Il falso mito del veganismo (edizione gennaio 2017)

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Alessandro Ricciuti

Il falso mito
 del veganismo



Introduzione

Un brevissimo saggio dedicato a tutti gli appartenenti al variegato movimento "vegano" italiano. La tesi dell'autore è che chi ha a cuore l'avverarsi di un futuro in cui gli animali siano davvero liberi non può impegnarsi soltanto in direzione dell’abolizione completa delle forme di sfruttamento da parte dell'uomo ma dovrebbe anche porsi obiettivi tattici di medio periodo, considerato che il futuro ideale imaginato non può che passare da progressivi miglioramenti delle condizioni in cui gli animali vivono e del loro status nella società. Allo stesso modo, volendo impostare in modo strategico le scelte comunicative, è necessario che i fautori dei diritti animali propongano insieme al veganismo alternative meno impegnative, per invogliare i propri interlocutori e incoraggiarli a muovere i primi passi in direzione del mondo ideale che immaginano, poiché chi si impegna per vedere realizzato un cambiamento dovrebbe tendere a creare ponti, non a stendere barriere di filo spinato. Una cosa è certa: un mondo diverso è non solo possibile ma reale e impegnandosi con serietà e convinzione si possono ottenere risultati importanti. Tuttavia, per smuovere abitudini radicate, è necessario innanzitutto mantenere i piedi ben saldi per terra e comprendere che le lotte per l'affermazione dei diritti necessitano di tempo e di una fredda


visione strategica. Se è vero che una società interamente vegana al momento resta un’utopia, questo non deve scoraggiare gli attivisti ma soltanto far comprendere che è necessario ben calibrare i propri sforzi, per raggiungere in meno tempo i risultati sperati.


L’Autore

Alessandro Ricciuti si è laureato a pieni voti presso l’Università degli studi di Bari, per poi conseguire il diploma di specializzazione in Professioni Legali presso la medesima università. In seguito si è trasferito a Milano, dove ha esercitato per alcuni anni la professione forense, dapprima collaborando con primari studi legali associati e successivamente in proprio. Attualmente vive e lavora tra Bari e Milano. Da alcuni anni si è specializzato nella tutela legale degli animali, assistendo privati e associazioni nella risoluzione di vicende concrete, avendo come obiettivo l'affermazione di precedenti utili al miglioramento delle condizioni di vita degli animali. Nel 2015 ha fondato DirittiAnimali.eu, una rivista online e un progetto di ricerca che analizza la tematica del trattamento degli animali nella società, al fine di esplorare e ridefinire la nostra relazione con le altre specie. Punto di partenza del gruppo di lavoro nato intorno alla rivista è la consapevolezza che la tutela legale degli animali e il dibattito sul riconoscimento di diritti in capo agli stessi assumerà una rilevanza sempre maggiore nel prossimo futuro. Da questo progetto è nata nel 2016 Animal Law (www.Animal-Law.it), un’associazione di promozione sociale composta da avvocati, medici veterinari e altri professionisti qualificati che si adoperano per offrire all’opinione pubblica un


contributo qualificato nel campo del diritto, della filosofia, della etologia, della bioetica, della zooantropologia, della sociologia e in altri ambiti del sapere specialistico, nonché per promuovere l’avanzamento della tutela legale degli animali in Italia e in Europa. Animal Law promuove il dibattito pubblico e scientifico sulla tematica, organizzando iniziative di approfondimento e di confronto quali convegni, seminari e altre tipologie di incontri formativi. Per contattare l’autore: www.AlessandroRicciuti.it


Il cammino del veganismo

Coloro che per le più disparate ragioni si oppongono al veganismo lo dipingono come un mero fenomeno di costume del tutto passeggero o comunque lo sminuiscono, sostenendo che non sia destinato a cambiare il modo in cui gli animali vengono visti nella nostra società. All’opposto, coloro che si astengono dal consumo di prodotti animali per motivazioni di coscienza generalmente considerano questa scelta un’anticipazione di quello che sarà un fondamentale passo in avanti nella civilizzazione umana e per questo motivo ritengono che il veganismo sia destinato inevitabilmente a diffondersi. Proprio in quanto sinonimo di un inevitabile progresso morale, secondo questi ultimi, il concetto che gli animali non debbano essere utilizzati a proprio piacimento dagli esseri umani per le proprie esigenze riuscirà a imporsi sull'opposta ideologia che ha segnato la civiltà umana dalle sue origini, fino a diventare così una fondamentale norma sociale di riferimento. Come esempi positivi, i fautori del veganismo citano i risultati delle lotte alle discriminazioni, prima fra tutte la (almeno teorica) parità tra sessi e ancora prima l’abolizione della schiavitù; entrambi mutamenti radicali, che hanno segnato in modo profondo e indelebile la società umana. Allo 1


stesso modo, si teorizza un simile cammino — lento ma inarrestabile — verso l’affrancamento degli “schiavi non umani” e la realizzazione di un mondo in cui gli esseri umani non siano più carnefici nei confronti degli altri animali. La notevole diffusione raggiunta dalla parola "vegan" nel corso degli anni sembrerebbe dare ragione a questa teoria: questo termine ha fatto breccia nel vocabolario collettivo e viene adoperato, nel bene e nel male, con sempre maggior frequenza. Lo certificano anche i trend di Google (www.google.com/trends/explore?q=vegan), che mostrano le ricerche online in costante ascesa. Un effetto da attribuirsi in prima battuta agli enormi sforzi delle organizzazioni per i diritti animali, che con sempre più convinzione stanno svolgendo un efficace lavoro di informazione a favore del veganismo, lasciando da parte le cautele che in passato consigliavano di impegnarsi a propagandare il più rassicurante vegetarismo. Parte del merito è da attribuirsi alla diffusione del veganismo tra diversi personaggi famosi, alcuni dei quali l'hanno visto come semplice regime alimentare, altri come scelta di vita consapevole. Quale che sia stata la spinta che ha mosso questi testimonial più o meno consapevoli, l’efficacia del messaggio lanciato dalle organizzazioni per i diritti animali ha finito per moltiplicarsi grazie a questa notevole esposizione mediatica.

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Dichiararsi vegani oggi fa tendenza, al di là della sincera convinzione e consapevolezza, mentre fino a pochi anni il termine “vegan” era quasi totalmente ignoto e quando conosciuto non veniva associato a concetti positivi: i pochi vegani lo erano per motivazioni rigorosamente etiche ed erano impietosamente bollati come strambi o estremisti, in confronto ai già problematici vegetariani. Alle motivazioni etiche oggi si sono affiancate quelle salutistiche, oltre alla volontà di imitare il comportamento di quei personaggi pubblici che hanno abbracciato un’alimentazione 100% vegetale. Guardando però con distacco alla situazione attuale, possiamo dire che nonostante il numero di persone che si impegnano quotidianamente per far emergere il veganismo come modello vincente sia in aumento, i numeri indicano che siamo ancora appena all’inizio del percorso: quanto all’Italia, i d a t i E u r i s p e s ( w w w. l e u r i s p e s . i t / ve g e t a r i a n i - ve g a n i alimentazione-futuro/) degli anni passati hanno fotografato addirittura un calo degli intervistati che si sono dichiarati vegani, passati dall’1,1% del 2013, allo 0,6% del 2014, per precipitare nel 2015 al pressoché insignificante 0,2%; vegetariani si sono invece dichiarati il 4,9% degli intervistati nel 2013, il 6,5% nel 2014 e il 5,7% nel 2015. Numeri in decisa salita nel rapporto 2016 (www.eurispes.eu/content/ rapporto-italia-2016-la-sindrome-del-palio), in cui ben l’1% degli italiani si dichiara vegano (con un ritorno ai valori del

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2013) e il 7,1% vegetariano: in totale sarebbero quindi circa 5 milioni di persone. Certo è che la popolazione vegetariana e vegana nel complesso non supera il 7-8% del totale. Oltretutto, la percentuale di vegetariani “puri” va ulteriormente ridotta, tenuto conto che come è noto molti si professano tali anche se consumano pesce (“pescetariani”) o addirittura quantità moderate di carne (“reducetariani”), il che è inevitabile tenuto conto che queste due ultime categorie non hanno coscienza di sé e quindi chi ne fa parte nel definirsi prendendo le distanze dalla “normalità” onnivora non può che fare riferimento alla categoria più ampia e comoda, che è appunto il vegetarismo. Questi ultimi rappresentano un fenomeno complesso e compongono un insieme molto diversificato. Mossi principalmente da motivazioni salutistiche del tutto individuali (ma anche dalla sincera volontà di risparmiare sofferenze agli animali), non hanno una coscienza collettiva, anche se organizzazioni apposite stanno tentando di rendere il reducetarismo una alternativa al vegetarismo appetibile ai più. Si tratta di numeri importanti, anche se questi dati certificano che siamo ancora lontani dalla garanzia che il risultato sperato possa essere raggiunto: tanta strada resta da percorrere per formare una massa critica tale da consentire di imporre una visione del mondo che rovesci l’attuale sistema di sfruttamento pressoché indiscriminato degli animali. Mentre su 4


internet e soprattutto sui social network si moltiplicano i canali di informazione sul tema, ogni giorno milioni di animali continuano a nascere, soffrire e morire in totale anonimato, senza che la stragrande maggioranza della popolazione si interroghi se mangiare un maiale, indossare una mucca o imprigionare un delfino in una vasca sia giusto o sbagliato. 

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Il cammino già percorso

Per cambiare il mondo, è necessario innanzitutto mantenere i piedi ben saldi per terra e comprendere che le lotte per l’affermazione dei diritti necessitano di tempo e di una visione strategica. Tuttavia, per analizzare il presente e ipotizzare come agire per cambiare il futuro, occorre prima tracciare con obiettività un’indagine retrospettiva, che funga da base critica per un’analisi razionale della realtà. Guardando al passato, le vittorie e i progressi del movimento per i diritti animali sono stati tanti. Ripercorrendo soltanto gli avvenimenti degli ultimi anni, nel continente europeo assume evidenza l’abolizione dei test sugli animali per i prodotti cosmetici e il divieto di importazione di pelli di foca e di pellicce di cani e gatti. Sul piano del benessere animale, sempre in Europa sono state approvate delle leggi che hanno imposto gabbie più grandi e con arricchimenti per le galline ovaiole, vietato l’utilizzo prolungato delle c.d. gabbie di contenzione per le scrofe, sanzionato l’utilizzo dei richiami vivi, reso più tortuoso il cammino burocratico per fare ricorso agli animali nella sperimentazione animale. Il Trattato di Lisbona ha definito gli animali “esseri senzienti”, aprendo la strada al superamento della classificazione come oggetti, secondo le categorie legali di tradizione millenaria.
 In Occidente, la sensibilità è in aumento e mai come in questi 7


anni pratiche tanto radicate come la caccia, i palii, le corride e le altre feste tradizionali con animali sono messe in discussione e avversate. Anche zoo, circhi e delfinari hanno un tasso di gradimento sempre inferiore, man mano che l’opera di sensibilizzazione riesce a far presa. In alcuni paesi sono stati aboliti gli allevamenti di visoni, i circhi con animali e gli allevamenti di galline in batteria e simili divieti sono in discussione in diversi stati. In Italia, un movimento dal basso ben organizzato è riuscito a imporre la chiusura dei due allevamenti di cani beagle destinati alla sperimentazione animale, il Morini e il più noto “Green Hill” di Montichiari (BS); l’attività di allevamento di cani e gatti per la sperimentazione animale è stata poi definitivamente vietata per legge. Sempre restando nello Stivale, dal 2004 gli animali sono tutelati sul piano penale da uccisione e maltrattamento, con sanzioni ancora non elevate ma che fungono da deterrente per impedire comportamenti un tempo considerati normali e non sanzionati, che quindi restavano del tutto impuniti. Non tutte sono vittorie eclatanti o risolutive e soprattutto i risultati sul piano del mero benessere animale possono sembrare un misero contentino rispetto alle istanze abolizioniste portate avanti con tanto vigore dai promotori dei diritti animali ma una cosa è certa: il cambiamento è non solo

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possibile ma reale e impegnandosi si possono ottenere risultati importanti. Calando questa analisi nel presente, ecco che alla luce delle tendenze in atto si può prendere un lento ma costante miglioramento delle condizioni degli animali, di pari passo con l’aumento della considerazione che la nostra società pone nei loro confronti. Nel corso della nostra esistenza individuale potremo così assistere ad alcuni importanti cambiamenti, come il divieto di allevamento di galline ovaiole in batteria, la progressiva riduzione degli allevamenti intensivi a favore di allevamenti estensivi, l’abolizione degli allevamenti di animali da pelliccia in quasi tutto il mondo, la chiusura dei delfinari, il progressivo ridursi della caccia e forse la lenta fine dei circhi con animali e così via. Tuttavia, è ancora ben lontano il momento in cui si potrà dire addio alla sofferenza degli animali su larga scala, quale è quella derivante dal loro utilizzo come cibo. Ed è ancora fin troppo prematuro prevedere una società interamente vegana, che al momento resta ancora un’utopia. Questo non deve scoraggiare chiunque si reputi appartenente al movimento “vegano” ma soltanto far cogliere utili indicazioni per meglio calibrare gli sforzi organizzativi dei gruppi e associazioni attivi per ottenere cambiamenti sociali, al fine di adottare modalità che consentano di raggiungere in minor tempo i risultati sperati.

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Il cambiamento è nel carrello della spesa

Tornando sul piano delle scelte alimentari, possiamo dire che al momento il principale mutamento positivo che sta avvenendo sotto i nostri occhi è l’apertura della grande distribuzione e della ristorazione alle esigenze dei consumatori che seguono un regime alimentare privo di carne e derivati. Sebbene le ragioni puramente che giustificano una tale mutata sensibilità verso il consumatore “veg” siano puramente e semplicemente commerciali, è necessario prendere le distanze da certi tentativi di demonizzazione messi in atto da parte di taluni nei confronti dei produttori e soprattutto della grande distribuzione, colpevole di aver ampliato la scelta a disposizione dei consumatori inserendo linee studiate ad hoc per vegetariani e vegani. Ricordiamoci che nel momento in cui acquistiamo dei beni o servizi siamo definibili come consumatori; tuttavia, da questa osservazione naturalistica del comportamento umano non può discendere alcun giudizio negativo, dal momento che abbiamo ovviamente necessità di procurarci i generi alimentari e non necessari per il sostentamento. Mettere nel carrello una confezione di tofu affumicato o di yogurt di soia non ci rende maggiormente schiavi o complici del sistema del riporre nello stesso carrello un pacco di pasta o una passata di pomodoro. Semplicemente, 11


abbiamo oggi più libertà di scelta. Né è possibile ipotizzare una società basata sull’autoproduzione e sullo scambio o baratto, che resta una scelta marginale e al momento non realizzabile. Semplificando al massimo ma non banalizzando, si può affermare che una maggiore possibilità di scelta comporta una maggiore semplicità nell’approcciarsi alla “dieta vegana” per le masse, rendendo più visibili e più a portata di mano le alternative rispetto all’alimentazione più diffusa. Oltretutto, l’approdo di prodotti “per vegani” nei supermercati ha portato già ad un primo abbassamento dei prezzi, visibile confrontando gli stessi con i prodotti delle botteghe biologiche, dove già erano presenti da anni; ulteriore mezzo per rompere barriere anche culturali e incentivo per consentire alle masse di approcciarsi in modo più agevole ad un cambiamento di paradigma alimentare. Tutto questo si traduce soprattutto nello sradicare uno dei capisaldi dell’opposizione al veganismo, che cioè questo regime alimentare comporti complicazioni e sacrifici, anche economici. Oramai i supermercati sono pieni di alternative sfiziose ai prodotti a base di carne e derivati e anche il mangiare fuori casa riserva una varietà di scelta un tempo inimmaginabile. Si deve quindi accogliere più che positivamente la notizia che i prodotti a base vegetale hanno toccato nel 2015 il 12


valore di 320 milioni di euro (www.corriere.it/cronache/ 16_febbraio_06/vegetariani-vegani-veggy-quanto-valgonoc4facec0-cd15-11e5-a5a3-6d487a548e4e.shtml), mentre il mercato della carne perde dal 2010 a oggi il 5% ogni anno. 

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Pensare in modo strategico

Chiunque intenda agire per cambiare le sorti di più animali nel minor tempo possibile, deve pianificare i propri passi in modo strategico, così da accelerare una transizione che potrebbe sembrare oramai inevitabile ma che come abbiamo visto è molto lenta e necessita di un costante stimolo. Partiamo da una considerazione di comune buon senso che però non è così facilmente accettata dai “militanti” del movimento vegano: chi mangia animali non lo fa certo per sadismo ma semplicemente per abitudine e per gusto. Ciò non toglie che davanti alla spiegazione del perché un simile comportamento non sia necessario ma provochi evitabile sofferenza e non sia quindi moralmente accettabile, in pochissimi ammettono di fare qualcosa di sbagliato e si impegnano di conseguenza a cambiare le proprie abitudini, mentre la stragrande maggioranza cerca giustificazioni per continuare a comportarsi come ha sempre fatto. Allo stesso tempo, è anche vero che molti più onnivori di quanti si possa immaginare hanno un sincero interesse verso gli animali e hanno a cuore la riduzione della loro sofferenza. Per questo motivo, quando costoro vedono immagini di violenze negli allevamenti o nei macelli, chiedono a gran voce il rispetto delle leggi e la punizione dei colpevoli, così come 15


quando vengono a conoscenza della storia di una mucca che scappa dal macello si commuovono e ne invocano la grazia. Eppure, poi tornano a consumare quegli stessi animali come se nulla fosse. Come conciliare questi due diversi comportamenti, apparentemente schizofrenici? Senza dover chiedere aiuto alla psicologia ma applicando nuovamente la comune logica, possiamo semplicemente rispondere che a ben vedere ciò che sembra in contraddizione non lo è affatto: mangiare animali non è necessariamente indice di smisurato egoismo ma spesso solo di una mancata riflessione o di una inesatta conoscenza della realtà in cui vivono gli animali e delle alternative esistenti che ne rendono superfluo lo sfruttamento. Chi intende effettuare un’opera di sensibilizzazione non deve quindi soltanto mirare a raggiungere quante più persone possibili: ancora più fondamentale è che calibri il messaggio con meticolosa attenzione, per spingere a far riflettere e stimolare verso scelta compassionevoli. In caso contrario, si otterrà insofferenza e netta chiusura, quindi un risultato opposto rispetto a quello sperato. Bisogna tenere conto che ben pochi di coloro che vengono raggiunti da un messaggio così radicale sono pronti ad abbracciare una dieta vegana sin dal primo momento e quando vengono posti davanti a questa scelta si mostrano titubanti o apertamente mi opposizione, perché non si sentono pronti a cambiare il proprio stile di vita, per paura delle rinunce a cui vanno incontro. 16


Si tratta di una situazione ben nota a chi fa attivismo in strada, perché la prima reazione di chi ascolta una frase come «l’unico modo per evitare la sofferenza degli animali è diventare vegani» è quasi sempre un momento di smarrimento e spesso una netta chiusura, anche se fino a un momento prima la stessa persona ammetteva che ciò che accade negli allevamenti sia ingiusto ed evitabile. Alle volte, gli interlocutori ammetteranno che il veganismo è la strada giusta ma porranno subito dei limiti, sostenendo di poter ridurre il consumo di carne ma non eliminarlo del tutto. Se una richiesta così esplicita porta (quasi) inevitabilmente a una rapida presa di distanza dal problema, una resa emotiva all’inevitabilità del fatto che viene richiesto uno sforzo superiore alle proprie possibilità. Questo repentino cambio di atteggiamento è chiaramente visibile nell’improvvisa ostilità con cui l’interlocutore si pone o nella chiara volontà di tagliare corto e abbandonare la conversazione. Per evitare una simile situazione, è sufficiente non presentare il veganismo come unica soluzione. Un approccio più soft, che elogia come utile l’impegno a una riduzione del consumo di carne, ha dimostrato di avere più probabilità di successo e questo sia nel non far cadere la possibilità di conversazione, sia nell’ottenere una sincera predisposizione al cambiamento (si veda la ricerca di Animal Charities Evaluators: www.animalcharityevaluators.org/ 17


research/interventions/leafleting/leafleting-outreach-studyfall-2013/leafleting-outreach-study-analysis-fall-2013/). In termini strategici, è quindi fondamentale indicare la strada riduzionista come alternativa percorribile, in modo da spingere più gente ad interessarsi in modo positivo alla condizione degli animali e assumere un impegno personale ad assumere un diverso stile alimentare, in funzione della riduzione della sofferenza altrui. Per questo, nel dialogare con quel 92% di popolazione che ancora non è stata raggiunta e/o convinta dal messaggio etico portato dal movimento per i diritti animali, è utile enfatizzare che ogni riduzione è utile e che si tratta pur sempre di un modo per salvare animali. Diversamente, se si rende troppo ardua ai più la strada, imponendo come unica etica il veganismo anche a chi è sinceramente intenzionato a ridurre la sofferenza degli animali, questi verrà probabilmente preso dallo sconforto e rinuncerà. Si tratta di una reazione normale, davanti a chi contesta che l’unico passo eticamente accettabile da compiere è proprio quello che in quel momento non ci si sente in grado di compiere. Al contrario, ogni sincero interesse va fatto emergere e ogni sforzo valorizzato e incoraggiato. A tal fine, è utile presentare sé stessi come esempi di persone che hanno eliminato alla radice ogni forma di sfruttamento animale, in chiave di rafforzamento dell’impegno riduzionista che chi sta di fronte è chiamato ad assumersi: in confronto al proprio 18


cammino, ciò che gli viene richiesto appare a maggior ragione come ragionevole, sensato e realizzabile. Se ci si accorge che la persona con cui si parla è titubante, è meglio quindi impostare la conversazione richiedendo un impegno minimo, fornire indicazioni e suggerimenti e prendere contatti in modo non invasivo per seguirla nel cammino verso un cambiamento più profondo, piuttosto che pretendere uno stravolgimento immediato e radicale delle loro abitudini e ottenere così una chiusura istantanea. Un buon metodo potrebbe essere ad esempio tramite una newsletter con consigli alimentari. Si tratta di regole di buon senso, anche se purtroppo ancora poco comprese. Ulteriore elemento spesso sottovalutato sono le valenze culturali legate al consumo di carne. Vi sono elementi talmente radicati nelle culture che sarebbe impossibile ipotizzare di sradicare, anche se ciò competerebbe indubbi vantaggi per tutti. Alcuni esempi chiariranno agevolmente il concetto. Nessun potrà mai convincere i cinesi a sostituire le migliaia di ideogrammi in uso nel loro sistema di scrittura con i 26 caratteri dell’alfabeto latino, anche se il sistema alfabetico offre vantaggi indubbi rispetto a quello ideogrammatico. Allo stesso modo, nessuno potrà mai imporre ai popoli europei di abbandonare l'uso della propria lingua madre a favore dell'inglese. La tradizione del consumo di carne è in grado di frapporre questa resistenza ad un vento di cambiamento di 19


stampo etico? Si sarebbe tentati di rispondere di no, dal momento che oramai è possibile agevolmente sostituire gran parte dei prodotti tradizionali a base di carne e derivati con omologhi sostituti a base vegetale; e con questo si ribadirebbe la valenza della facile reperibilità di questi prodotti nella catena di distribuzione. Tuttavia, vi sono altre motivazioni intimamente egoistiche — prima fra tutte l’appagamento del palato — ma anche emotive e sociali, che difficilmente possono essere colmate con un sostituto e base vegetale. Bisogna prendere atto che il veganismo, con il vedere tutto bianco o nero, difficilmente si adatta alla complessità della società e potrebbe diventare esso stesso nemico del cambiamento, se spinto al punto di non ammettere che gli altri possano seguire strade meno rigide di quella eletta. Il pericolo in agguato è una chiusura alla realtà e il non saper cogliere e premiare l’attitudine a mettersi in gioco di chi, tuttavia, ha paura di fare un passo così complesso. Questo accade in buona fede, perché si è presi dalla volontà di affermare la propria dottrina ed imporre i relativi comportamenti. Bisogna invece capire quando è il momento di fermarsi e guardare le cose da una prospettiva diversa. Ciò non vuol dire abbandonare la partita e rinunciare ma solo farsi scaltri e saper anticipare ciò che spesso chi è sinceramente interessato alle nostre parole ha tuttavia difficoltà o timore a chiederci: un aiuto per iniziare un percorso, che non sa dove lo porterà ma nel quale vorrebbe impegnarsi.

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Uno sforzo essenziale è avere in mente che ogni forma di attivismo è proficua se crea ponti d’oro, non se stende barriere di filo spinato. D’altro canto, più persone si raggiungono e si portano dalla propria parte o anche solo si avvicinano alle proprie posizioni, più risultati si ottengono e in minor tempo. Anche se il primo livello di sensibilizzazione può essere molto inferiore al risultato che si vuole ottenere, un cammino sarà stato avviato e ciò vale sia per i singoli, sia a maggior ragione per la società nel suo complesso. Se si ha a mente che l’obiettivo complessivo è più ampio della “conversione” del singolo, diventa chiaro che un attivismo efficace dovrebbe mirare a far emergere la questione della condizione animale e renderla un argomento di discussione per l’intera società, affinché non resti una tematica di nicchia per spiriti gentili e sensibili. Bisogna essere consapevoli che un vero processo di cambiamento può innescarsi solo a partire dal fermento delle idee e può prendere vigore e vivacità solo tramite la discussione, quanto più ampia e pubblica possibile. Le condizioni descritte possono fiorire solo se ci si allontana dalle logiche autoreferenziali, identitarie e settarie che accomunano alcuni piccoli gruppi radicali, che leggono il mondo attraverso categorie storiografiche antiquate e, avendo scelto di lottare secondo le proprie regole, non hanno alcuna possibilità di impattare in modo reale sulle complesse strutture esistenti nella società.

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Anche sul versante delle associazioni, vi sono iniziative ben studiate, che possono portare risultati concreti ed è importante che proseguano. Fra queste, vanno citate come ben posizionate il Mercoledì Veg della LAV e la Settimana Veg promossa da Essere Animali, che sono aperte a tutti ma destinate soprattutto a persone interessate a ridurre il proprio consumo di carne. Importante è in questi casi impostare la comunicazione in modo da approcciare il più alto numero di persone e far sì che siano incuriosite e spinte a proseguire l’esperienza, andando oltre l’impegno minimo inizialmente assunto. Tuttavia, proprio il clima di maggiore interesse verso il veganismo degli ultimi anni ha fatto sì che le organizzazioni e individui iniziassero a spingere il proprio impegno verso obiettivi più alti, con il risultato che ciò che sta nel mezzo venisse visto come inadeguato, se non sconveniente. Ciò si avverte non solo nell’informazione ma anche nelle decisioni strategiche relative alle campagne in corso. La LAV ha ad esempio eliminato il proprio sito sulle “uova felici”, dove si davano consigli per evitare l’acquisto di uova da galline in batteria. Anche se questo nuovo approccio diretto al veganismo è certamente lodevole, va detto che se il senso di inadeguatezza per osare troppo poco non può appartenere a chi porta avanti battaglie per migliorare le condizioni degli animali. È giusto chiedere in termini ideali l’abolizione degli allevamenti ma se nel frattempo si ottiene una riduzione della sofferenza, si tratta pur sempre di un primo passo importante 22


nella vita di generazioni e generazioni di animali. Resta importante portare avanti allo stesso tempo delle istanze riformiste, in parallelo con quelle abolizionistiche che sebbene siano le sole perfettamente coerenti con gli obiettivi a lungo termine delle organizzazioni, dall’altro se non accompagnate da obiettivi di benessere animale ne riducono il potenziale nel medio e lungo termine. D’altronde, se il mezzo per ottenere cambiamenti è esercitare pressione sulla politica, la ricerca del compromesso è spesso l’unico modo per ottenere progressi. Ogni minimo avanzamento costituirà un nuovo punto di partenza, da cui procedere verso ulteriori miglioramenti, proprio perché è impensabile sperare di ottenere tutto e subito. Purtroppo la tendenza a irrigidirsi e pretendere obiettivi più arditi è visibile negli ultimi anni proprio nel fatto che sono diminuite le richieste esplicite a favore del miglioramento delle condizioni di vita degli animali e anche la comunicazione rispecchia questo nuovo paradigma. Lo stigma attribuito a chi lotta per “gabbie più grandi” ha rallentato le battaglie per i progressi legislativi che mirino ad ottenere a condizioni migliori per gli animali negli allevamenti. Il risultato? Mentre in America a seguito di importanti campagne di pressione le grandi catene di fast food e l’industria alimentare si fanno vanto di aver abolito le uova da allevamenti con galline in batteria — e con ciò stanno ridefinendo lo standard zootecnico, addirittura prima che la 23


legislazione imponga di abbandonare questa tipologia di allevamento — da noi ancora il 75% circa delle galline vivono chiuse in gabbia. E probabilmente ci avranno ancora a lungo, poiché chiedere all’industria alimentare di approvvigionarsi da produttori di uova non in batteria per molte organizzazioni per i diritti animali non è una scelta in linea con i propri standard etici. Eppure, siamo certi che non sia proprio questa la strada giusta? O che comunque sia un obiettivo da non mettere da parte? Ancora: lottare per equiparare il coniglio agli animali domestici e vietarne l’uccisione per scopi alimentari è una nobile battaglia; siamo però certi che non sia strategicamente preferibile cercare intanto di chiedere un miglioramento delle condizioni di vita negli allevamenti? Una legge che imponesse il divieto di allevamento in gabbia non avrebbe forse un impatto maggiore sulla produzione, spingendo verso una forte contrazione del mercato? Il confronto da porsi non dev’essere certo tra abolizione e gabbie più larghe, quanto tra probabile fallimento e possibilità di ottenere un risultato, incidendo sulla vita di milioni di animali e spingendo un passo più avanti l’asticella del tanto vituperato benessere animale. È ben più semplice convincere i consumatori a un aumento del costo che convincerli a rinunciare ma intanto con ogni nuovo passo si segna una strada e il passaggio successivo è spingere verso l’abolizione, appena le condizioni saranno mature. Se tra 5 anni ottenessimo l’abolizione degli allevamenti 24


di galline in batteria, tra 15 anni sarebbe più semplice ottenere la fine degli allevamenti a terra ma pensare di abolire l’allevamento in sé sera prima passare da queste battaglie intermedie è francamente impossibile. Il problema è che spesso viviamo nel nostro mondo ovattato e non nel nostro tempo. Vogliamo che il mondo comprenda la nostra causa e non riusciamo a capire come mai gli altri non riescano ad avere a cuore ciò che per noi è così urgente e importante e questo genera frustrazione. Dovremmo forse imparare ad accettare l’idea che i processi di cambiamento sono lenti e che ogni passo nella direzione giusta, per quanto piccolo, è positivo. Le lotte sono complementari e anche all’interno di alcune associazioni, una strada non esclude l’altra. Non si può ragionare solo con il cuore: occorre impostare una strategia e portarla al successo. Se ben orchestrate, le campagne di pressione sono uno strumento formidabile attraverso cui una minoranza può riuscire a condizionare la maggioranza, portandola a cambiare opinione. Ulteriore stimolo di riflessione: meno del 5% della popolazione è omosessuale, eppure la percezione che abbiamo è che questa percentuale sia molto più elevata. Perché? La ragione è che la lotta per l’affermazione della parità dei diritti LGBT ha ricevuto un’attenzione notevole, riuscendo a vincere le resistenze millenarie della religione e della morale 25


tradizionale, generando sempre più consensi. Questo dimostra che è davvero possibile per una piccola minoranza riuscire ad alzare la voce e cambiare la percezione della maggioranza. Tuttavia, è anche vero che mentre chi si batte per il riconoscimento di maggiori diritti per tutti non vuole ridurre lo spazio dei diritti altrui, chi lotta per i diritti degli animali vorrebbe impedire agli umani di esercitare il proprio dominio sugli stessi, quindi “predica” una condizione finale che è incompatibile con il mantenimento dei diritti che gli umani si sono attribuiti sugli altri animali. In questo, bisogna ammettere che quella dei diritti animali è una battaglia che genera molte meno simpatie.

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Verso il superamento del mito del veganismo

Anche singoli individui possono e devono esercitare la stessa logica indicata nei paragrafi precedenti per le organizzazioni. Riporto qui alcuni semplici e schematiche considerazioni ulteriori per gli attivisti solitari, che possono valere come utile promemoria. Innanzitutto, dobbiamo comprendere che noi tutti siamo parte integrante di una società complessa e che da un giorno all'altro non si può riuscire a cambiare il mondo. Per far sì che il mondo diventi vegano, realisticamente bisogna accogliere positivamente anche chi riduce la quantità di carne nella propria alimentazione e non demonizzarlo o mortificarlo. Purtroppo una tendenza comune è non solo colpevolizzare i vegetariani perché potrebbero fare di più ma soprattutto sostenere (contro ogni evidenza logica) che la semplice riduzione del consumo di carne non sia utile a salvare animali. La riduzione è il passo più semplice e immediato, alla portata di tutti e che contribuisce a far calare il numero di animali “prodotti” e “consumati” dalla nostra società. Si tratta appunto di un primo passo — quello più importante — nella giusta direzione. Anche se in termini ideali potrebbe non risultare soddisfacente, è vero che se sempre più persone ridurranno il 27


loro consumo di carne, non soltanto più animali saranno salvati ma si creerà, inoltre, un contesto positivo per procedere verso la direzione desiderata. L’aumento del numero di persone che conoscono e apprezzano le alternative alla cucina tradizionale genera infatti un clima positivo che agevola la transizione dell’intera società, sempre tramite verso la riduzione progressiva. Questo passaggio è fondamentale e si comprende appieno appunto alla luce del fatto che il mondo non si può cambiare da un giorno all'altro e che per mettere in moto un meccanismo virtuoso, il passaggio riduzionista è non solo utile ma fondamentale. Altro aspetto da mettere in evidenza è la crescente disponibilità di alternative e il ruolo dell’industria alimentare. Nel sistema economico attuale è impossibile che le poche aziende che producono alimenti e prodotti 100% vegetali soppiantino quelle che producono in modo tradizionale e non è nemmeno auspicabile: si tratta pur sempre di aziende che lavorano per profitto, perciò una lotta tra "buoni" e "cattivi”, che faccia trionfare le prime e fallire le seconde on ha assolutamente senso. Bisogna piuttosto man mano portare il sistema economico dalla propria parte, non essendo ipotizzabile abbatterlo per tornare al baratto. Questo è ciò che molti non colgono e la ragione per cui suddividono erroneamente il mondo in buoni e cattivi. La realtà è ben più complessa: non vi è un nero e un bianco e non si può ipotizzare sia in alcun modo utile lottare contro i mulini 28


a venti, impegnandosi affinché crollino tutte le industrie agroalimentari basate sullo sfruttamento animale. Piuttosto, è più utile sperare che si riconvertano e accompagnarle verso questa transizione, allo stesso modo in cui si può accompagnare l’intera società a compiere questo passo. Questo non può stupire né scandalizzare: se si decide di impegnarsi per aprire gli occhi a chi ci circonda, non resta che assumere questo atteggiamento positivo e abbandonare la contrapposizione e lo scontro, che non agevolano il confronto. In una società complessa come quella attuale, composta da più livelli di decisioni a strati sovrapposti ed in cui il sistema fagocita in poco tempo e assimila ogni tentativo di eversione rispetto alle logiche economiche e strutture di potere esistenti, solo la contemporanea convergenza di più forze in un’unica direzione può portare a cambiamenti reali secondo giustizia. In questo siamo chiamati a impegnarci tutti, prima di tutto come cittadini, nei limiti delle nostre possibilità, purché agiamo secondo coscienza e con un metodo che sia efficace e non deleterio per la causa che abbiamo scelto.

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La necessità di un movimento per i Diritti Animali

Un movimento forte ha necessità di un’identità forte e riconoscibile. Tuttavia, la locuzione “Diritti animali” In Italia è quasi sconosciuta. Mentre all’estero esiste un movimento per i diritti animali composto da animal rights activistists o advocates, in Italia coloro che si battono per gli animali sono semplicemente definiti “animalisti”. Al loro interno, questa vasta congrega si differenzia in animalisti puri e semplici, antispecisti o più semplicemente vegani. Solitamente, i vegani e gli antispecisti considerano con disprezzo coloro che si occupano solo di cani e gatti, definendoli “canari”, “gattari” o “animalettisti” (o ancora, più elegantemente, zoofili), con ciò volendo sottolineare la propria purezza, dovuta al primato etico di non consumare alcun prodotto di origine animale. Anche il pubblico eterogeneo non identifica coloro che agiscono nella società a favore degli animali come un movimento di lotta sociale e di progresso etico. Al limite, si percepisce l’esistenza di un più vago "movimento animalista" o “vegano”, composto da un’accozzaglia di sigle, gruppi e associazioni unite dal puro e semplice fatto di occuparsi di animali ma difficilmente si riesce a individuare in questi gruppi la matrice di appartenenza ad un comune movimento di lotta sociale e di progresso etico.

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Molto più spesso, l’immagine che passa è che gli animalisti si occupano di mille attività differenti e più o meno capaci di incidere sulla società, delle raccolte fondi per i canili ai presidi contro i circhi, alle manifestazioni contro la sperimentazione animale. Tutte viste come attività slegate le une dalle altre e non finalizzate ad il comune risultato di cambiare i rapporti di dominio all’interno della società. L'animalista modello nella mente dei più si occupa di cani e gatti; gli animalisti che si occupano di altri animali sono visti con sospetto, assumono alle volte il carattere di estremisti. Tutt'al più, quando si occupano di altri animali, gli animalisti “buoni” lottano per aumentare il loro benessere, in senso protezionistico. Non mettono in discussione il fatto che gli animali siano soggetti a sfruttamento da parte dell'uomo, semmai sono spinti da compassione per le loro condizioni e si limitano a cercare di rendere la loro vita meno penosa. Addirittura spesso gli animalisti sono definiti ambientalisti, perché in fondo flora e fauna appartengono al mondo naturalistico e quindi si occupano delle medesime amenità. “Animalismo” è quindi un cappello generico e fin troppo vago, che può ricomprendere tutto e il contrario di tutto e non rende giustizia alle campagne e richieste delle associazioni che si battono per i diritti animali. A ben vedere, in Italia quasi nessuno si definisce promotore dei diritti animali, anche perché, per la verità, non è forse ben chiaro cosa siano i diritti animali. I più li ritengono 32


una questione di matrice legale e forse per questo li guardano con sospetto, mentre i più avveduti li scartano perché preferiscono fare ricorso a Tom Regan e prima ancora a Peter Singer (oltre che dei molti e validi pensatori nostrani) e definirsi antispecisti. Il concetto di antispecismo, così estrapolato dalla filosofia morale ha quasi raggiunto una portata totalizzante, tanto da aver quasi saturato il panorama dell’attivismo. Chiunque lotti per gli animali non umani (ad eccezione di chi si occupa di animali d’affezione, considerati privilegiati) preferisce definirsi antispecista. Spesso si assimilano erroneamente i diritti animali alla tutela del benessere animale e per questo si considera quella dei diritti una strada indegna per un vero antispecista o tuttalpiù un percorso minore e accidentato, pieno di incognite etiche. In realtà, i difensori dei diritti animali sono divisi tra abolizionisti e liberazionisti: entrambi i gruppi essenzialmente credono nella necessità di aprire le gabbie (in termini ideali), liberando gli animali non umani e ottenendo così come traguardo di lungo periodo la liberazione animale; tuttavia, se i liberazionisti ritengono che nel lottare per far cessare lo sfruttamento animale si debba ricorrere anche all’impiego della legge, gli abolizionisti ritengono che l’unico diritto che spetti agli animali sia quello di essere lasciati in pace e, correlativamente, che gli umani abbiano il solo obbligo di astenersi dall’arrecare loro del male. Secondo questi ultimi, 33


non si tratta quindi di ottenere concessioni e leggi protettive, bensì di ritenere una volta per tutte gli animali come soggetti separati e liberi rispetto alla società umana, la quale non avrebbe il diritto di emanare norme che li riguardino. È quindi necessario diffondere il concetto di diritti animali, che tanti vantaggi potrebbe apportare superando la insufficiente distinzione tra il radicalismo antispecista e il magma indefinito dell’animalismo; inoltre, permetterebbe l’inserimento nel seminato delle lotte internazionali per l’affermazione dei diritti animali e ne riceverebbe quindi una chiara e precisa connotazione identitaria.

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Associazione Animal Law (APS) Via Raffaele Bovio 4 – 70126 BARI Codice fiscale: 93470670725 Email: info@animal-law.it Tel. 080 8806675 – Fax 080 9693292 Prodotto editoriale in abbinamento alla rivista online “Diritti Animali”. Web: www.DirittiAnimali.eu Email: redazione@dirittianimali.eu Edizione: gennaio 2017.


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