Anche a proposito della recrudescenza del femminicidio occorre attingere problematicamente, dalla nostra storia politica di donne, pratiche e chiavi di lettura che contribuiscano a leggere questo fenomeno non come conseguenza, ma come interfaccia di un radicale cambiamento che ci riguarda tutti, di cui occorre sviluppare gli aspetti positivi per le donne, sollecitando nel contempo tutti a ragionare sulla nuova configurazione oggi assunta dal rapporto di coppia e lavorando insieme per promuovere una nuova civiltà delle relazioni tra uomini e donne.

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Quando le donne non raccontano i maltrattamenti di Edda Samory presidente CNOAS Il maltrattamento della donna è un problema che investe sempre più la società e richiede alla nostra professione attenzione e adeguata preparazione. Ci si deve preparare per cogliere nell’attività professionale sintomi spesso latenti, indicazioni sommerse di pericolo che sono premesse al disagio che viene presentato e che vanno connessi alla situazione quale avvio di maltrattamenti o abusi . Secondo studi condotti dall’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) il maltrattamento alle donne ha assunto dimensioni preoccupanti. Sempre più donne subirebbero violenza di ogni tipo, e senza denunciarla. Le motivazioni di questa resistenza non sempre appaiono comprensibili alla luce degli strumenti che noi possediamo o di quelli legali, psicologici, medici ed economici offerti alle donne che si trovano in situazioni maltrattanti. Anche nella nostra esperienza spesso ci si chiede perché le donne non denuncino la violenza subita. Uno degli atteggiamenti che compare frequentemente e che evidenzia le difficoltà dello stato d’animo è quello che vede la donna maltrattata negare i fatti. Le donne negano di essere vittime di violenza, giustificano il comportamento del partner con le scuse più diverse. Il maltrattamento della donna che porta frequentemente al femminicidio, trova nel Servizio Sociale Professionale, nell’azione professionale dell’Assistente Sociale attenzione studiando il contesto familiare nella considerazione che quando il contesto di vita della donna richiede interventi per risolvere problemi e bisogni concreti, può avere a monte condizioni di maltrattamento. La donna sia essa spesso madre o moglie chiede infatti aiuto per compensare carenze economiche, per ricevere indicazioni che comportino interventi che non la coinvolgano nel dare mezzi e risorse per coprire i bisogni del vivere quotidiano. Il maltrattamento non viene presentato come problema e non appare quasi mai come tema centrale della richiesta di intervento professionale, anche quando è il problema di base. Il maltrattamento può apparire all’improvviso nel pieno svolgimento dell’azione di aiuto e rappresentare il nodo che incrocia le possibilità di dare alla donna veramente l’aiuto di cui ha effettivamente bisogno. Pertanto l’intervento professionale anche quando la richiesta è di carattere concreto deve mettere in grado l’interessata di valutare la sua situazione complessiva, di maturare la responsabilità di agire e di condurre la situazione nel suo insieme. Quando nel disagio vi è maltrattamento il percorso di aiuto diventa pertanto complesso e difficile. Il processo di aiuto professionale vede l’Assistente Sociale cogliere il maltrattamento della donna prevalentemente: - nel corso di colloqui dove essa chiede aiuto per difficoltà famigliari; - nel trattamento di casi problematici di genitorialità; - nell’approfondimento di disagi lavorativi; - nello studio di situazioni di inserimento al lavoro; - nell’accompagnamento in progetto di inserimento sociale; - nella presentazione di domande dirette di aiuto tese a definire il fare su problemi diversi;

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nell’affrontare valutazioni sociali / diagnosi sociali in lavori d’ equipe multidisciplinari.

L’Assistente Sociale studia la situazione e opera secondo la seguente sequenza: - presentazione della valutazione /diagnosi sociale del problema posto; - discussione della valutazione con l’interessata; - responsabilizzazione della persona/donna; - individuazione con essa delle possibili risorse; - maturazione dell’interessata delle decisioni da prendere; - definizione con l’interessata del percorso di aiuto; - evidenziazione di eventuali interventi specialistici; - scelta nei casi necessari di una istituzione che possa dare ospitalità. Il tema del maltrattamento che può portare al femminicidio trova gli Assistenti Sociali schierati sul versante della prevenzione e nell’impegno per il reinserimento sociale della persona. La prevenzione è la funzione principale attribuita dal legislatore nel profilo della professione nella legge sullo stato giuridico perciò i fenomeni di maltrattamento devono vederci impegnati in azioni di promozione sociale, e devono trovare la professione preparata e predisposta a informare ascoltare sostenere tutti i cittadini siano ed in particolare impegnata al fianco di coloro che vivono stati di gravi difficoltà sociali.

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Una violenza senza fine di Mariarosa Caporali coordinatrice Donne PD Sesto San Giovanni Un’altra mattanza si è compiuta e un’altra vita è stata sacrificata. Non è possibile che ogni due giorni nel nostro paese, non importa la latitudine, si assista a scene e a notizie così crudeli e devastanti come l’uccisione di ragazze, donne che hanno detto “no” al proprio partner, all’ex ragazzo o marito. Non è credibile, non è civile, non è umano! Le storie che si riportano in questi contesti sono, per lo più, sempre uguali e proprio su questa specie di “drammatica uguaglianza” vorrei iniziare la mia breve riflessione. Cosa c’è di uguale alla base di queste storie “maledette”? la risposta che mi sono data e che è arrivata quasi in sovrapposizione alla dichiarazione della madre dell’ultimo femminicida di Palermo è la seguente: l’educazione! Una madre che dichiara, a difesa del figlio femminicida, tra lo strazio e lo smarrimento del dolore di tutti alla notizia della morte per sgozzamento di un’adolescente, nel generoso tentativo di difendere e di proteggere la sorella e il ferimento grave dell’obiettivo: “mio figlio è un bravo ragazzo” mi fa rabbrividire e riflettere su quelle due parole – bravo ragazzoAllora, per proprietà transitiva, sono tutti “bravi ragazzi” tutti quegli uomini che si sono macchiati di femminicidio in tutti questi anni e di conseguenza le morte erano forse “cattive ragazze?” E’ crudele questa riflessione, lo so, ma è da qui che vorrei partire, da come le donne, le madri in questo paese educano i figli maschi e femmine, di come ad un modello educativo che deve avere come finalità il rispetto, la tolleranza e la capacità di reggere ai “no” ci si ispiri ad un modello “narcisistico”, egosistico ed individualistico che fa dire in qualsiasi momento, anche dopo una strage “ mio figlio è un bravo ragazzo”. Riflettiamo quindi non solo noi donne ma tutti insieme, poiché proprio dall’impostazione educativa dei primi anni di vita e durante il periodo adolescenziale si possono porre in evidenza e correggere modelli familiari pericolosi, potenzialmente reiterabili, atteggiamenti e patologie latenti, quindi occorre avere gli strumenti per fare ciò, e nel fare ciò coinvolgere anche le famiglie. Strumenti che sono la prevenzione, l’educazione al sentimento e soprattutto il rispetto della vita, delle persone: delle altre/degli altri che nasce dal valore della libertà, dal rispetto dei

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corpi e delle scelte di chi, soprattutto donna, dice “no” ad una storia d’amore, dice “no” a sentimenti che si assopiscono. Per questo va assolutamente posta in atto una seria prevenzione e un recupero : vanno potenziati i Centri anti violenza con adeguati finanziamenti perché questa è una emergenza esattamente e drammaticamente paragonabile alle morti sul lavoro. Il fenomeno è così grave che occorre che anche nella Scuola ci siano momenti di educazione al rispetto dei sentimenti delle persone femmine e maschi. Proprio per questa emergenza il Governo dovrebbe dare ai Comuni che già hanno sul loro territorio centri di ascolto e di intervento, come a Sesto San Giovanni un finanziamento speciale ad “hoc” proprio per affrontare questa drammatica condizione di pericolo di vita in cui si trovano le donne. Non posso pensare che una diciassettenne è morta, una diciottenne è in pericolo di vita e un ventitreenne ha l’esistenza segnata per sempre per questo scellerato e infame gesto. Un paese che non reagisce con segnali forti è un paese che ha perso i valori etici e morali della convivenza civile e sociale. E’ un paese povero o meglio impoverito che non ascolta e non trae vantaggio ed ispirazione dai principi nobili che sono alla base della nostra Costituzione. Chiedo, a gran voce, che la nostra Regione che ha approvato la legge, grazie al lavoro instancabile fatto da Sara Valmaggi e dalle altre consigliere regionali, finanzi al più presto i Centri antiviolenza e le strutture che si occupano di questo specifico settore e che si punti ad educare anche i potenziali soggetti a rischio, infine che si dia alle donne con opportune istruzioni, la possibilità di “leggere” in anticipo quali possono essere i segnali di una possibile violenza per prevenire e per ridurre la probabilità di finire uccise. Abbiamo bisogno che questi efferati delitti vengano chiamati con il loro nome “ femminicidi” e a tal proposito voglio ricordare l’iniziativa dell’Associazione LibeRe ( Libertà e Responsabilità) che vede aderire molte deputate e senatrici del nostro partito, tra cui Fiorenza Bassoli, che si pone la finalità di porre un limite a questo drammatico fenomeno. Riporto sintetizzato in ‘4P' la proposta del disegno di legge: prevenire, promuovere, proteggere e punire". Di questo hanno bisogno le cittadine e i cittadini onesti , di avere vicino le Istituzioni quando si presentano problemi e si individuano possibili efficaci soluzioni che necessitano di investimenti il cui fine è il rispetto e la tutela delle vite umane, Bene Comune!

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Un crimine la cui ragion d'essere non può attribuirsi alle donne di Maria Pia Fizzano assemblea regionale Marche Il richiamo dell'ONU al Governo italiano non lascia spazio a dubbi: nel nostro Paese c'è ancora molto da fare per contrastare ogni forma di discriminazione e violenza ai danni della donna 'in quanto tale'. Il Rapporto tematico annuale sugli omicidi basati sul genere, presentato nel giugno scorso dalla Relatrice Speciale ONU Rashida Manjoo, chiarisce che “femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne” poiché non si tratta di “isolati incidenti che arrivano in maniera inaspettata e immediata, ma sono l’ultimo efferato atto di violenza che pone fine a una serie di violenze continuative nel tempo”, fisiche e psicologiche, oggi note come femminicidio. “Il mio report”, ha osservato la funzionaria ONU sulla scorta della sua missione conoscitiva di gennaio 2012, la prima del genere in Italia, “sottolinea la questione della responsabilità dello Stato” analizzando “l’impunità e l’aspetto della violenza istituzionale in merito agli omicidi di donne, causati da azioni o omissioni dello Stato”, risultato inadempiente sia sul lato della prevenzione che dal punto di vista della protezione delle vittime e della punizione dei colpevoli. Le raccomandazioni che il governo italiano dovrebbe recepire sono molte: da una legge specifica contro la violenza sulle donne, a una struttura governativa che tratti solo la parità e la violenza; da finanziamenti per nuove case-rifugio e centri antiviolenza alla ratifica della Convenzione di Istanbul per la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la condanna dei colpevoli che l’Italia avrebbe dovuto firmare ad aprile. Potremmo aggiungere che riterremmo indispensabile investire in un programma lieve ma efficace di comunicazione 'ad hoc' in grado di implementare la crescita culturale e psicologica di uomini e donne su questi temi, per favorire l'acquisizione di nuove consapevolezze e il superamento di aberranti suggestioni. Per quanto a noi appaia mostruoso non dobbiamo dimenticare che reati di questo tipo rischiano di mantenere in molti casi una propria istintuale dignità: basti pensare che in tempi non lontani le pene venivano notevolmente attenuate se l'omicidio apparteneva alla fattispecie giuridica di 'delitto d'onore'. Ancora oggi non è facile per una donna denunciare le violenze fisiche o psicologiche subìte nella sfera familiare, un campo dove la legge stessa sembra spesso aver timore ad entrare. Il disegno di legge 3390, in dirittura d'arrivo, va sicuramente nella giusta direzione. Unica accortezza, oltre alla opportunità di implementare una campagna di comunicazione mirata, crediamo possa essere il non cadere neanche per un istante nella trappola delle suggestioni culturali cui si è appena fatto riferimento. Nel dibattito in Senato del 20 settembre scorso, ad esempio, una senatrice che stimiamo non sembra dar peso alla necessità di rifiutare senza esitazioni queste contraddizioni culturali mentre interviene sulla violenza da interpretare nella sua biunivocità in chiave sistemica, poiché “è piuttosto una nuova risposta a cambiamenti introdotti dalle donne.” Questa chiave di lettura ci sembra aprire un varco psicologico che implica ineludibili responsabilità femminili: non sentiamo di poterla condividere.

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Non vorremmo mai piĂš dover rispondere a chi sussurra giudizi raccapriccianti a carico delle donne e delle loro scelte autonome, come quando qualcuno arriva ancora oggi ad affermare che certe ragazze in minigonna la violenza 'se la sono cercata'. In conclusione si ritiene auspicabile, riteniamo, una maggiore fermezza nell'attribuire esclusivamente all'arretratezza culturale e psicologica di persone e comunitĂ il fardello greve delle responsabilitĂ in campo, tenendone conto anche in fase di stesura definitiva del disegno di legge.

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Violenza domestica e stalking di Paola Gifuni responsabile ambiente per i sette comuni Versiliesi Spesso ci soffermiamo ad analizzare come forma di violenza sulle donne il solo abuso sessuale, mentre bisognerebbe scrutare dal buco della serratura di molte case per renderci conto che esiste un sopruso meno evidente della ferita fisica, ma non per questo meno doloroso: quello mentale. Pensiamo a riguardo a quante donne, madri, mogli e per le più fortunate, anche lavoratrici, subiscono abusi psicologici ogni giorno dai loro compagni-conviventi. La donna oggi, non solo si sente oppressa dalle numerose incombenze quotidiane, ma una volta madre, oltre a dover pensare a casa e marito, deve essere brava da sola a superare anche il senso di colpa e di angoscia che la assale quando il neonato ha pochi mesi e lei è costretta a riprendere il suo iter lavorativo. Se contrariamente, decide di non farlo, si sente altresì fallita per aver perso comunque la sua identità sociale di femmina abituata a sentirsi comunque parte di un tutto, capace di pensare anche a se stessa, grazie alla produzione di un reddito, con uno stipendio del tutto minore rispetto al lavoratore maschio,che anche se non le può garantire un’indipendenza economica,quanto meno le aveva permesso di dire la sua nel rapporto di coppia. A questo stato di stress quotidiano, si insinua poi all’interno del menage, il maschilismo spregiudicato dell’uomo, il quale invece di supportare questi momenti particolarmente dolorosi della compagna, pensa di risolvere il tutto con l’equazione siccome la donna si lamenta allora il suo stato di malessere va interrotto e gestito, ”sono io l’uomo di casa!”. Di solito questo è quello che succede nella testa della maggior parte degli uomini eternamente figli, abituati a chiedere senza mai dare ad una madre, ci si comporta così a prescindere, perché è così e basta! Infatti dopo una prima fase del rapporto in cui l’uomo mette la compagna e il rapporto con questa prima di tutto, questi diviene pian piano molesto, passando infine ad essere un vero e proprio aggressore seriale, capace di influenzare la mente della donna.. Tutto quanto sopracitato è supportato da numerosi studi effettuati da un’università Canadese su richiesta di una Psicologa comportamentale la dottoressa O’Conor , la quale dopo aver parlato ed analizzato con un gruppo di esperti il comportamento di centinaia di donne che giornalmente subivano varie forme di violenza psicologica, ha potuto fornire varie tipologie di comportamenti maschili. Si passa dall’uomo “pericolosamente molesto”, che riconosce comunque un ruolo sociale alla compagna, anche se mai paritario permettendole di esprimere la propria personalità, a quello “deciso aggressivo e molestatore “che ricorda ogni giorno alla sua donna con piglio autoritario quanto sia fortunata ad averlo incontrato, perché senza di lui lei non potrebbe né vivere né nutrirsi, né creare una famiglia: la sua potenza economica e lo svantaggio di avere accanto una donna-madre, lo rendono onnipotente, lui ha completamente sottocontrollo la relazione, la donna diventa un oggetto fragile da esibire e spolverare all’evenienza sotto il suo stretto controllo, da riporre poi in un cassetto dove nessuno può vederla! Quindi siamo di fronte ad una violenza continua, perpetrata nel quotidiano, dove la donna

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subisce critiche, insulti, umiliazioni e denigrazioni che la rendono sempre più fragile e dipendente. Questi sono comportamenti tenuti da uomini insicuri che per paura di perdere la relazione affermano la loro personalità egoista e distorta. E allora cosa fare? Bisognerebbe fare secondo la mia modestissima opinione un lavoro culturale: partire dalle madri: sì proprio loro!! Queste dovrebbero insegnare ai propri figli innanzitutto a non considerarsi mai di proprietà di nessuno, ad essere liberi di esprimere la loro personalità, a confrontarsi continuamente con gli altri e le altre, senza alcuna discriminazione sessuale oltre che razziale. Alle figlie femmine invece direi di farle sentire libere anch’esse da quel peccato originale di essere nate con il solo scopo di procreare e badare ai figli e alla casa! Fuori c’e’ un mondo che ha bisogno della loro visione femminile delle cose! Vi è pur sempre la parte maschile e femminile nella natura umana, no? La donna non deve sentirsi sotto sequestro né da piccola perché veste di rosa, tra l’altro un colore che si addice anche ai maschi - perché no? oggi è di moda! - né da grande perché sequestrata dalla sua stessa prole che deve venire sempre prima di tutto e tutti. Siamo per fortuna nell’era di internet, tutto viaggia veloce! Lavoriamo tutte insieme come associazione, sentiamoci realmente LIBERE.. riscattiamoci, aiutiamo come solo noi con la dolcezza sappiamo fare a rendere questo mondo un po’ meno sporco e basato sulla logica del più forte… facciamo della nostra fragilità un dono, corriamo il rischio di essere felici! Solo così a mio avviso renderemo gli uomini diversi.

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Incidere su tutti gli aspetti di uno stato moderno di Francesca Marinaro senatrice Sono convinta che da questa mobilitazione ampia contro la violenza maschile sulle donne, può nascere il rinnovamento della politica e si può dare impulso alla creazione di un vero spazio politico europeo. Sconfiggere questo drammatico fenomeno significa incidere su tutti gli aspetti di uno stato moderno, significa, come sempre è stato nelle battaglie portate avanti dalle donne, lavorare al cambiamento generale ed al miglioramento complessivo della qualità del vivere di tutti, significa lavorare in Italia alla edificazione di un paese che deve avere come caratteristica fondativa il rispettoso riconoscimento della libertà femminile che potremmo tradurre in libere di, attivo, superando il regressivo libere da, passivo. C'è bisogno di una mutazione antropologica che deve partire dal basso e frantumare tutti quei tetti di cristallo che inchiodano le donne e gli uomini agli stereotipi che producono queste tragedie. Si tratta quindi di una battaglia a tutto campo da giocare in Italia, ma contemporaneamente in raccordo con le tante realtà che si stanno muovendo nell'Unione europea, incluse le istituzioni che la rappresentano. Per questo ho molto apprezzato l'iniziativa di Choisir che ha scelto di utilizzare metodi europei, all'insegna dello scambio, della circolarità e delle buone prassi e, voglio aggiungere, della partecipazione attiva e diretta delle cittadine e dei cittadini europei. E' ormai riconosciuto che la radice di questa moderna violenza non è riconducibile ad alcun archetipo culturale, tradizionale, religioso, ma mira alla conservazione di uno status quo che vuole le donne, in particolare in Italia, subordinate ad una cultura che non riconoscono come propria e sostanzialmente emarginate nella società civile e politica. La situazione italiana sembra essere particolarmente di retroguardia, ma occorre riflettere sulle statistiche europee che ci dicono che il femminicidio è la prima causa di morte delle donne in Europa, quindi anche in quei paesi che siamo abituate a valutare come molto più avanzati del nostro. Su questa battaglia si può costruire un forte movimento di opinione europeo che miri al confronto, alla circolarità dell'informazione ed al controllo sull'impatto effettivo delle eventuali nuove misure. La scelta di Choisir sul tema della violenza è la Spagna, che ha adottato nel 2004 una legge, considerata in generale la migliore e significativa per il suo approccio integrato ed in particolare per aver trasformato radicalmente il diritto penale, per la riorganizzazione del sistema giudiziario e per la saggia previsione di una trasformazione culturale nelle nuove generazioni, inserendo una nuova materia obbligatoria nelle scuole superiori: «l'educazione per l'uguaglianza e contro la violenza di genere» e prevedendo analogamente l'individuazione, in tutti i consigli d'istituto delle scuole di ogni ordine e grado, di un membro incaricato di fornire mezzi educativi contro la violenza di genere. In particolare la legge prevede l'apertura di Centri di accoglienza e di ricovero delle vittime di violenze con il finanziamento a carico dello Stato, in coordinamento con i

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servizi sociali e della sanità e parallelamente stabilisce che la formazione del personale dei Centri di accoglienza sia a carico dello Stato; inasprisce le sanzioni previste contro gli autori di violenze e crea giurisdizioni specializzate che prevedono in ogni sede di tribunale un giudice formato specificamente per le violenze contro le donne; le sezioni così create saranno inserite nelle Procure e nelle Corti d’Appello. La legge prevede inoltre una formazione specifica anche per gli avvocati. Sento già echeggiare la risposta, "non ci sono i soldi!". Sappiamo che ogni richiesta che abbiamo fatto per veicolare fondi (anche quelli risparmiati con la riforma delle pensioni) al fine di avviare a soluzione situazioni che pesano enormemente sulle donne è stata rifiutata e che la politica di rigore e di risanamento della finanza pubblica non lascia molti margini, vorrei quindi proporre la necessità di un programma europeo finanziato con fondi europei - almeno fino a tempi migliori - per il sostegno ai centri antiviolenza e la formazione specifica di tutte le figure che necessariamente interfacciano questa realtà. In questo senso si potrebbero convogliare sulla lotta contro la violenza maschile sulle donne anche i fondi non utilizzati dai singoli paesi ed inizialmente destinati a finanziare programmi d'azione e programmi specifici a favore delle donne, azioni positive e quant'altro. Una proposta, la mia, che può essere veicolata attraverso le istituzioni o anche direttamente attraverso il più recente strumento europeo a disposizione dei cittadini e delle cittadine e che va sotto il nome di "diritto d'iniziativa dei cittadini europei" (petizione europea). Ho utilizzato l'esempio dell'azione intrapresa da Choisir, non solo perché credo alla trasferibilità delle buone prassi, ma perché sono convinta che questa battaglia, questo seminario, la giornata del 25 novembre, la campagna di Senonoraquando, la mobilitazione della CGIL, la Convenzione No more abbiano bisogno di essere coniugate con la fine dell'isolamento nazionale, della solitudine delle donne e dei movimenti. Non più sole. Da ultimo voglio aggiungere, a titolo informativo, ma non solo, che tra qualche settimana, su nostra richiesta potrà essere calendarizzata la ratifica della Convenzione di Istanbul in commissione Affari esteri del Senato, sappiamo però che difficilmente ci potrà essere un voto unanime a causa dei riferimenti all'eventuale interruzione di gravidanza. Anche per questo, per superare i lacci e lacciuoli che ci impediscono di essere uno Stato pienamente laico, abbiamo, noi più di altri, bisogno della realtà europea e di restare saldamente agganciate alla fonte primaria del diritto.

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La violenza nei confronti delle donne di Maria Rita Parsi Presidente di Movimento Bambino

Nell’introduzione alla Dichiarazione sull’eliminazione delle violenze di genere, emanata dalle Nazioni Unite nel 1993, il primo articolo descrive la violenza contro le donne come “qualsiasi atto che, per motivi di genere, provochi o possa verosimilmente provocare un danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata”. Uno dei problemi che ruota attorno alla violenza contro le donne e le bambine – le sole capaci, come diceva il Mahatma Gandhi, “di soffrire e di gioire in un modo così puro e nobile” – è che in molti Paesi essa è giustificata se non addirittura legittimata. Parlare di violenza sulle donne significa indagare una serie di forme di abuso – che variano in rapporto ai contesti culturali – tra le quali, le più comuni, sono perpetrate dal marito o dal partner. Sei donne su dieci, in tutto il mondo, hanno subito aggressione sessuale nel corso della loro vita. La violenza domestica interessa oltre seicento milioni di donne. Nel mondo, oltre 60 milioni di bambine vengono costrette a sposarsi; sono tra i 100 e i 140 milioni le donne che hanno subito mutilazioni genitali; mancano all'appello, in tutto il mondo, 100 milioni di bambine vittime della pratica dell'aborto selettivo; almeno 600 mila donne, ogni anno, sono nel mirino delle tratte a sfondo sessuale. L’aborto selettivo, l’infanticidio, le mutilazioni genitali, i delitti d’onore, i matrimoni obbligati, il traffico delle donne, le molestie sessuali, gli stupri – che in alcune zone del mondo diventano perfino stupri di massa e stupri etnici – sono alcune tra le ferite più profonde quotidianamente inflitte all’anima del mondo, passando per il corpo delle donne e delle bambine, rese vittime silenziose ed invisibili. Per un interessante approfondimento si segnala un testo di Letizia Magnani tratto dal suo libro “ Le donne esistono”

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Femminicidio: parola e segno di Sandra Piperno psicoterapeuta a indirizzo psicoanalitico Scrivere o parlare sulla violenza contro le donne dopo che i fatti sono accaduti, cioè, dopo che tutto ciò si è trasformato in dolorosa esperienza, fa pensare in prima istanza alla difficoltà e alla complessità di costruire un percorso che si muova su vari livelli e che sia pregnante e capace di cambiare lo stato delle cose. Mi fa pensare anche ad un dopo senza più speranza e senza protezione se noi donne per un verso e spero anche gli uomini non costruiremo un nuovo sapere che possa modificare “il modo di insegnare e di dire in modo d'apprendere e di vedere” per dirla con M. Foucault (“Nascita della clinica” ). Non bisogna sottovalutare il dramma che questa continua violenza contiene e che sappiamo essere la prima causa di morte delle donne in tutta Europa (soprattutto in Italia, la definirei una tragedia nazionale) e nel mondo. E' urgente e necessario continuare ad esserci per poter realizzare un programma che si muova in diversi ambiti e che soprattutto metta in primo piano il pensiero. Il cambiamento può avvenire se comprendiamo che oltre “all'esterno”, al contenitore, cioè il fatto che accade, prendiamo in considerazione e analizziamo anche ciò che sta dentro, il contenuto, dunque anche il pensiero e ciò che il pensiero contiene, quindi le cause profonde. Prima di tutto è importante capire per poter creare un intervento che non sia parziale, temporaneo e non riparatore di modalità ostili, culturalmente involutive e cronicizzate, ma pensare ad un cambiamento che contenga vari aspetti: formativo, legislativo, culturale e soprattutto che smuova dal profondo la società, che sia di forte impatto. Un'educazione del cittadino verso il riconoscimento dei bisogni e dei problemi. Di fatto la non consapevolezza e la negazione degli stessi porta ad una falsa conoscenza di sé e delle proprie problematiche e quindi ad un'impossibilità di una sana integrazione sociale e soprattutto verso modalità più armoniche di relazione. Quindi un intervento che non solo possa arginare il femminicidio, ma possa cominciare a modificare il modo di essere e di porsi di fronte al significato della relazione, non bastano pene molto severe contro chi uccide, bisogna che non accada più. Un riferimento importante è il disegno di legge 3390 “Norme per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio”, presentata dalla Senatrice Anna Serafini e altri esponenti del PD, che ha un approccio multidisciplinare e soprattutto preventivo senza il quale non può esserci un cambiamento. Diversamente alcune rappresentanti del centro destra puntano solo all'aumento delle pene senza perciò contemplare quegli ambiti culturali e formativi che portano ad una trasformazione profonda assolutamente necessaria. Continuare a lasciare il segno oltre che la parola, di fatto gli uomini che uccidono le donne lasciano segni, annientano, eliminano, perpetuano una strage. Farsi ascoltare, appunto lasciare segni, altrimenti se questo non diventa un obiettivo primario, nessuno ascolta, o pochi e “la parola” muore non arriva a destinazione, non va altrove, ma rimane soffocata, ritorna dentro chi subisce e genera altro dolore quindi non c'è elaborazione, né pensiero, né azione e non si crea speranza. Se l'informazione è frammentata, parziale e fuorviante, la violenza assume altri significati, non certo comprensibili nell'area del cambiamento. Come spesso abbiamo letto e sentito avviene che : lo stupro diventa sesso, la violenza diventa “educare” la donna e punirla, l'eliminazione fisica, l'uccisione diventa amore, di fatto la cronaca li chiama “delitti passionali”.

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Possiamo dire che siamo di fronte ad una trasfigurazione e trasformazione della realtà, ad una raffigurazione bizzarra e delirante della donna e delle relazioni di coppia. Non si deve, oggi, abbandonare il campo, inteso, non solo come presenza continua con interventi e programmi mirati a livello internazionale, ma un campo che contenga una ridefinizione a livello culturale profondo dell'amore, del dialogare e del rispettarsi. La casa non è un luogo protetto per eccellenza, l'amore vero può esserlo, non è l'esterno che modifica le relazioni e i modi di essere, ma l'interno, cioè i sentimenti e un pensiero educativo che va verso un cambiamento profondo.

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Ad oggi sono più di cento di Sandra Zampa deputato Ad oggi sono più di cento. Uccise da chi diceva loro di amarle e per questo le voleva possedere in esclusiva, oppure non le amava più e voleva, sopprimendole, liberarsi di un peso o di un obbligo senza dare neppure una spiegazione. Cosa spinga gli uomini che ti hanno o ti dovrebbero volere bene o semplicemente rispettarti, a toglierti di torno con la violenza, non ha una spiegazione che non sia quella che ci è stata fornita dalla criminologa Diana Russel o dalla giurista Barbara Spinelli: la soppressione fisica della donna ha a che fare con la sua identità di genere. Per questo si parla di femminicidio. Tutte le società patriarcali se ne macchiano come forma di punizione per una trasgressione del ruolo che la tradizione impone alle donne. E lo usano al punto che l’omicidio da parte di ex o non ex fidanzati o mariti, o aspiranti tali, padri o fratelli è la prima causa di morte delle donne al mondo. Ogni giorno, in Europa, sette donne vengono uccise dai loro partner e in Italia, nel 2011 sono morte 127 donne, il 6,7% in più rispetto al 2010. Di questi omicidi, 7 su 10 sono avvenuti dopo maltrattamenti o forme di violenza fisica o psicologica. Rashida Manjoo, relatore speciale sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite, ha visitato il nostro Paese lo scorso gennaio su invito del governo. Questo è parte di ciò che ha dichiarato: “Purtroppo, la maggioranza delle manifestazioni di violenza non è denunciata perché le vittime vivono in un contesto culturale maschilista dove la violenza in casa non è sempre percepita come un crimine, dove le vittime sono economicamente dipendenti dai responsabili della violenza. Persiste la percezione che le risposte fornite dallo Stato non siano appropriate e di protezione. Inoltre il mio report sottolinea la questione della responsabilità dello Stato nella risposta data al contrasto della violenza, si analizza l’impunità e l’aspetto della violenza istituzionale in merito agli omicidi di donne causati da azioni o omissioni dello Stato. Il femminicidio è un crimine di Stato, tollerato dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita. In Italia, sono stati fatti sforzi da parte del Governo, attraverso l’adozione di leggi e politiche, incluso il Piano di Azione Nazionale contro la violenza, questi risultati non hanno però portato ad una diminuzione di femminicidi e non sono stati tradotti in un miglioramento della condizione di vita delle donne e delle bambine”. I centri anti violenza, le reti di ascolto e di soccorso sono pochi, e anche in questo caso la loro diffusione è geograficamente discriminante. Le risorse sono sempre meno mentre la violenza omicida contro le donne aumenta di anno in anno. Non c’è uno sforzo sufficiente a monitorare il fenomeno nella sua dimensione nazionale. Raccoglie i dati, in modo benemerito, la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna che dal 2005 li censisce a partire dalle notizie di stampa. Il 25 novembre, ci ritroviamo a ricordare le vittime, a denunciare il fenomeno ma non basta. Dobbiamo pretendere che si faccia di più. Dobbiamo occuparci, per esempio, delle donne vittime di tratta che finiscono nei CIE perché hanno paura a denunciare: d’essere massacrate loro o di vedere uccisi i propri familiari rimasti a casa nei loro paesi di provenienza. Non è vero che per loro non si può fare nulla. Si può e si deve fare di più: devono potere accedere ai CIE giuriste e mediatrici che aiutino le recluse a comprendere che possono essere aiutate. Dobbiamo fare di più per le donne che sono costrette alla prostituzione e che, quando tentano

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di sottrarsi al mercato delle loro stesse vite, vengono uccise in modo esemplare. Mai dimenticherò la testimonianza che una di loro ha portato alla Commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza di cui faccio parte in occasione di un’indagine conoscitiva sulla prostituzione minorile: il racconto dell’uccisione di una di loro fu spaventosamente drammatico. Dobbiamo fare di più per le nostre figlie e nipoti: devono sapere di non sottovalutare un solo segnale. Nessuno schiaffo è dato per amore o passione. Per questa ragione, film come quello realizzato da Liliana Cavani, che pare un pugno nello stomaco per la crudezza del racconto, vanno ampiamente fatti conoscere più e più volte e il servizio pubblico radiotelevisivo ha l’obbligo di procedere in questa direzione. Occorre fare di più a scuola insegnando a maschi e femmine la bellezza e la generosità dell’amore. Ma ci sono anche sperimentazioni utili ed efficaci come quella condotta da una Fondazione privata che ha investito circa 500mila euro per mettere a punto e diffondere un dispositivo anti stalking con l’obiettivo di fornirlo a 2000 donne già vittima del fenomeno. Sperimentazioni che si arenano sull’incapacità o l’insensibilità del sistema pubblico incapace di recepirle. Ciò accade nonostante il successo della sperimentazione fatta a Roma dove, in poco più di 12 mesi, il dispositivo fornito a 36 donne “a rischio” ha inviato più di 40 richieste di aiuto tra le quali 16 hanno determinato risolutivi e diretti interventi delle forze dell’ordine attraverso la volante. Sarebbe sufficiente realizzare un’efficace integrazione tra il numero di pubblica utilità “1522” di recente riprogettato dal Ministero per il lavoro e le politiche sociali e il dispositivo messo a disposizione gratuitamente dalla Fondazione per mettere in maggiore sicurezza 2000 donne. In situazioni come quella che conosciamo non si può sottovalutare nulla. Nulla deve essere lasciato intentato. Ciò vale anche per Convenzione di Istanbul, siglata l’11 maggio del 2011 in Turchia, e che rappresenta il trattato internazionale più importante per affrontare il fenomeno. Tra i suoi principali obiettivi ha la prevenzione della violenza contro le donne, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori. La Convenzione mira inoltre “a promuovere l’eliminazione delle discriminazioni per raggiungere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini”. Ma l’aspetto più innovativo del testo è senz’altro rappresentato dal fatto che la Convenzione riconosce la violenza sulle donne come una “violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione”. Il nostro Paese ha firmato la Convenzione ma attendiamo ancora che sia ratificata con rapidità. La ratifica da parte dell’Italia rappresenterebbe un esempio anche per gli altri paesi: per far entrare infatti in vigore la Convenzione, che ha ricevuto sinora 23 firme (con quella italiana) e una sola ratifica da parte della Turchia, sono necessarie almeno nove ratifiche. “La firma della Convenzione da parte dell’Italia è un importante passo avanti verso la fine della violenza sulle donne in Europa – afferma Christine Weise, presidente di Amnesty International Italia - ma perché sia efficace c’è ancora molto da fare, in primo luogo ratificarla sollecitamente”. Esigiamolo da questo Stato al quale diamo tanto ogni giorno, lavorando fuori e dentro casa. Ogni donna e uomo di questo Paese si deve sentire impegnato in azioni che sollecitino il governo italiano perché la Convenzione di Istanbul sia al più presto ratificata.

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ALTRI ARGOMENTI

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Il legame sottile tra l’altra metà del cielo e gli esseri senzienti di Silvana Amati senatrice Non credo sia un caso che nelle associazioni che si occupano di animali siano le donne a prevalere, così come mi sembra un dato di fatto che tra gli anziani siano in maggioranza le donne a godere come ultima, unica compagnia di qualche essere a quattro zampe. Vedo un legame sottile, ma indubbio tra due generi considerati storicamente deboli, donne e esseri senzienti. Non è un legame esclusivo fortunatamente, tanto che alcune buone norme si sono potute approvare anche in questa difficile legislatura per il contributo di tutti. Penso a quando nel 2010 con l’articolo 49 del decreto legislativo n.47 siamo riusciti a far introdurre bene e nei tempi dovuti la disciplina sanzionatoria per le violazioni al regolamento comunitario 1523/2007 che vieta la commercializzazione, l’importazione e l’esportazione di pellicce di cane e di gatto e di prodotti che le contengono. Si rafforzava così sul tema la normativa nazionale già prevista nell’articolo 2 della 189. Sempre nel 2010, a giugno, con la comunitaria 2009 si sono rafforzate altre norme già previste sempre nella 189 fissando sanzioni per le violazioni sul commercio dei prodotti derivati dalla foca. Poi il nuovo codice della strada che finalmente ha equiparato il diritto al soccorso all’animale ferito, il trasporto degli animali feriti con urgenza come stato di necessità e l’uso dei lampeggianti nei mezzi delle guardie zoofile che intervengano per il soccorso. Lunga l’approvazione della ratifica della convenzione delle ratifica europea per il benessere animale. Più di 9 mesi ferma al Senato fino a che non si sono emendati gli articoli che prevedevano l’abolizione delle mutilazioni come il taglio della coda, delle orecchie, delle corde vocali ed altro. Alla fine abbiamo ceduto pur di vedere approvato, 4 novembre 2010, un testo importante per la previsione di sanzioni più severe contro il traffico dei cuccioli dall’Est, pene già previste dagli articoli 544 bis e ter del codice penale. Infine a novembre di quest’ anno la riforma del codice civile attinente ai regolamenti nei condomini. Qui, all’art.1138, finalmente le nuove norme secondo le quale non si potrà più impedire ad alcuno di tenere cani o gatti in casa. Resta il percorso incompleto dell’articolo 14 della comunitaria 2011, quello relativo alla limitazione alla sperimentazione animale, argomento che pure ha mobilitato molte associazioni e l’attenzione della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Resta un lavoro lungo che prevede un cambiamento culturale nella nostra società, in tante città, nelle famiglie, per non parlare degli allevamenti dove gli animali sono considerati res, cose, ma questo non basta a consentire maltrattamenti e sfruttamento eccessivo, anche nell’interesse del fruitore finale. D’altra parte nel mondo globale mi sembra che la necessità di lavorare per un cambiamento culturale che implichi più rispetto, minor violenza, minor sfruttamento di tutte e di tutti e quindi anche degli esseri senzienti, sia cosa che certo sta nei programmi e nel cuore delle donne democratiche.

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Il caso Petraeus: perché tanti uomini in difesa del generale? di Fiorenza Bassoli senatrice Non avevo intenzione di esprimermi su questo caso, anche perché un fatto di sicurezza internazionale è stato trasformato in un fatto di gossip, ma dopo aver assistito a una trasmissione di Porta a Porta su RAI 1 e occasionalmente, a un’intervista a una radio privata di un famoso sindaco campano del PD, mi sono sentita in obbligo di farlo. A Vespa non vale forse nemmeno la pena di fare qualche appunto sui sorrisini e sottintesi che hanno costellato la sua trasmissione, ma ad un collega di partito mi sento in obbligo di polemizzare. Perché quello che traspariva da quell’intervista da parte di un uomo che aderisce a un partito che ha fatto della democrazia paritaria un importante dato fondante della sua ragione d’esistere, era un disprezzo per la moglie di Petraeus, e in quello vi ho letto un disprezzo anche per le donne in generale. Lo scherno (anche se lui pensava di essere spiritoso) verso la donna tradita, derivava essenzialmente dalla sua figura, una donna anziana, grassoccia, con gli occhiali, ma che cosa pretendeva?...... anzi diceva il sindaco in questione:....”io farò un Comitato a favore di Petraeus, ma come si fa......ma l’avete vista la moglie?” Naturalmente anche l’intervistatore rideva in onda sguaiatamente. Ma io rispondo ma l’avete visto il generale? Anche lui è anziano, anche se ha tenuto a far sapere che fa cinquanta flessioni al giorno.. di fila...ha le orecchie a sventola e con la faccia cavallina che si ritrova, non deve certo essere un gran adone. A parte le battute, intervengo non per spirito di corpo, ma perché da questa intervista ho dedotto che nonostante i tempi siano cambiati e le donne abbiano conquistato grandi obiettivi sia nel campo dell’istruzione che nel lavoro, assumendo incarichi di grande responsabilità, come nel caso della signora in questione, che dirige un importantissimo ufficio, addetto ai rapporti con le famiglie dei militari, e visto i gravi compiti

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che gli Stati Uniti hanno nel mondo, non deve essere un compito facile, però per una donna questo non conta, conta solo se è giovane e affascinante e possibilmente anche disponibile. C’è un età in cui le donne diventano “trasparenti” mentre i loro coetanei (soprattutto se hanno certe posizioni) assumono il fascino del potere, ed è normale (secondo l’opinione comune) che aspirino a conquistare giovani donne come nel caso Petraeus. La moglie invece diventa ingombrante e ridicola, sopratutto perché non più rispondente ai canoni della bellezza e dell’efficienza fisica che governano la nostra società che per le donne è indispensabile avere se si vuole essere considerate. Dovremmo infatti chiederci perché tante donne sempre più giovani si sottopongono a operazioni chirurgiche dolorose e spesso con risultati imbarazzanti, per sembrare sempre giovani o per adeguarsi a quei canoni corrispondenti ai canoni di bellezza femminile, vista con gli occhi del maschio....labbra gonfiate e seni grossi. Negli Stati Uniti questa è una questione politica molto importante perché, chi ha posizioni di comando in punti strategici, deve stare molto attento a chi frequenta e deve consentire che sia conosciuto da chi vigila sulla sicurezza nazionale; Petraeus non l’ha fatto e quindi ne dovrà rispondere anche perché la sua questione ha messo in imbarazzo Obama e rischia di trascinare il Presidente degli Stati Uniti in una “querelle” molto insidiosa circa la sua conoscenza o meno di quanto accadeva al suo generale. Da noi la discussione che si è aperta dimostra come questo Paese che è nelle ultime posizioni mondiali per quello che riguarda l’equality gender è un paese arretrato, che per la mancanza di un forte movimento di donne arretra in tutti i campi, soprattutto quello dei diritti e del rispetto delle risorse umane....anche quelle femminili.

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Donne, tv, costume, storia: una bella sintesi di Elisabetta Bolondi recensora Introdotto dallo storico Franco Cardini, concluso da una interessante intervista al nuovo direttore generale della Rai, Lorenza Lei (incredibilmente una donna!), il saggio sulle donne e la televisione che è appena stato pubblicato da Daniela Brancati, nota giornalista già direttora di un telegionale Rai, la prima in Italia ( ora c'è solo Bianca Berlinguer a dirigere tg3) è una miniera di informazioni, dati, comparazioni, tabelle, citazioni, interviste . . . ma soprattutto una piacevolissima carrellata nella storia della televisione dal 1954, quando Fulvia Colombo iniziò la programmazione della Rai dagli studi di Milano, fino ai nostri giorni, giorni bui e cupi, visto che la tv sembra ogni giorno più lontana dal gradimento del pubblico, convinto da altri mezzi tecnologici più vicini ed efficaci. Chi è coetaneo dell'autrice rivivrà nella lettura del libro l'ascesa dei suoi beniamini, rivedrà i titoli dei programmi preferiti, ricorderà momenti della propria vita legati ad un numero di ballo, ad un personaggio, ad una canzone. Tutti sono passati dalla televisione, prima monopolio in bianco e nero dell'Italia democristiana, ai tempi del benemerito/criticatisssimo Ettore Bernabei, poi, dopo il cambio politico nell'Italia degli anni 60, con la nascita del secondo canale e poi del terzo, con relativa lottizzazione dei partiti a cui tutti abbiamo assistito; ma la Brancati efficacemente ripercorre le tappe della storia del costume, della politica, della influenza religiosa del cattolicesimo e poi dei partiti politici nel nostro paese, mostrando come la televisione abbia seguito ogni evoluzione e purtroppo ogni involuzione del processo di crescita della nostra democrazia e del nostro vivere civile. Il grande spartiacque è ovviamente la nascita della televisione commerciale e l'avvento di Mediaset e del suo presidente a rompere la piatta atmosfera del conformismo democristiano ereditato anche dal successivo centrosinistra. "La guerra dei Puffi" viene raccontata come il momento di snodo per il futuro conflitto d' interesse mai risolto che sta scardinando le istituzioni del nostro paese: quando furono spente le emissioni delle reti Mediaset perché fuori della legge vigente, Berlusconi riuscì ad ottenerne la riapertura a furor di popolo, grazia anche alla protezione politica offertagli da Bettino Craxi. Il libro però è davvero interessante per l'attenzione che fin dal titolo si riserva alle donne, alle quali, tuttavia, l' autrice non fa sconti: un capitolo fondamentale del saggio si intitola "Le donne non sono innocenti", e le ragioni di tale tesi coraggiosa sono ampiamente spiegate e intelligentemente motivate. "Con quella bocca può dire ciò che vuole!" diceva in un celeberrimo Carosello il maschio di turno ad una sfolgorante giovane Virna Lisi, e questo meglio di altri esempi spiega come in tv la donna sia stata rappresentata prima come bella e scema, più tardi come valletta muta (celebri le vallette dei vari Lascia e Raddoppia, Musichiere, fino alle più recenti veline, meteorine, mute e nude!), mentre donne con personalità e grinta hanno dovuto adattarsi a stili preconfezionati: Enza Sampò ha avuto successo quando ha indossato tubino nero e capelli lunghi, venendo meno al suo più personale look maschile/sportivo. Per una Raffaella Carrà dalla personalità travolgente, molte altre hanno dovuto venire a compromessi pesanti per affermarsi sul piccolo schermo, dove anche in tempi recentissimi conta ancora solo la telegenia e l'atteggiamento fisicamente accattivante più che la credibilità

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professionale: ciò che per gli uomini non è richiesto, per le donne diventa una condizione indispensabile per accedere al video. Soprattutto, paradossalmente, in Rai: grandi professioniste come Cesara Buonamici e Lilli Gruber lavorano in tv private senza subire alcun tipo di imposizione. Dunque il saggio della Brancati si legge con interesse ed approfondisce temi apparentemente noti ma riproposti con ordine e rigore, in modo cronologico, contribuendo in modo decisivo alla comprensione delle ragioni dell'attuale involgarimento di tutto il mondo televisivo, dovuto ad una serie di ragioni di cui siamo un po' tutti, almeno in parte, colpevoli.

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Le donne della città di Gigliola Corduas presidente del Consiglio nazionale donne italiane Quante sono le strade di una città dedicate alle donne? E’ anche questo un indicatore importante per comprendere il valore che una città attribuisce alla presenza femminile e quanto ne riconosca il ruolo. Tradizionalmente nelle intitolazioni di strade, piazze, vicoli o parchi, prevalevano riferimenti alle caratteristiche fisiche di determinati luoghi (via del Porto, del Lago, del Colle, della Fontana Rotta o Secca). C’era anche il ricordo di vicende tramandate dalla tradizione (via del Perdono, della Penitenza) o il riferimento a mestieri –fondamentalmente maschili- il cui esercizio si concentrava in alcune strade. A Roma abbiamo via dei Fornai, dei Fienaroli, dei Cartari, piazza dei Mercanti, a Milano c’è il vicolo delle Lavandaie ma i riferimenti alle donne sono molto più rari, i loro mestieri, specie se praticati fuori dalle pareti domestiche, non erano sempre alla luce del sole. Più frequenti strade e piazze dedicate a sante, beate o grandi benefattrici, del resto nella toponomastica preunitaria i santi avevano molto spazio. Così abbiamo innumerevoli vie Santa Caterina o Santa Teresa, accanto a Santa Maria in innumerevoli versioni: della Pace, del Perdono, dell’Anima, in Cappella, Ausiliatrice o Consolatrice. Le cose non sono migliorate nella toponomastica postunitaria, quando un modo per rendere più visibile il nuovo Stato nazionale è stato quello di dedicare piazze e strade agli eroi del Risorgimento: quale città o piccolo paese è privo di una via o piazza Cavour, Garibaldi, Mazzini? Lo stesso è accaduto successivamente, con l’avvento della Repubblica, con vie intitolate agli eroi della Resistenza. Ma le donne hanno continuato a rimanere tenacemente nell’ombra. Qualche illustre eccezione per la madre di Mazzini Maria Drago, per Colomba Antonietti, Cristina Trivulzio Belgioioso, Eleonora Fonseca Pimentel, ma rimangono sempre una minoranza della minoranza. E’ un fatto che, complessivamente, nelle città il numero di strade che ricordano donne non supera il 4 %, con casi come Trieste dove ne abbiamo 25 su un totale di 1300 e la metà è dedicata a sante. Eppure possiamo ritenere con certezza che le donne sono sempre state oltre il 50 % della popolazione e non erano certo inattive o assenti nella convivenza civile. La loro presenza però non lascia tracce ed è difficile che siano considerate degne di memoria. E se il patrimonio onomastico delle città si è ormai esteso ampiamente con lo sviluppo urbanistico e non mancano zone dedicate a fiori, alberi, animali, stati e città, decise a tavolino senza troppe implicazioni culturali, persiste la forza di una marginalità che solo a fatica si sta cercando di riequilibrare. Perché non è solo una questione numerica ma riguarda la cultura di una città, gli aspetti simbolici e valoriali in cui ci si riconosce ed è un messaggio implicito che si trasmette alle giovani generazioni. Costruire una città a misura di donne non riguarda solo la conciliazione tra i tempi del lavoro, quelli della famiglia e dei servizi, non riguarda solo la corresponsabilità nei ruoli parentali, non basta un’educazione consapevole del fatto che si nasce maschi e femmine e si diventa uomini e donne, ma chiede anche di intervenire sul piano della cultura diffusa e di riequilibrare il panorama simbolico-culturale dello spazio urbano. La sfida è rendere alle giovani generazioni

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immagini di persone –uomini e donne- che hanno fatto scelte d’impegno civile e che hanno guadagnato un posto nell’immaginario e nel ricordo collettivo. LibeRe di rispecchiarsi nella propria città, dunque!

http://www.facebook.com/groups/292710960778847/ www.toponomasticafemminile.it

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La battaglia sacrosanta delle donne di Franca Donaggio senatrice Dall'inizio del secolo, quando si pose il problema del suffragio universale, dell'estensione del diritto di voto alle donne, successe di tutto in questo Paese, a tal punto che il regime fascista bloccò la legge Acerbo e le donne non votarono mai. Poi arrivò la guerra, poi arrivò il tempo che tutti conosciamo. Ora la discussione altro non è che la prosecuzione di quel dibattito, cioè il fatto che alle donne venisse riconosciuto un diritto elementare che era quello dell'elettorato passivo. Era una rivoluzione, in cui vennero coinvolti gli stessi partiti: penso all'appello all'estensione del diritto di voto di Anna Kuliscioff, che di questo fece un suo manifesto programmatico, andando anche in rotta di collisione con il suo compagno di allora, Turati, perché il gruppo non era assolutamente d'accordo. Bisognava infatti che le donne, ad esempio, non fossero analfabete, mentre magari il diritto di voto si poteva riconoscere ai maschi analfabeti, ma non alle donne analfabete. Ricordo, però, agli amanti delle distinzioni, delle differenze, delle discriminazioni che nell'immediato Dopoguerra non tutte le donne ebbero il diritto di voto. Le prostitute, quelle che esercitavano la professione nei bordelli di Stato, non avevano il diritto di voto e i loro figli non potevano partecipare ai concorsi per i posti nella pubblica amministrazione. Ci volle la legge Merlin per rimuovere questa discriminazione. Ci furono enormi argomentazioni a sostegno di questa tesi ma le donne non si sono arrese. Hanno sempre portato avanti l'idea che il Paese è anche un problema loro, che loro non sono semplicemente al servizio del Paese in termini di lavoro di cura ma vogliono partecipare alla gestione del potere. Poiché era troppo difficile affrontare questo tema in una legge, io e molte altre persone - mi riconosco totalmente nelle cose che diceva la Presidente del mio Gruppo - lo affrontammo nelle regole interne alle grandi organizzazioni politiche e sociali, mutuando dalla Germania un principio, che era quello delle quote. Vi risparmio la discussione sull'introduzione delle quote. Chi vi parla veniva fermata nei corridoi delle riunioni sindacali cui partecipava dai suoi colleghi maschi (non vado a casa di nessuno) che dicevano: «Ma care campagne, dovremmo andare a Casablanca per avere un posto?». Questo era il modo signorile con il quale si affrontava la discussione sulle quote. Oggi i grandi partiti e i grandi sindacati hanno regole che non sono più le quote di tutela, ma sono norme antidiscriminatorie: nessuno dei due generi può essere rappresentato in misura superiore o inferiore a una certa soglia. Siamo andati oltre la norma di tutela. Guardate bene le grandi organizzazioni: ci sono donne che dirigono la CGIL e Confindustria, cose che non si sarebbero mai pensate. Ma perché, se è vero che le donne sono riuscite ad entrare in maniera così determinata nel governo anche delle grandi organizzazioni sociali, non sono mai riuscite a scalfire la politica? È un problema che deve essere guardato in faccia. Gli uomini pian piano sono arretrati. Hanno detto: «Sono più brave a scuola. Arretriamo. Sono più brave in altri campi. Arretriamo». Si sono asserragliati in quella che io chiamo la cittadella del potere, in cui sono loro a determinare le regole. Vogliamo far capire questo: la cittadella del potere non regge più. Anche quella è destinata a crollare, perché il protagonismo delle donne, non solo di quelle della mia generazione, ma

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anche di quelle delle giovani generazioni, spazzerà via questo atteggiamento di conservazione. Oggi, infatti, le donne vogliono sentirsi cittadine a tuttotondo. Il fatto di introdurre norme che non solo promuovano ma garantiscano anche il risultato significa solo guardare in faccia il Paese: il 52 per cento del corpo elettorale è composto da donne. Se si vuole dare rappresentanza al Paese per come si è trasformato, questo 52 per cento deve avere la sua rappresentanza e la sua collocazione. Torno allora alla domanda di prima. Ma perché una donna non è mai stata neanche ipoteticamente candidata alla carica di Presidente della Repubblica, men che meno Presidente del Consiglio e neppure Presidente del Senato? Non c'è mai stata una donna Presidente del Senato. Nilde Iotti è stata presidente della Camera, proprio perché veniva da un partito in cui le donne fecero una battaglia per la rappresentanza femminile nelle più alte cariche istituzionali. Vi chiedo solo di fare uno sforzo di modernizzazione. Guardate in faccia le nuove generazioni delle donne. Oggi queste donne hanno il diritto, perché partecipano insieme con i loro compagni e con gli uomini alle trasformazioni di questo Paese, anche di rappresentarsi in proprio e non per interposta persona al governo e alle trasformazioni della nostra Repubblica.

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Dalla Sicilia un evento rivoluzionario di Maria Fasolo componente della Direzione del PD Regione Sicilia In Sicilia, dopo quattro secoli, è avvenuta una nuova Rivoluzione Copernicana. Abbiamo eletto Crocetta presidente: gay, comunista e cattolico. Per una terra considerata culturalmente retrograda è un fatto rivoluzionario. Ma chiediamoci e proviamo a spiegare come ciò sia potuto accadere nella regione famosa per il 61 a 0, dopo la bruciante sconfitta per il centrosinistra avvenuta, non secoli fa, ma nelle elezioni nazionali del Maggio 2001. Dopo le stragi del 92, i siciliani alzarono la testa e con un moto di ribellione votarono in decine di comuni sindaci progressisti. Appena sei mesi dopo, tutto fu vanificato dal travolgente successo di Forza Italia. Berlusconi stravinse perché seppe, più di noi, incarnare l’idea (falsa) del nuovo che entrava in politica, dell’uomo del fare, un po’ come oggi questa novità rischia di rappresentarla Grillo. Dopo diverse sconfitte nel 2001, il centrosinistra rimase al palo con il famoso 61 a 0. Ma non tutti ricordano, o hanno contezza, che quello non fu il peggior risultato: appena qualche mese dopo si votò per le regionali e la sconfitta fu ancora più cocente. Orlando, che era stato fino a pochi mesi prima Sindaco di Palermo, fu sconfitto da Cuffaro (Orlando 36,5%-Cuffaro 59%). Cinque anni dopo, nel 2006 il centrosinistra candidò Rita Borsellino e, nonostante una gestione “allegra” e clientelare delle risorse e, nonostante Cuffaro fosse stato rinviato a giudizio per i fatti che in seguito lo hanno portato alla rimozione dalla carica e poi all’arresto, Rita Borsellino fu sconfitta con il 41,5% e lui vinse con il 54%. Due anni dopo, nel 2008, il centrosinistra provò a vincere con Anna Finocchiaro, valutò che quella poteva essere la scelta vincente, e che in Sicilia poteva cambiare tutto: con il centrodestra piegato dallo scioglimento anticipato dell’Assemblea Siciliana e dalla condanna per mafia di Cuffaro, per la prima volta il popolo siciliano andava alle elezioni anticipate, non era mai successo dal dopoguerra in poi. Anna Finocchiaro aveva avuto in quegli anni con il governo Prodi una vetrina nazionale, pertanto non c’era momento più propizio e invece … invece fummo sconfitti lo stesso, anzi perdemmo con un divario maggiore: Lombardo che era il candidato del centrodestra stravinse con il 65% dei consensi e la Finocchiaro, nonostante la sua immagine, si fermò ad appena il 30%. Scrivo ciò, per rinfrescare la memoria a chi vuol fare finta di nulla. E per chi non riesce a fare un’analisi vera e corretta di quanto avvenuto in questi anni, affermo, inoltre, che i numeri parlano chiaro: se oggi il centrodestra non fosse stato diviso, per l’ennesima volta avremmo visto il film con un copione già conosciuto, (Musumeci al 25,73 Miccichè al 15,51) Crocetta (30,47) oggi, non sarebbe il presidente. Il forte astensionismo certamente ci ha favorito, come ci hanno favorito l’immagine “dell’uomo” Crocetta che non nasconde il suo essere gay, comunista e cattolico, dietro le ipocrisie che in questa terra imperano, e l’ immagine “del politico” Crocetta, sindaco per diversi anni di Gela, una città difficile che lui ha saputo governare bene e con un grande consenso della gente. Ma a partire da noi, dirigenti del PD, di vuole più credibilità, ci vuole più serietà e coerenza nelle scelte fatte e non si può decidere una linea politica e poi il giorno dopo rimangiarsela o, ancora peggio, tentare di delegittimarla. Il risultato per il Pd non è certo

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edificante ed, in Sicilia, a parte pochissime isole felici il partito non è decollato e, se non siamo stati travolti, ancora una volta il merito va all’intuizione del presidente del gruppo Pd all’Ars, Antonello Cracolici, che con la maggioranza dei suoi deputati, nonostante le posizioni ondivaghe del segretario Lupo e l’ avversione totale per i motivi più disparati - da quelli nobili a quelli di basso profilo - di alcuni dirigenti regionali e nazionali del partito, ha saputo tenere la barra dritta, infilandosi dentro le contraddizioni e facendo in modo che la rottura della maggioranza bulgara che aveva eletto Lombardo non si ricompattasse. Abbiamo sostenuto dall’esterno il governo tecnico di Lombardo di cui facevano parte fior di galantuomini,, da Massimo Russo al giudice Caterina Chinnici dall’ ex prefetto Giosuè Marino a Piercarmelo Russo. In questi anni si è lavorato per mantenere il centrodestra diviso, condizionando il presidente Lombardo a fare alcune scelte di rottura con il vecchio sistema di potere. Certo si poteva fare di più. La vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto con accuse pesantissime Lombardo, che però ad oggi non ha avuto neppure il rinvio a giudizio, la contrarietà dei mass-media, hanno certamente logorato e impedito, nonostante il governo tecnico, una svolta radicale. Con una regione oberata dai debiti, dove i precedenti governi avevano raschiato il barile, fare di più era una missione quasi impossibile. Oggi bisogna guardare al futuro e lavorare insieme per la Sicilia e i siciliani. Credo che Crocetta, affiancato da una buona squadra composta da persone perbene, ma anche capaci, (su ciò abbiamo già ottimi segnali: Lucia Borsellino, che oltre ad essere figlia di Paolo, è una dirigente regionale di provate capacità e il cantautore Franco Battiato che oltre ad essere un cantante è uomo di grande cultura) nonostante la grave situazione economica, potrà farcela.

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La nascita del progetto LibeRe di Viareggio di Margherita Rinaldi portavoce delle Donne Democratiche della Versilia e Emma A. Viviani dirigente presso Laboratorio Toscano di Sociologia (ANS)

Durante gli incontri delle Donne Democratiche nel quartiere centrale della città per questo chiamate “Dal molo alla Pineta” nasce l’idea e la voglia di fare esperienze concrete ed innovative nel cuore della città. Abbiamo pensato a iniziative sperimentali portate avanti dalle donne in alcune città europee ed italiane, già a partire dal 2008, e così noi provenienti da varie professionalità quindi con diverse competenze, impegnate nel campo della salute, dell’arte, della politica, del commercio, della scuola dell’associazionismo ci siamo trovate d’accordo nell’essere insoddisfatte, insofferenti e con tanti bisogni non realizzati del nostro vivere a Viareggio. Ci siamo dette come i luoghi ludici della città non abbiano spazi per le donne dove riunirsi con i figli dove passare con una carrozzina non sia un’impresa. Spazi da vivere con i nonni, rilassarsi scambiarsi libri, esprimere creatività o anche solo parlarsi di persona e non sempre solo virtualmente tramite i social network. Una volta a Viareggio ci si riuniva nelle piazze o fuori dalle case, portandosi la sedia ora questo non si fa quasi più per i tempi che sono troppo convulsi ma anche per l’incuria e la poca sicurezza dei luoghi. Certo va tenuto conto che i tempi sono cambiati ed è cambiato anche il tessuto sociale delle città e i gruppi familiari. Comunque ci rimane il bisogno di vita all’aperto, di luoghi puliti, di spazi belli e così nasce l’idea di adottare una piazza, simbolicamente una piazza che abbia una storia nella città, ci viene voglia in qualche modo di provare a riappropriarcene e di renderlo un luogo vivibile secondo le mutate esigenze. Piazza Piave assume questo nome e la sua attuale architettura nel 1923 quando furono piantati alberi intitolati ciascuno ad ogni soldato viareggino caduto nella battaglia del Piave; questo cuore verde urbano purtroppo nel tempo è andato degradandosi diventando luogo di disordine e per questo abbandonato dai viareggini. Nello stesso periodo nasce a livello Nazionale l’associazione LibeRe (Libere e Responsabili) aperta a tutte e con obiettivi che coincidono con le nostre proposte, così decidiamo di aderire

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al progetto nazionale con l’adozione della Piazza Piave; un’azione mirata e concreta suggerita dalla nostra Senatrice Manuela Granaiola. Con l’adozione abbiamo progettato la rivalorizzazione della memoria storica, della cultura rendendola di nuovo luogo sicuro e di incontro nella sua visione al femminile con la manutenzione delle aree verdi ma soprattutto con la realizzazione di una “architettura del simbolico” con attività ricreative, educative, culturali tese a rianimare la piazza soprattutto come agorà e luogo di incontro, vivibile da tutti gli abitanti e dagli ospiti che la visitano. La Piazza tra storia e mutamento sociale Piazza Piave, come ogni piazza è fonte di identità, di un segno profondo che la città di Viareggio ha voluto lasciare in ricordo dei suoi cittadini caduti in guerra (Battaglie del Piave 1917) dove molte migliaia di italiani persero la vita. La memoria storica è l’elemento fondamentale in grado di unire il presente al futuro e oggi il degrado che anima la piazza è sinonimo di abbandono e di perdita della propria identità, dove sembra esservi in atto la cancellazione di un passato triste e glorioso. Gli spazi della memoria, sono quelli del silenzio, del “cimitero di una città”, quale luogo della sacralità, quale luogo e cuore urbano dove si ricordano i propri cari; i valorosi soldati che giovani hanno lasciato le loro famiglie per combattere una guerra e liberarsi dallo straniero, da colui che schiacciava col proprio stivale un popolo ricco di storia e di cultura, sottomettendolo e deprivandolo della propria identità: essi hanno dato la loro vita per la libertà. Libertà” una parola ignota a tutti coloro che oggi abitano la Piazza Piave di Viareggio, degradandola: gruppi nomadi, nord africani, gruppi dell’est europeo, persone alla ricerca di una propria identità che giungono in terra straniera in stato di miseria e povertà, alla ricerca di “chances di vita”, ma con culture e modi dell’abitare molto lontane da quelle degli autoctoni e spesso con atteggiamenti di “rapina” e di “saccheggio” delle ricchezze più intime di una città.Riqualificare Piazza Piave significa riappropriarsi di queste ricchezze, stimolare gli abitanti della città a vivere un senso identitario di cittadinanza, assumendo una posizione dignitosa come viareggini e come persone, come donne e famiglie che abitano la propria città. Creare un nuovo tessuto socio-culturale in città a favore della donna L’Associazione LibeRe nella sua visione femminile intende prendersi “cura del luogo” attraverso attività di manutenzione dell’area verde e di abbellimento della stessa, arricchendola di stimoli educativi, ricreativi, culturali. Emerge la necessità di fare sistema attraverso la nascita di nuove reti di relazioni che siano in grado di creare un nuovo tessuto sociale e culturale a favore delle problematiche della donna, che investa ogni settore del vivere sociale in un rapporto con le istituzioni, il partner e la famiglia, partendo da azioni sociali semplici e spontanee dove i soggetti più fragili e la donna possano trovare un terreno fertile per esprimere la propria potenzialità e la propria personalità. Corpi che si muovono alla ricerca di occasioni di vita e di felicità devono incontrare l’aiuto reciproco, la solidarietà nell’amicizia e nel lavoro comune. All’incompetenza istituzionale nell’affrontare i problemi di disagio sociale e spesso di violenze che si consumano all’interno di mura domestiche ( un mondo sommerso ancora con cifre da stabilire) si deve sostituire una organizzazione solidale fatta di microazioni sociali e culturali in grado di generare un senso d’identità e di appartenenza ad un luogo e ad una città.

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Riflessioni sulle elezioni regionali 2013 di Daniela Valentini consigliera PD Regione Lazio Alle nuove elezioni per il Consiglio regionale del Lazio, ormai all’orizzonte, io non mi ricandiderò più. Considero conclusa l’esperienza, che mi ha dato il privilegio di vivere questi anni da protagonista del governo regionale e prima ancora del Campidoglio. Sono stati anni belli e ripeto privilegiati, ma anche molto duri e laceranti, fino all’ultimo. Gli episodi di cui si sono macchiati alcuni consiglieri mi hanno dato un senso di rabbia e la voglia di chiudere subito l’esperienza Polverini per aprire una fase veramente nuova. Per questo esprimo la mia soddisfazione per la candidatura di Zingaretti, che si identifica con quel desiderio di rinnovamento ormai ineludibile. E’ tempo di un vero ricambio, non solo generazionale, ma anche di esperienze e competenze e soprattutto di genere. Molte ragazze e donne sono parte integrante della società e danno contributi fondamentali , vere risorse di testa e di cuore che hanno un rapporto con il potere più sano e trasparente. Proprio ora che rendo definitiva la scelta voglio sottolineare quanto sia stato pesante essere l’unica donna di un grande gruppo quale quello del nostro partito. Non deve accadere mai più che non venga eletta nessuna rappresentante femminile del PD in un assemblea elettiva, come è successo nel Lazio nel 2010 Non voglio rimarcare la questione solo in nome di un malsano corporativismo, ma perché ritengo che privarsi dell’apporto, sia al governo come all’opposizione (pensiamo al Consiglio Comunale dove abbiamo nel PD una sola donna eletta) di una parte considerevole della società, di un punto di vista diverso, è pericoloso per il nostro modo di governare. Ho salutato con sollievo la recentissima legge approvata dal Parlamento che obbliga alla doppia preferenza negli enti locali, e anche le parole del segretario Bersani, che ha garantito che molte saranno le donne candidate nelle nostre liste per Camera e Senato, ma sento che se pure segnali arrivano dai dirigenti, occorre ancora una grande mobilitazione di noi tutte per arrivare all’obiettivo. Ormai ogni professione è segnata da una grande presenza femminile, e tutti riconoscono che le donne non hanno nulla da invidiare agli uomini in competenza, capacità, rigore e senso del dovere. Eppure farlo diventare senso comune è ancora così difficile che bisogna ricorrere a strumenti legislativi per affermarlo, come nel caso dell’obbligo nei consigli di amministrazione. Questa riflessione è rivolta innanzi tutto ai compagni e amici del mio partito, ma penso che ogni forza politica debba fare uno sforzo in questa direzione, per arrivare ad una democrazia compiuta e anche a un discreto livello di civiltà. Penso quindi di aprire un dibattito e una battaglia nel PD perché questo avvenga e si possa parlare di una nuova e più trasparente stagione politica davvero. Si volta pagina e le regole democratiche valgono per tutti in ogni situazione. Spero che raccolgano in tante queste mie riflessioni.

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SCHEDA Femminicidio. Molte storie di donne in una parola tratta dall’Archivio CALTARI

Gli antecedenti La parola "femmicidio" - femicide, in inglese - fu usata per la prima volta nel 1976, durante una seduta del Tribunale internazionale dei crimini contro le donne, svoltosi a Bruxelles. A pronunciarla fu Diane Russell, scrittrice e attivista femminista. Nel 1992, Diane Russell e Jill Radfors pubblicarono una raccolta di saggi e interventi sull'argomento dal titolo Femicide: sexist terrorism against women, nella quale il termine "femmicidio" era utilizzato per definire la morte violenta avvenuta per ragioni di genere. La definizione esplicitava il fatto che le morti non erano "neutre" e ne sottolineava il carattere sociale, descrivendo e analizzando la società patriarcale e maschilista che non solo produceva questo tipo di violenza ma ne distorceva in seguito le informazioni a riguardo.?In questo studio pioneristico, le autrici denunciavano come il femmicidio non fosse da considerare un evento isolato nella vita delle donne vittime di violenze, bensì il tragico epilogo di un continuum di terrore fatto di abusi verbali e fisici, caratterizzato da una vasta gamma di manifestazioni di violenza: dallo stupro alla tortura, dalla schiavitù sessuale alla pedofilia, dalle molestie sessuali all'eterosessualità, sterilizzazione o maternità forzate fino alla mutilazione genitale. Da femmicidio a femminicidio Ciudad Juárez è una delle città più grandi del Messico. Posta giusto al centro della frontiera con gli Stati Uniti, dal 1993 al 2003 è stata teatro dell'uccisione di 285 donne. Secondo Marisela Ortiz, cofondatrice della Nuestras Hijas de Regreso a Casa, prima Ong nata per difendere le donne vittime di femminicidio, questi dati ufficiali non coincidono con quelli reali. Molte delle sparizioni, delle violenze e delle uccisioni non sono mai state denunciate e i dati sono stati manomessi dalle stesse autorità, nel tentativo di occultare la propria responsabilità e censurare la gravità del problema.?Come molte delle città nate lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico, Ciudad Juárez ha modificato la propria fisionomia socioeconomica a partire dagli anni sessanta, durante i quali sono nate le grandi industrie manifatturiere - le maquiladoras - che hanno attratto copiosi flussi migratori interni. In queste fabbriche erano assunte prevalentemente donne, in quanto il lavoro femminile veniva considerato "a basso costo e docile". La presenza, in questi territori, di un numero sempre maggiore di donne lavoratrici, per lo più giovani migranti, ha provocato un cambiamento del tessuto sociale e un riassestamento nei tradizionali ruoli di genere.Nel 1993, la giornalista Esther Chavez Cano iniziò a scrivere dei numerosi omicidi che si verificavano a Juarez. Fu lei a usare, per la prima volta in questo contesto, il termine "femminicidio", evidenziando come tutti gli omicidi avevano in comune il sesso delle vittime, spesso non identificate, e nella maggior parte lavoratrici nelle maquiladoras.

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Con il passare del tempo il numero dei crimini è diventato un fenomeno sempre più generalizzato, cominciando a interessare donne di tutte le età e classi sociali. All'inizio del 2000, Julia Monárrez Fragoso, ricercatrice presso El Colegio de la Frontera Norte a Ciudad Juárez, in un suo articolo - Femminicidio sessuale seriale in Ciudad Juarez: 19932001 - sostenne l'importanza di evidenziare nella parola non soltanto l'omicidio (conseguenza più estrema della violenza) ma tutti i vari elementi che generano e riproducono la violenza di genere, come "gli atti violenti, le motivazioni, i disequilibri di potere tra i sessi nella sfera economica, politica e sociale".? In questo modo, con la parola "femminicidio" non si sottolineava solo il "femmicidio", ossia l'omicidio di donne, ma la relazione diretta tra i cambiamenti strutturali di una società, il maschilismo che la domina, le disuguaglianze sociali e il grado di violenza che in quella stessa società si genera.?La violenza contro le donne veniva così definita come universale e strutturale, fondata su sistemi patriarcali di dominio presenti in quasi tutte le società del mondo occidentale. La morte era la forma estrema di questa violenza, conseguenza di un modello culturale appreso e trasmesso attraverso le generazioni. Nel 2004, Marcela Lagarde, deputata e docente dell'Universidad Nacional Autonoma de Ciudad de México, ribadì come il termine "femminicidio" avesse un significato molto più complesso del semplice "omicidio di una donna". "Femminicidio" si riferisce alla violenza contro la donna perché donna, crimini di questo tipo si verificano in presenza di condizioni specifiche come l'inesistenza di uno stato di diritto, in cui si riproduce una violenza senza limite e assassini senza colpevoli, in un sostanziale clima di impunità sociale.?Negli ultimi dieci anni, grazie al lavoro congiunto della ricerca scientifica, dei movimenti femministi, delle Ong, questo termine ha preso piede, affermando sempre più la sua incidenza politica, al punto che in molti paesi latinoamericani il reato di femminicidio è stato introdotto negli ordinamenti nazionali (in Unione europea, per esempio, esiste in alcune delle Comunità spagnole). In Italia, è stato da poco presentato il disegno di legge Norme per la promozione della soggettività femminile e il contrasto al femminicidio, in cui si recepisce il concetto comprendente tutti gli atti di violenza contro le donne, fisica o psicologica, che possono portare all'estrema conseguenza della morte, ma non sempre e non necessariamente. "Femminicidio" è quindi un neologismo che viene da lontano. Nato nel sud del mondo, ha assunto un forte significato politico a livello globale grazie al lavoro di quelle donne che da decenni rivendicano il diritto alla vita e lottano per la giustizia, convinte che qualsiasi concessione, anche minima, a zone di impunità, possa provocare un devastante effetto domino

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che mette a rischio i diritti di tutti gli esseri umani. È una parola che ci racconta come la violenza contro le donne coinvolga tutti, donne e uomini, che la violenza di genere è un problema strutturale della società e riguarda il tessuto sociale e politico di ogni paese. Le messicane ce l'hanno insegnato: nominare la violenza, renderne visibile il nesso delle cause e degli effetti è la strada giusta per non avere più paura.

Scheda realizzata per l'Archivio CALTARI http://www.archiviocaltari.it/ da Emanuela Borzacchiello, messicanista e specialista in gender studies. Dottoranda presso la Facultad de Politicas, Universidad Complutense de Madrid, si occupa di diritti sessuali e riproduttivi e della violenza di genere. Valeria Galanti, dottoranda presso l'IMT Alti Studi Lucca e Lecturer per la cattedra di Diritto dell'Integrazione della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Buenos Aires. 665 è un progetto d'arte partecipativo che nasce in risposta ai femminicidi in America Latina. Solo nel 2005, sono state uccise 665 donne in Guatemala. L'artista Rosa M. Valdez utilizza immagini donate da famiglia e amici per creare l'opera finale, che contiene 665 ritratti individuali su carta. Per maggiori informazioni http://www.rosamvaldez.com/

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Note biografiche di Pietro Perrone Pietro Perrone è nato a Diamante, frequenta l’accademia di Belle Arti di Roma dove completa gli studi nel 1979. La sua ricerca iniziale è caratterizzata dall’uso dei diversi materiali e dal colore bianco e nero. Già nel 1985 realizza una grande opera in una scuola progettata dall’architetto Massimiliano Fuksas ad Anagni. In una delle prime personali espone opere di grandi dimensioni presentate da Achille Bonito Oliva alla galleria MR di Roma. Dopo il 1989 il suo lavoro si spoglia di ogni immagine e diventa trasparenza e luce pura imponendo una sorta di silenzio metafisico. Nel 1994 fa scendere una gigantesca cascata di colori dalla cava di marmo Menconi a Carrara. Nel 1999 soggiorna a Vienna con borsa del BundeskanzleramtAustria e intensifica la sua ricerca dove studia dei materiali per ottenere dei rilievi. Tali lavori vengono esposti all’Accademia d’Ungheria a Roma e alla Centrale Elettrica di Imst/Austria. Sono degli ultimi anni le mostre personali al DAC di Diamante, l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Innsbruck, le scuderie Aldobrandini di Frascati e il Museo di Palazzo Venezia a Roma.

Le opere di Pietro Perrone, che illustrano questo Quaderno, sono tratte dal catalogo della mostra retrospettiva del novembre-dicembre 2007 a Palazzo Venezia, dal titolo “GOCCE SANTE - Opere 2001-2007”

Ci rattrista la scomparsa di una donna, una cittadina, una scienziata di straordinaria intelligenza e ammirevole tenacia. Per tutte noi un luminoso punto di riferimento. Grazie Rita, non ti dimenticheremo. “Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l'accesso all'istruzione e alla leadership. E' alle donne, infatti, che spetta il compito più arduo, ma più costruttivo, di inventare e gestire la pace.” Rita Levi Montalcini

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Per informazioni scrivere a info@libereassociazione.it

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