Blackout Italia

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Presidente onorario

Gianfranco FINI

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA

Rosario CANCILA, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Roberto Pasca di Magliano, Pietro PICCINETTI, Gianmaria Sparma, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

www.farefuturofondazione.it

Nuova serie Anno VII - Numero 3 - luglio/settembre 2012

Segreteria organizzativa fondazione Farefuturo Via del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 40044130 - fax 06 40044132 info@farefuturofondazione.it

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009

Consiglio di fondazione

blackout italia ora costituente

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Blackout italia ORA COSTITUENTE Trimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VII - n. 3 - luglio/settembre 2012 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Lista nazionale per la Costituente Ormai è chiaro. Siamo in guerra. Una guerra non convenzionale, combattuta nelle borse e non nelle trincee, ma certamente una guerra per spostare gli assetti del mondo. L’Italia è al fronte, anzi è il fronte, perché confine geografico del Vecchio mondo nei confronti del Nuovo mondo e perché si combatte sul fronte del debito pubblico, terreno sui cui noi siamo in prima linea e senza difesa. Come reagire? Come resistere? Innanzi tutto, chiamando tutti alle “armi”, con un piano di salvezza nazionale che coinvolga coloro che sono disponibili a condividere lo stesso destino, senza distinzioni di sorta. Per riformare l’Italia e imporre le riforme in Europa. Per tornare a essere competitivi sugli scenari globali. Riformare l’Italia si può, si deve. Già in queste mesi finali della legislatura, per evitare il ricorso alla comunità internazionale che significa la rinuncia alla propria sovranità nazionale. Non ci interessa sapere chi vincerà le prossime elezioni, ci interessa evitare che l’Italia diventi un protettorato della Grande Germania in un’Europa depoliticizzata, senz’anima né sovranità. Tutti i sacrifici sono possibili, all’interno di un grande progetto: rinunciare a qualcosa oggi per avere un futuro domani. Riformare lo Stato, attraverso la Costituente, per realizzare davvero una cosa pubblica efficace ed efficiente, con regole moderne ed effettiva capacità di decisione. Meglio se in una Repubblica presidenziale in un organico assetto federale. La prima Repubblica è nata sulla Costituente Siamo in guerra. e si è esaurita nella incapacità di fare una Urge un piano di Grande Riforma. La Seconda Repubblica salvezza nazionale da non è mai nata perché non ha saputo riforsottoscrivere tutti mare le Istituzioni e la macchina del governo e resta inadeguata alla sfida. Solo una nuova Costituente può delineare tempi e modalità di una Grande Riforma quale oggi appare assolutamente necessaria. Riformare la pubblica amministratore con una spending review davvero radicale, liberalizzazioni e privatizzazioni. Abbattimento del debito pubblico con una manovra massiccia di mille miliardi in dieci anni, con patrimoniali e dismissioni, a carico di chi può e quindi deve. Siamo ormai vicini ai duemila miliardi di debito pubblico, che quest’anno ci costerà almeno 84 miliardi di interessi. Se il 10% degli italiani che possiedono oltre il 40% del patrimonio privato si accollassero il peso di questa zavorra, in forme diverse, anche con titoli forzosi, il paese potrebbe destinare almeno 50 miliardi annui, per appunto dieci anni, a un programma di crescita competitiva. Riforma vera e sostanziale del welfare per aumentare di dieci punti l’occupazione e quindi la produttività del sistema. Oggi abbiamo un livello di occupazione che è inferiore di sette punti alla media europea, nel Mezzogiorno addirittura venti punti in meno.


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VII - NUMERO 3 - LUGLIO/SETTEMBRE 2012

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

Blackout Italia Ora Costituente Lista nazionale per la Costituente ADOLFO URSO - EDITORIALE

L’Italia può essere il paese di “transito” per l’energia europea - 126 INTERVISTA ad ALESSANDRO ORTIS di Pietro Urso

Rifondare la Repubblica - 2 ADOLFO URSO

La Fede, ancora di salvezza tra corvi e tempeste - 132 MICHELE TRABUCCO

Grosse koalition e assemblea costituente per salvare il paese - 8 INTERVISTA a ENRICO CISNETTO di Francesca Siciliano

Vatileaks, la Chiesa non affonderà - 140 INTERVISTA ad ANDREA TORNIELLI di Pietro Urso

Quella ricetta low cost... - 16 INTERVISTA a MARIO SECHI di Angelica Stramazzi

Per una Difesa più utile - 150 VINCENZO CAMPORINI

Quella teoria del caos (politico) - 24 ALESSANDRO CAMPI

Finaziamenti alla Difesa, serve più qualità - 170 PAOLO QUERCIA

Centrodestra, fine della corsa? - 32 ANTONIO RAPISARDA

STRUMENTI

Per il lavoro apriamoci all’Europa - 36 INTERVISTA a PIETRO ICHINO di Fabiana Tonna

Conclusioni del Consiglio d’Europa del 28 giugno - 212

Non si vive di solo export - 44 MARCO FORTIS E MONICA CARMINATI Curare l’Italia: tagli alla spesa e meno tasse - 54 INTERVISTA a NICOLA ROSSI di Domenico Naso L’Europa e la sindrome giapponese - 58 GIUSEPPE PENNISI Fuori dal tunnel della crisi economica - 64 ANTONIO MARIA RINALDI Crisi, tra discernimento e una nuova progettualità - 74 UMBERTO GUIDONI

MINUTA Nazioni Unite, sotto attacco di Assad - 224 RODOLFO BASTIANELLI Una Primavera araba dai valori occidentali - 232 FRANCESCA SICILIANO

RUBRICHE AFRICA FELIX L’onore di lavorare per gli ultimi - 238 MICHELE TRABUCCO

WASHINGTON

LONDRA

Defending the Free Market: The Moral Case for a Free Economy Presentazione presso la Heritage Foundation del libro Defending the Free Market di Padre Robert Sirico, in cui l’autore sostiene gli effetti benefici del capitalismo sull’etica e la morale nella società. Giovedì 12 luglio

Tory modernisation 2.0: the future of the Conservative Party Conferenza del think-tank Bright Blue sulla seconda fase del processo di rinnovamento all’interno del Partito conservatore. Tra i relatori David Willetts, Sottosegretario di Stato all’Università e alla ricerca e il politologo Philip Blond. Sabato 28 luglio

LONDRA How do we secure the value of nature at home and abroad? Sulla scia della recente conferenza Rio 20 sullo sviluppo sostenibile, Policy Exchange approfondisce il libro bianco sulla natura del governo Cameron, con il Sottosegretario di Stato all’Ambiente, Caroline Spelman. Martedì 17 luglio

Unione europea: il buio oltre la siepe - 112 CRISTIANA MUSCARDINI Non si può fare energia alimentandola con Chanel n. 5 - 118 EMILIO CREMONA

Escuela de Liderazgo y Formación Política Décima Generación Corso di ideologia, formazione politica e amministrazione rivolto innanzitutto ai giovani, organizzato dalla Fundación Rafael Preciado Hernández. Da venerdì 3 agosto al 6 ottobre

WASHINGTON The U.S. and the Greater Middle East Seminario congiunto dei tre think-tank American Enterprise Institute, Center for a New American Security e New America Foundation, per discutere delle conseguenze della Primavera araba sulla sicurezza della regione. Introduce i lavori Dennis Ross, già inviato del Presidente Clinton in Medio Oriente. Martedì 17 luglio

OSTUNI (BR) Sotto ricatto della finanza - 82 ROBERTO PASCA DI MAGLIANO

CITT¸ DEL MESSICO

Democrazia nel Mediterraneo. Quali valori abbiamo in comune? Scuola estiva della Fondazione Konrad Adenauer in Italia. Giovani ricercatori dei Paesi del Mediterraneo alle prese con un documento sulla democrazia nella regione. In collaborazione con l’Istituto Alti Studi Euro Mediterranei. Da martedì 17 a venerdì 20 luglio

STOCCOLMA Biståndet bortom statistiken La cooperazione allo sviluppo oltre le statistiche. Prendendo spunto da alcuni romanzi di recente uscita sull’argomento, il centro studi Timbro mette a confronto gli obiettivi dietro la politica svedese di assistenza allo sviluppo con le realtà in loco. Mercoledì 15 agosto

BONN Kanzler der Einheit La Konrad Adenauer Stiftung commemora il 30esimo anniversario dell’inizio del governo di Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione. Tra i relatori l’ex Presidente tedesco Roman Herzog e il Presidente della fondazione HansGert Pöttering. Lunedì 27 agosto

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Giovanni Basini, Stefano Basilico, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Luciano Capone, Rosalinda Cappello, Pasquale Giordano, Silvia Grassi, Matteo Laruffa, Giuseppe Mancini, Matteo Mannello, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Antonio Rapisarda, Giampiero Ricci, Adriano Scianca, Francesca Siciliano, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

www.chartaminuta.it


SOMMARIO

APPUNTAMENTI

NUOVA SERIE ANNO VII - NUMERO 3 - LUGLIO/SETTEMBRE 2012

A CURA DI BRUNO TIOZZO w w w. f a r e f u t u r of o n d a z i o n e . i t

Blackout Italia Ora Costituente Lista nazionale per la Costituente ADOLFO URSO - EDITORIALE

L’Italia può essere il paese di “transito” per l’energia europea - 126 INTERVISTA ad ALESSANDRO ORTIS di Pietro Urso

Rifondare la Repubblica - 2 ADOLFO URSO

La Fede, ancora di salvezza tra corvi e tempeste - 132 MICHELE TRABUCCO

Grosse koalition e assemblea costituente per salvare il paese - 8 INTERVISTA a ENRICO CISNETTO di Francesca Siciliano

Vatileaks, la Chiesa non affonderà - 140 INTERVISTA ad ANDREA TORNIELLI di Pietro Urso

Quella ricetta low cost... - 16 INTERVISTA a MARIO SECHI di Angelica Stramazzi

Per una Difesa più utile - 150 VINCENZO CAMPORINI

Quella teoria del caos (politico) - 24 ALESSANDRO CAMPI

Finaziamenti alla Difesa, serve più qualità - 170 PAOLO QUERCIA

Centrodestra, fine della corsa? - 32 ANTONIO RAPISARDA

STRUMENTI

Per il lavoro apriamoci all’Europa - 36 INTERVISTA a PIETRO ICHINO di Fabiana Tonna

Conclusioni del Consiglio d’Europa del 28 giugno - 212

Non si vive di solo export - 44 MARCO FORTIS E MONICA CARMINATI Curare l’Italia: tagli alla spesa e meno tasse - 54 INTERVISTA a NICOLA ROSSI di Domenico Naso L’Europa e la sindrome giapponese - 58 GIUSEPPE PENNISI Fuori dal tunnel della crisi economica - 64 ANTONIO MARIA RINALDI Crisi, tra discernimento e una nuova progettualità - 74 UMBERTO GUIDONI

MINUTA Nazioni Unite, sotto attacco di Assad - 224 RODOLFO BASTIANELLI Una Primavera araba dai valori occidentali - 232 FRANCESCA SICILIANO

RUBRICHE AFRICA FELIX L’onore di lavorare per gli ultimi - 238 MICHELE TRABUCCO

WASHINGTON

LONDRA

Defending the Free Market: The Moral Case for a Free Economy Presentazione presso la Heritage Foundation del libro Defending the Free Market di Padre Robert Sirico, in cui l’autore sostiene gli effetti benefici del capitalismo sull’etica e la morale nella società. Giovedì 12 luglio

Tory modernisation 2.0: the future of the Conservative Party Conferenza del think-tank Bright Blue sulla seconda fase del processo di rinnovamento all’interno del Partito conservatore. Tra i relatori David Willetts, Sottosegretario di Stato all’Università e alla ricerca e il politologo Philip Blond. Sabato 28 luglio

LONDRA How do we secure the value of nature at home and abroad? Sulla scia della recente conferenza Rio 20 sullo sviluppo sostenibile, Policy Exchange approfondisce il libro bianco sulla natura del governo Cameron, con il Sottosegretario di Stato all’Ambiente, Caroline Spelman. Martedì 17 luglio

Unione europea: il buio oltre la siepe - 112 CRISTIANA MUSCARDINI Non si può fare energia alimentandola con Chanel n. 5 - 118 EMILIO CREMONA

Escuela de Liderazgo y Formación Política Décima Generación Corso di ideologia, formazione politica e amministrazione rivolto innanzitutto ai giovani, organizzato dalla Fundación Rafael Preciado Hernández. Da venerdì 3 agosto al 6 ottobre

WASHINGTON The U.S. and the Greater Middle East Seminario congiunto dei tre think-tank American Enterprise Institute, Center for a New American Security e New America Foundation, per discutere delle conseguenze della Primavera araba sulla sicurezza della regione. Introduce i lavori Dennis Ross, già inviato del Presidente Clinton in Medio Oriente. Martedì 17 luglio

OSTUNI (BR) Sotto ricatto della finanza - 82 ROBERTO PASCA DI MAGLIANO

CITT¸ DEL MESSICO

Democrazia nel Mediterraneo. Quali valori abbiamo in comune? Scuola estiva della Fondazione Konrad Adenauer in Italia. Giovani ricercatori dei Paesi del Mediterraneo alle prese con un documento sulla democrazia nella regione. In collaborazione con l’Istituto Alti Studi Euro Mediterranei. Da martedì 17 a venerdì 20 luglio

STOCCOLMA Biståndet bortom statistiken La cooperazione allo sviluppo oltre le statistiche. Prendendo spunto da alcuni romanzi di recente uscita sull’argomento, il centro studi Timbro mette a confronto gli obiettivi dietro la politica svedese di assistenza allo sviluppo con le realtà in loco. Mercoledì 15 agosto

BONN Kanzler der Einheit La Konrad Adenauer Stiftung commemora il 30esimo anniversario dell’inizio del governo di Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione. Tra i relatori l’ex Presidente tedesco Roman Herzog e il Presidente della fondazione HansGert Pöttering. Lunedì 27 agosto

Direttore Adolfo Urso urso@farefuturofondazione.it Direttore responsabile Pietro Urso direttorecharta@gmail.com In redazione Domenico Naso naso@chartaminuta.it Collaboratori: Roberto Alfatti Appetiti, Giovanni Basini, Stefano Basilico, Rodolfo Bastianelli, Simona Bottoni, Luciano Capone, Rosalinda Cappello, Pasquale Giordano, Silvia Grassi, Matteo Laruffa, Giuseppe Mancini, Matteo Mannello, Cecilia Moretti, Alessandro Mulieri, Giuseppe Pennisi, Paolo Quercia, Antonio Rapisarda, Giampiero Ricci, Adriano Scianca, Francesca Siciliano, Angelica Stramazzi, Bruno Tiozzo, Michele Trabucco, Caterina Zanirato. Direzione e redazione Via del Seminario, 113 - 00186 Roma Tel. 06/40044130 - Fax 06/40044132 E-mail: direttorecharta@gmail.com Segreteria di redazione redazione@chartaminuta.it Grafica ed impaginazione Giuseppe Proia Editrice Charta s.r.l. Abbonamento annuale € 60, sostenitore da € 200 Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776 intestato a Editrice Charta s.r.l. C.c. postale n. 73270258 Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unico Silvia Rossi Tipografia Tipografica-Artigiana s.r.l. - Roma Ufficio abbonamenti Domenico Sacco

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EDITORIALE DI ADOLFO URSO

w w w. f a r e f u t u r of o n d a zi o n e . i t

Presidente

Adolfo URSO

urso@ farefuturofondazione.it

Presidente onorario

Gianfranco FINI

fini@ futurofondazione.it

Segretario amministrativo

Rosario CANCILA

cancila@farefuturofondazione.it

Consiglio dei revisori Gianluca BRANCADORO, Giovanni LANZILLOTTA

Rosario CANCILA, Emilio CREMONA, Federico EICHBERG, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI, Giancarlo LANNA, Emiliano MASSIMINI, Giancarlo ONGIS, Roberto Pasca di Magliano, Pietro PICCINETTI, Gianmaria Sparma, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

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Nuova serie Anno VII - Numero 3 - luglio/settembre 2012

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Consiglio di fondazione

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Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiettivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergere una nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della globalizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, di cultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dello sviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, sviluppare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello. Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nel quadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in sinergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idea d’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale visione dell’Occidente. La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113. Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientifica e dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scientifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro che ne finanziano l’attività con donazioni private.

Blackout italia ORA COSTITUENTE Trimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno VII - n. 3 - luglio/settembre 2012 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Lista nazionale per la Costituente Ormai è chiaro. Siamo in guerra. Una guerra non convenzionale, combattuta nelle borse e non nelle trincee, ma certamente una guerra per spostare gli assetti del mondo. L’Italia è al fronte, anzi è il fronte, perché confine geografico del Vecchio mondo nei confronti del Nuovo mondo e perché si combatte sul fronte del debito pubblico, terreno sui cui noi siamo in prima linea e senza difesa. Come reagire? Come resistere? Innanzi tutto, chiamando tutti alle “armi”, con un piano di salvezza nazionale che coinvolga coloro che sono disponibili a condividere lo stesso destino, senza distinzioni di sorta. Per riformare l’Italia e imporre le riforme in Europa. Per tornare a essere competitivi sugli scenari globali. Riformare l’Italia si può, si deve. Già in queste mesi finali della legislatura, per evitare il ricorso alla comunità internazionale che significa la rinuncia alla propria sovranità nazionale. Non ci interessa sapere chi vincerà le prossime elezioni, ci interessa evitare che l’Italia diventi un protettorato della Grande Germania in un’Europa depoliticizzata, senz’anima né sovranità. Tutti i sacrifici sono possibili, all’interno di un grande progetto: rinunciare a qualcosa oggi per avere un futuro domani. Riformare lo Stato, attraverso la Costituente, per realizzare davvero una cosa pubblica efficace ed efficiente, con regole moderne ed effettiva capacità di decisione. Meglio se in una Repubblica presidenziale in un organico assetto federale. La prima Repubblica è nata sulla Costituente Siamo in guerra. e si è esaurita nella incapacità di fare una Urge un piano di Grande Riforma. La Seconda Repubblica salvezza nazionale da non è mai nata perché non ha saputo riforsottoscrivere tutti mare le Istituzioni e la macchina del governo e resta inadeguata alla sfida. Solo una nuova Costituente può delineare tempi e modalità di una Grande Riforma quale oggi appare assolutamente necessaria. Riformare la pubblica amministratore con una spending review davvero radicale, liberalizzazioni e privatizzazioni. Abbattimento del debito pubblico con una manovra massiccia di mille miliardi in dieci anni, con patrimoniali e dismissioni, a carico di chi può e quindi deve. Siamo ormai vicini ai duemila miliardi di debito pubblico, che quest’anno ci costerà almeno 84 miliardi di interessi. Se il 10% degli italiani che possiedono oltre il 40% del patrimonio privato si accollassero il peso di questa zavorra, in forme diverse, anche con titoli forzosi, il paese potrebbe destinare almeno 50 miliardi annui, per appunto dieci anni, a un programma di crescita competitiva. Riforma vera e sostanziale del welfare per aumentare di dieci punti l’occupazione e quindi la produttività del sistema. Oggi abbiamo un livello di occupazione che è inferiore di sette punti alla media europea, nel Mezzogiorno addirittura venti punti in meno.


Milioni di giovani e donne oggi marginali devono essere inseriti nel sistema produttivo, anche se ciò dovesse comportare lo scardinamento dei privilegi corporativi della generazione adulta. Riforma di scuole, università, ricerca. InveNon basta più voltare stimenti su infrastrutture e innovazione. L’Italia non ha bisogno di voltare pagina, pagina, ormai l’Italia non è più sufficiente, occorre cambiare lideve cambiare libro bro. Occorre un nuovo modello di sviluppo per salvarsi che faccia crescere l’economia del territorio e la parte più innovativa del paese. Liberare chi produce significa anche tassare chi vive solo di rendita per convincerlo a investire e produrre anch’esso. Ridare fiato all’impresa significa scommettere sulla natura degli italiani, da sempre attivi nel creare e nel produrre. Liberare le energie migliori dando credito a chi rischia in proprio, a chi non si rassegna, significa innanzitutto una società del merito, l’unica che possa davvero liberarci dai bisogni. C’è bisogno di un piano di emergenza e quindi anche di un governo di emergenza. Occorre passare, e subito, da un governo tollerato dai partiti a un governo condiviso dai partiti e comunque occorre preparare un nuovo progetto e un nuovo rassemblement riformista ed europeo, con una lista di salvezza nazionale che faccia d’ariete già in questo Parlamento per preparare la nuova fase politica. Una lista di salvezza nazionale che sia una sorta di lista civica nazionale. Senza ideologia ma con idee, chiare e nette. Che recepisca i valori essenziali della destra italiana e del popolarismo europeo. Respondabilità versus populismo. Nazione ed Europa. Una lista che rappresenti quanto già si prefigura a livello locale, in movimenti di varia natura che comunque mettono al centro della loro azione lo spirito civico che anima da sempre la nostra comunità, chiese, piazze, mercati, arte, cultura, storia, impresa e innovazione. Non ci interessa che tessera abbiano avuto ma che percorso vogliamo fare insieme. Una società del merito Una lista del dovere e della responsabilità può sprigionare che eviti il blackout del paese, rischio davle energie di chi rischia vero concreto che in questo fascicolo di e non si rassegna Charta denunciamo ormai prossimo, per dare una luce e una speranza a un popolo che appare impaurito e a un Parlamento che sembra oscurato e intimorito. Una lista civica nazionale che dia uno sbocco alla crisi del centrodestra, mettendo insieme le energie migliori del paese, buona politica e senso civico, con un programma definito di poche radicali riforme, persone perbene senza macchia che abbiamo dimostrato di saper fare e di voler davvero servire il Bene comune. Con un’unica bussola, quella dell’interesse nazionale che poi coincide con l’interesse dei giovani. Per consegnare poi il paese, rinnovato nelle fondamenta con una nuova Costituente, alla prossima generazione.

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BLACKOUT ITALIA Adolfo Urso

RIFONDARE LA REPUBBLICA Con la caduta del Muro di Berlino l’Italia non è stata in grado di reinvertarsi come hanno fatto, invece, Germania e Turchia. Il nostro paese sembra smarrito senza bussola in un mare in tempesta e ora rischiamo un blackout non solo economico, ma totale che abbraccia la politica interna ed estera, la Chiesa, la società e persino la coscienza della Nazione. Per salvarci dobbiamo costruire delle nuove fondamenta solide per un nuovo Stato. di ADOLFO URSO

L’Italia ha bisogno di capire cosa sia oggi il nostro Stato in una logica Europea e in mondo profondamente cambiato. La nostra Charta era legata a una concezione bipolare in un mondo in cui prevaleva l’Occidente e comunque l’Italia ne faceva parte integrante. Ciò vale per la nostra economia sottoposta alle ondate speculative monetaria con una macchina dello Stato non più capace di reagire, ma ciò vale anche per la politica estera, di difesa e quindi di sicurezza, che da sempre contraddistingue ogni organizzazione umana. Le tasse servono innanzi tutto alla comune sicurezza interna ed esterna. Altrimenti, a cosa servono?

Del blackout economico abbiamo già scritto in un precedente fascicolo di Charta e ne parliamo diffusamente anche in questo, con analisi e proposte specifiche. Ci preme, però, anche sottolineare l’altro aspetto, il blackout di ruolo nella politica estera e di difesa, che emerge preponderante e si interseca con l’altro in una miscela che mette a rischio davvero il ruolo dello Stato e persino la coscienza della Nazione. L’Italia ha svolto un ruolo importante per tutta la seconda metà del Secolo scorso perché era parte essenziale di un polo mondiale, quello dell’Occidente, in competizione con il polo mondiale dell’Oriente. Nel mondo bipolare

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l’Italia contava perché “pesava” Medio Oriente e nell’area caucapiù volte, come capitale del Cri- sica turcomanna, hanno invece stianesimo e a nessuno più sfug- un ruolo da protagonista? gire che è stata la Chiesa cattolica Forse, l’errore è alla fonte. L’Italia (senza divisioni) a far crollare il non ha compreso sino in fondo comunismo, da Wojtyla a Soli- che il mondo multipolare non sodarnocs. Come socia fondatrice lo riscrive le gerarchie delle nadella Comunità europea, i cui zioni, con l’irruzione di altri protrattati non a caso furono firmati tagonisti, ma nel contempo disea Roma: alleanza economica eu- gna equilibri e mansioni diverse ropea che si contrappose per nell’area di massimo interesse. quattro decenni al Comecon. Nel mondo bipolare anche l’Italia Contava, inoltre, come parte es- aveva un ruolo decisivo sia per la senziale dell’Alleanza Atlantica, sua collocazione geografica che paese di confine con il mondo co- per il suo peso specifico economimunista e con il Patto di Varsa- co e culturale. Nel mondo multipolare l’Italia ha via. Le principali preteso di svolgere basi Nato erano La riforma lo stesso ruolo, poste lungo il nopartner piccolo stro confine e ave- del commercio per dimensioni, vano come altri ba- mondiale è ferma ma globale per luardi la Germania mansioni. Ha preOccidentale e la da oltre 10 anni teso di svolgere il Turchia. e non si sblocca ruolo di potenza Italia, Germania e Turchia sono stati scossi dalla ca- economica come la Germania sulduta del Muro di Berlino, ma lo scacchiere globale senza avere mentre Berlino e Ankara hanno le dimensioni della Germania trovato un nuovo ruolo, oggi più che, peraltro, concentra la sua che mai importante, l’Italia non azione nell’Europa centrale e ha saputo farlo. Ha smarrito il orientale e in Asia. Ha preteso di ruolo che aveva, anche nei con- essere potenza militare come la fronti di Washington senza ac- Turchia, che però si limita ad inquisirne uno nuovo. È come terventi specifici e mirati nelsmarrita, senza bussola in un ma- l’area di suo massimo interesse, mentre la nostra partecipazione re in tempesta. Perché ciò accade? Perché l’Italia ha spaziato da Sarajevo a Timor non ha ruolo nemmeno nel Medi- Est, in ogni parte del globo, in alterraneo, come hanno purtroppo cuni casi di nessun interesse stradimostrato le “rivoluzioni arabe” tegico per il nostro paese. e tanto più la guerra in Libia, la In altre parole, noi abbiamo proterra a noi più vicina. E perché vato a giocare globale senza avere invece, in aree diverse, la Germa- le dimensioni per farlo. E oggi nia nel cuore d’Europa e in prendiamo schiaffi proprio - e Oriente, e la Turchia nel Grande non a caso - dai nuovi protagoni-


BLACKOUT ITALIA Adolfo Urso

sti dei Brics, come dimostrano i casi diversi ma speculari di Battisti in Brasile e dei marò in India. L’Italia ha pensato di supplire alla crisi del mondo bipolare con una politica meramente multilaterale in un mondo in cui il multilateralismo è entrato presto in crisi. Non è mai nato il “mondo senza storia” di cui parlava Francis FuKuyama e la crisi del modello capitalista occidentale ne è la diretta conseguenza. Il multilateralismo non ha avuto successo perché gli organismi internazionali sono rimasti quelli del mondo bipolare senza avere più gli strumenti per regolarlo. Il Consiglio di sicurezza degli Stati Uniti risponde ancora alla logica dei vincitori della seconda guerra mondiale e non tiene conto in alcun modo del peso dei nuovi protagonisti. La riforma delle Nazioni Unite non è stata realizzata e questo ha squilibrato persino la nostra Europa che è rappresentata tra i membri con seggio permanente da Francia e Gran Bretagna ma non dalla Germania. La riforma del commercio mondiale, altrimenti chiamato round di Doha, è ferma da oltre dieci anni e nemmeno Pascal Lamy è riuscita a sbloccarla e tantomeno a realizzare la riforma del Wto, altrettanto necessaria. Sono ferme persino le riforme della Banca Mondiale e dell’Fmi, che appunto non tengono conto delle nuove realtà né per quanto riguarda il peso specifico dei singoli Stati né per quanto riguarda l’azione da realizzare per fronteggiare la crisi mondiale. In altre parole, l’Italia

Il Libro Quale multilateralismo Fulvio Attinà La scelta del multilateralismo. Università degli studi di Catania collana del dipartimento di studi politiciI 2009, 352 pp., 18 euro

L'analisi è divisa in tre capitoli. Il primo definisce e discute i termini fondamentali del tema, da cosa si intende quando si parla di ruolo internazionale di uno Stato, alla definizione del multilateralismo in generale e della sicurezza multilaterale in particolare e quindi a quali sono i caratteri delle operazioni di pace che sono diventate le azioni maggiore importanza della sicurezza multilaterale nel mondo contemporaneo. Il secondo capitolo analizza i dati sulle missioni di pace delle Nazioni Unite e di tre organizzazioni internazionali europee (Francia, Spagna e Svezia). Nel terzo capitolo, infine, è analizzata la performance italiana in parallelo con quella dei tre Paesi considerati, e sono discusse alcune ipotesi sul futuro del ruolo multilaterale dell'Italia nella sicurezza internazionale.

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ha scommesso sul multilaterali- i più ostili sono invece due nosmo quando questo entrava in stri partner tradizionali, come crisi, incapace di autoriformarsi. Spagna e Gran Bretagna, per Anche l’Unione europea come evidenti motivi interni; allo tale ha puntato sul multilaterali- stesso modo, se la Germania smo mentre gli altri partner glo- osteggia l’attuale Ucraina per il bali agivano in una logica regio- caso Tymoshenko, l’Italia è invenale e su accordi bilaterali, oltre ce particolarmente cauta; se la Francia parteggia per gli Armetremila negli ultimi anni. Germania e Turchia, invece, han- ni, per fini elettorali interni, no puntato su ruoli regionali, di- l’Italia è più in sintonia con le ventando presto gli attori princi- risoluzioni Onu sul caso del Napali nel nuovo scacchiere del borko Karabbak. Insomma, non mondo multipolare, basato ap- c’è politica estera e di difesa comune, come peraltro denota il punto sul regionalismo. L’Italia, inoltre, ha cercato di ruolo silente della baronessa Asthon, e stenta a supplire alla crisi del modello occi- Non è possibile supplire decollare una politica di difesa e di dentale, accensicurezza che postuando l’atlanti- alla mancanza di una smo con il suppor- “strategia paese” con la sa essere davvero chiamata europea. to dell’europeiInsomma, se si smo. Ma Atlanti- politica personale pensava di supsmo ed Europei- stile Berlusconi portare l’atlantismo erano e sono entrambi in crisi. Non c’è più smo con l’europeismo, il risultauna logica atlantica nemmeno to è stato pessimo, anche perché negli Stati Uniti che guardano al nel frattempo è entrata in crisi la Pacifico e non c’è mai stata logica del multilateralismo. un’Europa unita nella difesa e Si dice e in molti dicono che ora i nella politica estera, come dimo- due Mario stiano supplendo con stra proprio l’intervento in Libia, la loro personalità. Bene, è anche fortemente voluto dalla Francia, e possibile che ciò accada ma non è altrettanto fortemente osteggiato certo la soluzione. Non è possibidalla Germania. Non c’è una po- le supplire alla mancanza di una sizione comune in politica estera chiara strategia paese con la polie di difesa né sulla frontiera del- tica personale, che peraltro ha già l’immigrazione, in cui l’Italia è praticato lo stesso Silvio Berlulasciata sostanzialmente da sola e sconi, con alterne vicende. Mario diversa è la politica degli altri Monti e Mario Draghi hanno attori europei, né per quanto ri- grande credibilità ma nessun guarda per esempio i focolai di paese può reggere a lungo un crisi nei Balcani e nel Caucaso. ruolo solo sul prestigio personale Solo alcuni paesi, con l’Italia, di alcuni. La parabola di Berluhanno riconosciuto il Kosovo tra sconi è significativa e dovrebbe


BLACKOUT ITALIA Adolfo Urso

averci insegnato qualcosa. Anche Berlusconi aveva supplito con il prestigio personale alla mancanza di prospettiva strategica della nostra nazione. Lo fece bene quando gli amici si chiamavano Blair, Aznar e Bush, l’asse euro atlantico. Lo fece male, quando si resse su Putin, Erdogan, Mubarak e finanche Gheddafi, che poco avevano a che fare con l’atlantismo e l’europeismo. La politica personale può rattoppare una situazione ma non risolvere la questione, L’Italia ha bisogno di capire quale possa essere il suo ruolo in un mondo multipolare in cui le Regioni si integrano al loro interno e competono al loro esterno, continente su continente. Non può essere il più piccolo dei partner globali, ma deve “rassegnarsi” a diventare un attore regionale, nel Mediterraneo e nei Balcani, e fors’anche nel Grande Medio Oriente e in Africa. È già tanto, forse troppo. Sappiano che ciò contrasta con la nostra natura universale, che ci deriva dalla doppia tradizione romana e cattolica, ma non possiamo fare altro che concentrare la nostra azione, politica, militare, economica e quindi anche culturale su un teatro più prossimo, in cui esercitare la nostra influenza e da questa trovare la forza per contare su una scala più vasta. Per farlo, occorre tornare ad essere una Nazione, condividere un destino comune, rifondare la Repubblica. Speriamo che questo fascicolo di Charta minuta possa servire a riflettere e soprattutto a decidere. Senza una nuova co-

scienza di sé e di conseguenza senza una nuova Carta dello Stato nulla si può fare se non rintuzzare con lo proprie mani lo tsunami che incombe. Per questo abbiamo proposto e insistiamo affinché in questo scorcio di legislature si pongano le premesse, cioè le fondamenta della Rifondazione dello Stato attraverso una assemblea Costituente che riscriva in modo organico la nostra Costituzione, sancendo quindi un nuovo patto nazionale. Lo si faccia attraverso il conferimento al Senato della Repubblica eletto nel 2013 dei poteri costituenti come noi chiediamo o in altra forma, ma lo si faccia. Perché incombe il blackout dell’Italia.

L’Autore adolfo urso Onorevole della Camera dei deputati, già viceministro allo Sviluppo economico con delega al Commercio estero. Presidente della fondazione Farefuturo.

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Ogni crisi apre delle opportunità

GROSSE KOALITION E ASSEMBLEA COSTITUENTE PER SALVARE IL PAESE

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Un nuovo ‘46 per rilanciare il paese con nuove regole, nuova classe dirigente e una nuova politica. Mentre il mondo cambiava radicalmente, l’Italia per 20 anni si divideva su Berlusconi si o no e questo ha creato un “bipolarismo bastardo”, un gap che ora stiamo pagando in termini sociali ed economici. intervista a ENRICO CISNETTO di FRANCESCA SICILIANO

Terzopolista ante litteram e critico fino al midollo del bipolarismo. Enrico Cisnetto, giornalista e consulente di strategia politica, spiega la necessità di un’Assemblea Costituente e dà la sua ricetta per uscire dal pantano politico, istituzionale ed economico. Che suona un po’ come un “rimbocchiamoci le maniche”...

mostrato fallimentare. Qual è stato, secondo lei, l’errore commesso da quella coalizione?

Di essere arrivata tardi: in politica i tempi sono tutto. Quando io speravo in una forza terzopolista, era ancora apparentemente saldo – anche se ne vedevo tutti i difetti – il bipolarismo. Un terzo polo avrebbe avuto senso come “piede in mezzo alla porta”, avrebbe doProf. Cisnetto, lei potrebbe essere defi- vuto far saltare tutto il sistema. nito un terzopolista ante litteram; infat- Il problema del bipolarismo, ti invocava la nascita di un terzo inoltre, è che porta inevitabilpolo/partito/schieramento quando Fini mente con sè l’alternanza, tanto e Casini non avevano ancora ideato il agognata ai tempi della prima loro progetto. Progetto che, poi, si è di- Repubblica, ma che oggi sembra


BLACKOUT ITALIA intervista a Enrico Cisnetto

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diventata un obbligo dal momento che perde le elezioni, puntualmente, la coalizione di governo alla fine del mandato. In questo modo il sistema non funziona: l’alternanza non può essere obbligatoria, deve essere un’opportunità; come deve esserlo anche poter confermare il governo che gli elettori ritengono abbia fatto un buon lavoro. Nel momento in cui l’elettorato non ritiene valido né un polo né l’altro, entrambi devono sapersi rinnovare. Questo, dunque, vuol dire che il bipolarismo non funziona. Io lo condannavo quando ancora non si era realizzato – pur avendo già mostrato a tutti gli italiani, distratti compresi – che il sistema non poteva funzionare. Si pensi che oggi, addirittura, ha dovuto abdicare in favore di un governo tecnico... Non credo, quindi, che il Terzo polo di Casini e Fini sia fallito per ragioni specifiche legate al comportamento di qualcuno. Quando nacque pensai fosse sbagliato perché, semplicemente, non ce n’era bisogno; avrebbe dovuto far saltare i due poli, ma i due poli erano già “saltati” da soli. Oggi servono nuovi soggetti politici che dovrebbero nascere al di fuori dei due vecchi poli per sostituirsi (e non diversificarsi) da quelli che già abbiamo. Gli elettori nelle elezioni di maggio hanno deciso di punire tutto il sistema politico, non facendo sconti a nessuno. Neppure a coloro che negli ultimi mesi si erano sganciati dai due poli assumendo posizioni critiche nei

confronti dei loro protagonisti. Questo, però, non è stato sufficiente: il fallimento del sistema che abbiamo chiamato seconda Repubblica è talmente avanzato che non c’è stata più la possibilità di far sconti a nessuno. Lei ha fondato il quotidiano online Terza Repubblica e con l’Associazione Società Aperta da tempo lavora alla proposta di far nascere un’Assemblea costituente. Quali sono i contorni della vostra proposta?

La nostra proposta è dettagliata. Chiediamo la convocazione di un’Assemblea costituente che si svolga in parallelo, che lavori in parallelo al Parlamento (che con il governo continuerà a occuparsi solo delle questioni che non hanno rilevanza costituzionale). La revisione non dovrà essere parziale: la Costituzione va rivista tutta. La nostra, dunque, è una proposta che non vuole imbalsamarla, ma non sposa neppure l’idea di gettarla nella spazzatura: noi vogliamo revisionarla e rimodernarla. Consideriamo che da quando è entrata in vigore sono passati decenni e, a esempio, non vi sono le dispense dell’Europa e dell’Ue e neppure quelle sulla moneta unica. La ristesura, poi, andrebbe svolta in un ambiente protetto; i nuovi costituenti (circa 150, tra cui anche dei tecnici) dovrebbero rappresentare tutta l’Italia ed essere eletti su scala nazionale con metodo proporzionale. Verrà dato loro un tempo ragionevole, un anno a esempio, entro il quale tutte le regole dovranno essere riscritte. Chi fa


BLACKOUT ITALIA intervista a Enrico Cisnetto

parte dell’Assemblea costituente, ovviamente, non potrà ricoprire il ruolo di parlamentare. Tra l’altro, a mio avviso bisognerebbe costituzionalizzare la legge elettorale. In questo modo, infatti, verrebbe superato definitivamente lo strazio del continuo cambio di legge. Naturalmente questa proposta di Assemblea costituente per essere lanciata necessita della maggioranza dei 2/3 del Parlamento ed è evidente che il quadro ideale nel quale svolgere una cosa di questo genere sia una situazione politica di grande coalizione. Il nostro paese dovrebbe necessariamente darsi una grande coalizione – almeno per una legislatura intera – se vuole affrontare senza la rincorsa populistica e demagogica del consenso facile e spicciolo i grandi problemi di natura economica che deve risolvere. Se si arrivasse, come auspico, a formulare una grande coalizione – e non un governo tecnico – che riuscisse a far eleggere un’Assemblea costituente, allora avremmo un capolavoro che segnerebbe l’inizio di una terza Repubblica. O della seconda, dal momento che questa altro non è stata se non la lunga agonia della prima. Questa grande coalizione che auspica crede che sarebbe in grado di superare il bipolarismo che ha caratterizzato e condizionato quella che noi attualmente chiamiamo seconda Repubblica?

Credo che i sistemi politici non siano buoni o cattivi in assoluto, ma in relazione al paese. Ogni paese ha il suo Dna e ogni paese è

più o meno adatto a questo o a quel sistema politico, in relazione anche ai momenti storici. Il nostro, purtroppo, non è uno Stato che ragiona nell’ottica “chi vince prende tutto e chi perde aspetta il proprio turno”. Periodicamente l’Italia attraversa fasi in cui necessita di scelte impopolari e radicali, ma queste scelte vanno prese di comune accordo; per questo credo che una grande coalizione potrebbe farci superare questo momento di stallo. Necessariamente tutto ciò implica che alcune forze marginali, utili in passato per far vincere l’uno o l’altro polo, escano dal perimetro del governo. Penso alla Lega che con le sue proposte secessionistiche può e deve essere rappresentata in Parlamento, ma non nel governo; penso alle politiche giustizialiste dell’Idv: è bene che il partito stia in Parlamento, ma è altrettanto bene che non vada al governo del paese; penso anche alle proposte massimalistiche della sinistra che sta alla sinistra del Pd: non ho plaudito quando son rimaste fuori dal parlamento, ma naturalmente vedo come fumo agli occhi la possibile nascita di una maggioranza di centrosinistra con questi personaggi che incarnano scelte che si traducono, di fatto, nell’impossibilità di fare alcune grandi opere o scelte importante nel settore edile. Le differenze che invece si misurano tra le forze che rappresentano l’Italia moderata e quelle che incarnano l’Italia progressista, hanno differenze – come è giusto

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Il Libro Perché la Seconda Repubblica ha fallito Vincenzo Lippolis, Giovanni Pitruzzella Il bipolarismo conflittuale Rubbettino 2007, 176 pp., 15 euro

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Dopo la crisi politico-istituzionale degli anni Novanta del secolo scorso l'Italia non ha sperimentato un'efficiente democrazia maggioritaria. Piuttosto, si è instaurato un regime politico che nel libro viene chiamato "bipolarismo conflittuale", caratterizzato da frammentazione politica, accentuata conflittualità tra maggioranza e opposizione e all'interno delle due coalizioni alternative, costante ridefinizione di identità politiche in lotta costante l'una con l'altra, destrutturazione delle amministrazioni pubbliche, frammentazione delle istituzioni in un sistema policentrico esasperato che ha poco a che vedere con le esperienze riuscite di federalismo. Il risultato è l'incapacità del sistema politico ad affrontare le sfide del nuovo millennio, dagli effetti della globalizzazione alla crisi ambientale. Da qui la necessità di abbandonare la Seconda Repubblica per entrare nell'era costituzionale di una Terza Repubblica ben funzionante. Le difficoltà in cui si dibatte la Seconda Repubblica sono prevalentemente legate alla sua cultura politica, ai ritardi della classe politica, alla falsa idea che si possano fare riforme istituzionali condivise da tutti. Il riformismo istituzionale è utile se diventa lo strumento con cui affermare un nuovo sistema politico, frutto di scelte, di alleanze, di strategie di lungo periodo, che inevitabilmente avranno una conseguenza: ci saranno alcuni attori avvantaggiati e altri che dovranno subire un drastico ridimensionamento.

che sia –; ma non sono significative al punto da non riuscire a convivere. Anzi: in questa fase storica credo debbano necessariamente farlo. Si pensi alla Germania: è riuscita, prima della grande crisi finanziaria, a ristrutturare il bipolarismo riuscendo ad affrontare la crisi con una solidità diversa rispetto a noi. I tedeschi preferirono una grande coalizione ed è stato il miglior governo della Germania di tutti i tempi. Secondo lei, dunque, l’abbattimento di queste posizioni marginali porterebbe ad agire in un’ottica più moderna? Se consideriamo che negli ultimi 20 anni i leader dei principali partiti politici hanno dato avvio a una fase costellata da risse, discussioni e volgarità, una grande coalizione porterebbe anche al superamento dello scontro politico?

Certo: lo stato di malessere che lei denuncia, a mio avviso verrebbe superato. Ma affinché si possa fare occorre in primis un cambio di classe dirigente e di soggetti politici. È necessario un forte elemento di rinnovamento. Vede, se si fosse fatto un terzo polo quando andava fatto, probabilmente gli attuali partiti si sarebbero salvati perché sarebbero stati costretti a fare dei cambiamenti. Il voler cambiare la logica bipolare è un sentimento arrivato troppo tardi: adesso occorre farlo perché lo chiedono i cittadini. E perché altrimenti ci troviamo quello di Grillo come primo partito d’Italia... Ma dal momento che il centrodestra è in preda a una profonda crisi esistenziale e


BLACKOUT ITALIA intervista a Enrico Cisnetto

il centrosinistra non è in grado (per mancanza di mezzi e di valori) di affermarsi, quali sono i soggetti che potrebbero far nascere la terza Repubblica?

Credo debbano essere il frutto di una commistione tra chi sta “fuori dalla politica” e fa parte della società civile e chi sta “dentro la politica”, sia nel centrodestra che nel centrosinistra. Il gruppo di Società Aperta che ho costituto è un piccolo ma significativo esempio di forze che hanno saputo fare proposte di merito sul piano economico; perciò ritengo che anche al di fuori del profilo partitico vi siano piccoli gruppi, fondazioni o associazioni che possono dar vita a forze politiche nuove. In fondo stiamo come nel ‘93: sembrava che tutto stesse cadendo, che nulla fosse al suo posto e invece è arrivato Berlusconi che dal niente ha creato una forza politica. Che poi fosse un soggetto sbagliato e che a mio avviso ha avuto più torti che ragioni è un altro discorso. Ma la nascita di Forza Italia dimostra che c’erano – e ci sono sempre all’interno di una società – le condizioni per far nascere soggetti nuovi. Come vent’anni fa, anche oggi possono nascere nuove forze politiche, che spero siano diverse e miglior rispetto a quelle di allora. Bisogna, dunque, essere in grado di fare scelte forti: se chi in questo momento è all’interno della politica ha la forza per farlo che ci provi. Altrimenti che si tolga dalle scatole! Lei usa spesso l’accezione “bipolarismo bastardo” e sostiene che in Italia si ten-

ta vanamente di correggere quello malato per “curarlo”. Ma esiste, quindi, un bipolarismo sano?

Esistono esperienze positive, ma in altri paesi. Credo che il bipolarismo non appartenga al Dna italiano. Alcuni dicono che dovremmo cambiare, ma è impossibile far finta di essere diversi da ciò che si è, e quindi commetteremmo un grave errore. Noi italiani dovremmo prendere atto che non siamo fatti per il bipolarismo e invece ci siamo messi in testa di voler fare gli inglesi. Segni, che col suo referendum, tentò di superare e chiudere la prima Repubblica, non calcolò che molti errori erano dovuti a fattori geopolitici. All’epoca si volle fare la scelta del bipolarismo e chi non abbracciò quell’idea venne considerato un vecchio arnese da prima Repubblica, criticato, giudicato come un vecchio abietto e nostalgico, inadeguato, che amava il sistema politico bloccato e imperniato sulla Dc e non voleva sostituirlo. La mia non era e non è nostalgia per un periodo passato, poiché credo che la storia della prima Repubblica sia finita nell’89 con la caduta del muro; da allora si sono verificati mutamenti a livello geopolitico internazionale. Nell’89 caddero alcune condizioni e quella storia non è più ripetibile; e il fatto che si critichi ciò che è avvenuto dopo non significa che siamo scioccamente nostalgici, né ripropositori di ciò che c’era prima. Noi vogliamo semplicemente andare oltre. Non a caso il mio giornale online si

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chiama Terza Repubblica: vuole passare a una fase ulteriormente nuova, dove si tenga conto della globalizzazione e del mondo che è cambiato. Definisco “bastardo” il nostro sistema politico perchè non vi è alcuna esperienza al mondo – tranne in alcuni stati sudamericani dove vige la dittatura – in cui vi sia un sistema politico imperniato esclusivamente su una persona (mi riferisco a Berlusconi), padrone di una coalizione e unico collante a determinare quella coalizione in antitesi all’opposta. Negli ultimi 20 anni si è riscritta la geografia del mondo: è caduto il comunismo, è finita l’epoca di Yalta, c’è stata la rivoluzione tecnologica che ha cambiato completamente il modo di produrre, c’è stata la finanziarizzazione dell’economia fino alla sua esplosione; in Europa dal ‘92 con Maastrict è cambiata la storia e con la moneta unica siamo soggetti a vincoli di politica economica che prima non avevamo. In pratica: in questi ultimi 20 anni è cambiato il mondo e noi li abbiamo trascorsi a chiederci se Berlusconi fosse o no democratico, se fosse giusto che stesse in politica nonostante avesse le tv. Tutti discorsi che rispetto alle grandi scelte erano marginali. In Italia, in pratica, non abbiamo governato per 20 anni accumulando un gap nei confronti dell’Europa di un punto all’anno di Pil di crescita in meno. Poi nel 2007 è arrivata la crisi e noi siamo stato il paese che ha avuto più recessione degli altri, abbia-

mo avuto il minor rimbalzo di uscita dalla recessione e siamo il paese maggiormente in recessione (Grecia a parte). Questo vorrà dire qualcosa? Se questo è il risultato di 20 anni di seconda Repubblica e di bipolarismo, i numeri parlano da soli. Dico bipolarismo bastardo perché questo sistema ha prodotto questo. Definirlo bastardo, dunque, è una gentilezza... Su Terza Repubblica campeggia una sua frase: «Occorre fermare il declino. E il miglior modo per farlo è ragionare senza pregiudizi e logiche di appartenenza sulla storia d’Italia e dell’ultimo decennio e sulle pagine che ci accingiamo a scrivere». La pagina che ancora noi italiani dobbiamo scrivere, quindi, sarà migliore di quella che abbiamo appena voltato?

La peggior cosa che ha fatto la prima Repubblica è darci la seconda. Ugo La Malfa, che è stato il mio maestro e al quale oggi ancora riferisco nel pensiero, negli anni ‘70, quando ero un giovane che faceva politica, mi disse di non contare sul fatto che il paese possa godere dell’effetto rimbalzo (cioè che a un certo punto ci sia un fondo, toccato il quale poi si rimbalza). Non c’è un fondo: c’è sempre qualcosa di peggio sottostante. Abbiamo sceso molti gradini e tocca a noi risalire. Ma non si risale schiacciando bottoni, né illudendosi che le cose possano cambiare da sole: si fa con la consapevolezza che occorre rimboccarsi le maniche e mettere in piedi un nuovo progetto. Tutto questo va fatto senza aver


BLACKOUT ITALIA intervista a Enrico Cisnetto

paura. Se sapremo farlo risaliremo quei gradini, altrimenti sarà un’ulteriore discesa verso l’inferno.

L’Intervistato

Quindi dipende da noi...?

Si, nessuno ci regala niente. Naturalmente sono consapevole che questa possibilità dipende anche dall’Europa perché aver creato una moneta unica senza aver fatto uno stato federale è stato un grave errore. Ora è doveroso toglierci da questo guado nel quale rischiamo, se rimaniamo fermi, di venire sommersi dall’acqua. L’unica soluzione, a mio avviso, sono gli Stati uniti d’Europa, il vero federalismo. Noi ci siamo riempiti bocca e cervello di un federalismo in salsa italiana, che ha moltiplicato l’apparato statale aggiungendo le regioni e le province; questo ha fatto sì che nascesse un sistema elefantiaco con costi, diritti di veto sul territorio e conflitti di competenza tra enti locali e Stato centrale. Il vero federalismo è quello verso l’alto, è quello che unifica, non quello che divide ciò che è già unito. Innanzitutto, però, bisogna mettere a posto casa nostra.

enrico cisnetto Nato a Genova il 23 maggio 1955, si innamora presto della scrittura e del giornalismo. Inizia nel 1980, al Secolo XIX, la professione di giornalista. In seguito diventa direttore di diverse testate Rusconi e vicedirettore de L’Informazione e di Panorama. Nel 1998 decide di sparigliare le carte e fonda lo “Studio Cisnetto”, con cui fornisce consulenze politico-strategiche a diversi soggetti. Dal 2002 realizza il programma di manifestazioni culturali “Cortina InConTra”, appuntamenti che si svolgono in estate e nel periodo natalizio a Cortina d’Ampezzo, e dal 2011 organizza “Roma InConTra”’. Scrive per Il Messaggero, Il Foglio, Il Gazzettino di Venezia, La Sicilia di Catania, Il Mattino di Napoli, Liberal e Il Mondo. Ha una rubrica quotidiana nella trasmissione radiofonica Zapping (Rai Radio1) ed è spesso ospite delle trasmissioni di approfondimento e telegiornali di Rai, Mediaset, Sky, La7.

L’Autore francesca siciliano Laureata in Scienze politiche, collabora con FareitaliaMag e Il Secolo d’Italia.

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I partiti devono ancora decantare

Quella ricetta low cost... Al paese serve una buona legge elettorale, la fine del bicameralismo, la riduzione drastica del numero dei parlamentari – almeno del cinquanta per cento –, una legge che dia stabilità all’esecutivo e più poteri al premier, una sfiducia costruttiva, una norma anti ribaltoni, e il più è fatto. 16

intervista a MARIO SECHI di ANGELICA STRAMAZZI

La lucidità di analisi con cui Mario Sechi descrive la situazione italiana sotto il profilo delle riforme è disarmante. I principali esponenti sia della Prima che della Seconda Repubblica – spiega con estrema franchezza da Palazzo Wedekind, sede del quotidiano romano Il Tempo che dirige dal 2010 e che lui stesso è solito definire «il giornale più anarchico d’Italia» – non hanno risolto gran parte delle criticità che affliggono il nostro sistemapaese.

Qual è stato l’approccio che l’Italia della Seconda Repubblica ha avuto verso il tema delle riforme?

Una sola parola: nessuno. Nel senso che quando sono state fatte riforme importanti, sono state fatte in fretta e male. Faccio un esempio: si è votata la riforma del titolo V della Costituzione, una sorta di devoluzione che delegava le regioni in materie che fino a quel momento erano di esclusiva competenza nazionale. Il risultato è stato di votarla unilateralmente, con po-


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chissimi voti di scarto – a memoria ricordo cinque – e la conseguenza finale è che oggi abbiamo la Corte Costituzionale ingolfata per i conflitti tra Stato e regioni per le materie del titolo V della Costituzione. Una riforma che doveva snellire il procedimento decisionale del paese è stata un vero e proprio fallimento. Le riforme elettorali invece non sono strutturali, nel senso che la riforma elettorale si può fare con legge ordinaria, si può fare quando si vuole (e di solito le maggioranze la fanno a proprio uso e consumo). In questo momento però servirebbe una riforma elettorale che di fatto non c’è. Sarebbe opportuno capire cosa vogliono fare i partiti perché in Parlamento restano sei mesi di lavoro effettivo. L’approccio di questo ventennio, dal 1992 a oggi, è disastroso. Perché tutti i temi che dovevano essere risolti nella Seconda Repubblica che cancellava in qualche modo la Prima sono ancora sul tappeto. Aspetteremo la Terza, di Repubblica. Lei ha parlato di riforma di legge elettorale. Ci sono diverse ipotesi al vaglio dei tecnici e dei tecnici dei diversi partiti. Il Partito democratico sembra propendere verso un sistema francese a doppio turno, opzione che invece in un primo momento ha spaventato il Popolo della libertà. Come mai?

Il Pdl pensa che il “mercato delle vacche” del secondo turno non lo favorisca: è sempre stato così. Il Pdl è favorevole al presi-

denzialismo ma non vuole il doppio turno. Da sempre è questa l’impostazione culturale. Alla fine se dovesse esserci una riforma elettorale sarà di tipo proporzionale con un piccolo sbarramento e con un premio di maggioranza per stabilizzarla: è questa un’ipotesi alla quale si lavora, un qualcosa di molto simile al sistema tedesco “italianizzato”. È sull’italianizzato che mi spavento perché solitamente quando c’è una cosa italianizzata, c’è sempre un inghippo sotto. Vedremo se poi riusciranno a farla, ma il mio sospetto è che non si arrivi a niente. Se si finisse per adottare un simile meccanismo non si rischierebbe di tornare indietro e di liquidare per intero il sistema bipolare?

No, perché adottare il proporzionale non significa per forza sfasciare il bipolarismo. Anzi, lo si potrebbe addirittura rafforzare. Innanzitutto, devono prendere atto in Parlamento di una situazione totalmente diversa rispetto al 2008. Nel 2008 c’erano due grandi partiti, il Pd e il Pdl, rispettivamente al 33 e al 38%, che aggregavano dei partiti minori, quindi c’erano delle coalizioni. Ora c’è una mappa geografica dei partiti dove le coalizioni di fatto non ci sono più: quelle del 2008 sono morte e non c’è più l’asse del Nord tra Pdl e Lega. Ma non c’è neanche il centrosinistra immaginato prima da Prodi e poi rivisto da Veltroni; dovrebbe esserci nel centrosinistra la foto di Vasto


BLACKOUT ITALIA intervista a Mario Sechi

che non è la stessa cosa evidentemente. Dunque, se lo scenario è cambiato, è chiaro che la legge elettorale deve rispondere anche a questo tipo di situazione e non può essere una legge elettorale che prevede ancora le coalizioni. È molto più logico che ci sia una legge elettorale che faccia vincere il primo partito con il premio di maggioranza, evitando così il ribaltone. Va al governo il primo partito che coalizza i suoi simili e forma la sua squadra. Questo succede già in Germania, in Spagna e nella stessa Gran Bretagna e si potrebbe fare in Italia senza attuare un tradimento del bipolarismo, perché si prende atto che le coalizioni non ci sono più. Inoltre, i due principali partiti, il Pd e il Pdl, attualmente non hanno più il 33 e il 38%. Questo significa che noi andiamo incontro a uno scenario in cui tutti i principali partiti sono dimagriti, sono molto piccoli: non abbiamo più grandi partiti, ma partiti di taglio medio – piccolo. Si tratta di un’altra realtà della quale la legge elettorale deve tenere necessariamente conto. A tutto ciò va aggiunto il peso che ha assunto il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo…

E che non abbiamo ancora pesato elettoralmente. Grillo può valere il 5%, può valere il 7%, potrebbe valere il 10%, il 15%, addirittura potrebbe valere il 20%! Ha le potenzialità per poter divenire il terzo partito del paese, e non c’è niente di male,

dal momento che Grillo entra nel mercato elettorale, presenta la propria offerta politica e l’elettore può sceglierlo. È politica, non è più antipolitica; è antipolitica quando si protesta solamente e non si partecipa alla competizione elettorale, ma nel momento in cui tutto ciò viene istituzionalizzato con il voto degli elettori e subentra il meccanismo della delega e della rappresentanza della volontà elettorale del popolo sovrano, si entra nel campo della politica. Torniamo al governo tecnico. Dopo una prima fase partita tutto sommato bene con la riforma del sistema pensionistico, sembra che l’azione riformatrice e propulsiva dei tecnici abbia perso vigore. Come mai è successo questo?

Tutto è partito dalla riforma del lavoro che era la più spinosa e si è rivelata tale. Il governo ha fatto molto bene all’inizio con la riforma previdenziale, poi a fine gennaio è andato giù, nel senso che è finito in una spirale di indecisioni e non di decisioni tale per cui alla fine si è ritrovato avviluppato nella politica. Per prudenza a Monti è stato consigliato di non spingere l’acceleratore sulla riforma del lavoro, fallendo di fatto una riforma molto importante. La verità è che oggi ci sono delle rigidità in entrata e scarse flessibilità in uscita. A ciò va aggiunto il problema del torchio fiscale, soprattutto in presenza di una recessione galoppante. L’esecutivo guidato da Monti ha scelto una

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BLACKOUT ITALIA intervista a Mario Sechi

disciplina fiscale rigida da una parte e oppressiva su chi paga le tasse dall’altra. In questo modo si è acuita la recessione e non si sono liberte le risorse da investire nella crescita. Inoltre i provvedimenti sulle liberalizzazioni sono poca cosa: se daranno frutti li daranno tra alcuni anni e non c’è traccia, tranne qualche timido segnale, di provvedimenti sullo sviluppo e sugli investimenti. Spesso si obietta che non ci sono soldi, ma io ci andrei cauto. I soldi ci sono, ma c’è meno fantasia di quanta ce ne dovrebbe essere. Si è venuta dunque, a creare una situazione di stallo simile a quella già vissuta in precedenza, in cui i tecnici non sembrano essere migliori della vecchia “politica politicante”.

In alcuni casi i tecnici si sono rivelati peggiori; tuttavia abbiamo ancora bisogno del governo tecnico perché attualmente non c’è alcuna alternativa politica credibile. I partiti oggi hanno bisogno di decantare ancora, di farsi un bell’esame di coscienza; se ci riescono, anche facendo le riforme rischiano una sonora debaclé alle prossime elezioni politiche del 2013. Già le amministrative del maggio scorso hanno chiarito che Grillo è un movimento politico alternativo a tutti e che il Pd e il Pdl sono destinati a diminuire il loro peso. C’è quindi bisogno di una legge elettorale che fotografi questa realtà e agevoli la formazione di un governo e la stabilità dell’esecutivo.

C’è chi addirittura paragona il fenomeno di Grillo al Berlusconi del ’94.

Sono due fenomeni completamente diversi. Berlusconi era un self made man, un imprenditore. E il clima politico era quello del ’93 – ’94, l’Italia era scossa da Tangentopoli e il Cavaliere voleva un partito americano traghettare nel nostro paese il sogno reganiano. Oggi, francamente questo scenario non esiste: Grillo è partito come forza antisistema, partecipa alle elezioni, ha qualche idea confusa, i suoi amministratori candidati nelle realtà locali mi sembrano molto meglio. Aspettiamo, è presto per dare un giudizio complessivo sul fenomeno di Grillo. L’Italia è stata spesso definita un Paese irriformabile. Perché?

Irriformabile? Non sono completamente d’accordo. Credo che l’Italia sia un paese ingovernabile sotto diversi aspetti, perché l’italiano è molto anarchico, neocorporativo e non accetta di buon grado regole che liberano da questo neocorporativismo. Ma in questo si rintracciano molte delle difficoltà che sta incontrando Monti in questo momento. Se c’è la volontà politica si riforma il paese. Certo, facendo dei sacrifici e spiegando agli italiani che il mondo è cambiato. Che la vita e debito è finita, che l’evasione fiscale va combattuta e che bisogna mettersi a pedalare perché la ricchezza si sta spostando da Occidente a Oriente, non ci aspettano.

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È stato più volte ribadito che molti dei “mali italiani” derivano dalla mancata riforma dell’assetto istituzionale, datato e obsoleto per i nostri tempi. Come mai si percepisce così tanta ostilità e ostruzionismo nel voler introdurre qualche modifica alla seconda parte della Carta Costituzionale?

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Essenzialmente perché la Costituzione è vissuta come un totem o un feticcio. Diciamo che sopravvive tuttora il mito della sinistra, per cui la Costituzione la possono riformare solo loro – non a caso il titolo V l’hanno riformato loro, da soli – mentre il centrodestra di marca berlusconiana non possa farlo. Vediamo cosa succederà adesso e se davvero avranno voglia di metter mano a una Costituzione che è indubbiamente invecchiata, dal momento che presuppone un ordine mondiale diverso e un ordine del paese che è completamente mutato, non vedo perché la Costituzione non debba cambiare: io sotto alcuni aspetti cambierei anche la prima parte. Quali?

Non viene mai citata l’impresa e la libertà d’impresa. Poi riformerei la parte dedicata ai partiti e alle associazioni che è assolutamente obsoleta, senza dimenticare la questione della cittadinanza. Quale riforma sarebbe davvero prioritaria in questo momento e quale attuerebbe lei se fosse al governo?

Per mia fortuna faccio il giornalista e non rientra tra i miei pia-

ni fare politica, però le cose di cui ha bisogno il paese sono chiare. Serve una buona legge elettorale, la fine del bicameralismo, la riduzione drastica del numero dei parlamentari – almeno del 50% –, una legge che dia stabilità all’esecutivo e più poteri al premier, una sfiducia costruttiva, una norma anti-ribaltoni. A ciò andrebbero aggiunte alcune riforme economiche importanti: una buona riforma del lavoro, liberalizzazioni più forti in settori che sono iperprotetti (come banche e assicurazioni) la vendita immediata delle quote di controllo nelle società municipalizzate da parte dei comuni e degli enti locali. Si tratta di un tema molto delicato: il socialismo municipale è uno dei fattori che bloccano la crescita nel settore dei servizi. Questo paese è ricco: ha solamente bisogno di liberare le proprie energie. Il problema si crea nel momento in cui tutte queste riforme venissero sottoposte al giudizio dei cittadini tramite lo strumento referendario, come è accaduto nel ’93 per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

Il referendum è un grande strumento di democrazia, ma se non c’è una corretta informazione e formazione del cittadino, può rivelarsi un disastro. Però bisogna accettare anche il voto. Come vede l’Italia post 2013 sempre dal punto di vista delle riforme? Non manca molto tempo al termine della legislatura e tutte le proposte di rifor-


BLACKOUT ITALIA intervista a Mario Sechi

ma che lei ha suggerito saranno in gran parte inattuabili.

L’Intervistato

Credo che l’Italia confermerà l’inclinazione degli ultimi venti anni, ossia quella di un paese in eterna transizione. Spero di no, ma mi sembra che siamo avviati a un’altra era di incertezza.

mario sechi È originario di Cabras, in Sardegna. Dopo aver studiato giornalismo alla Luiss di Roma, ha iniziato la sua carriera a L’Indipendente nel 1992. Nel 1994 viene assunto a Il Giornale, per il quale è caporedattore a Genova e poi a Milano. Dal 1998 all’ottobre 2001 torna in Sardegna per dirigere L’Unione Sarda. Nel novembre 2001 ritorna a Il Giornale, dove ricopre l’incarico di vicedirettore e capo della redazione romana. Dopo sei anni, nell’ottobre del 2007 passa al settimanale Panorama, sempre con l’incarico di vicedirettore e capo della redazione romana. Nell’agosto 2009 viene nominato vicedirettore di Libero. Dall’8 febbraio 2010 è direttore del quotidiano romano Il Tempo. Si occupa di politica interna e internazionale, ha collaborato con la rivista di cultura politica Ideazione e scrive di geopolitica e diplomazia sulla rivista Emporion. Collabora dall’Italia con il giornale online americano Pajamas Media. È anche consigliere d’amministrazione della Fondazione Magna Carta, un think tank italiano.

L’Autore angelica stramazzi Specializzanda in Sistemi e modelli politici all’Università di Perugia, collabora con Spinning Politics, testata on line di comunicazione politica. Corrispondente locale de La Provincia Quotidiano, svolge attività di consulente politico, occupandosi di comunicazione politica e istituzionale.

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QUELLA TEORIA DEL CAOS (POLITICO) Ormai alla vigilia del voto, l’orizzonte politico italiano è in pieno marasma: in tutta la storia del nostro paese non si era mai registrata tanta confusione nell’imminenza dell’appuntamento elettorale. Se non ne approfitterà un pirata della politica, ci guadagnerà chi saprà mantenere saldi un po’ di raziocinio e una lucida visione del futuro. di ALESSANDRO CAMPI


BLACKOUT ITALIA Alessandro Campi

L’elettore che si reca alle urne si al momento di recarci alle urne. comporta – secondo una vecchia Viviamo, questo è il problema, e sempre calzante metafora – allo una fase di totale incertezza, al listesso modo dell’avventore di un mite del caos. Non c’è attore poristorante: come quest’ultimo litico – tra coloro che sostengono sceglie tra le pietanze e i piatti l’esperimento del governo tecniche sono indicati nel menù, così co (Pdl, Pd, Udc, Fli) e tra coloro il primo sceglie tra le sigle e i che gli si oppongono (Italia dei simboli che sono riportati nella Valori, Lega) – che sappia in che scheda elettorale. Non si può vo- forma, con quale programma, tare un partito che non partecipa con quali uomini, con quale noalla competizione (a meno di non me o sigla, con quali alleati, con annullare la scheda). Al tempo quale candidato alla premiership e, stesso, non ha alcun senso annun- soprattutto, con che tempi (a otciare – oggi – il proprio voto per tobre o alla scadenza naturale un partito che tra quattro o cin- della legislatura?) si presenterà al cospetto degli itaque mesi forse non liani. Se questa è esisterà più. Così Se l’elettore risulta la condizione, cocome non posso same stupirsi delpere se per caso il indeciso è perché mio consenso an- il menù elettorale a sua l’alto numero di astenuti registrato drà, il giorno delle da tutti le indagielezioni, a una for- volta è confuso, mazione politica illeggibile o poco chiaro ni demoscopiche? Non si tratta solo che al momento ancora non esiste. Insomma, se di disgusto nei confronti della l’elettore risulta indeciso è perché politica e della classe parlamentail menù elettorale, all’interno del re: il problema è che è difficile quale selezionare il cibo politico pronunziarsi a favore di questo o che si preferisce, è a sua volta di quel partito se si ha la ragioconfuso o illeggibile o privo di nevole certezza che esso potrebbe non figurare tra quelli presenti chiarezza. Ciò significa – con riferimento al nella scheda elettorale o se si riclima politico che si respira at- tiene (o magari semplicemente si tualmente in Italia – che da mesi spera) che potrebbe affacciarsi stiamo ragionando su sondaggi, sulla scena qualche nuova forza, o proiezioni, ipotesi di alleanze e qualche nuovo leader, in grado di scenari privi di qualunque consi- interpretare meglio i nostri umostenza o significato, dal momen- ri e i nostri interessi. to che il quadro che abbiamo at- Prendiamo, ad esempio, il Pdl, tualmente sotto gli occhi (e sul che negli ultimi mesi ha fatto requale ci viene chiesto di esprime- gistrare un drammatico calo di re le nostre valutazioni) potrebbe voti: reali, come si è visto in ocessere profondamente diverso da casione delle recenti consultazioquello che ci troveremo dinnanzi ni amministrative, e virtuali, co-

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me attestano tutti i sondaggi. protesta (magari all’indirizzo di Sopravvivrà questo partito sino Grillo). al giorno del voto? Nessuno può Prendiamo anche il cosiddetto dirlo, a partire dai suoi stessi di- Terzo polo, che avrebbe dovuto rigenti. Senza considerare, poi, raccogliere – sulla base di un l’atteggiamento, a dir poco am- progetto comune – Casini, Fini e biguo e oscillante di Berlusconi Rutelli con le relative formazioni (che di quel partito rimane pur politiche. In realtà, un partito sempre il fondatore e il capo-pa- con questo nome non è mai nato drone): un giorno parla di rilan- formalmente: è rimasto piuttosto ciare e compattare il Pdl attra- un’esercitazione giornalistica o, verso lo strumento delle primarie per meglio dire, un annuncio. (alle quali, bontà sua, non parte- Così come non è mai nato il ciperebbe per evitare di condi- “partito della nazione”, di cui zionarne l’esito già alla partenza), pure molto si è parlato. Fino a il giorno successivo propone la che punto ci si può esercitare nei sondaggi su un nascita di una “lipartito che non sta civica naziona- Fino a che punto si esiste, se non allo le” della quale postato potenziale? trebbe essere il può esprimere Si diceva che il leader oltre che consenso a un partito “Terzo polo”, all’ispiratore, il meno nelle intengiorno ancora suc- o a una sigla che forse zioni di voto degli cessivo suggerisce non nascerà mai? italiani, potesse la creazione di una federazione di liste “a tema” (dei valere sino al 15%. Si è poi visto, giovani, delle donne, degli ani- alle amministrative dell’aprile malisti, contro l’euro, contro le 2012, che i partiti che sulla carta tasse, per il Sud, per l’ambiente, lo componevano (peraltro rimasti contro gli immigrati) in grado di attaccati alle rispettive sigle) intercettare i diversi segmenti hanno guadagnato poco o nulla del mercato elettorale, ivi com- rispetto alle proprie attese e alle presi i tanti elettori che oggi si promesse (forse sin troppo genedichiarano amareggiati e arrab- rose) dei sondaggisti. Ma in che biati. Quale di queste ipotesi modo gli elettori avrebbero poprevarrà? Nell’incertezza sul da tuto premiare – e soprattutto farsi, si comprende perché gli perché – una formazione che non elettori del centrodestra (peraltro era presente sulle schede elettogià assai delusi dalla cattiva pro- rali di nessun comune o provinva di sé offerta dall’ultimo gover- cia? E sino a che punto si può no del Cavaliere) preferiscano ri- esprimere consenso a un partito o fugiarsi in massa nell’astensioni- a una sigla che forse non nascerà smo e nell’area cosiddetta del mai per volontà di coloro stessi non voto, o addirittura dichiari- che dovrebbero dargli vita? no di voler abbracciare il voto di Se passiamo dai singoli partiti al-


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AFORISMI L'uomo è per natura un animale politico. Aristotele, Politica, IV sec. a.e.c. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Luciano Bianciardi, La vita agra, 1962 La politica è il governo dell'opinione. Carlo Bini, Manoscritto di un prigioniero, 1833 La politica non è una scienza esatta. Otto von Bismarck, Discorso al Reichstag, 1863 La politica non è una scienza, come molti fra i signori professori immaginano, ma un'arte. Otto von Bismarck, Discorso al Reichstag, 1884 Il dominio d'un buono si dice regno e monarchia. D'un malo si dice tirannia. Di più buoni si dice aristocrazia. Di più mali si dice oligarchia. Di tutti buoni si dice politia. Di tutti i mali si dice democrazia. Tommaso Campanella, Aforismi politici, 1601 La politica ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Pino Caruso, Ho dei pensieri che non condivido, 2009 L'onestà è la miglior politica. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, 1605/15 Quasi sempre, in politica, il risultato è contrario alle previsioni. François-René de Chateaubriand, Memorie d'oltretomba, 1849/50 (postumo) Da sempre, in politica, patrocinare la causa del povero è stato il mezzo più sicuro per arricchirsi. Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, 1977/92 Politica vuol dire realizzare. Alcide De Gasperi, Discorso a Milano, 1949 La politica è l'arte d'impedire agli avversari di fare la loro. Roberto Gervaso, Il grillo parlante, 1983 Ciò che gli osservatori politici interpretano come indifferenza dell'elettorato può rappresentare, al contrario, un salutare scetticismo nei confronti di un sistema politico in cui la menzogna e la frode sono diventate una prassi abituale ed endemica. Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, 1979 La politica è la scienza dell’opportunismo e l’arte del compromesso. Franz Liszt, Lettera alla principessa Carolyne, 1870 In politica, la saggezza è non rispondere alle domande. L'arte, non lasciarsele fare. André Suarès, Ecco l’uomo, 1906

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le alleanze tra questi ultimi che patto di ferro con Lega (a dispetpotrebbero realizzarsi in vista del to della recente rottura con Bossi voto la confusione cresce ancora. al momento della nascita del goStando alle dichiarazioni dei pro- verno Monti), magari potrebbe tagonisti, che non a caso cambia- persino fare la pace con Fini, no quotidianamente, potrebbe sempre che quest’ultimo non si accadere tutto e il suo contrario ritiri a sua volta dalla vita politinel prossimo futuro. Casini po- ca (come qualcuno sostiene), non trebbe tornare con Berlusconi, decida di andare da solo alle urne ma potrebbe anche accordarsi (con un partitino che vale appena con il Pd, decidere di andare da il 3%?) o non si adatti a seguire solo con la sua sigla storica Casini nel suo tentativo di creare (Udc), stringere un patto con il una terza forza in funzione antinuovo partito di Luca Cordero di bipolare. M o n t e z e m o l o (se mp re c h e Se ci spostiamo a sinistra, poco quest’ultimo si decida a farlo na- cambia. L’accordo tra Bersani, Di Pietro e Vendola scere) oppure (la cosiddetta “foto prendere nuova- I partiti che abbiamo di Vasto”) sembramente in consideva cosa fatta, salvo razione l’ipotesi di oggi potrebbero non che nel Pd molti un terzo polo da essere più quelli preferirebbero licostruire, dopo berarsi dall’abbracaverlo soltanto an- che gli italiani cio con il fondatonunciato, insieme dovranno votare re dell’Italia dei a Fini e Rutelli (e magari anche Montezemolo, che Valori a beneficio dei centristi entrerebbe in politica, in que- guidati da Casini. Ma come st’ultima ipotesi, non con una escludere che il Pd decida di ansua formazione autonoma, bensì dare da solo al voto facendosi sorifluendo in un più ampio conte- stenere da una serie di liste civiche ispirate dai cosiddetti movinitore elettorale). Berlusconi (oltre che ritirarsi menti o da singole personalità dalla scena politica, ma nessuno (Saviano o figure analoghe)? In ci crede, o lasciare il posto a un quest’ultimo caso, Di Pietro e successore da lui stesso designa- Vendola si divideranno a loro to, ma anche a questa ipotesi cre- volta (con quest’ultimo che farà dono in pochi) potrebbe, dal can- di tutto pur di restare agganciato to suo, come abbiamo accennato, ai democratici) o uniranno le ririlanciare il Pdl con qualche stra- spettive forze (magari sotto tagemma propagandistico o li- un’unica e nuova sigla?). quidarlo del tutto, potrebbe ag- Per riassumere la situazione. Da ganciare Casini nel segno del un lato, i partiti che oggi abbiamoderatismo o della comune ap- mo (peraltro tutti assai acciaccati) partenenza al popolarismo euro- potrebbero non essere più quelli peo oppure tornare a stringere un tra i quali gli italiani saranno


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chiamati a scegliere il giorno del si, del pragmatismo. E con la voto. Potrebbero esserci altre si- scusa del pragmatismo e delgle e formazioni: del tutto nuove l’emergenza, come è noto, si può e al momento persino difficili da fare tutto: anche rimangiarsi i immaginare (ad esempio un ipo- propositi del giorni prima o alletetico “partito dei tecnici”, che arsi, pur di vincere, con l’avvertenti di tradurre politicamente sario di sempre. l’esperienza dell’esecutivo Monti, Naturalmente, non abbiamo paroppure una o più liste civiche) o lato, per non complicare vieppiù semplici “coperture” dei partiti la scena, della legge elettorale. che già esistono (che per soprav- Resterà in vigore l’attuale Porvivere cercheranno di dare vita a cellum o si riuscirà ad adottare nuove e più vaste aggregazioni o un nuovo meccanismo di voto si limiteranno a cambiare nome (magari di tipo proporzionale)? per dare l’illusione ai cittadini di L’incertezza sul modo con cui, tecnicamente, gli elettori sceessere una novità). glieranno i loro Dall’altro, questi rappresentanti nastessi partiti (e for- C’è anche l’incertezza turalmente non fa se lo stesso faranno che aggravare l’inquelli che, di qui a sulla legge elettorale certezza che grava breve, ne prende- ad accrescere sull’Italia a pochi ranno il posto) mesi (o forse a pohanno linee politi- gli interrogativi sulle che settimane) dal che e gruppi diri- prossime elezioni voto. Incertezza genti che, preoccupati soprattutto di non restare che suggerisce due riflessioni. travolti dall’onda apparentemen- La prima è che un Paese nel quate inarrestabile dell’antipolitica, le nessuno, tra i membri della si rendono potenzialmente di- sua classe politico-parlamentare, sponibili a qualunque tipo di al- sa bene cosa fare, nel quale la poleanza o accordo o formula elet- litica si muove al buio e all’insetorale. Quale che sia il loro posi- gna del “giorno per giorno”, nel zionamento formale sullo spettro quale le parti politiche tendono a politico, sono sostanzialmente in incrociarsi e sovrapporsi senza algrado di spostarsi – secondo la cuna logica, nel segno della più convenienza – da destra a sini- assoluta indistinzione, un Paese stra con estrema velocità, avendo così difficilmente può sperare di peraltro come giustificazione il risollevarsi in breve tempo dai fatto di operare in una situazione mali che l’affliggono. Il rischio, di grave emergenza (soprattutto semmai, è che tali mali si aggraeconomica) e di essere all’interno vino proprio per la mancanza di di una fase storica che ha visto disegni politici percepibili come declinare le ideologie tradiziona- chiari e distinti. Se tutti, potenli e affermarsi un’idea della poli- zialmente, possano allearsi con tica all’insegna, come suole dir- tutti prevale la logica dell’amal-

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gama: esattamente ciò che consente a chi contesta il sistema dall’esterno di dire, ricorrendo all’argomento tipico della protesta populista, che i partiti “sono tutti eguali” e che meritano tutti insieme di sparire dalla scena. Non solo, ma quando tutto può accadere, per bocca degli stessi protagonisti, succede che può realmente accadere di tutto: anche che un avventuriero, un protagonista dell’ultima ora al quale al momento nessuno pensa, si getti nella mischia e capitalizzi a proprio favore il caos imperante. Che nel caso dell’Italia è quanto in realtà sta già avvenendo. Più i partiti danno prova di essere in stato confusionale, di essere pronti a tutto pur di salvare se stessi e i loro vertici, di muoversi secondo una logica meramente contingente, più crescono i consensi nei confronti di chi – appunto Grillo – ha almeno un punto fermo nel suo programma: mandare a casa l’attuale classe politica tutta intera, magari dopo averla costretta a subire una pubblica gogna! Il quadro è dunque questo: siamo nel marasma. Non era mai capitato, nella storia italiana, che nell’imminenza di un voto ci fosse tanta confusione su chi i cittadini potranno votare, e per che cosa, e sulla base di quali equilibri, e partire da quali uomini o simboli. E se ad approfittare di una tale situazione non sarà – come molti temono – un pirata della politica, un nuovo Salvatore o un giustiziere, potrebbe guadagnarci politicamente chi in tanta

confusione riuscirà a mantenere, da qui ai prossimi mesi, un briciolo di raziocinio, di intelligenza politica e di visione del futuro. Arrivando a proporre agli italiani, in vista del voto, non i soliti trucchi (tipo cambiare nome ai partiti per l’ennesima volta o mettere qualche faccia nuova nelle liste elettorali giusto per nascondere o far dimenticare quelle impresentabili dei vecchi marpioni o creare formazioni politiche fasulle destinate a scomparire all’indomani del voto), trucchi pensati solo per gettare fumo negli occhi e per impedire ogni reale innovazione, ma soluzioni e programmi concreti, ipotesi politiche a loro volta credibili e coerenti e, infine, uomini e nomi che diano il segno di un cambiamento reale (non necessariamente di tipo generazionale) nella classe politica. Riusciranno la prudenza, il buon senso e la ragionevolezza ad aver la meglio sulla paura e la propaganda?

L’Autore alessandro campi Insegna Storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia, con l’incarico di Professore associato.



CENTRODESTRA, FINE DELLA CORSA? Pdl e Pd, ma anche Fli, Udc e le forze extraparlamentari di sinistra: ognuno cerca una ricetta nuova nel tentativo di trovare uno spazio predominante sulla scena politica del dopo-Monti. di ANTONIO RAPISARDA


BLACKOUT ITALIA Antonio Rapisarda

Sarà pure maggioritario, come crediti per le aziende da parte delblocco sociale di riferimento. Sarà lo Stato o la battaglia sull’Imu) ai pure pronto, al momento giusto disastri della difesa di interessi au(come dicono) a convincere i pro- toreferenziali (vedesi il caso delle pri elettori a non disertare più le nomine Rai). Di fatto, come il Pd, urne. Sarà pure capace, come dopo sembra tentennante sulla strada il vuoto politico creato da Tangen- da seguire nei confronti dell’espetopoli, di plasmarsi dal nulla in rienza dei tecnici, ma, a differenza qualche mese per dare rappresen- dei democrat, dà l’impressione di tanza all’Italia che non accetta né vivere un processo di dissociazione la sinistra fotografata a Vasto né la continua. Ci sono i nostalgici deldemagogia di Beppe Grillo. Sarà lo spirito del ’94 (in tanti si chietutto quello che vogliamo, ma dono dove sono stati in tutti quequesto centrodestra, il nucleo di sti sedici anni), ci sono gli ex An partiti che lo hanno rappresenta- (che mal digeriscono i tecnocrati), to, attualmente è ridotto più che ci sono i berlusconiani duri e puri (forse un po’ nichialtro allo stato gaslisti) e gli alfaniani soso. A meno di un Questo centrodestra che faticano ancora anno da quelle elea fare la voce groszioni che dovreb- attualmente sa. Un processo bero restituire la è ridotto esattamente caponormale dinamica volto rispetto a di un governo “po- più che altro quello che ne ha litico”, i guai più allo stato gassoso determinato la nagrossi si registrano proprio qui, in quella che, fino a scita: unire cattolici, liberali, potre anni e mezzo fa, rappresentava polari e destra nazionale all’interla più grande coalizione di centro- no di un partito di massa del terdestra in Europa. Guai che, con il zo millennio. Ma tant’è. Un partipassare del tempo, stanno diven- to, tuttavia, che con Angelino Altando dei nodi sempre più intrica- fano, in questa ultima stagione, stava cercando un’evoluzione fatiti da sciogliere. Partiamo dal partito che dovrebbe cosa verso la normalizzazione dei rappresentare la colonna portante suoi processi politici e democratidella coalizione e che più di tutti ci. Lo si è visto con il progetto registra movimenti sussultori: il delle primarie, che rappresenta Pdl. Costretto, per senso di re- un’innovazione per il Pdl e che sponsabilità nazionale, a far parte ben si connette con la richiesta della “strana maggioranza” che so- dell’elettorato di poter selezionare stiene il governo Monti, da mesi meglio (dopo i disastri causati danon è più un partito guidato da gli “abusi” del Porcellum) la clasun anarchico come Silvio Berlu- se dirigente. Peccato però che sia sconi ma un partito anarchico e bastato l’annuncio del ritorno di basta. Alterna buone prove (come Silvio Berlusconi, perché – anche quella sulla compensazione dei tra i più stretti collaboratori del

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segretario – tutti abbiano alzato lo stesso presidente della Camera le mani in segno di “resa”. Il Pdl, è andato su tutte le furie per il insomma, tra i tanti problemi che comportamento del “falco” Fabio lo affliggono, non è riuscito anco- Granata, molto critico rispetto al ra a sciogliere quello che in pro- caso Fornero. Di fatto, come è già spettiva può risultare esiziale: il accaduto dai tempi di Alleanza cordone ombelicale con il capo nazionale, si ripresenta anche qui il distacco crescente tra Fini e la carismatico. Ma i guai, chiaramente, non sono base. Quale sia l’orizzonte, però, solo in casa Pdl. Perché – dopo la non è dato saperlo. crisi interna tra Silvio Berlusconi Per ciò che riguarda gli altri pare Gianfranco Fini – tutto il cen- titi che, a fasi alterne, hanno raptrodestra ha subito un vero e pro- presentato gli ulteriori interpreti prio blackout. Prendiamo Futuro e del centrodestra, non si può dire libertà, che, esaurita la spinta che vivano una situazione miglioemotiva della rottura con il berlu- re. Certo, l’Udc sembra vivere con Monti quell’espesconismo, non ha rienza di governo resistito politica- I guai non sono solo che gli è stata premente che un paio clusa negli ultimi (di cambi) di sta- in casa Pdl, tutto cinque anni. Non gione. Le ultime il centrodestra si comprende, peassise futuriste rò, quale sia la prohanno dimostrato ha subito un vero spettiva politica come dopo la falli- e proprio blackout del partito centrita spallata a Berlusconi, la mancata affermazione sta. Fallito, per stessa ammissione elettorale del partito e del Terzo di Pier Ferdinando Casini, il propolo, la “traversata nel deserto” si getto di un Terzo polo autosuffisia inevitabilmente complicata. ciente e “attrattore” degli sconRispetto allo stesso governo tec- tenti di Pdl e Pd (i quali si sono nico, infatti, all’interno di Fli rivolti, copiosi, a Grillo), gli ex convivono diverse anime. Da una democristiani hanno lanciato parte i sostenitori di Monti, che un’Opa sul governo tecnico. Salvedrebbero di buon occhio la pro- vo, poi, verificare la crescente imsecuzione delle larghe intese (pre- popolarità non solo dei provvediferibilmente senza il Pdl) ben ol- menti (rispetto ai quali il fantotre la scadenza delle Politiche del matico spread non ha reagito co2013; dall’altra vi è il grosso dei me auspicavano), ma anche di almilitanti che non intende rinun- cune prove oggettivamente deluciare alla propria “specificità” e denti dei tecnici rispetto ai quali che crede – semmai – che possa ci si aspetta un’intesa e un futuro essere ipotizzabile una nuova in- politico (Corrado Passera, Andrea tesa di centrodestra senza Berlu- Riccardi ed Elsa Fornero). L’ultisconi. Quale sia l’intenzione del ma trovata, a questo punto, è l’avleader si è potuto capire quando vicinamento al Pd: ipotesi che do-


BLACKOUT ITALIA Antonio Rapisarda

vrebbe prefigurare per Pierluigi Bersani o una coabitazione tutta da dimostrare con Antonio Di Pietro e Nichi Vendola o l’abbandono di questi in luogo di un’intesa che guardi al centro. Ma, in quest’ultimo caso, scatterebbe un’opposizione a sinistra del Pd che rischierebbe di erodere molti consensi (senza contare i voti già persi in direzione Grillo). La Lega, invece, dopo aver chiuso in malo modo l’esperienza di Umberto Bossi con rispettivo “cerchio magico”, sta iniziando una nuova avventura con il suo rappresentante che gode di migliori crediti: quel Roberto Maroni che sta cercando di ripartire con un’immagine del Carroccio meno folclorista e più attenta a riportare al centro il discorso sul Nord. Anche qui, però, la mancata stagione riformatrice targata Lega, l’alternativa populista rappresentata da Grillo e la guerra fratricida dovuta alla rottura dell'alleanza con il Pdl hanno ridimensionato – e di parecchio – il raggio d’azione e di attrazione del Carroccio. Adesso, per tutti questi soggetti, saranno i prossimi mesi a rappresentare l’ultimo banco di prova. C’è chi, compresa l’antifona antipolitica, ha scelto di cavalcare l’euroscetticismo sperando di monetizzare la protesta contro i partiti così diffusa nel corpo elettorale. Altri, invece, sognano di prolungare l’esperienza sancita dal “governo del Presidente” che ha portato Monti a palazzo Chigi. Il problema, però, è che quest’ultima sembra un’ipotesi più legata alla sopravvivenza politica che a

un vero investimento riformatore. Tra le ipotesi politiche vi è l’idea di “aggregare” Monti per proseguire nel percorso che il centrodestra non è riuscito a fare (come hanno dimostrato il capitolo riguardante la riforma del lavoro e il tema della spending review) oppure quella di una coalizione che prenda atto dell’esperienza di Monti (e quindi dei deficit accumulati dall’ultimo governo di centrodestra) per proporsi come forza rinnovata (e, probabilmente, di opposizione). Il tempo rimasto in ogni caso è poco. Il problema dirimente nel centrodestra, però, è che tutto sembra ancora dipendente dalla volontà del vertice. Nel senso che tutto (o quasi) passa ancora dagli umori del Cavaliere – che alterna momenti grancoalizionisti a tentazioni di strappo definitivo – dalle fumantine opzioni teoriche di Fini – che continuano a non tradursi in un progetto politico solido – e dalla perenne ricerca terzista di Casini, bocciata dalle urne. E tutto questo potrebbe essere punito duramente dall’elettorato, quello maggioritario.

L’Autore antonio rapisarda Giornalista professionista. Collabora con il Secolo d’Italia e Fareitaliamag.

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Serve una svolta epocale

PER IL LAVORO APRIAMOCI ALL’EUROPA

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Spalanchiamo le porte all’Europa per attrarre gli investimenti stranieri, solo in questo modo possiamo tornare a creare posti di lavoro. Ma è necessaria la modifica dell’art. 18 e la strada che ha intrapreso il governo è quella giusta. Ora però è arrivato il momento di osare di più. intervista a PIETRO ICHINO di FABIANA TONNA

Ichino spiega tre possibili azioni per contrastare il blackout del lavoro: spalancare le porte agli investimenti stranieri, sfruttare gli skill shortages e attivare una politica economica espansiva sul piano europeo. Sulla riforma del lavoro parla di una svolta reale, anche se non sufficiente. Spiega l’importanza di essere passati, come principio generale, da una property rule a una liability rule. Sul problema esodati commenta: «è stato un gravissimo errore della mia generazione nei confronti di quella dei nostri figli, in occasione della riforma delle pensioni del ‘95, applicare i nuovi criteri alle sole nuove generazioni escludendo le vecchie, non soltanto

creando un’ingiustizia, ma anche mantenendo in vita una situazione insostenibile per l’equilibrio del bilancio statale. Ora abbiamo dovuto riparare a quell’errore, facendo in due settimane quello che avremmo dovuto fare gradualmente in due decenni». Senatore Ichino, in questo periodo stiamo vivendo un vero e proprio blackout del lavoro. Secondo lei come possiamo uscire da questo stallo?

Abbiamo due leve possibili, a meno di non pensare a un ritorno all’isolamento, all’uscita dell’Italia dall’Europa, che sarebbe però catastrofica per molti altri aspetti. Se vogliamo andare avanti, anzitutto non abbiamo altra scelta


BLACKOUT ITALIA intervista a Pietro Ichino

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che quella di aprire, spalancare il nostro paese agli investimenti stranieri: una leva che noi oggi utilizziamo pochissimo perché siamo ermeticamente, drammaticamente chiusi agli investimenti stranieri. Per questo occorrono riforme che rendano più efficiente l’Amministrazione pubblica e le infrastrutture di comunicazione e di trasporto, ma anche che rendano più semplice e più leggibile la nostra legislazione, in particolare la legislazione del lavoro. Misure, in pratica, che allentino la morsa della burocrazia. Si tratta di riforme che non costano molto, anzi, sono a costo zero e potrebbero essere fatte in tempi brevissimi. Il codice del lavoro semplificato, traducibile in inglese, è già tecnicamente pronto e politicamente maturo: ci sono state manifestazioni di interesse e disponibilità da parte di tutte le forze politiche, quindi si potrebbe fare in tre mesi e lancerebbe un importante messaggio a operatori stranieri che vedono l’Italia, oggi, come un paese bizantino, incomprensibile, in cui la legge dice una cosa, ma per sopravvivere economicamente bisogna farne altre che loro non sanno o non conoscono, rispetto alle quali non hanno il know how che possiedono soltanto gli imprenditori indigeni. Tutto ciò si potrebbe fare subito e avrebbe sicuramente un impatto positivo. L’altra leva deve essere quella di una politica economica espansiva a livello europeo. I singoli Stati, oggi, non possono battere moneta, non possono indebi-

tarsi più di quanto già non siano indebitati. In Italia non si possono mettere nuove tasse perché siamo già largamente oltre il limite della tassabilità dei redditi. Si può pensare a imposte sui patrimoni, ma l’Imu è già un’imposta patrimoniale ed è vissuta male per il carico che si aggiunge agli altri carichi fiscali. Quali misure dovrebbe prendere il governo per rilanciare l’occupazione?

Non abbiamo margini per aumentare l’investimento a spese dello Stato e dobbiamo puntare con tutte le nostre forze sulla realizzazione di un governo europeo dell’economia, che faccia quella politica espansiva che i singoli Stati non possono fare. Ma per questo dobbiamo avere le carte in regola. Dobbiamo essere affidabili come partners per gli altri Stati, come soprattutto per la Germania, che devono potersi fidare di noi. Per questo mi sembra giusto l’impegno posto da Monti per sottolineare l’affidabilità del nostro paese. Poi, certo, questo implica che anche il rigore sia sostenibile ed è necessario fare attente verifiche in proposito, ma non abbiamo altre strade da battere. Nel mercato del lavoro, inoltre, si può fare molto anche a legislazione invariata. A che cosa pensa?

Penso, ad esempio, agli skill shortages, cioè a tutti i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di personale qualificato che possa ricoprirli. È un giacimento occupa-


BLACKOUT ITALIA intervista a Pietro Ichino

zionale che va utilizzato fino in fondo e che, invece, noi oggi sprechiamo. Sono decine di migliaia di posti di lavoro permanentemente scoperti in ogni Regione. E se le Regioni danno pessima prova sul terreno dei servizi del mercato del lavoro, deve valere il principio di sussidiarietà: intervenga lo Stato a sostituire i servizi regionali nelle Regioni che non fanno quel che devono. Poi, in generale, penso che occorra una flessibilità degli standard, che consenta di aumentare i tassi di occupazione dove la situazione non consente di reggere gli standard attuali, come nel Mezzogiorno. Non si tratta di reintrodurre gabbie salariali, ma di “sgabbiare” la contrattazione collettiva aziendale, consentirle di fissare standard che tengano conto del contesto locale, per abbattere il muro che separa domanda e offerta di lavoro.

voli secondo gli standard centronordeuropei. Bisogna riconoscere, che su questo punto, c’è stata una svolta direi epocale. Pur se io avrei preferito una riforma ancora più netta e incisiva e formulata in modo più semplice. Che giudizio dà della riforma degli ammortizzatori sociali?

Se ne parlava da 18 anni senza che mai, né da destra né da sinistra se nè si sia cavato un ragno dal buco. Ora la legge introduce, per la disoccupazione, un’assicurazione di carattere universale estesa a tutto il lavoro subordinato e riconduce la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria (quella di tenere legato il lavoratore all’impresa nelle situazioni in cui questa ha la prospettiva di riprendere l’attività). Bisognava impedire che continuasse l’uso della Cassa integrazione al posto dei trattamenti di disoccupazione.

Lo scorso 31 maggio il Senato ha approvato il testo della riforma del lavoro. Qual è il suo giudizio complessivo?

Quali altre novità introduce la riforma Fornero?

È un discorso che andrebbe articolato perché per un verso ha dei meriti notevoli, come l’aver rotto il tabù dell’articolo 18, riscrivendo una norma che costituisce un’anomalia italiana nel contesto europeo. Ci si èspostati, sul piano dei principi, da una concezione di property rule a una di liability rule, da un regime di proprietà del posto di lavoro a un regime di responsabilizzazione dell’impresa per la stabilità e la continuità del lavoro e del reddito dei dipendenti entro limiti ragione-

Per la prima volta in 50 anni una legge dello Stato affronta il problema del dualismo tra protetti e non protetti, flessibilizzando da un lato – in modo notevole, anche se con qualche compromesso – il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, d’altro lato disponendo un riassorbimento di collaborazioni autonome che nascondono la realtà di un lavoro dipendente. Anche qui i compromessi hanno ridotto non poco l’incisività della riforma, ma anche per questo aspetto

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FOCUS

Le disposizioni generali della nuova riforma

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La presente legge dispone misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione, in particolare: favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro (c.d. “contratto dominante”); valorizzando l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro; ridistribuendo in modo più equo le tutele dell’impiego, da un lato, contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali; dall’altro, adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, con previsione, altresì, di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie; rendendo più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone; contrastando usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti; promuovendo una maggiore inclusione delle donne nella vita economica e favorendo nuove opportunità di impiego ovvero di tutela del reddito per i lavoratori ultracinquantenni in caso di perdita del posto di lavoro. Al fine di monitorare lo stato di attuazione degli interventi e delle misure di cui alla presente legge e di valutarne gli effetti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’occupabilità dei cittadini, sulle modalità di entrata e di uscita nell’impiego, è istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in concorso con le altre Istituzioni competenti, un sistema permanente di monitoraggio e valutazione. Al sistema concorrono, altresì, le parti sociali attraverso la partecipazione delle organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale dei datori di lavoro e dei lavoratori. Il sistema assicura, con cadenza almeno annuale, rapporti sullo stato di attuazione delle singole misure, sulle conseguenze in termini micro e macroeconomici, nonché sul grado di effettivo conseguimento delle finalità di cui al comma 1. Dagli esiti del monitoraggio e della valutazione di cui al presente articolo, sono desunti elementi per l’implementazione ovvero per eventuali correzioni delle misure e degli interventi introdotti dalla presente legge, anche alla luce dell’evoluzione del quadro macroeconomico, degli andamenti produttivi, delle dinamiche del mercato del lavoro e, più in generale, di quelle sociali. Allo scopo di assicurare il monitoraggio e la valutazione indipendenti della riforma, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (Inps) organizza una banca dati informatizzata anonima, rendendola disponibile, a scopo di ricerca scientifica, a gruppi di ricerca collegati ad Università, enti di ricerca o enti anche finalità di ricerca italiani ed esteri. I risultati delle ricerche condotte mediante l’utilizzo della banca dati dovranno essere resi pubblici e comunicati al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La banca dati di cui al comma 4 contiene i dati individuali anonimi, relativi all’età, genere, area di residenza, periodi di fruizione degli ammortizzatori sociali con relativa durata ed importi corrisposti, periodi lavorativi e retribuzione spettante, stato di disoccupazione, politiche attive e di attivazione ricevute. L’attuazione delle disposizioni del presente articolo non può comportare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, in quanto la stessa è effettuata con le risorse finanziarie, umane e strumentali previste a legislazione vigente.


BLACKOUT ITALIA intervista a Pietro Ichino

un cambiamento c’è e mi sembra positivo. Quali sono, invece, a suo parere, i difetti più gravi della nuova legge?

Il testo legislativo resta vecchio nel linguaggio e nelle tecniche normative, poco comprensibile e leggibile da parte dei milioni di persone a cui è destinato. Questo è un difetto grave. Per certi aspetti, poi, riemerge una vecchia cultura giuslavoristica che tende a iper-regolare i rapporti e a complicare le cose in novantanove casi per prevenire l’abuso nel centesimo, dimenticando che in questo modo si fa un danno anche al centesimo lavoratore a cui l’abuso si riferisce: l’aumento di complessità genera un costo che ha un effetto depressivo sulla domanda di lavoro; mentre per i lavoratori non c’è tutela migliore se non quella poter scegliere. L’abbondanza di offerte di lavoro conta più di qualsiasi protezione legale, di qualsiasi avvocato, ispettore, giudice. Ecco, per questi aspetti la legge soffre ancora di una scrittura e di una tecnica vecchie. Il ministro Fornero ha parlato della necessità di equiparare le regole dei licenziamenti tra settore pubblico e privato e subito si è sollevata la polemica contro i “licenziamenti facili” nella Pubblica Amministrazione. Che cosa ne pensa?

La norma che disciplina il licenziamento, in particolare l’art 18, disciplina contestualmente la materia nel settore pubblico. Perciò la variazione dell’art 18 vale anche per il settore pubbli-

co. Il problema è che nel settore pubblico manca una dirigenza responsabilizzata riguardo agli obiettivi da garantire e capace di esercitare le prerogative manageriali. Quindi, il problema è di responsabilizzare i dirigenti creando gli incentivi giusti perché esercitino correttamente le proprie funzioni. Per questo occorre collegare l’attribuzione degli incarichi dirigenziali a obiettivi precisi, misurabili e specifici, cosa che oggi in Italia non avviene quasi mai. Poi sarebbe necessario licenziare il dirigente che non raggiunge gli obiettivi. Su questo i politici che stanno al vertice delle Amministrazioni dovrebbero essere controllati dall’elettorato. Gli elettori, invece, votano perlopiù in base a opzioni ideologiche, anche di carattere astratto. Questi sono i punti essenziali e per questo io non sono d’accordo con l’idea del ministro per la Funzione pubblica di dettare una disciplina speciale per il settore pubblico. Più precisamente, lei cosa propone per il settore pubblico?

Sarei d’accordo con una norma che esentasse i dirigenti pubblici dalla responsabilità erariale per l’indennizzo al lavoratore, nel caso in cui il giudice disponga l’indennizzo ritenendo il licenziamento non sufficientemente motivato. Questa responsabilità erariale del dirigente pubblico oggi costituisce un forte disincentivo all’esercizio della funzione disciplinare e ostacola l’esercizio di questa prerogativa che è propria

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di qualsiasi dirigente (la possibilità di licenziare il lavoratore quando occorre sopprimere un posto di lavoro, o quando il lavoratore non è più utile nella funzione specifica). Questa è l’unica modifica legislativa che mi parrebbe opportuna. Per il resto sono d’accordo con il ministro del Lavoro quando dice che bisogna tendere ad avere un pubblico impiego che funziona, nella misura del possibile, come nelle aziende private.

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Tornando al testo della riforma del lavoro da lei promossa, come commenta le parole della leader della Cgil, Susanna Camusso, che ha parlato di una riforma che «non serve al lavoro»?

Dissento da questo giudizio per tutti i motivi che ho detto prima. L’Italia ha bisogno di allinearsi al resto d’Europa e ai migliori standard dei paesi occidentali sul terreno della disciplina del lavoro. La nuova legge va in modo inequivocabile in questa direzione, anche se avrei auspicato fosse ancora più chiara e incisiva. Bisogna evitare di restare in mezzo al guado e compiere questo passaggio rapidamente. Ora occorre applicare la nuova legge che già contiene novità importanti. Nei prossimi mesi e anni occorrerà anche proseguire l’itinerario di riforma del nostro sistema, verso quella semplificazione e leggibilità che ci chiede l’Unione europea con il Decalogue for Smart Regulation, che qui è stato ignorato e che invece dovrebbe essere la nostra bussola.

Parlando del rischio di rimanere nel guado, possiamo dire che oggi ci sono rimasti gli esodati. Come è stato possibile un errore del genere?

Abbiamo dovuto fare in poche settimane il cammino che avremmo dovuto fare nei quindici anni precedenti. Questa è una gravissima colpa della mia generazione nei confronti della generazione dei nostri figli e nipoti: abbiamo fatto la riforma delle pensioni nel ‘95, applicando tutti i nuovi criteri soltanto alle nuove generazioni ed esentandone la vecchia, la nostra. Cosa vistosamente iniqua, oltre che insostenibile per le casse dello Stato. Trovandoci poi sull’orlo del baratro, siamo stati costretti a fare rapidamente e in modo brutale quello che avremmo dovuto fare prima. Detto questo, resta il fatto che l’aritmetica non è un’opinione. Quello che noi abbiamo considerato fino a ieri un diritto intangibile, (il diritto di andare in pensione con il 7080% dell’ultima retribuzione a 60 anni con 37 anni di contribuzione), non può stare in piedi: con un contributo previdenziale del 33% in 37 anni non si possono pagare i 23-24 anni di vita media attesa di chi ha compiuto 60 anni. Questo ”diritto” alla pensione era pagato dallo Stato e copriva il deficit pensionistico: ma alla lunga questo non è più stato possibile. Come pensa che si potrebbe risolvere questo problema?

Questo repentino cambiamento ha scompaginato i piani di vita


BLACKOUT ITALIA intervista a Pietro Ichino

delle “classi” di lavoratori prossime alla pensione, che hanno visto improvvisamente allungarsi di tre o quattro anni la vita lavorativa. La soluzione, però, tranne per alcune decine di migliaia di casi particolari – gli “esodati” intesi in senso stretto – non può consistere nell’anticipare la pensione tornando al prepensionamento, ma in un’incentivazione del rientro nel tessuto produttivo e, dove questo non risulti possibile, in un trattamento di disoccupazione. Ma con le condizioni proprie di un trattamento di disoccupazione, per cui il sostegno del reddito sarà erogato se non sarà possibile trovare un lavoro. Dove, invece, il lavoro ci sarà, occorrerà accettarlo, pena la perdita dell’indennizzo.

L’Intervistato

Pietro ichino Docente ordinario di diritto del lavoro, avvocato e giornalista. Eletto deputato (indipendente nelle liste del Pci) nell'VIII legislatura, ha partecipato al dibattito politico sulle materie del lavoro con l'attività giornalistica e i suoi libri. Ha partecipato alla fondazione del Pd ed è stato eletto al Senato nel 2008. Componente della commissione Lavoro, è stato dirigente sindacale della Fiom-Cgil dal 1969 al 1972; dal 1973 al 1979 è stato responsabile del Coordinamento servizi legali della Camera del Lavoro di Milano. Dal 1975 è iscritto all’Albo degli Avvocati e Procuratori di Milano ed esercita la professione forense. Ricercatore dal 1983 presso l’Università statale di Milano, dal 1986 al 1991 è stato professore straordinario di diritto del lavoro nell’Università di Cagliari. Dal 1991 è professore ordinario della stessa materia nell’Università statale di Milano, dove dal 1999 è direttore del Master Europeo in Scienze del Lavoro. Nel 1985 ha assunto l’incarico di coordinatore della redazione della Rivista italiana di diritto del lavoro. Dal 2003 è membro del Comitato di direzione della rivista Giustizia civile.

L’Autore fabiana tonna Giornalista pubblicista, già addetto stampa per il ministro per le Politiche europee dal 2005 al 2009.

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BLACKOUT ITALIA Marco Fortis e Monica Carminati

Puntare sulla crescita che serve

Non si vive di solo export Le nostre imprese sono competitive all’estero, in Europa siamo dietro solo alla Germania nonostante la crisi economica, siamo in ritardo, però,come offerta dei servizi e l’industria italiana deve aprirsi anche in questo settore. di MARCO FORTIS e MONICA CARMINATI 45

L’industria italiana non è in declino…

Dopo ormai quattro anni di crisi il tessuto produttivo del paese appare chiaramente provato e, come documenta l’ultimo Rapporto di Unioncamere, fra gennaio e marzo di quest’anno sono ben 26.000 le imprese andate perse; un bilancio che ha risentito della caduta delle iscrizioni e soprattutto di un’impennata delle cessazioni, arrivate a 146.000. È dunque indubbia la fase di difficoltà che sta attraversando l’industria italiana, ma non per mancanza di competitività dei suoi attori protagonisti. Il Trade performance Index elaborato dall’International Trade Centre dell’Unctad/Wto anche quest’anno ha infatti ribadito che pure nel 2010 l’Italia si è

confermata seconda solo alla Germania per competitività nel commercio mondiale per numero di primi e secondi posti sul totale dei 14 macrosettori in cui l’Istituto ha suddiviso il commercio internazionale. In particolare, restiamo primi assoluti nel tessile, nell’abbigliamento e nei prodotti in pelle, mentre ci posizioniamo al secondo posto, dietro alla Germania, nei settori della meccanica non elettronica, nei manufatti di base (prodotti in metallo, piastrelle, ecc.) e nei prodotti diversi (gioielleria-oreficeria e occhialeria) e al sesto posto nel settore dei prodotti delle industrie alimentari. La competitività delle nostre imprese è confermata anche dall’Indice delle eccellenze competitive nel commercio internazionale


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elaborato dalla Fondazione Edi- nostre imprese verso minori voson e che, rispetto al Trade Per- lumi ma verso produzioni di formance Index dell’Unctad/Wto, maggior pregio, sia lo stesso analizza più nel dettaglio la per- mix dell’export italiano nel suo formance dell’export italiano. complesso, in cui la meccanica è Questo Indice è infatti costruito divenuta viepiù importante desulla base della classificazione gli stessi beni tradizionali, al HS 96 che suddivide il commer- punto che oggi il surplus italiano cio internazionale in ben 5.517 meccanico con l’estero è ormai prodotti, mettendo in evidenza assai superiore a quello di moda, per il nostro Paese risultati cla- arredo-casa ed alimentari insiemorosi: l’Italia nel 2010 ha in- me. I dati sono clamorosi: sefatti conquistato ben 239 primi condo le vecchie serie del Pil, posti, 334 secondi posti e 350 dal 2003 al 2008 l’export italiaterzi posti, per un totale di 923 no di beni in volume aumenta piazzamenti da “podio” e un va- solo del 12% contro incrementi del 16% delle lore complessivo esportazioni di di export pari a L’export italiano Francia e Gran 173 miliardi di primeggia a livello Bretagna e una dollari. crescita addirittuIn aggiunta, le globale, ma la crisi ra del 49% delnuove serie storil’export di beni teche sul Pil riviste interna sta bloccando desco. Se estendiadall’Istat indicano la crescita nazionale mo la nostra analiche nell’ultimo decennio l’export italiano è cre- si all’intero periodo 2003-2010, sciuto in volume assai più di l’export di beni italiano, secondo quanto si pensasse. Le vecchie le vecchie serie in volume, risulserie dell’export in volume erano ta addirittura diminuito dello infatti deflazionate con i rudi- 0,5% contro aumenti del 12% mentali valori medi unitari al- circa per Francia e Gran Bretal’esportazione oggi sostituiti dai gna e un balzo del 44% dell’export tedesco. prezzi all’esportazione. Per lungo tempo non si è tenuto Con le nuove serie Istat la proin alcun modo dei profondi spettiva storica cambia complecambiamenti strutturali e quali- tamente: l’export italiano di beni tativi che dal 2000 in poi hanno in volume in realtà è aumentato interessato il nostro export. Cam- del 27% tra il 2003 e il 2008, biamenti che hanno riguardato assai più di quello francese ed sia la tipologia dei beni tradi- inglese (figura 1). E persino conzionali per la persona e la casa, i siderando gli effetti della recespiù attaccati dalla concorrenza sione del 2009 (non completaasimmetrica asiatica, che hanno mente recuperata) tra il 2003 e reagito prontamente con un il 2010 l’export di beni del nomaggiore orientamento delle stro paese risulta comunque cre-


BLACKOUT ITALIA Marco Fortis e Monica Carminati

Esportazioni di beni in volume (indici base 2033 = 100)

Fonte: elaborazione di Marco Fortis su dati Istat ed Eurostat

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Exports and imports by the EU countries and by third countries volumes (nama_exi_k)

sciuto del 17% contro aumenti del 12% delle esportazioni di Francia e Gran Bretagna. Il manifatturiero italiano, nonostante la crisi, continua dunque ad avere successo nel mondo e a stupire per i risultati ottenuti grazie a quel folto gruppo di me-

die imprese dinamiche del Quarto Capitalismo, spesso localizzate all’interno di sistemi produttivi locali e, più in generale, all’elevata diffusione sul territorio di una piccola e media impresa altamente specializzata. L’Italia fonda infatti gran parte della for-


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za della sua economia proprio … ma non si può vivere di solo sui sistemi locali manifatturieri, export che rappresentano le “grandi im- Nonostante tutti i vincoli che prese” nazionali. Durante la pro- caratterizzano il nostro sistema fonda crisi del 2008-2009 parec- paese, le imprese italiane sono chi distretti industriali italiani state bravissime a rimanere hanno sofferto il calo degli ordi- competitive e a non perdere terni esteri e la paralisi della do- reno sui mercati internazionali: manda interna, ma le crisi occu- in un anno di austerità come il pazionali sono state poche ri- 2011 l’export italiano in valore è spetto ai grandi problemi accu- tornato, contro ogni aspettativa, sati dai maggiori gruppi nazio- agli stessi livelli record del nali, a controllo sia italiano sia 2008 (ben prima dunque del estero. Le piccole e medie im- fatturato manifatturiero comprese dei distretti sono ricorse plessivo, ancora inferiore ai lipochissimo agli ammortizzatori velli del 2007). Le imprese italiane hanno infatti sociali, e i tassi di d i s o c c u p a z i o n e La manovra Salva Italia registrato una crescita dell’export innei Sistemi locali del lavoro “di- è necessaria per evitare feriore solo a quella cinese, superiostrettuali”, seppur attacchi esterni sui re quindi a quella in crescita, sono sperimentata dai rimasti largamen- mercati ma è recessiva concorrenti tedete al di sotto della sui consumi interni schi, francesi e media italiana. Le imprese italiane, pur con tut- statunitensi. te le difficoltà, fin qui hanno Ma un paese non può vivere solo dunque retto bene ma ora, come di export. Molte imprese italiane sottolinea anche il Rapporto operano infatti prevalentemente Unioncamere, vi sono tanti pic- sul mercato interno ed anche per coli e medi imprenditori a ri- le imprese più fortemente vocate schio di fallimento, ma non per- all’estero, con percentuali di ché incapaci di stare sul merca- vendite oltre confine che arrivato, bensì a causa delle debolezze no anche fino al 70-80%, il mere dei numerosi problemi del si- cato domestico rappresenta costema Paese (deficit energetico e munque la destinazione princiinfrastrutturale, burocrazia por- pale, derivando da esso dal 20% tata all’eccesso, incertezza del al 30% del proprio fatturato. diritto, cuneo fiscale, ecc.), cui Purtroppo la manovra “Salva si aggiunge la grossa problema- Italia” adottata dal governo tica dei crediti non riscossi, Monti per far fronte allo stato spesso anche dalla Pubblica disastroso dei conti pubblici, e Amministrazione, e il raziona- assolutamente necessaria per mento del credito da parte delle evitare ulteriori attacchi esterni al nostro paese sui mercati fibanche.


BLACKOUT ITALIA Marco Fortis e Monica Carminati

nanziari, avrà un impatto am- stretto tra una crescita modesta piamente recessivo sui consumi dei redditi, la restrizione fiscale e andando a sommarsi a una do- l’incremento dei prezzi dovuto manda interna già fortemente e all’aumento delle imposte indirette. La flessione della domanda strutturalmente depressa. Gli effetti positivi della manovra interna non è tuttavia imputabisono stati visibili fin da subito, le solo alla debolezza dei consuin termini di recupero della fidu- mi, ma anche a quella degli incia dei mercati; di riduzione del vestimenti che nel corso del differenziale tra il rendimento 2012 si prevede subiranno un uldei titoli italiani e tedeschi (seb- teriore calo a causa di margini di bene nelle ultime settimane gli capacità produttiva inutilizzata. spread dei paesi “periferici”, Quanto alla componente residenquindi anche il nostro, unita- ziale degli investimenti in comente a quello francese, siano struzioni, il riassorbimento degli apparsi ancora sotto pressione a eccessi degli anni 2000 richiederà ancora pareccausa della sempre chio tempo, menpiù difficile situa- Il reddito disponibile tre l’introduzione zione greca); di dell’Imu potrebbe a p p r e z z a m e n t o delle famiglie deprimere ulteespresso dalle isti- si ridurrà ancora riormente il mertuzioni internaziocato immobiliare, nali per il cammi- per due anni a causa in seguito alla n o i n t r a p r e s o della crescita modesta messa in vendita dall’Italia, l’ultimo giunto in questi giorni dal di eventuali seconde case che ne Fmi che ha riconosciuto gli enor- potrebbe derivare. Sulla compomi progressi fatti dall’Italia sul nente pubblica della spesa gravaconsolidamento fiscale e grazie ai no invece le restrizioni di bilanquali il prossimo anno il nostro cio imposte dalla necessità di paese avrà il più alto avanzo pri- porre fine a decenni di accumulo di debiti (figura 2). mario in Europa. Ma altrettanto visibili saranno In questo scenario, in cui la dogli effetti negativi della manovra manda estera rappresenta l’unico sul fronte delle componenti della motore in grado di andare a piedomanda interna: la spesa delle ni giri, ancora maggiori saranno famiglie, in contrazione già dal le difficoltà dell’industria italiasecondo trimestre del 2011, nel- na, in particolare per quelle imle previsioni di Prometeia conti- prese che operano prevalentenuerà infatti a flettere per tutto mente in Italia, con fatturati e il 2012 e parte del 2013 (figura occupazione destinati a ridursi, 2). In particolare, il reddito di- almeno nel breve periodo. Seconsponibile delle famiglie, sempre do Unioncamere quest’anno i disecondo l’istituto di previsione, pendenti nel settore dell’indusi ridurrà ancora per due anni, stria e dei servizi diminuiranno

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Spesa per i consumi delle famiglie italiane (valori trimestrali, milioni di euro, valori concatenati anno 2005)

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BLACKOUT ITALIA Marco Fortis e Monica Carminati

Le componenti della domanda aggregata: 2010-2013 (variazioni % in volume, calcolate su valori concatenati anno 2005)

difatti di altre 130mila unità, mentre con riferimento al fatturato delle aziende, le previsioni per il 2012 sono improntate ad una forte cautela. In questo quadro a tinte fosche appare dunque cruciale mettere in campo azioni per: a) sciogliere i nodi strutturali che limitano la competitività del sistema Paese, cui si accennava sopra. Le imprese italiane devono infatti confrontarsi con: 1) una burocrazia costosa e inefficiente: gli ultimi dati diffusi dal ministero della Pubblica amministrazione indicano in 26 miliardi i costi annui a carico delle Pmi per i soli adempimenti statali; 2) una pressione fiscale che nel 2012, secondo le previsioni contenute nel Documento di Economia e Finanza, “sfonderà il muro” del 45%, un record negativo che andrà oltre anche a quello toccato nel 1997 (43,7%) in seguito all’introduzione dell’eurotassa, e che raggiungerà il suo massimo nel 2014, arrivando al 45,3%; 3)

tempi della giustizia incompatibili con l’attività economica: la durata dei procedimenti “chiave” per le imprese, come quelli sui licenziamenti o fallimenti, non ha eguali negli altri paesi Ue e non si dimentichi, inoltre, come ricordava lo scorso anno l’allora governatore della Banca d’Italia, che la lunghezza dei procedimenti civili costa circa 1 punto di Pil; 4) ritardi infrastrutturali ormai insostenibili: come mostra l’indice generale relativo alle infrastrutture del World Competitiveness Yearbook 2011 dell’Imd di Losanna, su 59 paesi del mondo l’Italia figura solo al trentesimo posto, con la Germania al settimo, il Regno Unito al diciassettesimo e la Francia al diciottesimo; 5) una bolletta energetica che ci penalizza pesantemente rispetto ai nostri competitors: dal 2001 al 2011 il nostro deficit energetico è passato da 27 a 67 miliardi di euro, andando ad aumentare i costi di produzione delle impre-

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se, rendendole meno competiti- liane che, secondo Unioncamere, ve, e sottraendo preziose risorse attualmente non esportano peralla crescita dei consumi privati. ché si sentono poco attrezzate b) Affrontare il problema del cre- per competere, soprattutto a dit crunch e quello dei ritardi nei causa del fattore dimensionale. Il pagamenti da parte della Pub- superamento di tale limite poblica amministrazione. In merito trebbe avvenire attraverso un al problema del razionamento più diffuso utilizzo dei contratti del credito, la situazione dei fi- di rete, uno strumento innovatinanziamenti alle imprese resta vo che consente alle piccole e infatti estremamente critica: a medie imprese di fare “massa marzo, in base a quanto comuni- critica” e conquistare più facilcato da Bankitalia, si è fermato mente i mercati internazionali: il credito alle imprese e sono ral- dalla fine del 2010 ad oggi sono lentati i prestiti alle famiglie e, più di 1.600 le imprese che hansecondo l’ultima indagine trime- no sottoscritto contratti di rete per esplorare e pestrale sulle aspetnetrare nuovi mertative di crescita e La nostra industria cati, ma anche per inflazione condottentare forme di ta dalla Banca è molto competitiva sperimentazione d’Italia in colla- ed è in crescita, ma di nuovi prodotti, borazione con Il in grado di risponSole 24 Ore, le im- siamo indietro nella dere appieno alle prese che segnala- proposta dei servizi esigenze di una no un peggioramento delle condizioni di acces- domanda oltre confine in contiso al credito negli ultimi tre nua evoluzione. mesi resta molto alta (33,9%). L’Unione europea rappresenta anRiguardo ai ritardi nei paga- cora l’area geografica privilegiata menti da parte della Pubblica per le esportazioni italiane, ma in amministrazione, ormai si è rag- futuro sarà vitale che le imprese giunta la media record di 250 italiane si orientino sempre più giorni prima che le imprese rie- verso i paesi emergenti, Bric e scano a entrare in possesso di Next-11, destinati a ricoprire un quanto a loro dovuto: secondo ruolo viepiù rilevante per il creBankitalia i debiti commerciali scente potere di acquisto dei loro scaduti della PA ammontereb- consumatori finali. bero a ben 62 miliardi di euro, Nella maggior parte di questi sebbene non esista una quantifi- mercati nel 2011 il nostro paese ha visto crescere la propria quota cazione “ufficiale”. c) Potenziare ancora di più l’ex- di mercato, sebbene esistano anport, allargando il numero delle cora ampi spazi di manovra per imprese esportatrici e puntando rafforzare la nostra presenza in sui mercati emergenti. Sono in- tali Paesi. In particolare, in poco fatti circa 10.000 le imprese ita- più di un decennio l’export com-


BLACKOUT ITALIA Marco Fortis e Monica Carminati

plessivo dell’Italia verso i Bric è più che quadruplicato, passando dai 6,7 miliardi di euro del 1999 ai 27,8 miliardi del 2011, mentre nello stesso periodo quello diretto verso i Next-11 è quasi triplicato passando da 8,7 miliardi di euro a 23,6 miliardi. Tra i Bric, Russia e Cina sono i paesi in cui l’Italia ha registrato la più forte crescita delle esportazioni (da 1,7 a 9,3 miliardi la prima; da 1,8 a 10 miliardi la seconda); tra i Next-11 si evidenziano invece l’ottima performance verso la Turchia (da 2,8 a 9,6 miliardi di euro) e quelle più discrete, ma comunque significative, verso la Corea (da 1,2 a 2,9 miliardi), il Messico (da 1,3 a 3,2 miliardi) e l’Indonesia (da 0,3 a 0,8 miliardi). d) È importante infine che il sistema Italia si proietti sull’estero non soltanto attraverso l’export, ma anche con ulteriori insediamenti produttivi e commerciali nei mercati più promettenti. Anche se, è bene ricordarlo, gli ultimi dati Istat hanno evidenziato che nell’industria in senso stretto il nostro paese non è succube delle multinazionali industriali straniere ma, al contrario, c’è una certa reciprocità tra la loro presenza in Italia, consolidatasi in anni di acquisizioni e investimenti, e l’analoga presenza all’estero di nostre imprese dell’industria, che è in rapida crescita. È invece nel settore dei servizi che le imprese estere ci surclassano quanto a penetrazione nel nostro paese. Complessivamente le multinazionali estere

presenti in Italia nel 2009 hanno fatturato 445 miliardi di euro contro i 378 miliardi realizzati dalle multinazionali italiane all’estero: un gap che si spiega con la maggior presenza estera nel nostro paese nel campo dei servizi.

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L’Autore marco fortis è responsabile, dal 1986, della Direzione Studi economici del Gruppo Ferruzzi-Montedison, ora Edison, e dal 1999 vicepresidente della Fondazione Edison. è professore a contratto di Economia industriale e Commercio estero presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, presso cui insegna dal 1989. Ha pubblicato numerosi libri, saggi ed articoli in volumi, riviste e giornali sui temi dell’economia italiana, dell’industria e dei distretti industriali, della tecnologia, dello sviluppo e del commercio internazionale. Pubblica regolarmente articoli ed analisi su importanti quotidiani e riviste italiane, tra cui Il Messaggero, Il Sole 24 Ore e Il Foglio. monica carminati Ricercatrice senior presso la Fondazione Edison e assistente del prof. Fortis al corso di Economia industriale e Commercio estero, in qualità di Cultore della materia, presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano.


Curare l’Italia: tagli alla spesa e meno tasse Il governo Monti ha operato nel senso giusto per salvare l’Italia da una catastrofe economica che avrebbe messo in ginocchio il paese e l’Europa, ma per ottenere tali risultati in poco tempo ha usato strumenti sbagliati. Bisogna fare quello che non è stato fatto a dicembre tagliare la spesa e vendere i beni mobili e immobili per abbattere significamente il debito pubblico. 54

intervista a NICOLA ROSSI di DOMENICO NASO

Nicola Rossi, senatore del gruppo misto (eletto nel Pd) e presidente dell’Istituto Bruno Leoni, vivace think tank liberista, ha le idee chiarissime sulla crisi economica che l’Italia e l’Europa stanno attraversando: meno tasse, più tagli alla spesa, riforme strutturali. Ricette semplici, ma che la classe dirigente italiana non ha saputo mettere in pratica. E nemmeno i tecnici, a quanto pare... A che punto della crisi siamo? Il peggio è passato?

Direi che visibilmente la crisi non è alle nostre spalle. Di momento in momento attraversiamo fasi diverse. Davanti abbiamo

ancora dei momenti che possono essere molto gravi. Secondo alcuni la colpa di tutto è del capitalismo liberista. Che ne pensa?

Penso che la situazione è così seria che almeno le stupidaggini ce le potremmo evitare. Monti ha fatto tutto il necessario?

Nel breve periodo ha fatto tutto il necessario per tirarci fuori dai problemi contingenti. Ha fatto moltissimo per tirarci fuori da una situazione particolarmente grave. Temo che per ottenere questo risultato abbia scelto gli strumenti errati, usando le entrate invece che i tagli di spesa e tralasciando del tutto il capitolo


BLACKOUT ITALIA intervista a Nicola Rossi


della cessione di beni di proprietà dello Stato. Quali sono le cose più urgenti da fare per uscire dal blackout?

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Le cose che avremmo dovuto fare a dicembre, come mettere in campo immediatamente tagli di spesa per evitare gli aumenti di imposte o addirittura per ridurle. Dall’altro lato si doveva intraprendere un programma significativo di dismissioni di beni mobili e immobili pubblici, in maniera da abbattere per quanto possibile lo stock di debiti. Non sto dicendo che si sarebbe potuto fare in una notte, ma bisognava cominciare a farlo a dicembre perché oggi ne vedremmo già i benefici. Non si è fatto perché? Troppi interessi?

Ogni intervento sulla spesa pubblica tocca interessi particolari. È chiaro che aumentare le tasse è sempre la soluzione più facile, mentre cedere i beni di proprietà pubblica intacca interessi molto seri. Quanta colpa ha l’Europa?

La situazione italiana è massimamente colpa degli italiani. Sono vent’anni che la classe politica italiana sa cosa dovrebbe fare e sono vent’anni che si rifiuta di farlo. In parte è ancora vero, basti pensare al taglio di spesa. Lei pensi che la spending review è stata avviata nel 2007 e dopo cinque anni siamo ancora qui a chiederci come farla. Di privatizzazioni ne abbiamo fatte alcune negli anni ‘90 e poi le abbiamo completa-

mente dimenticate. Per quanto riguarda le riforme strutturali, abbiamo cercato di fare qualcosa nei primi mesi dell’anno ma siamo ancora molto al di qua di quello che servirebbe. In larghissima misura, dunque, la situazione dell’Italia è frutto di quello che la classe dirigente non ha fatto. Non ha saputo adeguarsi al nuovo contesto e non è riuscita a spiegare ai cittadini questo nuovo approccio. Il limite dell’Ue è che una serie di cose sono state fatte con colpevole ritardo: con colpevole ritardo è stata compresa la gravità della situazione greca; con colpevole ritardo oggi si comprende che la via giusta non può che essere portare a termine l’unità politica dell’Europa; con colpevole ritardo comprendiamo oggi che le scelte del 2003 che consentivano a Germania e Francia di sforare i parametri di Maastricht sono le stesse che hanno consentito la degenerazione della situazione greca. La salvezza non arriva dalla Bce, dunque? Non crede nell’efficacia di strumenti come l’altro?

Quelle sono tutte cose che ci hanno consentito di comprare tempo che peraltro abbiamo sprecato. Quello che dobbiamo fare è chiedere a ogni paese di mettere se stesso in sicurezza con tutte le attività domestiche possibili. Ma simultaneamente deve essere chiaro che la risposta di fondo alla situazione in cui ci troviamo associa l’unione monetaria con l’unione politica. Unio-


BLACKOUT ITALIA intervista a Nicola Rossi

ne fiscale, per cominciare, unione politica poi.

L’Intervistato

Siamo davvero il paese che non può vivere senza un’altissima pressione fiscale o c’è un modo per allentare la morsa?

La pressione scende solo tagliando la spesa. Se solo volessimo, potremmo farlo in misura consistente. Se leggo il rapporto del ministro Giarda sulla revisione della spesa, veramente non capisco come si chieda agli italiani di pagare un’imposta pesante come l’Imu nel momento in cui si riconosce che ci sarebbero margini molto significativi di intervento sulla spesa.

nicola rossi Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, è attualmente senatore iscritto al Gruppo misto, dopo un periodo di appartenenza al Partito democratico, è membro del direttivo dell’associazione Italia Futura di Montezemolo. Dalla primavera del 2011 è presidente dell’Istituto Bruno Leoni. È stato eletto alla Camera dei deputati nel 2001 con il centrosinistra. Nel 2006 viene rieletto deputato alla Camera con l’Ulivo. Nel 2008 è eletto senatore del Partito democratico. È membro del comitato scientifico della Fondazione Italia Usa. Si è contraddistinto per una strenua lotta a favore della privatizzazione delle Università. Il 1° febbraio 2011 ha presentato una lettera di dimissioni da Palazzo Madama. La decisione è stata motivata da “motivi personali”. Tuttavia l’aula del Senato ha respinto le dimissioni.

L’Autore domenico naso Direttore di FareitaliaMag, collabora con Vanity Fair e Il Fatto Quotidiano online.

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BLACKOUT ITALIA Giuseppe Pennisi

L’EUROPA E LA SINDROME GIAPPONESE L’unione monetaria così come concepita a Maastricht ha fallito i propri obiettivi perché è contraria ai teoremi di base della teoria economica e perché è basata sull’assunto che individui, famiglie, imprese, Pubblica Amministrazione e ceto politico avrebbero cambiato comportamenti basati su secoli di tradizione. di GIUSEPPE PENNISI

Tutti parlano da mesi della necessità e dell’urgenza di mettere in atto politiche, programmi e misure per rilanciare la crescita in Europa, in particolare, nell’eurozona, considerata ormai il “grande malato” dell’economia mondiale. Diciamo le cose come stanno: alcune settimane fa il socioeconomista (e demografo) americano Nick Eberstadt, ha citato un romanzo di fantascienza del 1992 – The Children of Men di P.D. James – per ammonire che la «sindrome giapponese» è uno spettro all’orizzonte di un’eurozona che potrebbe «socializzare» il debito sovrano degli Stati, ma chiudersi al resto del mondo. Invecchiamento e denatalità: per ogni

bambino che nasce un uomo o una donna compie cento anni. L’attuale recessione è infatti differente rispetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo dopoguerra. Non è stata determinata da un rallentamento e da un crollo della produzione, nè da un’improvvisa contrazione dei consumi. Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle prese con quella che Richard C. Koo – economista nippo-americano che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute e insegna in una delle maggiori università di Tokyo – definisce acutamente una balance sheets recession, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando alcuni asset per-

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dono drasticamente di valore, di ferro che, dato il forte grado causando crisi debitorie più o d’integrazione europea, viene meno gravi e gli obiettivi d’in- trascinata dagli altri: la nostra vestimento di individui, fami- recessione tradizionale dipende glie e imprese mutano drastica- in gran misura dalle balance sheets mente: dalla “massimizzazione recessions altrui. del profitto” si passa alla “mini- La balance sheets recession più grave mizzazione dell’indebitamento” e più nota è la Grande Depresper il timore di nuove crisi debi- sione del 1929: furono necessari torie. Per questo motivo la crisi 30 anni e una guerra mondiale è così grave e la stagnazione, ac- affinchè la struttura dei tassi compagnata da momenti di re- d’interesse degli Stati Uniti torcessione, minaccia di essere du- nasse a essere “normale”. Il Giapratura. Specialmente in Europa: pone è in una balance sheets receslo ha scritto in aprile l’Internatio- sion da 15 anni: politiche monenal Herald Tribune in un magnifi- tarie e di bilancio espansioniste non hanno avuto co editoriale in effetti di rilievo a cui si criticava il Per superare causa della fortissiFiscal Compact ma avversione al che molti Stati la Grande depressione rischio (e all’indeeuropei, dopo aver furono necessari bitamento) di fafirmato o senza miglie e imprese. rendersi conto dei trent’anni Pochi sanno come contenuti oppure e una guerra mondiale uscire da una banella convinzione di aggirarlo, si apprestano a rati- lance sheets recession. Tuttavia, se ficare. L’International Herald Tri- chi ha approfondito questo tema bune non citava né Koo né il suo ha ragione, politiche fiscali e di libro più noto (The Holy Grail of bilancio restrittive non hanno alMacroeconomics: Lessons from Japan’ tro effetto che quello di aggravaGreat Recession, John Wiley and re la recessione e in Italia l’auSons, Singapore 2008), ma i con- mento della pressione fiscale ricetti di base sono quelli della ba- schia di trasformare in depressiolance sheets recession e delle dif- ne la recessione. ficoltà che comporta. L’Italia, oc- Focalizziamo la nostra attenzione corre dirlo, non è, per il momen- sui paesi del Sol Levante. Nel to, in una balance sheets recession 2011 in Giappone il rapporto tra particolarmente acuta grazie alla stock di debito e Pil ha toccato il prudenza, al proprio sistema 228%. Per il 2012 le stime afferbancario, e a quello delle fami- mano che arriverà tra il 233 e il glie. Tuttavia è contornata da 242%. Ma i dettagli contano popaesi in balance sheets recession co: è una massa di debito pubbli(Francia, Spagna, Grecia, Porto- co in rapporto al reddito naziogallo, anche parte della Germa- nale pari a tre volte quella della nia). È un vaso di coccio tra vasi Francia e della Spagna (pur se


BLACKOUT ITALIA Giuseppe Pennisi

Il Libro Memorie di uno statista Salvatore Mura Antonio Segni – Diario 1956-1965 Il Mulino 2004, 273 pp., 22 euro

Scaglie di storia italiana e frammenti, appunti, riflessioni. Antonio Segni nel suo diario ha offerto ai posteri un resoconto inedito e interessante della sua vita privata e pubblica negli anni che vanno dal 1956 al 1964. Impegni istituzionali, appuntamenti giornalieri, pareri, pensieri e giudizi si intrecciano e prendono vita attraverso le sue memorie, sullo sfondo di un'Italia uscita da poco dalla guerra. «Gli avvenimenti mi inducono a prendere nota (giornaliera o quasi) dei più notevoli fatti della giornata, a sussidio del mio giudizio», scriveva Segni il 1° dicembre del 1956, dando il via al suo diario. Sic et simpliciter, il diario è un insieme di appunti, memorie e ricordi che in futuro, probabilmente, avrebbe voluto rielaborare per un'opera autobiografia a più ampio respiro. Come afferma Salvatore Mura, curatore del volume, nel suo commento iniziale, nonostante «l'appuntamento di Segni con il Diario avrebbe dovuto essere giornaliero o quasi, l'irregolarità è tanto evidente quanto difficile da spiegare». Iniziò a prendere nota degli avvenimenti perchè «sentiva il bisogno di scrivere e spesso più che annotare i fatti del giorno – continua Mura – trascriveva o allegava lettere inviate o ricevute». Scritti e appunti preziosi che fanno emergere tanto la personalità quanto i ruoli istituzionali rivestiti in quel periodo da Segni. Presidente del Consiglio per due volte tra il '55 e il '57 e tra il '59 e il '60, vicepresidente del Consiglio e Ministro della difesa tra il '58 e il '59 e Presidente della Repubblica tra il '62 e il '64 Segni, raccontando sé stesso in toni asciutti ed essenziali (è raro che si dilunghi in resoconti dettagliati) descrive uno spaccato di storia politica a cavallo degli anni '60. A volte in maniera spicciola (13 dicembre '56: «Oggi a colloquio con i magistrati»), altre con fermezza (31 dicembre '56: «Rifiuto il televisore che mi ha offerto Rai-tv»). E poi ci parla dei colloqui con Saragat e Tambroni, delle lamentele di Gronchi, della «fredde lettere (ricevute, n.d.r.) da Fanfani». Attimi di storia che meglio di qualsiasi studio e di qualsiasi analisi ricostruiscono la personalità di un presidente attraverso le sue memorie ed è grazie all'approfondita ricerca condotta da Salvatore Mura che nasce Antonio Segni – Diario, 1956-1965 (edizioni Il Mulino, euro 22,00). Francesca Siciliano

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nella Repubblica iberica il debi- nesiani e, di tanto in tanto, ritocto nazionale il 360% del Pil a chi al tasso di cambio. Richard fronte del forte indebitamento Koo ha documentato come oggidell’industria edile e manifattu- giorno l’obiettivo dei sempre più riera e del settore dei servizi fi- anziani giapponesi non sia quello nanziari). Eppure sul debito nip- di «massimizzare l’utile», ma di ponico spira un venticello legge- «minimizzare il proprio indebiro che non fa presagire tempeste. tamento». Le grandi imprese soPerché? In primo luogo, meno no sulla stessa strada. Il Giappodel 5% dei titoli giapponesi sono ne come fucina di innovazione collocati all’estero. Di conse- degli Anni Cinquanta e Settanta guenza, il Tesoro giapponese non è ormai un pallido ricordo. Il deve convincere risparmiatori e “caso giapponese” è stato lo stioperatori stranieri ad acquistare molo agli studi di Carmen Reinle proprie obbligazioni offrendo hart e Kenneth Rogoff sul debito interessi tali da tener conto di come freno alla crescita. Soprattutto, si è entrati eventuali perdite in un circolo viziodi valorizzazione Il Giappone, fucina so da cui nessuno per il rischio di sa come uscirne. insolvenza. In se- di innovazione All’inizio di magcondo luogo, no- degli Anni ’50 e ’60, gio è stato presennostante la marcatato da un panel di ta riduzione accu- è ormai solo eccezione (Victor sata negli ultimi un pallido ricordo Massiah, Salvatore 15 anni, il tasso di risparmio delle famiglie giappo- Carruba, Mario Deaglio, Daniel nesi è ancora sul 7% del reddito Gros, Yes Meny e Stefano Silvedisponibile: un saggio pubblica- stri) e di fronte a un parterre de to da Charles Yuji Horioka e rois il Sedicesimo Rapporto sulWako Watanabe nell’ultimo fa- l’economia globale e l’Italia del scicolo dell’Economic Journal, sot- Centro di Ricerca e Documentatolinea, sulla base di un’estesa ri- zione Luigi Einaudi. Dal titolo cerca empirica, che i giapponesi La Crisi che non Passa. Il titolo è risparmiano principalmente per quanto mai appropriato ma il di«ragioni precauzionali». In terzo battito non ha toccato uno dei luogo il mercato finanziario è punti essenziali; quello della baformalmente «aperto», ma so- lance sheet recession. stanzialmente molto chiuso e, All’indomani delle elezioni in quindi, mancano le opportunità Francia e in Grecia (e della tornad’investimento. Tutto bene? ta, pur se parziale, in Italia), si è Niente affatto. Il Giappone è da tenuto un vertice straordinario oltre 15 anni in bilico tra stagna- dei capi di Stato e di governo zione e recessione nonostante una dell’Unione europea al fine di inpolitica monetaria espansionista, dividuare modi e misure per rio disavanzi di bilancio iper-key- lanciare la crescita. Ottima in-


BLACKOUT ITALIA Giuseppe Pennisi

tenzione, ma di difficilissima attuazione. Le conclusioni, dunque, sono state mediocri. «Un’agenda sviluppista orientata principalmente a contenere i programmi di austerità di finanza pubblica – afferma, Josè Winne, direttore della strategia valutaria per il Nord America della sede della Barclay’s a New York – poiché i mercati mettono in questione la solvibilità tanto degli Stati quanto degli intermediari finanziari». Le intenzioni del nuovo capo di Stato francese non convincono perché «la Francia ha un margine di manovra molto stretto e in effetti si deve impegnare a consolidare il proprio bilancio e la propria finanza pubblica», aggiunge Nicolas Véron del centro di ricerche Bruegel sorgendo che numerosi risparmiatori vorrebbero tornare a titoli francesi ad alto tasso di interesse (rispetto al resto d’Europa), come è avvenuto in Italia e Spagna con l’aumento dello spread. Dennis Snower, l’economista di Oxford e Princeton che guida l’Institute for World Economics a Kiel, in Germania, ha aggiunto: «Le politiche keynesiane e neo-keynesiane non funzionano in una recessione di questo tipo». In effetti, il nodo di fondo è politico: in Germania i tassi d’interesse sono bassi e il tasso di crescita è sull’1,5-2% a ragione delle riforme di struttura effettuate nel passato, del risanamento della finanza pubblica e della costituzionalizazione dei vincoli di bilancio, nonché di un siste-

ma politico che evita gli estremi. Mentre in Francia, Grecia e Italia un terzo circa dell’elettorato non vota contro o a favore di questo o quello schieramento ma si esprime contro il sistema. Se non si trova il modo di rimettere la politica su un “binario normale” con regole e istituzioni accettate da tutti i cittadini, sarà difficile riportare in un alveo anch’esso “normale” l’avversione al rischio e ritrovare il cammino della crescita. Ma tornare su un “binario normale” non basta: occorre anche, in italia, tagliare drasticamente i costi politici e amministrativi di transazione che soffocano l’economia e, in Europa di ammettere che l’unione monetaria così come concepita a Maastricht ha fallito i propri obiettivi anche e soprattutto perché contraria ai teoremi di base della teoria economica e basata sull’assunto che individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e ceto politico avrebbero cambiato comportamenti basati su secoli di tradizione. Prima la si riforma drasticamente meglio è. Per tutti.

L’Autore giuseppe pennisi è consigliere del Cnel e docente all’Università Europea di Roma.

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BLACKOUT ITALIA Antonio Maria Rinaldi

Una proposta anti-crisi

FUORI DAL TUNNEL DELLA CRISI ECONOMICA Per salvare il destino dell’Italia bisogna risanare in fretta i conti pubblici, ma guai a puntare solo sul prelievo fiscale. Un gruppo di economisti dell’Università Link Campus avanza una proposta per uscire dal guado, partendo da un’oculata revisione della spesa pubblica e soprattutto dal reperimento di risorse derivanti dalla vendita razionale di parte del patrimonio pubblico disponibile e non strategico. di ANTONIO MARIA RINALDI

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro -e la Costituzione lo ribadisce chiaramente all’articolo 1- e non sul pareggio di bilancio! Se desideriamo modificare un così basilare e fondamentale dettame costituzionale, è necessario preventivamente aprire un dibattito con il coinvolgimento di tutte le forze politiche, sociali, imprenditoriali e soprattutto dei cittadini per poter giungere a modifiche degli articoli. Ma fino a quando la Costituzione è questa, il nostro obiettivo è e sarà quello di salvaguardare il lavoro come principale fondamento e risorsa del nostro paese. Pertanto non possiamo affidare esclusivamente al ricorso fiscale il

perseguimento degli obiettivi bilancistici previsti dai Trattati internazionali, i quali hanno denunciato ormai in modo inequivocabile i propri limiti in termini di sostenibilità. La pressione fiscale attualmente è stimata al 4647%, ma nella realtà è ben più alta, in quanto il calcolo viene rapportato facendo riferimento al Pil elaborato dall’Istat il quale tiene conto, per convenzione, anche del 17% del sommerso che ovviamente per sua stessa definizione non paga le imposte, ma che paradossalmente per quella quota considerata nel Pil, va ad “annacquare” il denominatore nella determinazione della percentuale di fiscalità, addossando

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per intero all’economia emersa cabile in quanto con l’introdul’onere totale del prelievo, facen- zione della moneta unica le tendo però lievitare il dato statistico sioni del rischio paese vengono esclusivamente inglobate nei tasa un più realistico 55%! La Germania, che cito solamente si necessari per finanziare e sosteperchè rappresenta la nostra nere il debito pubblico. Se agprincipale economia di riferi- giungiamo poi che ogni centesimento, ha una pressione fiscale mo d’imposizione in più rispetto reale del 39% in quanto ha sem- ai nostri principali partners sotpre applicato non solo il sano trae capacità di consumi e quindi principio per il quale il loro bi- crescita al nosto sistema... lancio contempla spese in funzio- In questo scenario è facilmente ne delle entrate e non a piè di li- ipotizzabile che un migliorasta incontrollato come purtroppo mento sia possibile essenzialè accaduto per troppo tempo da mente con un drastica riduzione noi, ma principalmente dal fatto dello stock del debito pubblico e qualsiasi intervenche i tedeschi alito basato esclusimentano il pro- Non si può abbassare vamente al ricorso prio debito con fiscale per ottenere interessi netta- il debito pubblico risorse necessarie mente inferiori ai con interventi basati al miglioramento nostri, nonostante dei conti è destiin termini assoluti esclusivamente nato a prorogare sia più “pesante” sul ricorso fiscale nel tempo l’agonia del nostro (2100 a cui noi siamo inevitabilmente mld di euro contro 1946 mld). Questo enorme differenziale di 8 condannati, poichè qualsiasi inipunti percentuali di fiscalità, o ziativa sarebbe fagocitata da meglio come spiegato prima di questo immenso buco nero che ben 16 punti, viene di fatto “sca- vanifica qualsiasi sforzo e che ricato” sulla competitività del- rallenta, come una pesantissima l’Azienda Italia, costretta non so- palla al piede, il cammino per la lo a pagare balzelli di ogni tipo crescita. senza adeguati ritorni in termini D’altronde neanche lo stesso imdi efficenza delle infrastrutture e pianto di Maastricht ci aiuta: posupporto dell’amministrazione sto a fondamento della converpubblica, ma anche a non dover genza monetaria, non ha previsto più contare nell’arma della svalu- nella sua costruzione se non sitazione competitiva a cui il no- tuazioni di crescita economica, stro paese aveva fatto riferimento non contemplando in caso di ralper costruire, nel bene e nel ma- lentamento o peggio di recessiole, un modello che gli aveva con- ne, dei meccanismi di compensasentito di divenire la quinta po- zione. Anzi, lo stesso Trattato funge da moltiplicatore della retenza industriale al mondo. Sistema che ora non è più prati- cessione in caso di contrazione


BLACKOUT ITALIA Antonio Maria Rinaldi

del Pil, in quanto per poter sod- le... tutto finalizzato alla stabilizdisfare i parametri di convergen- zazione della moneta. Esattaza, i governi degli Stati membri mente l’attuale ricetta europea sono comunque costretti a man- imposta dalla Germania e questa tenere alta la pressione fiscale, rievocazione storico-economica provocando ancora più recessio- sono un elemento ulteriore su cui ne, drenando risorse agli investi- riflettere. menti e al risparmio. Gli stessi Ormai è chiaro che l’architettura regolamenti previsti per la Bce e la conduzione dell’Euro ci penon consentono poi aiuti ai paesi nalizzano enormemente: plasmain difficoltà di liquidità e solo le to a immagine e somiglianza del indubbie capacità del governato- marco e regolato secondo le lire Mario Draghi hanno per ora turgie previste dai riti ortodosscongiurato il peggio. Gli effetti so-tedeschi, l’Euro appare semdi ciò sono costantemente sotto pre più come un accordo di cambi fissi irrevocabili fra Stati eugli occhi di tutti. ropei che una moGli stessi non cerneta unica a tutti to popolari prov- L’architettura e gli effetti. Una vedimenti fiscali adottati nel famo- la conduzione dell’Euro evoluzione dracoso decreto “Salva ci penalizzano perché a niana dello Sme (Sistema monetaItalia” e nei successivi, hanno pro- immagine e somiglianza rio europeo), dove il metodo adattavocato quello che del Marco tedesco to delle bande di si temeva da tempo: l’incremento della pressione oscillazione si era rivelato troppo fiscale oltre certi livelli d’incom- fragile per non permettere a patibilità contrae i consumi e qualche paese membro di ritocprocura un effetto boomerang sulle carle a proprio uso e consumo, noi in testa. entrate stesse. Non ci viene neanche in soccorso Se non fosse stato così, avremcerto la Germania, la quale risul- mo avuto una vera moneta unita essere ancora troppo ostaggio ca basata non solo sulla condivi dei pregiudizi e le paure deter- sione del debito, almeno parziaminate dalla iperinflazione ai le per quel 60% indicato protempi della Repubblica di Wei- prio da Maastricht come massimar e dell’errato e radicato con- mo rapporto debito/Pil una spevincimento che proprio l’infla- cie di Eurobond iniziale e con zione sia stata la principale causa tassi essenzialmente uguali, ma dell’ascesa della dittatura. Il re- anche da una gestione fiscale gime totalitario ebbe campo li- sovranazionale omogenea e non bero per le politiche deflazioni- il caos attuale determinato dalla stiche poste in essere proprio per mancanza totale di coordinacontenere l’inflazione: taglio di mento delle politiche economistipendi, della spesa, del socia- che e fiscali.

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Dopo più di 20 anni dall’originario concepimento della coesione monetaria, non si è neache riusciti ad armonizzare le stesse aliquote Iva applicate a beni e servizi, vanificando il primo principio fondamentale su cui si basa l’Unione: quello della libera circolazione. Il tutto poi regolato, come già detto, da una Banca Centrale mancante della caratteristica essenziale per poter essere definita tale: poter stampare moneta. Sembra che l’unico obiettivo per gli ideatori della moneta unica sia stato quello di mantenere blindati i rapporti di cambio fra le valute europee e per evitare svalutazioni siano state sostituite le banconote nazionali con quelle comunitarie, lasciando alla capacità e volontà dei vari governi di rispettare i numeri e i paramentri di un trattato ormai obsoleto a cui l’intransingenza e il rigore tedeschi non hanno mai concesso spazi di revisione. Attualmente le regole previste da Maastricht sono rispettate solamente da Finlandia, Lussemburgo ed Estonia e sappiamo inoltre molto bene come sono andati a finire gli accordi monetari basati sui cambi fissi: da Bretton Woods all’Argentina. C’è poi la considerazione che, avendo aderito a questo regime di cambi fissi e irrevocabili, il nostro debito è espresso di fatto in valuta estera, visto che la determinazione della massa monetaria e la determinazione del Tus vengono decisi a Francoforte, sede Bce, e in situazioni di crisi le tensioni si scaricano esclusiva-

mente sui tassi, non potendo più agire sulla leva dell’emissione di moneta autonoma al fine di perseguire politiche monetarie correttive, essendo a esclusivo appannaggio sempre della Banca Centrale. Quanto varrebbe, o meglio, quanto vale oggi la lira ad esempio contro il marco? I mercati finanziari lo calcolano costantemente, infatti basta moltiplicare il rapporto di cambi fissi irrevocabile adottato sin dal 1 gennaio 1999 per il differenziale di tasso (spread) tra i titoli di riferimento decennali tedeschi e italiani. Se attualmente la differenza è di 400 punti base, cioè 4% l’anno, vuol dire che la lira rispetto al marco fissato a suo tempo a 989,999 lire (riferimento del marco al momento dei concambi euro) maggiorato del 40% (4% per 10 anni) vale 1386. E così per determinare i rapporti di cambio con tutte le altre valute. Non voglio neanche fare i conti precisi dei costi che saremo chiamati a sostenere, visto che ci siamo affidati esclusivamente al sistema fiscale per il reperimento dei mezzi finanziari, quando dal 2013 dovremo ottemperare ai dettami previsti dal cosidetto Fiscal Compact, che essenzialmente prevede la riduzione in vent’anni dell’eccedenza del rapporto debito pubblico/Pil previsto dal patto di Stabilità e Crescita. Per noi uno sforzo nei primi anni di non meno di 50 mld di euro annui, visto che l’eccedenza è pari attualmente al 64,7% e che dovremo in qualche modo rispet-


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tare dopo gli accordi del marzo scorso, a cui non hanno aderito solamente il Regno Unito e la Repubblica Ceca. Mi ritorna in mente la situazione descritta dal poeta dialettale romano Trilussa nella sua poesia La Statistica, dove si denunciava che nei numeri ufficiali risulta sempre che ogni italiano mangia un pollo l’anno, ma nella realtà c’è chi ne mangia diversi e altri non riescono a sentirne neppure l’odore mentre le statische stesse ci dicono un pollo per uno. In Europa la situazione è la stessa: la bilancia commerciale complessiva dell’area euro è sostanzialmente in pareggio con l’esterno, ma il surplus commerciale della Germania è pari alla somma dei deficit commerciali di tutti gli altri 16 paesi eurodotati. Ne consegue pertanto che per i tedeschi il corso della valuta euro è sottovalutato e per tutti gli altri è sopravvalutato, ma nonostante ciò c’è ancora chi pensa che il vero “affare” della moneta unica non sia stato a beneficio principalmente della Germania e che il costo della riunificazione l’abbiano pagato solo loro. Per ritornare al tema del debito, le risorse necessarie a sostenere quello enorme accumulato sistematicamente dai deficit annuali senza controllo ci sono costate nel 2011 ben 82 mld di euro e, con l’aumento dei tassi registrati dall’autunno scorso, con l’esplosione della crisi dell’area euro, è facilmente prevedibile un aumento per l’anno in corso molto più corposo. La stessa riduzione

Il Libro Dalla crisi si può uscire Paolo Savona Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi. Il caso Italia Rubbettino 2012, 104 pp., 12 euro Il lavoro esamina le decisioni di politica economica susseguitesi in Italia dalla nazionalizzazione dell'industria elettrica in poi, definendole “eresie”, ossia dottrine contrarie ai dogmi della razionalità economica, le quali hanno dato vita a puri “esorcismi”, riti che hanno lasciato le cose come prima. Infatti, nonostante le promesse di tagli, la spesa pubblica è continuata a crescere imperterrita, come pure, ma meno, la pressione fiscale, facendo così lievitare l’indebitamento pubblico. Lo Stato si è impossessato di metà del reddito annuo del paese e non pare ancora soddisfatto, dato che va aggredendo in modo indistinto la ricchezza. L’autore individua nella “manovra” la madre di tutti i mali, una pratica di cui si avvale ora anche l’Unione europea. La crisi che stiamo vivendo è il conto che gli italiani sono chiamati a pagare per gli errori commessi dagli Stati Uniti nel dopo Bretton Woods, non avendo adeguato le regole sul piano della moneta e dei cambi, e dall’Unione europea nel dopo Trattato di Maastricht, per non aver attuato il disegno di unificazione politica che l’aveva indotta a creare l’euro. Il lavoro indica anche le “scelte giuste” da prendere per riportare l’Italia sul sentiero della ripresa produttiva e dell’occupazione.

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della spesa, la cosidetta spending zione della moneta comunitaria review, promossa dall’attuale go- riusciranno a non implodere? Fiverno, potrà essere considerata no a quando la capacità contribuun successo se riuscirà a produrre tiva degli italiani e degli europei risparmi nella spesa pubblica per riuscirà a sorreggere queste di4,5 mld di euro che, comunque, storsioni che stanno impoverenalla luce delle considerazioni fat- do in modo irreversibile le imte fino a ora, appaiono come goc- prese e le famiglie di tre quarti ce nel mare magnum del debito di Eurolandia? Sappiamo altresì complessivo e saranno a malape- benissimo che non esiste allo stana sufficienti a coprire il solo co- to attuale nessuna ricetta per costo aggiuntivo determinato pro- niugare austerità e crescita economica e francamente non è più prio dall’incremento dei tassi. In fondo il debito pubblico ita- possibile far ricorso esclusivaliano è sempre stato garantito, mente alle tasche dei cittadini forse più di chiunque altro, non per poter rincorrere numeri e parametri ormai obcerto dal patrimosoleti. nio in possesso Il nostro debito è Ma proprio perchè dello Stato, in quanto i titoli so- detenuto per il 50% da crediamo fermamente e fortemenno emessi senza soggetti non residenti te nell’idea di una una garanzia reale Europa unita e sottostante, ma e questo non consente nella sua aggregadalla rassegnata una politica diversa zione politica e capacità ormai consolidata di pagare le tasse da monetaria, auspichiamo una revisione dei Trattati che ci legano parte dei cittadini. Il nostro debito è attualmente a essa perchè non rispecchiano detenuto per circa il 50% da più le volontà e le visioni dei Pasoggetti non residenti (più di 40 dri Fondatori. mld di euro all’anno se ne vanno Il ruolo dell’Italia è e deve rimaall’estero solo per interessi) e nere fondamentale e centrale nel questo non ci consente di perse- processo d’integrazione, ma nello guire politiche diverse sulla ge- stesso tempo il nostro paese deve stione del debito. Esattamente risolvere, e anche rapidamente, l’opposto del Giappone, il quale problemi rimasti per troppo nonostante abbia il rapporto de- tempo senza soluzione. Ritengo bito pubblico/Pil quasi doppio che il ritorno a un ruolo attivo rispetto al nostro (240%), può dell’Italia passi quindi da un senpermettersi il lusso di remunera- sibile miglioramento dei conti re i suoi titoli decennali allo pubblici, nostro storico tallone 0,80% in quanto è detenuto al d’Achille, non passando però esclusivamente dal prelievo fisca95% da soggetti domestici. Ma fino a quando i meccanismi le a carico delle imprese e delle errati della costruzione e condu- famiglie, ma da una ragionata e


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oculata revisione della spesa pub- Siamo altresì ben consapevoli del blica e soprattutto dal reperi- fatto che la vendita immediata mento di risorse derivanti dalla sul mercato di asset, partecipavendita razionale di parte del pa- zioni, immobili e concessioni di trimonio pubblico disponibile e proprietà dello Stato, sia a livello centrale che periferico, non tronon strategico. A tal fine un gruppo di lavoro verebbe in questo momento d’inpromosso all’interno dell’Univer- certezza dei mercati nazionali e sità Link Campus guidata dal internazionali sufficienti garanprofessor Vincenzo Scotti, -a cui zie di giusta e corretta valorizzahanno contribuito oltre al sotto- zione e l’eventuale vendita trovescritto i professori Giorgio e Fer- rebbe indubbie difficoltà di asruccio Sbarbaro, Pierluigi Matera, sorbimento. Paolo Balice Presidente Aiaf (As- Al fine di ovviare a questo inconsociazione italiana analisti finan- veniente, la proposta prevede la ziari) e il Dottor Guido Salerno- costituzione di una Nuova Società “New CompaAletta, noto esperny”, con capitale to di finanza pub- L’emissione detenuto da sogblica-, ha rielaborato la proposta del di obbligazioni da parte getti riconducibili allo Stato e da professor Paolo Sa- della “New Company” soggetti privati a vona sulla riduziocui trasferire i bene straordinaria del ridurrebbe il debito ni oggetto della debito di qualche immediatamente vendita. La liquianno fa. Lo stesso Savona ha accettato di coordinare dità necessaria a perfezionare il e presiedere questo gruppo per trasferimento di tranche successipoter rendere più attuale, alle ve di beni, che saranno determimutate condizioni, le sue origina- nate di volta in volta sia in terli intuizioni in tema di abbatti- mini quantitativi che qualitativi, sarà reperita sul mercato dei camento del debito pubblico. Dal punto di vista tecnico si pitali mediante l’emissione di tratta di individuare e mettere a obbligazioni con allegata opzione disposizione una porzione del pa- (warrant) per l’acquisto futuro trimonio pubblico italiano, per dei beni stessi. un importo di 380/400 mld di L’emissione di obbligazioni da euro, pari a circa il 20/21% del- parte della “New Company” conl’intero attivo patrimoniale valu- sentirebbe l’immediata e contetato in 1820 mld di euro, che stuale diminuzione effettiva di consentirebbe di riportare il rap- corrispondenti quote di debito porto debito pubblico/Pil sotto pubblico. Inoltre queste obbligala soglia psicologica del 100%, zioni, essendo emesse da un soggiunto ormai secondo le ultime getto di mercato ed essendo gastime ufficiali di Banca d’Italia e rantite da asset propri, non rientrerebbero nel perimetro pubblico Istat al 124,7%.

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previsto dal regolamento dei Conti europeo (Esa 95) per la redazione dei bilanci statali e periferici e per la conseguente determinazione del debito finanziario delle Pubbliche amministrazioni. Si consegue così, con questa prima fase, sia lo scopo di non procedere immediatamente alla vendita a terzi degli asset pubblici conferiti, sia quello di reperire in tempi ragionevolmente brevi la liquidità necessaria per abbattere il debito pubblico, rinviando a un momento successivo la vendita effettiva, legata all’esercizio dell’opzione. I vantaggi dell’operazione sono molteplici: diminuzione immediata ed effettiva di porzioni significative di debito pubblico; vendita a prezzi certi e con regole omogenee e trasparenti; gradimento dei mercati per il coinvolgimento degli investitori istituzionali e privati che “vigilerebbero” costantemente su regolarità ed equità dell’operazione poichè parteciperebbero attivamente, con l’esercizio dell’opzione, alle dismissioni di parte del patrimonio dello Stato; valorizzazione di beni e asset pubblici ceduti con innegabili effetti positivi in termini di occupazione e investimenti. Si darebbe finalmente inizio a quel circolo virtuoso tanto auspicato e mai realizzato: la diminuzione del rapporto debito pubblico/Pil sotto quota 100% consentirebbe, agli attuali tassi, un risparmio annuo di circa 20 mld di euro in conto interessi (il presunto gettito Imu) da poter destinare

da subito a supporto e stimolo per la crescita. È altresì prevedibile che, a una così drastica diminuzione del fabbisogno di finanziamento dello Stato, corrisponda una generale diminuzione dei tassi corrisposti al mercato sui titoli di Stato. Di questa riduzione del costo del denaro beneficerebbe l’intero sistema delle imprese e le stesse banche, per il minor costo della raccolta ora attratta verso l’alto dai tassi di remunerazione del debito pubblico. Al veicolo New Company necessariamente dovranno partecipare, oltre a soggetti pubblici (Tesoro, C.d.P., Banca d’Italia, ecc...) anche soggetti privati italiani (banche, assicurazioni, fondazioni, ecc...) non solo per ottenere lo status di società market driven, ma soprattutto perché è necessaria una capillare azione di sostegno al collocamento delle obbligazioni stesse. Si potrebbe anche dare facoltà ai sottoscrittori delle obbligazioni di effettuare il pagamento mediante consegna di titoli pubblici italiani al prezzo di sottoscrizione, con rilevanti vantaggi di bilancio. Nel caso di istituti bancari si ridurrebbe l’area delle perdite potenziali legate alla valutazione di mercato a cui si lega l’esigenza di ulteriori ricapitalizzazioni, liberando ingenti risorse a supporto dell’economia produttiva. Per i sottoscrittori privati delle obbligazioni dovrebbe essere previsto lo stesso trattamento fiscale riservato ai titoli di Stato, al fine di incentivarne l’acquisto e la detenzione.


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Un’enorme operazione di mercato utilizzando “armi non convenzionali”, con il coinvolgimento di tutti gli attori del settore pubblico e privato e con la partecipazione attiva dei cittadini, per una volta chiamati a non subire passivamente i destini economici del loro – nonostante tutto – meraviglioso e unico paese. Uno sforzo collettivo comune teso a realizzare quell’inversione di tendenza necessaria a riequilibrare le sorti dell’Italia e che ci consentirebbe di riguadagnare “pari dignità” con gli altri parter europei. Il tempo a disposizione è limitatissimo: l’Europa sta prendendo decisioni importanti sul debito e prevale la linea suggerita dal Consiglio dei Cinque tedesco (massima autorità di consulenza economica), che prevede proprio per quell’eccedenza del 60% dei vari debiti pubblici nazionali, la creazione di un Redempion Fund a cui destinare asset patrimoniali, asservimento di riserve auree e parte della fiscalità a titolo di garanzia delle emissioni di titoli di debito di ciascuno Stato. Una rinuncia ulteriore alla sovranità nazionale in nome del rigore sempre più pressante per la sopravvivenza e la credibilità del progetto euro. Dimostriamo che siamo capaci per una volta di risolvere autonomamente in casa questo vecchio e annoso problema: abbiamo tutte le capacità e i mezzi tecnici per poterlo fare senza che lo faccia qualcun altro per nostro conto.

È necessaria però una generalizzata e condivisa volontà politica per realizzare con pieno successo e rapidamente l’unica operazione in grado di farci uscire dall’impasse della recessione e ridarci la via della crescita di cui abbiamo disperatamente bisogno. Solo in questo modo salveremo i destini dell’Italia e di conseguenza quelli dell’Euro. Lo dobbiamo fare per quello che siamo stati, per quello che siamo e, soprattutto, per i nostri figli.

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L’Autore antonio maria rinaldi Docente in Economia internazionale ed Economia applicata presso la Link Campus Universty di Roma e di Finanza aziendale presso l’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara.



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Serve una legge

CRISI, TRA DISCERNIMENTO E UNA NUOVA PROGETTUALITÀ Il doppio ruolo, commerciale e di investimento, che gli istituti di credito svolgono, ha creato un’anomalia dei mercati finanziari generando la crisi economica globale. A tutto questo si potrebbe rimediare con la riproposizione della legge Glass-Steagall, perno del New Deal del 1933. di UMBERTO GUIDONI 75

I principali commentatori di fatti economici leggono la crisi di questi ultimi anni come il fallimento del mercato. Questa opinione ha diffusamente riempito i quotidiani anche a livello internazionale. È meno ricorrente, invece, la convinzione di coloro che spiegano le ragioni del declino con il fallimento dello Stato. A queste opposte visioni si riconduce l’eterna dicotomia tra il ruolo dello Stato e quello del mercato che da sempre appassiona il dibattito di stampo cattolico e liberale. Per entrare nel merito dei diversi punti di vista è necessario capire cosa sottende l’idea di fallimento del mercato. “Il modo migliore per capire cosa sia un fallimento del mercato consiste prima nel comprenderne il suo successo, ossia la capacità di una serie di

mercati competitivi ideali di raggiungere un equilibrio Pareto ottimale nell’assegnazione delle risorse”1. L’espressione “pareto ottimale” è quella che Pareto considerava un’allocazione ottimale delle risorse disponibili che viene meno quando un soggetto, per migliorare la sua condizione, peggiorerà inevitabilmente lo stato di altri soggetti. Nella sostanza, l’ipotesi di base è che se il mercato viene lasciato libero di agire realizza il bene comune. Se ciò non accade, fallisce. Tale visione, puramente teorica, si scontra con un’evoluzione dei rapporti sociali ed economici che hanno prodotto un mercato dicotomico. Da una parte lo sviluppo dell’economia reale legata alla produzione di servizi e di beni materiali, dall’altra l’inesorabile ascesa della finanza nata con lo scopo di aumentare la circolazio-


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ne dei capitali, e trasformatasi, via via, in un distorto meccanismo di moltiplicazione del denaro che talvolta sfocia nella speculazione. La chiave interpretativa di questo processo la si può trovare nel passaggio dalla concezione del modello neoclassico fondato sui concetti di razionalità e massimizzazione, all’analisi critica della teoria dell’utilità attesa denominata “Prospect theory”. Secondo questa scuola di pensiero, quando interviene, la crisi la si può spiegare con i comportamenti degli operatori. Alcune anomalie di mercato come le bolle speculative, che sperimentano il divergere del valore di un titolo dalle sue variabili economiche fondamentali, non si spiegano con asimmetrie informative o con la teoria dei mercati efficienti ma con gli stati di panico degli investitori. Per cui intervengono scelte irrazionali a catena che determinano la caduta del mercato. Dunque, una diversa visione dell’utilità, una spiegazione non razionale delle scelte economiche hanno prodotto una distorsione nel concetto stesso di sviluppo cui ha corrisposto una duplice funzione delle banche: commerciale e di investimento. Anche questo doppio ruolo che gli istituti di credito svolgono contemporaneamente è un’anomalia dei mercati a cui si potrebbe rimediare con la riproposizione della legge bancaria Glass-Steagall2 che, a grandi linee, proponendo la separazione tra banche commerciali e banche di investimen-

to, definisce una linea di demarcazione netta tra chi investe rischiando per ottenere profitto, ma dando un contributo alla crescita, e chi investe per il puro arricchimento personale. Dunque, lo sviluppo del capitalismo associato agli atteggiamenti non razionali degli operatori all’inefficienza dei mercati provoca il vantaggio di pochi a scapito di molti altri e la contemporanea attività di banca commerciale e di investimento, da parte degli istituti di credito, porta allontanamento dall’ottimo paretiano e non favorisce il ritorno alla piena efficienza. Fatte queste considerazioni occorre approfondire se l’inefficienza del mercato è insita nella sua incapacità di realizzare l’interesse generale oppure se la responsabilità va ricercata altrove. Ritengo che il declino non si spiega soltanto con le azioni irrazionali degli operatori, ma anche con la forte presenza dello Stato nell’economia. Questo è vero in assoluto, ma lo è ancora di più in Paesi come l’Italia, in cui l’amministrazione pubblica determina gran parte delle scelte economiche. Un eccesso di Stato vincola il mercato, mentre, riprendendo Don Luigi Sturzo, il ruolo dello Stato nell’economia, dovrebbe essere “ausiliario” e “temporaneo”. La posizione di Sturzo si scontrava con quella di coloro che vedevano nello “Stato” una “realtà” sui generis, un quid tertium in possesso di un “senso” proprio. Una realtà ipostatizzata posta al di sopra dei singoli. Invece, Stur-


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FOCUS

La legge che ci salvò dalla Grande Depressione La legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act (dal nome dei suoi promotori, il senatore Carter Glass e il deputato Henry B. Steagall), fu la legge che istituì la Federal deposit insurance corporation (Fdic) negli Stati Uniti e introdusse riforme bancarie, alcune delle quali sono state progettate per controllare la speculazione. Il Glass-Steagall Act fu la risposta del Congresso degli Stati Uniti alla crisi finanziaria iniziata nel 1929 che all’inizio del 1933 mise in ginocchio numerose banche americane. La legge bancaria Glass-Steagall mirava a introdurre misure per contenere la speculazione da parte degli intermediari finanziari e i panici bancari. La prima misura fu quella di istituire la Federal deposit insurance corporation con lo scopo di garantire i depositi e prevenire eventuali corse allo sportello delle banche e ridurre il rischio di panici bancari. La seconda misura prevedeva l’introduzione di una netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Le due attività non potevano essere esercitate dallo stesso intermediario, avendo così la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. La ratio di tale provvedimento era quella di evitare che il fallimento dell’intermediario comportasse altresì il fallimento della banca tradizionale, impedendo di fatto che l’economia reale fosse direttamente esposta al pericolo di eventi negativi prettamente finanziari. Per via della sua successiva abrogazione, nella crisi del 2007 è accaduto proprio questo, quando l’insolvenza nel mercato dei mutui subprime ha scatenato una crisi di liquidità che si è trasmessa immediatamente all’attività bancaria tradizionale, in quanto quest’ultima è commistionata all’attività di investimento, in questo caso immobiliare. A partire dagli anni Ottanta, l’industria bancaria ha cercato di convincere il Congresso ad abrogare il Glass-Steagall Act. Nel 1999 il Congresso a maggioranza repubblicana approvò una nuova legge bancaria promossa dal Rappresentante Jim Leach e dal Senatore Phil Gramm e promulgata il 12 novembre 1999 dal Presidente Bill Clinton, nota con il nome di Gramm-Leach-Bliley Act. La nuova legge abroga le disposizioni del Glass-Steagall Act del 1933 che prevedevano la separazione tra attività bancaria tradizionale e investment banking, senza alterare le disposizioni che riguardavano la Federal deposit insurance corporation. L’abrogazione ha permesso la costituzione di gruppi bancari che al loro interno permettono, seppur con alcune limitazioni, di esercitare sia l’attività bancaria tradizionale sia l’attività di investment banking e assicurativa. Ad esempio, in previsione dell’approvazione del Gramm-Leach-Bliley Act il gruppo bancario Citicorp annunciò e portò a termine la fusione con il gruppo assicurativo Travelers.

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zo critica acutamente lo statali- di limitare la libertà di intrasmo, la partitocrazia e l'abuso di prendere. denaro pubblico (le «tre male be- Ciò è tanto vero nel nostro Paese stie») e propone uno schema teo- che la Banca Mondiale, nell’amrico in forza del quale lo Stato è bito del progetto Doing Business arbitro, il mercato è il campo di che misura attraverso degli indigioco e gli operatori sono i gioca- catori la capacità di “fare impretori3. Sturzo non demonizza lo sa” di un paese, classifica l’Italia Stato, semplicemente non preten- nel 2012 all’87° posto rispetto ai de che si esprima mediante ciò 183 paesi considerati. Ciò non che non ha: la “parola”. Gli unici può sorprendere se si pensa che ad essere dotati di “parola” sono oggi in Italia la possibilità di fale persone in carne ed ossa, una re impresa si scontra con: la buparola che rivela il concetto di li- rocrazia, che richiede una serie bertà “individuale ed integrale”, infinita di adempimenti; i vincotale da manifestarsi nella respon- li a livello ambientale; i limiti di natura locale; le sabilità: rispondedifficoltà di accesre direttamente Lo Stato ha vincolato so al credito, che delle proprie scelnon premia l’idea, te, contro ogni a tal punto l’economia ma le garanzie pa“ragion di Stato”, da impedirne trimoniali; le rigidi partito, di razza dità del mercato e di nazione. Se- in questo modo guendo la teoria una crescita equilibrata del lavoro; la pressione fiscale; l’indi Sturzo, lo Stato è necessario per regolamentare il combenza dei sindacati; lo scarso mercato, ma con il suo intervento investimento in R&S. non deve inondare l’economia di Questa mole di ostacoli che si frappone allo sviluppo imprendiregole, burocrazia e limiti. Di fatto, in Italia e in altri paesi toriale ha prodotto un sistema di europei è accaduto l’esatto con- piccole e medie imprese certatrario e l’intervento dello Stato mente dinamico, sicuramente ha vincolato a tal punto l’econo- flessibile, ma inadeguato ad uno mia da impedirne una crescita sviluppo commisurato ad un paese che è tra i 7 più industrializzati equilibrata. Inoltre, ad un apparato normati- del Mondo. Non solo, un sistema vo elefantiaco si aggiunge la così complesso di norme frena gli congerie di direttive, normative, investimenti esteri. Basti pensare, raccomandazioni che l’Europa a titolo di esempio, a quanto accaduto alla compagnia British Gas impone ai suoi Stati membri. Una così forte intromissione per installare un rigassificatore a dello Stato nel mercato non si Brindisi. Dopo undici anni di paspiega in un’ottica di correzione ralisi sul fronte delle autorizzaziodelle scelte irrazionali degli ni e dei permessi attesi dagli inoperatori, ma con una volontà glesi e mai concessi dalle autorità


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italiane, la compagnia energetica Certo, è possibile sostenere che ha deciso di abbandonare l’inve- ancora oggi alcune produzioni stimento. Il medesimo progetto, trovano nelle esportazioni uno definito “gemello”, è stato avviato sbocco che dà respiro al paese, nello stesso periodo in Galles con ma si tratta di produzioni tradiil risultato che ha ottenuto la vali- zionali (abbigliamento, mobili, dazione in soli cinque anni e oggi calzature) a basso contenuto è pienamente operativo. Questo tecnologico e che trovano aperstato di cose non attrae in Italia ture, in particolar modo, nel gli investimenti diretti esteri che mercato europeo (le esportazionel 2011 sono crollati del 53% ni italiane relative a tali beni riraggiungendo uno stock totale di guardano il 13,5% del totale investimenti pari a 337 miliardi delle esportazioni a fronte del di dollari, contro i 614 della Spa- 3,3% delle esportazioni riguargna, i 674 della Germania e gli danti computer e apparecchiature elettriche in genere). oltre mille miliardi della Francia. L’Italia in passato, Tutto questo si rileader della chipercuote sulla pro- Un’impresa dovrebbe mica, della sideduzione industriarurgia, della mecle, sugli ordinativi, nascere in un giorno, canica e così via, sugli investimenti solo con questa ha smesso di invefissi e fa sì che la stire in ricerca e nostra economia da mentalità si potrà sviluppo facendo m a n i f a t t u r i e r a , cambiare rotta sì che questi setvenga sempre più trasformandosi in un’economia tori abbiano perso le imprese di del terziario. Tanto è vero che il punta e con esse la specializzaziovalore aggiunto dell’industria ma- ne produttiva. nifatturiera sul totale dell’econo- Questo groviglio di regole, buromia è sceso dal 20% del 2000 al crazia, scarsa disponibilità di capitali non è configurabile come 16% del 2010. Un paese, già così aggrovigliato, un fallimento dell’economia, ma ha deciso di peggiorare le cose come un eccesso di Stato nel modificando il titolo V della Co- mercato. Ecco perché il paese ristituzione, arrivando al paradosso chiede a gran voce di liberalizzadi assegnare la titolarità agli enti re, semplificare, in una parola locali addirittura della rete di di- consentire al mercato di rimuostribuzione energetica. Il risultato vere quegli ostacoli che impone è stato quello di frenare gli iter la presenza dello Stato. autorizzativi. All’estero non inve- È per questo che è assolutamente stono in Italia e gli italiani delo- necessario invertire la rotta, concalizzano nei paesi in ritardo di sentendo alle buone idee di trosviluppo per risparmiare sulla vare i capitali per trasformarsi in manodopera. Il sistema paese ne impresa, magari anche garantendo le coperture dopo aver valutarisente e si impoverisce.

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to obiettivamente il rischio di investimento. Invertire la rotta anche facendo sì che un’impresa possa nascere in un giorno, in una settimana, riservandosi poi successivamente di verificarne le procedure di legge. L’autocertificazione è un principio semplice in cui chi dichiara il falso perde tutto, ma chi dichiara il vero può investire e continuare a creare occupazione. L’analisi fin qui svolta sembra propendere verso una visione liberista, contraria a qualsiasi forma di intromissione dello Stato nell’economia. In realtà non è così. Quello che si sta cercando di dimostrare è che Stato e mercato hanno bisogno l’uno dell’altro e devono trovare un punto di equilibrio tenendo conto della realtà socio-culturale nella quale agiscono. È per questo che la crisi nata negli Stati Uniti, e propagatasi come un’epidemia nel Mondo, è il risultato dell’agire di un mercato che non è stato “contenuto” con alcune, poche, ma necessarie regole. In questo caso, l’assenza di regole ha fatto sì che la speculazione raggiungesse dei picchi tali da produrre un declino che ha impoverito profondamente le famiglie. La convinzione che si potesse ottenere denaro con facilità, senza garanzie e senza rischi, ha portato a scelte totalmente irrazionali da parte di famiglie e di imprese innescando un circolo vizioso la cui conclusione ha portato al declino degli speculatori, come le banche di investimento, ma anche alla povertà dei cittadini. Introdotte alcune poche rego-

le il mercato statunitense sta risalendo rapidamente la china: gli ultimi dati relativi al pil dell’ultimo trimestre del 2011 evidenziano un rialzo del prodotto interno lordo del 3%; inoltre a favorire la crescita sono state le spese dei consumatori cresciute del 2% grazie all’incremento dell’occupazione, un segnale incoraggiante. Un fattore chiave, inoltre, per la crescita economica è stato l’aumento delle esportazioni salite del 4,7%, un altro dato che ha confermato la ripresa economica. Dunque, da come la si vede chi pronuncia sentenze sul fallimento del mercato o dello Stato, esibendo la veste di liberista o statalista, sbaglia! Un’economia funziona nel momento in cui il mercato può dispiegare i propri effetti nell’ambito di poche ma necessarie regole che consentono alla Stato di limitarne le distorsioni. Dunque, liberalizzazioni, semplificazioni, riduzione dei diversi livelli decisionali nei paesi con eccesso di burocrazia e regole di controllo e di stabilità nei paesi con eccesso di libero mercato. La lettura delle ragioni di una crisi di così vaste dimensioni deve fornire anche gli strumenti per uscirne. Ritengo che periodi di crisi come questo possono anche diventare un’opportunità di rinnovamento per la società. Riprendendo le parole di SS. Benedetto XVI dall’Enciclica Caritas in Veritate “… La complessità e gravità dell'attuale situazione economica giustamente ci preoc-


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cupa, ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità.” Le parole del Santo Padre offrono uno scenario di speranza ma, allo stesso tempo, ci fanno riflettere e ci stimolano a porci degli interrogativi. Da dove ripartire per progettare il nostro futuro? Quali sono le strade da intraprendere per dare nuova linfa alla speranza? La risposta la si dovrebbe trovare nel giusto riequilibrio tra Stato e mercato, richiamando Don Sturzo, deve essere l’ordine necessario al vivere civile. “L’attività economica, in particolare quella dell’economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie delle libertà individuali e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello Stato, pertanto, è quello di garantire tale sicurezza, di modo che chi lavora possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà … Compito dello

Stato è quello di sorvegliare e guidare l’esercizio dei diritti umani nel settore economico; in questo campo, tuttavia, la prima responsabilità non appartiene allo Stato, bensì ai singoli e ai diversi gruppi e associazioni di cui si compone la società”. La storia ha tracciato il cammino, spetta a noi percorrerlo. Note 1

Jhon H. Makin, Un fallimento dello Stato, in Wall Street Journal, 2009. 2 La legge bancaria Glass-Steagall (1933) mirava a introdurre misure per contenere la speculazione da parte degli intermediari finanziari e i panici bancari. La prima misura fu quella di istituire la Federal Deposit Insurance Corporation con lo scopo di garantire i depositi e prevenire eventuali corse allo sportello delle banche e ridurre il rischio di panici bancari. La seconda misura prevedeva l'introduzione di una netta separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Le due attività non potevano essere esercitate dallo stesso intermediario, avendo così la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. 3 Agostino Carrino, professore ordinario presso l'Università di Napoli Federico.

L’Autore umberto guidoni Segretario generale della Fondazione Ania per la Sicurezza stradale. è stato dirigente del Dipartimento Settori innovativi presso l’Istituto per la promozione industriale e consigliere del ministro Marzano. Membro del Consiglio di amministrazione della Dintec. Membro del Consiglio direttivo della società Certicommerce. Dirigente del dipartimento Net – Economy nell’ambito dell’Area Politiche e Studi presso l’Ipi. Da gennaio 2007, membro per l’Italia presso il Cea di Bruxelles nell’ambito del Road Safety Group .

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SOTTO RICATTO DELLA FINANZA Abbiamo bisogno di nuove idee e nuovi modelli organizzativi che consentano la rivitalizzazione della democrazia economica e il ristabilimento di giusti e sostenibili valori etici. E servono forze in grado di modernizzare le istituzioni di governo per competere con la spregiudicata rapiditĂ delle scelte attuate dai poteri finanziari. di ROBERTO PASCA DI MAGLIANO


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La crisi economica globale ha ri- anche sulle attività finanziarie; disegnato la mappa dei poteri. I con ciò accusando una crescente soggetti protagonisti dell’econo- dipendenza dalla finanza per le mia reale, imprenditori e lavora- necessità di finanziamento delle tori, subiscono la crescente inva- proprie crescenti esposizioni desione di campo dei nuovi attori bitorie. della finanza internazionale che, Di fronte a queste preoccupanti forti della rapidità con cui adotta- situazioni, che rischiano di sconno scelte e decisioni e della capa- volgere non solo assetti economicità di moltiplicare le attività fi- ci ma anche equilibri sociali e nanziarie, riescono a speculare l’intero sistema di valori acquisisulle situazioni di crisi e debolez- ti nelle società avanzate, appaioza che colpiscono alcuni sistemi no del tutto inadeguate le politieconomici del mondo avanzato. che convenzionali, come le misuI valori caratteristici delle econo- re di controllo di bilancio e di mie di mercato vengono incrinati inasprimento fiscale. Occorrono a tutto vantaggio piuttosto nuove di una sfrenata ri- Gli Stati sono incapaci idee e specie nuocerca di profitti, vi modelli organon più derivanti di arginare gli eccessi nizzativi che condalla produzione e della finanza sentano la rivitavendita di beni e lizzazione della beni servizi ma e reagiscono scaricando democrazia econodalla negoziazione gli oneri sui cittadini mica e il ristabilidi prodotti finanmento di giusti e ziari poco o nulla influenzanti le sostenibili valori etici. Occorre attività produttive. La conseguen- in particolare ideare percorsi inza è che situazioni di crisi risulta- novativi in grado di modernizzano ingigantite ed esasperate al di re le istituzioni di governo, conlà della loro reale dimensione. sentendo loro di competere con Si prospettano nuovi scenari sem- la spregiudicata rapidità delle pre più insostenibili e, insieme, scelte attuate dai poteri finanziala diffusione di disvalori che mi- ri e insieme migliorare l’efficacia nano alle fondamenta l’eticità dei delle politiche economiche sgancomportamenti individuali e, ciandole dal ricatto dell’aumento quindi, i valori di riferimento che della spesa pubblica. deprimono la crescita economica Un possibile “progetto innovatie distruggono posti di lavoro. vo” di ampio respiro per evitare Gli Stati, incapaci di governare rischi di contagio dalla crisi della e arginare gli eccessi della fi- Grecia, per imprimere nuovo nanza perché sempre più dipen- slancio al paese e porlo in condidenti dalle sue scelte, reagisco- zione di competere con i princino inasprendo l’azione di rigore pali partner mondiali, non può scaricando gli oneri del risana- che fondarsi su un insieme di rimento sull’economia reale e non forme che poggino su alcune ca-

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Riforme fondate su “regole virtuose”

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ratteristiche determinanti: rafforzamento della governance; riduzione dello stock del debito; misure per la crescita a costo zero. Il percorso di riforma che si propone si fonda sull’introduzione di “regole virtuose”, ossia su riforme che possano indurre nei soggetti destinatari comportamenti collaborativi (e non collusivi) senza perciò comportare alcun aumento di spesa pubblica. I sistemi democratici di fronte al crescente potere della finanza internazionale

Da quando la produzione di ricchezza finanziaria ha oltrepassato quella di beni reali, da quando i suoi ritmi di crescita sono lievitati in seguito al proliferarsi di contratti speculativi e nella quasi

totale assenza di regole (che invece regolano l’attività delle banche commerciali), i “guru” della finanza hanno cominciato a dettare comportamenti e imporre regole alla politica e ai governi, ingabbiati nei tempi e nelle procedure della democrazia. Segnali questi preoccupanti di un processo di trasferimento del potere economico e anche politico ad attori attenti solo al guadagno e non anche agli interessi di chi produce e lavora. Le democrazie parlamentari devono necessariamente reagire innovando i propri sistemi decisionali per renderli più efficienti e rapidi così da riscattarsi dalla dipendenza della finanza ed evitare pericolosi contagi e ancor più gravi derive autoritarie.


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L’ammodernamento dei sistemi Se il Pil mondiale, tra il 1997 e democratici diventa, quindi, la il 2010, è cresciuto del 75%, condizione indispensabile per la passando da 40 a 60 trilioni di loro stessa sopravvivenza e per dollari circa, la consistenza delle scongiurare ogni rischio di deca- attività finanziarie si stima sia dimento verso sistemi autoritari aumentata del 250%. che invece riescono a competere In tale contesto, crescente è stato con la finanza a costo, però, di il ruolo assunto dai paesi emeruna riduzione delle libertà politi- genti: non solo dei noti Bric che e della tutela dei diritti indi- (Brasile, Russia, Cina e India) ma anche di una nutrita schiera viduali. In passato la finanza era al servi- di nuovi paesi che vedono lievizio dell’economia, oggi appare al tare le proprie ricchezze di proservizio di se stessa. Complice è venienza finanziaria o anche ecostata la straordinaria crescita del- nomica, quali la Corea del Sud, la spesa pubblica che i paesi occi- il Sud Africa, la Turchia, l’Indonesia, il Vietnam dentali hanno doe diversi altri. vuto mettere in at- In passato la finanza Fare una mappa to per far fronte alprecisa dei luoghi le nefaste conse- era al servizio in cui si concenguenze della crisi dell’economia, oggi trano le risorse finanziaria del nel mondo non è 2 0 0 7 - 2 0 0 8 . L a appare al servizio semplice. vertiginosa lievita- di se stessa Possiamo tuttavia zione della spesa pubblica ha accresciuto lo stock riferirci ad alcuni importanti agdei debiti sovrani aumentando a gregati: l’economia reale, misuradismisura la dipendenza dai fi- ta dal Pil mondiale, è stimata atnanziatori internazionali ed espo- tualmente in poco meno di 60mila miliardi di dollari. nendo i titoli alla speculazione. Nel recente passato, con l’espres- L’economia finanziaria comprensione “mani forti” ci si riferiva a de diverse componenti che possopoche grandi banche d’affari (in no ricondursi alla seguenti: a) cagenere americane) che gestivano pitalizzazione mondiale delle patrimoni immensi ed erano in Borse, misurata dal valore comgrado di influenzare i mercati plessivo delle azioni quotate nelle borsistici. Oggi, nell’era globale, varie Borse mondiali. Si stima le risorse finanziarie sono distri- per essa un valore non lontano da buite in tanti luoghi e protagoni- 53mila miliardi di dollari (solo le borse di Stati Uniti, Europa e sti del nuovo potere mondiale. Stime attendibili indicano che la Giappone, contano per circa ricchezza finanziaria supera al- 33mila miliardi di dollari). meno di 4/5 volte quella reale, b) Banche commerciali e banche ossia quella riferita al valore del- d’affari, che mobilitano enormi la produzione di beni e servizi. risorse finanziarie il cui fatturato

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si stima raggiunga i 150mila sono una benedizione per i mermiliardi in attività dirette e in- cati perché pungolano manager assonnati a gestire meglio le prodirette. c) Fondi pensione, Fondi comuni prie aziende o governi incapaci a di investimento e Fondi assicura- realizzare le necessarie riforme tivi, i quali nel complesso valgo- strutturali. no 53mila miliardi di dollari f) Banche centrali dei vari paesi (circa 18 mila miliardi di dollari detentrici di riserve in eccedenza. Nel complesso si stima una dotaciascuno). d) Fondi di private equity, che zione di almeno 5 mila miliardi possono contare su mezzi finan- di dollari, depositate in prevalenziari propri stimati in circa 500 za presso le grandi banche cenmiliardi di dollari che consento- trali dell’Occidente (Stati Uniti, no di mobilitare cifre molto im- Europa, Inghilterra, ecc.), in Ciportanti ottenute dalle banche, na, Russia e Giappone (che da grazie a una leva media pari ad soli pesano per la metà delle riserve delle banche almeno 12 volte il centrali di tutto il capitale proprio. La finanza mobilita mondo); risorse Il valore complessivo stimato delle un’impressionante mole queste impiegate attività finanziarie di liquidità di gran lunga in investimenti di tutta tranquillità generate raggiun(titoli di Stato, obge almeno i 6.000 maggiore al valore bligazioni). Negli miliardi. dell’economia reale ultimi tempi si soe) Hedge fund, fondi di recente invenzione a orien- no aperte prospettive nuove e più tamento fortemente speculativo, allettanti per quei paesi che, diche mobilitano una massa finan- sponendo di riserve in eccesso riziaria imponente a dispetto del- spetto alle necessità di stabilizzal’apparente modestia dei loro zione dei cambi, dirottano parte mezzi, stimata in 1.400 miliardi delle risorse finanziarie non stradi dollari. La loro unica missione tegiche a investimenti diretti, è quella di realizzare il massimo gestiti autonomamente con finaprofitto possibile. Alle spalle lità di profitto. hanno una clientela decisa a rea- g) Fondi di ricchezza sovrana, enlizzare profitti, anche se ciò com- tità autonome emanazione di Staporta rischi elevati. Sono in gra- ti sovrani, che utilizzano risorse do di sconvolgere le quotazioni provenienti dal surplus di bilandelle materie prime come quella cia dei pagamenti o da proventi di un particolare titolo azionario della vendita di commodity (petroe sono il vero grande pericolo lio e gas). Essi alimentano flussi delle Borse proprio perché agi- di investimenti di portafoglio, di scono in modo spregiudicato, ag- investimenti diretti ed anche di gressivo e veloce. Per altro verso partecipazioni e acquisizioni soc’è chi sostiene che gli hedge fund cietarie. La loro dotazione patri-


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moniale è in continua ascesa e si al riordino dei conti pubblici e a avvicina oggi ai 5 mila miliardi stimolare la crescita. di dollari i quali, si stima, potran- E per questi motivi è oggi deterno crescere fino a 10-12 mila mi- minante che anche la Banca Centrale Europea (Bcs) evolva le sue liardi nel prossimo decennio. Nel complesso la finanza mobili- competenze e funzioni per guata un’impressionante mole di li- dagnare un ruolo attivo nella gequidità (tra 250 e 300 trilioni di stione della moneta e del debito dollari), di gran lunga maggiore pubblico, così come avviene neal valore dell’economia reale, ali- gli Stati Uniti, nel Regno Unito, mentando in prevalenza specula- in Svizzera e in Giappone. zioni meramente finanziarie (il mondo dei derivati) per lucrare Liberismo o interventismo guadagni a breve e brevissimo Il mercato convive con le crisi da termine e non certo per stimola- sempre e conduce comunque alre consumi e investimenti. Tale l’individuazione di soluzioni non liquidità si espansempre eque e de nel mondo sen- Il mercato convive con sopportabili dal za generare inflapunto di vista sozione (non avendo le crisi da sempre e ciale. È quindi nericaduta diretta cerca soluzioni cessario governare sull’economia reail mercato per evile), ma accrescen- quasi mai eque che fa tare rischi di dido la destabilizza- pagare alla società storsione. zione per effetto Dal 1272 in poi si dell’aumento dei tassi di interes- possono contare ben 22 crisi sise e, di conseguenza, dei rischi stemiche, di cui 9 dalla metà dedi default come sta accadendo gli anni ‘70. nell’Eurozona. La storia è costellata da eventi Molti sistemi economici e i rela- con caratteristiche simili alle tivi governi vivono in una sorta crisi a quelle verificatesi in anni di “assillo da spread” (differen- più recenti. ziale tra gli interessi praticati sui Per comprendere meglio la crisi propri titoli di debito pubblico attuale può essere utile ripercorrispetto a quello di un paese con- rere per ampi tratti la storia, parsiderato forte e stabile, la Germa- tendo dalle vicende che si sono nia). Da un lato gli spread sono susseguite dalla fine del 1200. campanelli di allarme della cre- 1) Crisi finanziaria del 1272. Il scente invadenza della finanza Re Edoardo I d’Inghilterra intratnella gestione della cosa pubbli- teneva eccellenti rapporti d’affari ca, dall’altro, secondo autorevoli con alcuni banchieri italiani. In esponenti come Mario Draghi, un sistema che potremmo descrirappresentano strumenti utili per vere come una variante antica del indurre Governi poco coraggiosi modello Northern Rock, i Rica realizzare le riforme necessarie ciardi si affidavano ai prestiti in-

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terbancari per finanziare il credito concesso al Re. Ma a partire dal 1290 si verificò una crisi di liquidità simile a quella innescata negli Stati Uniti dai subprime nel 2007, con esiti disastrosi sui sistemi economici europei. 2) Crisi dei banchieri fiorentini (1340 – 1350). Tra il 1343 e il 1346, i Bardi e i Peruzzi, due tra le più importanti famiglie di banchieri fiorentini, furono letteralmente travolti da un’ambigua storia di facili garanzie, simile anche questa a quella dei mutui subprime. Questa vicenda, che causò la prima crisi dei mutui della storia, si concluse con la morte sul rogo di due funzionari della Zecca e l’inizio di una depressione economica senza precedenti: ne patirono i traffici commerciali di ogni tipo e i mercati ne furono sconvolti. 3) Bolla dei tulipani (1637). Nel ‘600 l’Olanda divenne teatro della prima bolla speculativa della storia, legata a un fiore che ancora oggi, in memoria di quel periodo, è conosciuto come “il fiore che fece impazzire gli uomini”. Maturò l’idea che tali fiori fossero pregiati e qualcuno cominciò a suggerirne l’acquisto in un’ottica speculativa, visto che il prezzo andava aumentando col tempo (un pò come avviene per i metalli preziosi o gli oggetti d’arte). Si finì così per commerciare “tulipani di carta”, vale a dire solo atti di compravendita, che rispondevano al ben noto e rischioso gioco di Borsa. A settembre del 1636 i prezzi iniziarono a salire vertiginosamente. L’andamento

rialzista proseguì nei mesi di novembre, dicembre e gennaio successivi raggiungendo valori esorbitanti. La crisi deflagrò nel febbraio del 1637 quando i prezzi crollarono del 90%. 4) Bolla dei mari del Sud (1720). La South Sea Company era un’importante società commerciale inglese, sorta nel 1711 con grandi speranze e promesse. Il titolo della South Sea Company passò da 128 sterline a oltre 1000 sterline nel corso 1720. Ma già dopo un mese dal boom del titolo, le azioni crollarono improvvisamente tornando quasi alla quotazione iniziale. La Banca d’Inghilterra risolse in qualche modo la situazione con iniezioni di liquidità: per la prima volta si promulgarono leggi volte a temperare il libero mercato. 5) Bolla della Compagnia del Mississippi (1720). Una bolla speculativa analoga a quella descritta in precedenza, scoppiò negli stessi mesi anche in Francia con il crollo della “Compagnie du Mississippi”, una società fondata da un economista e banchiere scozzese che sarebbe poi divenuto celebre nella storia economica, John Law. Law creò nel maggio 1716 una banca di emissione privata che aveva la facoltà di emettere carta moneta con l’impegno di convertirla in moneta metallica su semplice richiesta dei possessori. Tra il 1719 e il 1720 le azioni della società lievitarono di oltre trenta volte. La “Compagnie” riuscì ad accumulare ben 7,5 miliardi di lire francesi di allora. Nel dicem-


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bre del 1720, a causa di movimenti speculativi, le azioni collassarono da un valore di circa 10.000 livres a 500 livres. Law fu costretto a fuggire dalla Francia per riparare all’estero. Come nel caso dell’Inghilterra, anche in questo caso la “Banque Céntrale” si accollò il debito generato della “Compagnie”. Si può osservare che l’acquisto del debito è una costante delle crisi di ieri e oggi: pensiamo infatti alla crisi attuale, provocata in gran parte dalla cessione di debiti fra le banche. 6) Panico del 1792. Il Panico del 1792 fu provocato da una crisi del credito finanziario che si manifestò nei mesi di marzo e aprile del 1792 a causa di movimenti speculativi effettuati da due finanzieri, William Duer e Alexander Macomb, nei confronti dei titoli azionari della “Bank of New York”. La corsa agli sportelli fu provocata dai timori di comportamenti fraudolenti dei finanzieri. 7) Panico del 1819. Dopo la fine della belligeranza tra Francia e Gran Bretagna si generò una diffusa depressione economica che si estese dall’Europa agli Stati Uniti. 8) Panico del 1825. Il panico del 1825 venne provocato da un crollo del mercato azionario che ebbe inizio in Inghilterra e fu provocato da investimenti fortemente speculativi della Banca d’Inghilterra. 9) Panico del 1837. Il panico del 1837 nacque da una febbre speculativa. La bolla scoppiò il 10 maggio 1837 a New York,

quando tutte le banche bloccarono i pagamenti in monete d’oro e d’argento e la conversione della moneta cartacea. Al panico seguirono cinque anni di depressione, con il fallimento delle banche e conseguente esplosione della disoccupazione. Le cause essenzialmente furono attribuite alle politiche economiche adottate dal presidente Andrew Jackson, tra cui la “Circolare sulla moneta” e il ritiro dei fondi governativi dalla “Second Bank of the United States”. Soltanto nelle prime tre settimane di aprile a New York fallirono 250 case d’affari. 10) Bolla speculativa Railway (1840). La “Railway mania” fu una bolla speculativa che scoppiò nei mercati inglesi nel 1840 sui titoli delle ferrovie. Possiamo riscontrare alcuni parallelismi con la bolla del dot.com che fece tremare i mercati quasi 150 anni dopo. 11) La Grande depressione (1873-1895). La crisi economica del 1873-1896, nota come Grande depressione, ebbe inizio dopo oltre trent’anni di incessante crescita economica. Il mondo conobbe una crisi agraria, a cui si aggiunse una parallela crisi industriale. 12) Panico dei banchieri (1907). ll grande panico del 1907 rappresentò la prima crisi globale del Novecento. Nel solo mese di ottobre l’indice azionario di Wall Street perse il 37%. Da New York il panico dilagò in tutta l’America. In pochi giorni i ritiri di contante dalle banche rag-

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giunsero i 350 milioni di dollari. 18,4%. Gli idrocarburi (petrolio Il panico del 1907 ebbe luogo e i suoi derivati) coprivano i due durante una lunga recessione eco- terzi del fabbisogno energetico e nomica tra il maggio 1907 e il i rispettivi prezzi salirono alle giugno 1908. L’interrelazione tra stelle innescando, per la prima la recessione dell’economia, il pa- volta, una grave inflazione da conico bancario e il crollo del mer- sti che provocò una grave riducato azionario si risolse in un si- zione dei profitti, degli investignificativo sconvolgimento del- menti, della produzione e dell’occupazione. l’intero sistema economico. 13) Il grande crollo (1929). La 15) Crisi dei videogiochi (1983). borsa di New York aprì gli Il crack dei videogiochi del 1983 scambi, come sempre, alle dieci fu causato dall’improvviso crollo del mattino il 29 ottobre 1929. del mercato dei videogiochi e Ma stavolta si scatenò inaspetta- dalla bancarotta di molte aziende tamente un disperato assalto ai produttrici di computer in Nord America. listini per vendere 16) Il lunedì nero azioni e depositi Dal 1272 in poi (1987). Con bancari a ogni l’espressione luneprezzo. Insieme si possono contare alla giornata del ben 22 crisi sistemiche, dì nero si fa riferimento al giorno 24, il “giovedì 19 ottobre 1987. nero” del 29 otto- di cui nove dalla metà In quella giornata bre sarebbe passa- degli anni Settanta infausta per le borto alla storia come il momento culminante del se mondiali, vi fu un autentico “grande crollo”: un evento insie- tracollo degli indici Dow-Jones me sintomatico del malessere senza una ragione precisa, che serpeggiante nell’economia mon- trascinò dietro sé buona parte dediale e degli squilibri verificatisi gli indici delle borse di tutto il mondo. in precedenza. 14) Lo shock petrolifero e le crisi 17) Crisi delle tigri asiatiche energetiche (1973). Nel 1950 i (1997). La crisi delle tigri asiatifabbisogni energetici erano co- che fu una crisi finanziaria che inperti per il 55,7 % dal carbone, teressò alcuni paesi dell’Est asiatiper il 6,5% da energia elettrica co alla fine degli anni ‘90 a causa prodotta da fonti primarie, per il del rallentamento di una crescita 28,9% dal petrolio e per l’8,7% fino ad allora molto vivace. Essa provocò un ritiro dei capitali da dal gas naturale. Nel 1972 le percentuali si erano parte degli investitori stranieri e radicalmente modificate: il car- delle banche, generando un forte bone scendeva al 28,7%, l’elettri- indebitamento in molte aziende e cità primaria restava stabile al una forte recessione economica. 6,9%,il petrolio saliva al 46% e 18) Bolla del dot.com (2001). È il gas naturale aumentava al dalla fine degli anni ‘90, e in par-


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ticolare dalla prima quotazione diamente sui livelli della fine del in borsa del programma per la XX secolo. navigazione su internet Netsca- 21) La crisi della Northern Rock pe, che si fa risalire la così detta e i successivi fallimenti bancari. bolla speculativa delle società Soltanto nei primi quattro mesi dot.com che avevano sperimenta- del 2009, secondo un calcolo riportato dal Wall Street Journal, to eccessivi rialzi di borsa. 19) Crisi del luglio 2002. Chia- negli Stati Uniti fallirono 31 mata anche “Stock market down- banche. Altri 25 istituti di crediturn 2002”, la crisi del luglio to statunitensi sono finiti in ban2002 si estese a tutto il Nord carotta nel corso del 2008 e il America, l’Europa e l’Asia, cioè protrarsi delle tensioni finanziaalle regioni finanziariamente più rie nel mondo bancario statuniimportanti del pianeta. La crisi fu tense è per molti la vera ragione dovuta fondamentalmente a un dell’attuale crisi in corso. crollo ingiustificato delle quota- 22) Crisi finanziaria e crisi economica attuale zioni azionarie ri(20010-11). I spetto alle attese Il liberismo sfrenato, mercati finanziari degli operatori. di tutto il mondo, 20) Bolla immobi- privo di regole, a seguito della criliare e crisi dei è stato la causa si dei subprime, mutui subprime hanno risentito (2006). La crisi è della crisi economica delle conseguenze iniziata all’incirca e del degrado sociale inevitabili derinella seconda metà del 2006, quando cominciò a vanti dalla lievitazione della spegonfiarsi la bolla immobiliare sa pubblica e quindi dei debiti statunitense e, contemporanea- sovrani, che i paesi maggiormenmente, molti possessori di mu- te colpiti hanno accumulato per tui subprime divennero insol- difendere il proprio sistema banventi a causa del rialzo dei tassi cario e per sussidiare una massa di interesse e al crollo dei valori crescente di disoccupati. L’auimmobiliari. I suoi effetti più mento del peso del debito, consegravi si sono manifestati tra feb- guente anche al rallentamento braio e marzo 2007 e tra settem- della crescita, ha innescato timori bre e ottobre 2008, bimestre in di default e forte lievitazione dei cui scompaiono le banche d’affa- tassi di interessi sui titoli dei paeri più note: il 15 settembre si a maggior rischio. La finanza 2008 Lehman Brothers fallisce ha trovato gioco facile per operainvocando il “chapter 11”, il 22 zioni speculative al ribasso che settembre Goldman Sachs e hanno ulteriormente danneggiato Morgan Stanley diventano ban- le già deboli finanze pubbliche. che normali. Tutti gli indici bor- Rischi di recessione e in alcuni sistici mondiali crollano in ma- casi di default sono tutt’ora alniera consistente, tornando me- l’orizzonte, demandando agli Sta-

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ti una sfida epocale per risanare i bilanci senza provocare recessione. Alle organizzazioni finanziarie mondiali è demandato il ruolo di gestire una crisi che pone a rischio anche la stabilità monetaria, in particolare dell’euro. Le economie di mercato hanno mostrato una propria intrinseca efficienza fin quando le crisi finanziarie, in particolare quella del 2008 e poi quella attuale, hanno reso evidente la devastante capacità della finanza di stressare il sistema capitalismo, minandolo alle fondamenta. Il liberismo sfrenato, privo di regole, è stato la causa della crisi economica e del degrado sociale. La capacità regolatrice del mercato nell’affrontare ogni tipo di crisi economica o finanziaria si manifesta nella individuazione di nuovi equilibri non sempre accettabile dal punto di vista sociale. Peraltro, ogni nuova soluzione di equilibrio può dimostrarsi inappropriata rispetto alle esigenze della crescita, proprio perché può essere foriera di gravi distorsioni strutturali che danneggiano alcuni individui rispetto ad altri (i più agiati), provocando la diffusione di aree di disagio e di povertà. Ciò conduce a nuovi equilibri di sottoccupazione che ostacolano la crescita del capitale umano, fattorechiave di ogni programma di crescita economica. L’affermazione del liberismo è stata favorita da alcuni indiscutibili meriti, di aver spianato la strada allo sviluppo economico, alla diffusione del progresso tec-

nologico, alla liberazione dell’iniziativa privata. E sulla scia di questi successi si è diffusa in molti paesi una tendenza alla deregolamentazione, specie nel campo della finanza, che ha aperto la strada a una fuorviante ideologia verso un modello sociale di rifiuto dell’intervento regolatore dello Stato, volto a ridistribuire più equamente beni e oneri all’interno della società. Cardini di questa ideologia sono l’interesse individuale, il calcolo dei costi e dei benefici come criterio guida di ogni attività umana. Oggi assistiamo a un degenerazione del liberismo del liberismo senza freni e senza regole. “Il capitalismo, seguendo il cammino dell’economia, è andato assumendo a sua volta il volto assolutizzante e disumano dei mostri incarnatisi negli assolutismi politici e istituzionali radicati nelle ideologie di matrice hegeliana” (Nicola Abbagnano). La soluzione, prospettata da un liberismo privo di vincoli di fronte a una crisi finanziaria devastante e di portata globale, può innescare pericolosi fenomeni recessivi, inducendo gli Stati ad accrescere la spesa pubblica e quindi il volume del debito sovrano, il quale a sua volta accresce la dipendenza dalla finanza e dalla speculazione sui titoli pubblici con effetti dirompenti sulla crescita economica e sul capitale umano. Parafrasando Adam Smith in merito alla necessità di regole necessarie al buon funzionamen-


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to del mercato, la comunità internazionale deve agire, tramite il Fmi e l’International stability board, per regolamentare le attività finanziarie alla stregua di quanto avviene per le banche commerciali. Da Coase a Yunus, a Williamson è stata affermata la necessità di un’evoluzione del liberismo e di conseguenza del capitalismo verso un sistema di libero mercato coordinato da un sistema di “governance virtuosa”. Sul fronte opposto l’interventismo pubblico eccessivo ha indebolito gli Stati a causa dell’inevitabile crescente indebitamento. Specie in Europa i governi, alla ricerca spasmodica di consenso, hanno fatto lievitare la spesa pubblica ben al di là delle possibilità consentite da una razionale gestione del gettito fiscale. Il debito è divenuto la prassi nella certezza che allo Stato era permesso di spendere di più di quanto incassava, fornendo mere garanzie istituzionali. La crisi finanziaria ha aggravato questa tendenza e ha fatto emergere rischi di default negli Stati più deboli e più riottosi a realizzare riforme. Effetti della crisi finanziaria

È fin troppo evidente, anche se sono pochi a dirlo con chiarezza, che la crisi finanziaria si è abbattuta sull’economia reale e continua a colpirla duramente mettendo a repentaglio non solo la stabilità dell’euro ma anche la crescita dei paesi dell’Eurozona. Essa è conseguenza di diversi fat-

tori, quali: l’esplosione dei debiti sovrani conseguenti alla straordinaria crescita della spesa pubblica desinata a tamponare la falla della crisi dei subprime del 20078; la conseguente maggiore dipendenza dai mercati finanziari chiamati a finanziare i debiti pubblici; il ritardo degli Stati e degli organismi sovranazionali (Ue, Fmi, Isb) nel fornire risposte appropriate e rassicuranti i mercati estendo le funnzioni di controllo e vigilanza anche alle attività finanziarie; l’indisponibilità degli organismi sovrannazionali (Ue) a condividere i debiti nazionali dei paesi partecipanti alla stessa unità monetaria (euro) la scarsa incisività delle riforme strutturali da parte degli Stati più indebitati. Se queste sono le principali cause scatenanti una crisi di dimensione globali e che non sembra aver fine, appare altrettanto evidente che le cure necessarie non possano limitarsi a correzioni di rotta o a riforme per loro stessa natura di portata limitata, ma che occorre una strategia più ampia, dal breve al lungo periodo, in grado di contrastare una crisi tutta finanziaria e proteggere l’economia reale dalla sua ripetuta contaminazione. Gravi sono state le conseguenze per il sistema bancario: 1) Le banche, da strutture di servizio dell’economia reale, che nel periodo dell’avvio dello sviluppo guadagnavano poco, sono sempre più divenute infrastrutture fondamentali del sistema economico che sembrano operare indipen-

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dentemente dall’economia reale, pensano sempre più alla massimizzazione dei profitti. 2) A seguito della progressiva deregolamentazione delle attività finanziarie, le banche, e non solo, hanno sviluppato un’attitudine speculativa molto lontana da quella che era la loro funzione tradizionale di intermediatori di risparmio e che ha finito per danneggiare l’economia reale. L’economia reale, specie per i paesi maggiormente indebitati, ne è risultata gravemente colpita, subendo gli effetti devastanti derivanti dall’aumento dei tassi di interesse e dei conseguenti massicci inasprimenti fiscali. Gli effetti negativi si sono manifestati nelle seguenti conseguenze: credit crunch (diminuzione del credito alle imprese); riduzione degli investimenti e della produzione; aumento della disoccupazione, in particolare di quella giovanile (in Ue più di 5 milioni); inasprimento fiscale e conseguente riduzione consumi e dello stesso gettito fiscale; fragilità crescente dei paesi strutturalmente più deboli dell’Eurozona (Grecia, Spagna, Portogallo e anche Italia); debolezza dell’euro. La via italiana al risanamento e alla crescita

Il nostro Paese è stato colpito da una grave perdita di credibilità che nel recente passato ha innescato una pericolosa spirale speculativa sul suo debito sovrano (aumento spread rispetto al bund superiore a quello spagnolo, economia certo più debole

della nostra), anche se i “fondamentali” macroeconomici del 2011 non sono peggiori di quelli attuali. La speculazione sul debito sovrano italiano si è innestata su un tessuto istituzionale strutturale particolarmente debole e vulnerabile. Prima di entrare nel merito delle misure orientate al risanamento e delle ipotetiche proposte per la crescita, è opportuno soffermarsi sulle caratteristiche dell’economia italiana e sulle sue difficoltà sistemiche. 1. Pil Il Pil, pur trascurando aspetti di fondamentale importanza della vita economica e sociale compresi invece in indicatori di “ben vivere”, è pur sempre la misura più accreditata della crescita economica di un paese. Nel 2009 il Pil italiano era diminuito per effetto della crisi finanziaria del 2007; nel 2010 aveva leggermente recuperato con un incremento del 1,4%. Se il 2011 si era chiuso con un modesto +0,4%, registra però l’entrata in recessione tecnica per effetto di ben due contrazioni consecutive nei due ultimi trimestri (-0,2% e -0,7% rispettivamente). Le previsioni per il 2012 sono fosche con un tonfo del 2,2% che secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) non si recupererà prima del 2013. L’Oecd, pur registrando i notevoli progressi compiuti sul bilancio pubblico il cui deficit è previsto in riduzione dell’1,7% nel 2012 e nel 0,6% nel 2013 con una atte-


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Pil ai prezzi di mercato, consumi finali e investimenti fissi lordi. Anni 1970-2009 (valori a prezzi correnti in milioni di euro)

95 Fonte eurostat

Grafico 2

Pil pro-capite nei paesi Ue Anni 2000-2010 (in parità di potere d’acquisto e variazioni percentuale)

Fonte: Istat ed Eurostat

Grafico 3


Prodotto interno lordo (Pil) per ripartizione geografica Anni 1980-2009 (in percentuale sul Pil Italia)

Fonte: Istat

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sa di raggiungimento della parità nel 2014, prevede una caduta del Pil dell’1,7% nel 2012 e del 0,4% nel 2013. In altri termini si accredita una lunga recessione causata dal crollo della domanda privata e pubblica. Migliori sono le prospettive delle due maggiori economie europee, Germania (+1,2%) e Francia (+0,6%). Il prodotto interno lordo insieme con le importazioni sono destinate all’acquisto di beni di consumo, di investimenti e di esportazioni. I consumi assorbono circa l’83% del Pil e rappresentano il principale motore della crescita. In Italia nel 2011 i consumi, principale motore della crescita, assorbono circa l’82% del Pil e gli investimenti circa il 18%. Per questi motivi, ogni manovra di risanamento che penalizzi i consumi finisce per provocare inevitabilmente effetti recessivi, molto maggiori di quelli conseguenti

Grafico 4

a una meno invasiva riduzione della spesa pubblica. (Grafico 2) Il Pil pro-capite reale (depurato dall’inflazione) resta, tuttavia, nella media europea. (Grafico 3) L’evoluzione del Pil ha l’aspetto di un diagramma piatto, in flessione nel 2011, specie nel Mezzogiorno. (Grafico 4) 2. Scambi commerciali I flussi commerciali, emblema del processo di globalizzazione, sono in crescita e caratterizzati dal crescente peso delle economie emergenti, in particolare della Cina, a fronte di una generalizzata perdita di quote di mercato dei paesi avanzati. L’export è l’ambito più dinamico della nostra economia per la capacità delle nostre Pmi di cogliere i vantaggi della globalizzazione e di approfittare delle opportunità aperte da nuovi mercati e dalla recente debolezza dell’euro. La quota delle esportazioni ita-


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Esportazioni dei paesi europei per destinazione extra Ue Anni 2000 e 2010 (quote di mercato)

Fonte: Eurostat

Grafico 5

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Produttività del lavoro e costo del lavoro per unità di valore aggiunto in Italia. Anni 1971-2009 (variazioni percentuali rispetto all’anno precedente)

Fonte: Istat ed Eurostat

grafico 6


liane su quelle mondiali è calata dal 4,2% del 1999 al 3% del 2010, ma è in ripresa nel 2011 e nei primi mesi del 2012, generando un saldo positivo di bilancia commerciale. (Grafico 5)

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3. Competitività Debole è la competitività del sistema paese a causa della bassa produttività del lavoro che è rimasta sostanzialmente invariata (riduzione media annuale del 0,2% tra il 2007 e il 2010). I salari, quindi, non avevano margini per crescere ma, pur nella loro debolezza, sono aumentati più della produttività a partire dal 2001. Ciò, insieme a tante altre inefficienze, spiega la debole capacità di attrazione di investimenti dall’estero. (Grafico 6)

4. Lavoro Il mercato del lavoro presenta diffuse inefficienze e rigidità, condizionando la capacità di crescita economica. Particolarmente bassa è la partecipazione al lavoro, la cosiddetta disponibilità a lavorare, che in Italia non supera il 52% della popolazione attiva. Il tasso di inattività raggiunge ben il 38% ed è in ulteriore aumento. Tale risultato è la sintesi di un livello di inattività maschile pari al 26,7% (in aumento) e femminile particolarmente elevato: 48,9% (stabile). (Grafico 7) La disoccupazione è in aumento, anche se si mantiene ancora sotto la media europea. Grave e pericolosa è la crescita della disoccupazione giovanile. Nel 2010 il tasso di disoccupazione è aumen-

Tasso di inattività della popolazione in età 15-84 anni per sesso nei paesi Ue. Anno 2010 (valori percentuali)

Fonte: Eurostat

Grafico 7


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Tasso di disoccupazione per sesso nei paesi Ue. Anno 2010 (valori percentuali)

Fonte: Eurostat

Grafico 8

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Spesa della Pubblica amministrazione nei paesi Ue. Anno 2010 (euro per abitante)

Fonte: Eurostat

Grafico 9


tata in Italia per il terzo anno consecutivo ed è passata dal 7,8% del 2009 all’9,1% del 2011 (livello del 2003). È in aumento il tasso di disoccupazione femminile (dal 9,3 al 9,7%), mentre quello maschile cresce al 7,6% dal 6,8% del 2009. Grave è l’aumento della disoccupazione giovanile (31%) che investe 1 giovane su 4 con punte record nel Sud (quasi 1 su 2 in Sardegna). Le cause sono, oltre alle estreme difficoltà di inserimento, la greve diffusione dell’economia sommersa e del lavoro nero. (Grafico 8) 100

5. Spesa pubblica La spesa pubblica nel suo complesso desta notevoli preoccupazioni sia perché eccede il gettito fiscale annuale sia perché è mal gestita e genera distorsioni, clientelismo. (Grafico 9) Tuttavia la spesa pubblica per abitante resta al di sotto della

media europea ed è, contrariamente alle aspettative, più elevata al Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno. Nel 2010, la spesa pubblica per abitante ammonta a circa 13 mila euro. Il CentroNord ha una spesa statale per abitante più elevata del 9,8% rispetto al Mezzogiorno. Non è, quindi, la spesa pubblica complessiva che è in discussione quanto la quota destinata alla spesa corrente che assorbe la stragrande maggioranza, mentre la quota destinata agli investimenti in capitale umano e in innovazione è in stallo non riuscendo a generare quegli stimoli alla crescita che possono derivare da una spesa in deficit. Per istruzione e formazione si spende meno che in Europa (il peso è più elevato nel Mezzogiorno). La spesa per istruzione e formazione è uno dei fattori-chiave di valorizzazione del capitale umano che, insieme con l’innova-

Spesa pubblica per l’istruzione e la formazione nei paesi Ue. Anno 2009 (in percentuale del Pil)

Fonte: Istat e Eurostat

Grafico 10


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Spesa sanitaria pubblica in alcuni paesi europei. Anno 2009 (dollari per abitante in parità di potere d’acquisto)

Fonte: Istat e Eurostat

zione tecnologica, concorre alla crescita economica. In Italia l’incidenza della spesa pubblica in istruzione e formazione sul Pil è pari al 4,8% appena. (Grafico 10) La spesa sanitaria pubblica assorbe oltre il 7% del Pil. La spesa sanitaria pubblica misura quanto viene destinato per soddisfare il bisogno di salute dei cittadini in termini di prestazioni sanitarie (inclusi tutti i suoi costi: servizi amministrativi, interessi passivi, imposte e tasse, premi di assicurazione e contribuzioni diverse). La spesa sanitaria pubblica complessiva dell’Italia ammontava nel 2010 a circa 115 miliardi di euro, pari al 7,4% del Pil, 1.900 euro annui per abitante, dopo tutti i principali paesi europei. (Grafico 11) La spesa per ricerca e sviluppo è decisamente insufficiente per sostenere la crescita. Un adeguato rapporto tra spesa per ricerca e sviluppo e Pil è uno dei cinque obiettivi cardine stabiliti nell’ambito della strategia “Eu-

Grafico 11

ropa 2020” per accrescere i livelli di produttività, di occupazione e di benessere sociale (Commissione europea, marzo 2010). L’innovazione e la sua diffusione dovrebbe rappresentare un obiettivo prioritario delle politiche di sviluppo. L’Italia, con un modesto 1,26% (2009), è distante dai paesi europei più avanzati. La debolezza italiana si conferma anche nel settore privato con un rapporto tra spesa in R&S delle imprese e Pil pari a 0,67%, la metà della media europea (1,25%). Tuttavia, nel triennio 2006-2008 rispetto a quello precedente, la quota di imprese innovatrici registra un incremento di oltre tre punti percentuali (da 27,1 a 30,7%), grazie agli sforzi compiuti dai centri di eccellenza universitari e privati. (Grafico 12) 6. Debito L’eccesso di spesa pubblica rispetto alla crescita economica è la fonte principale di destabiliz-

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Spesa per ricerca e sviluppo totale e sostenuta dalle imprese nei paesi Ue. Anno 2009 (in percentuale del Pil)

Fonte: Eurostat

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zazione del nostro bilancio pubblico. Il rapporto debito/Pil al 122% nel 2011, livello inferiore solo a quello della Grecia. Il rapporto debito/Pil mette in relazione l’entità complessiva delle obbligazioni del settore pubblico consolidato – Stato ed enti locali e previdenziali – con il flusso di beni e servizi prodotti dall’economia. Esso rappresenta una misura indiretta della capacità di pagamento e della credibilità dello Stato. Per questi motivi è stato incluso tra gli indicatori strutturali della Commissione europea e tra gli obiettivi definiti nel trattato di Maastricht (livello inferiore al 60%). Un rapporto debito/Pil elevato condiziona le scelte di politica economica, obbligando a destinare un ammontare cospicuo di risorse pubbliche al servizio del debito per scongiurare il suo ulteriore incremento. Il suo livello rispecchia un premio di rischiopaese che si riflette nei tassi

Grafico 12

d’interessi sui titoli del debito. L’Italia è tra i paesi dell’Ue caratterizzati da un rapporto debito/Pil molto elevato, che tende a peggiorare anche a causa della riduzione del Pil. Occorre ridurre lo stock del debito con misure straordinarie sia per ridurre il peso del debito sul Pil (tra l’altro in riduzione) sia attenuare la pressione sui tassi di interesse. Ciò anche in vista dell’entrata in vigore dell’accordo Ue sulla disciplina di bilancio e sul rientro dei paesi con debito eccessivo (fiscal compact) che prevede un rientro al ritmo di 1/20 all’anno per le quote eccedenti il 60% del debito sul Pil. (Grafico 13) 7. Fiscalità Fino al 2010 la pressione fiscale complessiva era in lieve diminuzione, per poi invertire la tendenza nel 2011. Nel 2012 è destinata a crescere ancor più, con una tendenza a superare il 45%


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Debito pubblico nei paesi Ue. Anni 2009 e 2010 (in percentuale del Pil)

Fonte: Eurostat

Grafico 13

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medio, decisamente insopportabile per gli individui e per le imprese. La pressione fiscale è un elemento fondamentale per determinare i livelli di competitività e performance del sistema economico. A fronte di una generale prevalenza delle imposte dirette negli anni Novanta, dalla fine di quel decennio vi è stata un’inversione di tendenza che mostra un maggiore peso relativo delle imposte indirette fino al 2006. Dal 2007, invece, torna ad avere maggiore consistenza il peso della pressione fiscale diretta su famiglie e imprese. Ciò dipende anche dall’evoluzione della ripartizione della fiscalità tra i diversi livelli della Pubblica Amministrazione che ha visto un progressivo aumento dell’autonomia tributaria delle ammini-

strazioni locali e del peso complessivo dei tributi locali sul prelievo complessivo per effetto del decentramento di importanti funzioni di spesa cui è seguita un’attribuzione di fonti di gettito crescenti. In Italia, la pressione fiscale nel complesso, dopo la crescita della fine degli anni Novanta, ha registrato una diminuzione fino al 2005 (ad eccezione del 2003) per poi riprendere ad aumentare fino al 42,8% nel 2009, il valore più elevato dal 1997, e poi scendere nel 2010 al 42,3% e risalire nel 2011 e nella prospettiva 2012 intorno al 44%. L’efficienza di un sistema fiscale si fonda sulla commisurazione delle tasse alle prestazioni generando servizi adeguati alle necessità dei cittadini, sulla capacità


Pressione fiscale nei paesi Ue. Anni 2000 e 2010 (in percentuale del Pil)

Fonte: Eurostat

Grafico 14

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di contenere al massimo l’evasione. (Grafico 14) 8. Credibilità Il governo Monti ha recuperato in credibilità tanto che sembra crescere la fiducia (spread in attenuazione, giudizi positivi da ogni parte, non ultimo dal recente Vertice di Davos). Tuttavia resta elevato il rischio recessione per discutibile scelta tempistica del Governo che ha seguito una via, pericolosa e piena di incognite, partita con un forte inasprimento fiscale sui redditi e sui consumi colpendo in particolare le categorie a reddito medio-basso. L’inevitabile perdita di potere di acquisto (già diminuito nel 2011 di circa il 2%) non potrà che provocare una riduzione dei consumi, del Pil e, di conseguenza, del gettito fiscale successivo. Le pur necessarie

liberalizzazioni e semplificazioni difficilmente riusciranno a compensare la tendenza recessiva. Gli effetti conseguenti a una politica di inasprimento fiscale generano un circolo vizioso del tipo: aumento tasse; perdita potere acquisto (Italia 1,9% nel 2011); pressione per aumento salari; riduzione consumi; riduzione Pil; maggiore disoccupazione e minor gettito; necessità di nuovi inasprimenti fiscali. Inoltre, più cresce la pressione fiscale oltre un certo livello accettabile (intorno a 1/3 del reddito), maggiore è l’incentivo all’evasione e alla diffusione dell’economia sommersa. Più cresce la tassazione sui consumi, più diminuisce il gettito per effetto di un rallentamento più che proporzionale dei consumi. Così, l’aumento dell’1% dell’Iva deciso a novembre 2011


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ha provocato una riduzione del gettito del 1° trimestre 2012 del 19% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sul crollo dei consumi ha pesato notevolmente l’aumento delle accise sui carburanti e le incertezze sugli aggravi Imu. Meglio sarebbe stato iniziare con una drastica riduzione della spesa corrente, individuando capitoli di spesa improduttiva tramite l’applicazione della procedura dello spending review, già disponibile perché approvata dal Governo precedente. Notoriamente, come dimostrato da diverse analisi empiriche, gli effetti depressivi di una riduzione della spesa corrente sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli derivanti da un aumento della pressione fiscale. Gli effetti conseguenti a una politica di riduzione della spesa pubblica mettono in moto, infatti, un circolo virtuoso del tipo: riduzione spesa; riduzione deficit bilancio e interessi; contenuta riduzione consumi compensata da riduzione costo lavoro; riduzione prezzi; crescita consumi; crescita Pil e occupazione. Verso nuovi paradigmi innovativi

a). Innovazioni istituzionali: “laboratorio Italia” Le democrazie occidentali non hanno saputo o voluto accogliere queste palesi evidenze per governarle adottando le regole proposte dall’International stability board (Isb), misure queste che erano orientate a regolamentare le banche d’affari e gli altri soggetti finanziari. E così il potere è passato

di mano agli investitori finanziari cui è stata spianata la strada di speculare sulle crepe di debolezza di singoli Stati e alle agenzie di rating che decidono sull’affidabilità degli Stati sovrani. Se i tempi della democrazia sono lenti e tortuosi, non si può a essa abdicare e soccombere all’incalzante potere della finanza, alle sue scelte sospinte solo dall’impulso del profitto speculativo. Né ci si può consumare nell’estenuante sforzo di interventi correttivi alla ricerca di improbabili consensi da parte dei mercati, aspettando reazioni positive. Non è condivisibile né legittimo abdicare al dirittodovere di rappresentanza democratica per subire i “dictat” dei poteri tecnici, assecondando una deriva che non può che spianare la strada a regimi autoritari. È l’espressione del consenso a guidare lo sviluppo, non certo la sfrenata ricerca del profitto. La democrazia, per dirla con Amartya Sen, si dimostra il miglior sistema per favorire lo sviluppo e lasciare libero il mercato di svolgere il proprio ruolo nell’ambito però di una corretta cornice di governance. La democrazia deve riprendere e riguadagnarsi il predominio della gestione della cosa pubblica dimostrandosi capace di governare la finanza e la globalizzazione; a una condizione, che si tratti di una democrazia realmente partecipativa, responsabile e autorevole. Se l’Italia è un problema nel problema più ampio della crisi globale, è però l’unico paese che

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“obtorto collo” ha avviato un esperimento che potrebbe essere da guida al rinnovamento delle democrazie, scongiurando derive autoritarie. Il “laboratorio Italia” sembra scommettere su una nuova formula, in cui il potere decisionale possa essere disgiunto dal potere politico: il primo affidato a tecnici non eletti, così da non essere condizionati nelle loro scelte dalla spasmodica ricerca di consenso, e il secondo da rappresentanti dal popolo che mantengono comunque il potere di approvare o meno le decisioni dell’esecutivo e di controllarne l’operato. Una separazione virtuosa tra gestione operativa e scelte politiche che accelererebbe i tempi della democrazia e ne migliorerebbe i contenuti e la qualità delle azioni, evitando pericolose sovrapposizioni e spesso inconcludenti commistioni tra politica e scelte riformatrici. b) Innovazioni economiche e finanziarie: regole virtuose Il nostro paese ha sempre percorso la via dei controlli e delle sanzioni per contrastare comportamenti inevitabilmente collusivi, generati da norme e comportamenti poco attenti a obiettivi di crescita Occorre un sistema di “regole virtuose” per indurre comportamenti delle istituzioni, delle imprese e degli individui coerenti con gli obiettivi di crescita economica e sociale. Tre sono le direzioni da percorrere lungo una strategia necessaria-

mente innovativa: un sistema di regole, condivise al livello più ampio possibile (almeno a livello Ue) sui mercati finanziari e sulle tante attività da essi generate, nonché sulle agenzie di rating; un insieme di riforme per consolidare la credibilità del nostro Paese); articolati pacchetti di riforme nazionali anch’esse da condividere e concertare a livello sovranazionale. La strategia di fondo per realizzare questi obiettivi non può essere affidata solo a una diffusa liberalizzazione, a un ritorno a un liberismo privo di regole che è stato l’origine della smisurata crescita dei guadagni finanziari e dello strapotere della finanza, nonché delle tante conseguenze negative sull’economia reale. C’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo, di nuove idee che consentano al mercato di proliferare scongiurandone le distorsioni. Vanno evitati sia gli eccessi del mercato libero che anche quelli dell’intervento pubblico. Sono diverse e affascinanti le elaborazioni scientifiche in proposito, purtroppo non accompagnate da applicazioni pratiche. Quelle che tra le prime più affascinano sono le tesi discendenti dagli studi di Richard Coase e John Nash sui modi per promuovere negli individui comportamenti virtuosi pur operando nel libero mercato; un insieme di regole virtuose, per nulla opprimenti, che, sfruttando meccanismi innati negli individui o inculcabili con l’istruzione, mitighino gli eccessi e correggano le distorsio-


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ni del liberismo e promuovano una crescita più equa e equilibrata. Spunti di policy

Il peggio è passato, lo spread si attenua, le riforme sono iniziate, l’accordo europeo sulla disciplina di bilancio, l’accordo sulla disciplina di bilancio, il cosiddetto fiscal compact, è stato di recente raggiunto dalla Ue con larga maggioranza. Il patto di stabilità prevede che i paesi con debito superiore al 60% Pil debbano ridurlo per 1/20 all’anno, altrimenti scattano sanzioni. Attualmente sfuggono alla regola solo 5 paesi (Estonia, Finlandia, Lussemburgo, Slovacchia, Slovenia). La regola va applicata riformando però ruolo e competenze della Bce. Tuttavia, l’Italia non può farcela da sola, lo sostengono esperti di fama mondiale, tra altri: Kenneth Rogoff (Harvard ed ex Fmi), George Soros che con il suo potente

hedge fund aveva affossato la lira nel ‘92, e lo stesso Josph Stiglitz notoriamente scettico. Il governo Monti è riuscito a recuperare credibilità, e ciò non è di poco conto. Ma le ricetta Monti (prima tasse, poi liberalizzazioni e quindi tagli di spesa) è erronea nella tempistica perché innescherà effetti recessivi conseguenti alla riduzione del potere di acquisto dei consumatori. Non si può certo tornare indietro ma bisogna evitare ulteriori inasprimenti fiscali e realizzare riforme incisive, non solo di facciata. Riteniamo importante perseguire una strategia di realizzazione degli obiettivi prioritari da tutti condivisi attraverso una diffusa e capillare applicazione di “regole virtuose”, ossia di misure educative a costo zero capaci di promuovere comportamenti collaborativi da parte degli individui e delle imprese e dello Stato.

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Tabella 2

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Nelle proposte che di seguito avanziamo sono dettagliate possibilità concrete di introduzione di riforme articolate per i principali obiettivi ampiamente condivisi, ossia: regolamentazione dei mercati finanziari, credibilità istituzionale, abbattimento del debito e del deficit, lotta all’evasione fiscale e al sommerso, stimoli alla crescita economica.

1. Riforma dei mercati finanziari. È la “madre” di tutte le riforme che in un sistema globale richiede una più incisiva e coesa regolamentazione tra gli Stati, a iniziare dall’ambito europeo. (Tabella 2) 2. Credibilità e affidabilità istituzioni. Rafforzare le istituzioni tramite procedure e meccanismi trasparenti ed efficienti è condizione


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Tabella 3

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indispensabile per recuperare fiducia anche sui mercati finanziari. (Tabella 3) 3. Politiche per la crescita. Il necessario rigore di bilancio deve potersi coniugare con misure orientate a favorire la crescita non solo sul piano economico ma anche su quello sociale. Sono indispensabili sia per migliorare le condizioni di vita, per alleggerire

il peso esorbitante del debito pubblico accumulato dai Paesi piĂš vulnerabili, per contrastare la dilagante disoccupazione, in particolare tra le giovani generazioni e per arginare il decadimento della societĂ e il degrado sociale. Le misure per la crescita vanno realizzate cercando di razionalizzare la spesa pubblica attuale ed evitando ogni aggravio ulteriore di spesa. (Tabella 4)


Tabella 4

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4. Mercato del lavoro e capitale umano. La formazione avanzata va liberalizzata stimolando la competizione tra le Università, sotto il controllo dell’Autorità di valutazione. Il mercato del lavoro va liberalizzato introducendo sussidi temporanei alla disoccupazione accompagnati da formazione continua (flexicurity): contratti unici per qualsiasi impresa con libertà di assunzione e licenziamento ma prevedendo, al tempo stesso, sussidi di disoccupazione legati alla

formazione (obbligatoria) e al reinserimento. I relativi oneri potrebbero essere suddivisi tra Stato e imprese. (Tabella 5) 5. Politiche fiscali e di controllo di bilancio. Il rigore va perseguito fino al raggiungimento del pareggio di bilancio, previsto dall’accordo europeo fiscal compact. Esso va realizzato ricorrendo a tagli selettivi di spesa pubblica e non a inasprimenti fiscali che finiscono per deprimere ulteriormente un


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Tabella 5

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sistema economico già compro- Cultura, Sapienza Università di Roma – Vazquez-Barquero A. (2002), Endogemesso. (Tabella 6) Riferimenti bibliografici – Abbagnano N. (2009), Itinerari di filosofia, Paravia, Torino – Abramavel. R. (2008), Meritocrazia: 4 proposte, Garzanti, Milano – Alesina A (2011-2012), articoli vari sul Corriere della Sera – AA.VV. (2009), Il fine della storia, dubbi del liberalismo; democrazie e autocrazie, Aspenia – Ciampi C.A. (2010), A un giovane italiano, Rizzoli, Milano – Coase R. H: (1995), Impresa, mercato e diritto, Il Mulino, Bologna – Giavazzi F. (2011-2012), articoli vari sul Corriere della Sera – Pasca di Magliano R. e altri (2010), Teorie della crescita a confronto, Nuova

nous Development: networking, innovation, institutions and cities, Rootledge, Londra – Williamson O. (1998), I meccanismi del Governo. L’economia dei costi di transizione: concetti, strumenti, applicazioni, Angeli, Milano.

L’Autore roberto pasca di magliano Professore ordinario di Economia politica ed Economia della crescita. L’articolo è stato scritto in collaborazione con Daniele Terriaca, dottorando in Sviluppo e finanza internazionale e Vittoria Bertoni, collaboratrice di ricerca, Università di Roma La Sapienza.



BLACKOUT ITALIA Cristiana Muscardini

Unione europea: IL BUIO OLTRE LA SIEPE Non esiste solo la crisi economica, ma ormai bisogna prendere atto che esistono anche una crisi politica e una culturale. Per superare tutto questo bisogna iniziare a usare strumenti nuovi e più efficaci per affrontare e risolvere problematiche che hanno bloccato l’Ue, partendo da una nuova Convenzione europea. di CRISTIANA MUSCARDINI

Che nel mondo si viva una crisi generalizzata, causata in gran parte dal prevalere della finanza sull’economia reale, dovrebbe ormai essere noto a tutti. Meno interesse sembra invece suscitare il fatto che alla crisi finanziaria ed economica si é affiancata una crisi politica e una crisi culturale. La crisi culturale nasce principalmente dalla confusione di ruoli e dalla fragilità della democrazia, non a caso il professor Tudorov nel suo saggio I nemici intimi della democrazia afferma che il nemico del sistema democratico è la perversione dei suoi stessi principi fondanti. Nel suo libro affronta tre perversioni: il messianismo

politico, l’ultraliberismo e il populismo xenofobo. Sommessamente io vorrei aggiungere l’utilizzo di strumenti informatici che prescindono da qualunque regola comune e che, più o meno inconsapevolmente, sono diventati strumento estremo di potere per chi, attraverso l’orda incontrollata d’informazioni, si dedica alla contro informazione. È ormai dimostrato che l’eccesso di notizie si tramuta nell’incapacità di recepire la notizia importante e toglie ogni capacità per la decodificazione dei messaggi. Vi sono ovviamente altri aspetti che portano alla crisi culturale e li affronteremo in maniera più approfondita in un’altra occasio-

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ne poiché in questo momento ri- economie nazionali può dare un teniamo urgente sottolineare i futuro all’Unione europea ma se motivi o almeno alcuni dei moti- all’interno dell’Unione vi sono vi che hanno portato alla crisi po- paesi che fanno prevalere il loro litica in Europa e che, se non sa- interesse contingente rispetto alranno affrontati nell’immediato, l’interesse futuro di tutti, se vi rischiano di trascinare l’Unione sono volontà politiche che spineuropea e i nostri paesi in una gono ad accordi economici (a prescindere da quanto avviene spirale perversa e senza uscita. Quando l’Europa nasce ha come nei paesi partner sia come rispetto motivo fondante impedire che dei diritti fondamentali della nel nostro continente le contrap- persona che come garanzia di siposizioni economiche si tramuti- curezza per i prodotti utilizzati no in nuove sanguinose guerre. dai consumatori) é evidente che Da questo presupposto discendo- lentamente cambierà la stessa fino tutte le iniziative per riunifi- sionomia dell’Europa e il nostro modo di vivere cocare – qualcuno dime europei. ceva allargare – Nell’Ue vi sono paesi Se l’Europa non l’Unione europea. sente la necessità Ma da un certo che fanno prevalere di armonizzare i punto in avanti le il loro interesse sistemi penali per Istituzioni europee alcuni specifici si dimenticano di contingente rispetto reati e perciò in affrontare il con- all’interesse di tutti alcuni paesi può tenzioso che tutt’oggi si trascina e divide gruppi non essere considerato reato essedi Stati da gruppi di altri Stati. re pedofilo o avere rapporti sesQuesto contenzioso é quello che suali con gli animali, se per alcuesiste da troppo tempo tra paesi ni l’omofobia non è reato e per produttori (e cioè manifatturieri), altri va addirittura invece fatto trasformatori con un grande peso proselitismo per incentivare la del settore agricolo e paesi più diversità, è evidente che è difficipiccoli, ma economicamente for- le costruire una politica europea ti, che sono paesi a prevalenza comune. Una politica europea che doimportatori. Il dissidio fra paesi produttori e vrebbe essere capace di una difepaesi importatori non è emerso in sa comune e di una comune remaniera evidente fino a che la gola per richiedere l’estradizione Germania ha ritenuto di sostene- da paesi terzi. re il sistema produttivo interno Ma l’Europa non é soltanto pririspetto alla delocalizzazione e al va di una politica comune, di un progetto; si era tentato di farlo sostegno ai paesi importatori. Soltanto un progetto politico che con la Convenzione del nuovo veda rispettati i diritti e i doveri Trattato, che poi naufragò come nell’interesse comune di tutte le naufragano tutti i documenti e


BLACKOUT ITALIA Cristiana Muscardini

le proposte dove si vuole mettere tutto di tutto per accontentare tutti. Quando ebbi l’opportunità di intervenire in Aula a Bruxelles per la nascita dell’Euro ricordai quanto avevo già avuto modo di dire in precedenza e che cioè un sistema monetario per reggersi ed essere utile doveva essere l’espressione di una politica economica. Sono passati 12 anni da quella dichiarazione e il problema rimane lo stesso: l’Europa non ha ancora una politica economica, non è prevista nei trattati, poiché sè dalle istituzioni europee, salvo dal Palamento e da qualche sommessa dichiarazione da parte della Commissione esecutiva, che però non ne ha la forza, dal momento che il presidente Barroso di fatto non ha intenzione di porsi verso il Consiglio con un atteggiamento più politico. Se nei trattati non c’é la politica economica, se il Consiglio non affronta il problema, se la Commissione ha solo la funzione di coordinare le politiche economiche degli Stati membri, se gli Stati membri, in alcuni settori, non possono avere una politica economica nazionale (vedasi le politiche commerciali di esclusiva competenza dell’Unione), noi siamo di fronte a un cane che si morde la coda. Quando l’Europa si é lasciata trascinare nella truffa dei derivati senza lanciare un grido di allarme, come invece feci io già nel 2004, quando l’Europa lascia condizionare le proprie banche e

IL PERSONAGGIO

La cultura occidentale passa per Todorov Tzvetan Todorov è nato a Sofia nel 1939. Dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all’Ecole pratique des hautes études e alla Yale University e diventa direttore del Centro nazionale della ricerca scientifica di Parigi (Cnrs). Attualmente è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi. Dopo i primi lavori di critica letteraria dedicati alla poetica dei formalisti russi, l’interesse di Todorov si allarga alla filosofia del linguaggio, disciplina che egli concepisce come parte della semeiotica o scienza del segno in generale. Dagli anni Ottanta, i temi già affrontati in letteratura della diversità e dell’alterità, lo portano a ricerche di tipo filosofico antropologico come La conquista dell’America (1984) e Noi e gli altri (1989). Da qui la strada verso un ripensamento critico del ruolo del soggetto nella storia e del peso della memoria nella vita quotidiana dei singoli e dei popoli. Pubblica Le morali della storia (1991), Di fronte all'estremo (1992) una riflessione intensa sulle vittime dei lager e dei gulag, e Una tragedia vissuta (1995) che lo spinge a riflettere sul ruolo del singolo e sulla sua responsabilità nella storia. Todorov diventa in questi anni un punto di riferimento per la nuova cultura occidentale. Il suo lavoro infaticabile lo spinge a completare un’altra ricerca sulle radici e ragioni della socialità dell’uomo con La vita comune (1995), Le jardin imparfait (1998) e l’ultimo saggio magistrale sui totalitarismi Memoria del bene, tentazione del male (2000).

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i bilanci dei propri stati da agenzie di rating americane senza dar vita ad un’agenzia europea, quando non si pongono in essere iniziative per cercare di arginare l’arroganza nei mercati della Cina e, addirittura, si lascia che il debito pubblico di Stati sovrani dell’Unione sia acquistato da potenze straniere che sono i nostri primi concorrenti sul mercato (e il mercato é lavoro per i nostri cittadini), quando si ignora la necessità di vedere come partner il continente africano (almeno per motivi di sicurezza e immigrazione), è evidente che siamo di fronte “al buio oltre la siepe” e stiamo per avere il buio anche prima della stessa siepe e rischiando di finirci dentro. Di questi e di molti altri argomenti abbiamo trattato in una serie di pubblicazioni, li abbiamo espressi in interventi in aula, interrogazioni, lettere ai commissari e ai ministri italiani e ai vari presidenti del Consiglio in carica. Oggi con queste righe non vogliamo lanciare un’altra ondata di pessimismo, ma vorremmo cercare di rivolgere un appello ai cittadini e alle istituzioni, al mondo dell’impresa e dell’associazionismo: non c’é futuro rimanendo fermi o cercando di risolvere la crisi attuale utilizzando strumenti superati e negando gli errori del passato; non si può pretendere di avere una moneta unica solida con 27 politiche economiche nazionali. Occorre una svolta radicale capace di conservare e insieme di riformare. Proprio per questo già dall’anno scorso andiamo

proposto una nuova convenzione europea da realizzarsi immediatamente per riportare membri dei governi, commissari europei e parlamentari a confrontarsi per decidere e assumere delle responsabilità. Stiamo aspettando, ma non rimarremo fermi senza presentare nuove proposte.

L’Autore cristiana muscardini è deputata del Parlamento europeo, rieletta per la quinta volta nel 2009 per la lista del Popolo della libertà nella circoscrizione nordovest e si iscrive al Gruppo del Partito popolare europeo. è membro della Conferenza dei presidenti; della Commissione per il commercio internazionale; della Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere; della Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare.




BLACKOUT ITALIA Emilio Cremona

Non si può fare energia alimentandola con Chanel n°5 Il nostro paese potrebbe diventare un hub dove far transitare il fabbisogno energetico europeo. Ma servono politiche che guardino ai prossimi trent’anni e dobbiamo sfruttare le opportunità che il mercato offre. 119

di EMILIO CREMONA

Avevamo cominciato proprio bene! L’Europa, con la direttiva 96/77 CE aveva affermato il principio di liberalizzazione del mercato elettrico e l’allora tecnico e ministro delle attività produttive, Bersani, si era rimboccato le maniche, acceso il sigaro e in un “amen” aveva tirato fuori il suo omonimo decreto. Eccellente. Non era distruttivo per l’Enel, ma con step cadenzati avremmo liberalizzato il mercato. Avevamo cominciato bene con un decreto che, primi e più bravi in Europa, avrebbe aumentato la concorrenza, abbassato le bollette e migliorato l’aria. Mentre il ministro Marzano inaugurava nel 2004 il mercato elettrico e facilitava l’accesso alla rete per la nuova capacità, in Europa

si dibatteva sul livello delle emissioni in conseguenza agli accordi di Kyoto che ciascun paese avrebbe dovuto raggiungere. L’Italia aveva da poco rinnovato il proprio parco di generazione, passando dagli inquinanti olii combustibili al costosissimo e certamente più “pulito” gas. Tant’è che l’Amministratore delegato di Enel dell’epoca, a una domanda sul perché la bolletta italiana fosse così alta, rispose che avendo il paese scelto di alimentare di fatto le nostre centrali con Chanel n° 5, non ci si sarebbe dovuti lamentare del costo. Avremmo fatto scuola. Tant’è che la direttiva del 2003 riprendeva moltissimi dei punti focali del decreto Bersani. Peccato che la scuola non aveva alunni. Di fatto


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eravamo e siamo rimasti soli, noi e gli inglesi, con un mercato liberalizzato. In compenso i monopolisti effettivi di allora, soprattutto francesi e svizzeri, hanno eroso grosse fette del nostro mercato interno, senza ammettere reciprocità. Inoltre, l’obbligo di immissione in rete di una percentuale crescente di energia prodotta da fonti rinnovabili da parte dei produttori, ha fatto si che l’energia importata, presuntivamente “verde”, sfuggisse all’obbligo e spiazzasse i nostri produttori sui quali ricade il costo di adempiere. Costo che si riflette in prezzi di mercato interno più alti e nell’aumento della rendita alla frontiera. Non solo, ma nel frattempo l’Europa ha adottato un piano proprio per l’obbligo di produzione di energia da fonti rinnovabili con asimmetrie a noi sfavorevoli. Quindi ci siamo ritrovati a pagare l’energia verde per i nostri obiettivi nazionali più quelli europei. Dunque eravamo arrivati primi? Assolutamente si, peccato che in fase di negoziazione lo sforzo che avevamo fatto per migliorare l’impatto ambientale delle nostre centrali utilizzando il gas, meno inquinante ma più caro rispetto ai combustibili bruciati nel resto d’Europa, non è stato preso in considerazione. E quindi via a un ulteriore sforzo per limitare le nostre emissioni. Il costo marginale di abbattimento, per noi, è tra i più alti d’Europa. Se si parte da un sistema efficiente, efficientarlo ulteriormente diviene molto difficile e dispendioso.

In fondo potevamo consolarci: avere un sistema elettrico alimentato a gas, comporta una serie di vantaggi come il fatto che il gas naturale è prodotto in tutto il mondo. Quindi non necessitiamo di vincolarci per decenni a un fornitore, ma possiamo scegliere il più conveniente; basta fare un contratto, per esempio oggi con Trinidad o Nigeria, domani addirittura con gli Usa, aspettare tranquillamente la nave di gas liquefatto, rigassificarlo e bruciarlo in centrale, spuntando così i prezzi migliori sul mercato. In fondo che ci vuole? Solo dei rigassificatori… L’opinione pubblica, temendo chissà quali disastri ambientali in conseguenza della costruzione di un rigassificatore, si è opposta con una fermezza paragonabile solo alla debolezza dei politici che avrebbero dovuto autorizzare l’opera. Il risultato è stato che ora – a parte la recentissima messa in esercizio del rigassificatore di Rovigo – mandiamo in Francia il nostro gas nigeriano per farlo rigassificare e riaverlo alla frontiera con contratto swap, pagando il servizio e il trasporto per vent’anni. Se questi inciampi non ci costassero miliardi di euro, probabilmente ci sarebbe da sorridere. E le fonti rinnovabili? Quei pannelli fotovoltaici, le pale eoliche, l’energia geotermica, le biomasse e la forza maremotrice che incantano ambientalisti e speculatori alla stessa maniera? Anche a voler tacere sui Cip 6/92, dove si assimilavano alle fonti rinnovabili


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combustibili fossili, l’Italia ha adottato in proposito una politica straordinariamente aggressiva, garantendo – con la bolletta elettrica – i più alti incentivi sull’energia prodotta da fonti rinnovabili al mondo. Al punto tale che se dovessero finire domani, il paese avrà speso in 25 anni almeno 200 miliardi di euro. Nonostante il nostro paese non avesse alcun produttore di pannelli fotovoltaici o di pale eoliche, ed è stato costretto a comprare queste apparecchiature dai produttori tedeschi, statunitensi, danesi e, soprattutto, cinesi – finanziando di fatto con la nostra bolletta le altrui industrie – oggi si è creata in Italia una filiera straordinaria con centinaia di migliaia di lavoratori, decine di migliaia di operatori, una mezza dozzina di fiere internazionali e un indotto straordinario. Un risultato al quale hanno contribuito oltre alle politiche energetiche, l’impegno di tutti: produttori, istallatori, ricettività dei consumatori e: perché no?: anche un pò il Gse che eroga gli incentivi. Ma perché succede questo? Perché l’Italia si trova energeticamente in difficoltà? Non sembra che siano le politiche adottate in sé, tanto che spesso siamo in compliance con le politiche europee e internazionali, né sembra che le nostre difficoltà derivino dai tempi in cui queste politiche si adottano. Eppure, ci troviamo costantemente continuamente tagliati fuori dalle best-practice internazionali, asincroni rispetto a processi

che consentirebbero un risparmio in bolletta e la nascita di filiere avanzate. La nostra industria perde incessantemente competitività, non afferriamo le opportunità di sistema, arranchiamo e paghiamo dazio. Un esempio ulteriore viene dal progetto di trasformare l’Italia in un hub elettrico, un ponte per interconnettere l’Europa attraverso elettrodotti ad Algeria, Tunisia, Libia, Egitto e Albania. L’idea di base è quella di offrire percorsi alternativi rispetto alla politica “tradizionale” europea che vede l’energia viaggiare da Nord a Sud, da Est a Ovest. L’Italia avrebbe potuto gestire un flusso energetico dal sud del Mediterraneo verso il nord Europa, garantendo energia più pulita in Europa e introiti per lo sviluppo sociale dei nostri vicini. L’Italia, in altre parole, avrebbe potuto (e potrebbe) affinarsi nella gestione di un mercato energetico – e dei servizi associati – che, in una visione più ampia, ricomprenderebbe gas, petrolio ed energia rinnovabile dai paesi del Magreb. Il progetto sta andando per le lunghe malgrado il traino Terna in Medring e Gse in RES4MED. Adesso la Svizzera si è proposta come “accumulatore” elettrico per l’Europa essendo dotata di una straordinaria capacità di “stoccare” energia elettrica e regolarne i flussi con impianti di pompaggio, firmando accordi con Germania, Austria e tratta solo col Belgio. Probabilmente la risposta è nel fatto che per quanto riguarda le

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FOCUS

Quel libro bianco tanto attuale

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Il Libro Bianco di Jacques Delors, presentato dalla Commissione europea nel dicembre del 1993, ha come argomento principale il problema della disoccupazione nei paesi membri della Comunità europea e rappresenta il contributo più autorevole proposto dalle istituzioni comunitarie per affrontare la più grave emergenza economica e sociale che affligge l’Unione europea. Contiene numerose indicazioni di politica economica che i singoli Stati membri e la Comunità nel suo complesso dovrebbero seguire per combattere un fenomeno che negli ultimi venti anni ha afflitto l’Europa: più di 18 milioni di persone sono disoccupate e il tasso attualmente oscilla intorno all’11%. Quali sono le cause della disoccupazione in Europa? Una caratteristica dell’economia europea negli ultimi 25 anni è il basso tasso di creazione di nuovi posti di lavoro che, non riuscendo a compensare l’incremento della forza lavoro, ha determinato la crescita pressoché costante del numero dei disoccupati. La scarsa creazione di posti di lavoro e il basso livello degli investimenti nella Comunità, riscontrabili dopo il primo shock petrolifero del 1973, sono dovuti principalmente alle politiche macroeconomiche adottate dagli Stati membri. Ciò ha avuto un effetto negativo sia sulla competitività del “sistema Europa”, che sulla crescita dell’economia. Infatti, l’economia europea si espande ad un ritmo molto più lento che in passato. Secondo l’analisi proposta dal Rapporto della Commissione, la recessione dei primi anni Novanta è stata causata dalla combinazione di un basso tasso di crescita potenziale e da errori di politica econo-

mica che hanno sospinto il tasso di crescita effettivo oltre quello potenziale. Ciò è avvenuto alla fine del 1987 quando, dopo il crack delle Borse, si è temuta una fase recessiva e, quindi, vi è stata una politica monetaria su scala mondiale espansiva. Tuttavia, l’economia europea era già in una fase espansiva che, però, non si rifletteva ancora nelle rilevazioni statistiche. Ciò nel 1988 ha portato ad un tasso di crescita effettivo del 4,1% che superava ampiamente il tasso di crescita potenziale. Questa situazione si è protratta fino al 1990, determinando tensioni inflazionistiche e conseguenti aumenti salariali. In questo contesto macroeconomico il “libro bianco” pone come obiettivo la creazione, entro l’anno 2000, di 15 milioni di nuovi posti di lavoro. Nei prossimi cinque-dieci anni si prevede un aumento dell’offerta di lavoro all’incirca pari allo 0,5%, dovuto in larga parte all’andamento demografico e per il resto all’aumento del tasso di partecipazione. Il “Rapporto Delors” indica che le scelte di politica economica da adottare per ridurre la disoccupazione dipendono, in una certa misura, dal tipo di crescita a medio termine ritenuta più idonea a determinare l’aumento desiderato dell’occupazione. Tuttavia, ognuna di queste opzioni ha conseguenze diverse sia sul piano economico che sociale e quindi è necessario valutare le implicazioni delle principali alternative: crescita modesta ed elevatissima intensità occupazionale e crescita più sostenuta e maggiore intensità occupazionale. La prima opzione si basa sul convincimento che non sia possibile ottenere una crescita molto


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elevata, anche per le conseguenze sull’ambiente della stessa, e che dunque bisognerebbe incrementare notevolmente il contenuto occupazionale della crescita. Quindi, si reputa auspicabile una crescita effettiva del prodotto in linea con quella potenziale (poco più del 2% all’anno) ed un notevole incremento dell’intensità occupazionale rispetto ai valori attuali. Seguire questa strada vuol dire rifarsi alla situazione degli Stati Uniti, che negli ultimi venti anni hanno vissuto una crescita modesta caratterizzata, però, da un’alta intensità occupazionale. Tuttavia, la possibilità di applicare il modello americano al contesto europeo risulta difficile: sarebbe necessario attuare misure che invoglino gli imprenditori ad assumere manodopera, attraverso una considerevole riduzione dei costi salariali e dei contributi sociali. La seconda opzione prevede una crescita più sostenuta e maggiore intensità occupazionale. Si ritiene che, se all’interno dell’Unione si riuscisse a coniugare una crescita dell’economia del 3% con un aumento dell’intensità occupazionale della stessa compreso fra lo 0,5 e l’1%, si conseguirebbe l’obiettivo di creare quindici milioni di posti di lavoro entro il 2000. In questo caso circa 2/3 dei nuovi posti sarebbero frutto del consolidamento della crescita, mentre 1/3 sarebbero da addebitare alla maggiore intensità occupazionale della stessa. Un tasso di crescita dell’economia europea di quest’ordine viene considerato compatibile con le esigenze di tutela dell’ambiente.

politiche energetiche la nostra classe dirigente, pur adottando delle politiche sostanzialmente corrette, non ha mai dato la sensazione di avere un progetto o una linea politica lineare e coerente. Inoltre ha dimostrato poca capacità d’imporsi rispetto alle negoziazioni europee come verso le istanze lobbistiche interne, siano esse ambientaliste o industriali. È una costante che riguarda tutti i settori, l’intera società. A volte capita che andando a rileggere le leggi approvate dal Parlamento, si scopre che ogni provvedimento fa tornare alla memoria un fatto di cronaca, uno scandalo, una polemica, quasi che la pubblica opinione – o quella che crediamo sia pubblica opinione, la televisione – dettasse i tempi dell’azione legislativa. E così è, evidentemente, anche per le politiche energetiche, dove la scelta del nucleare, del carbone, dei termovalorizzatori, dell’efficienza energetica, degli incentivi alle rinnovabili, del gas russo o nigeriano, dei rigassificatori come delle emissioni del protocollo di Kyoto hanno un andamento ondivago e umorale della cronaca, dell’occasionalità, dell’improvvisazione, del palliativo. Fuori da ogni retorica, gli italiani devono scrollarsi di dosso ogni idea di sudditanza all’Europa e concorrere, anche vigorosamente, con i partner comunitari a formare la politica dell’Unione. I nostri conti si stanno incamminando su una strada vir-

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tuosa. Le eccellenze italiane di adattatività, creatività e impegno, ammirate nel Libro Bianco del 1993 di Jacques Delors, costruttivo presidente dalla Commissione europea, sono ancora lì, pronte a essere rinvigorite. Lo si constata quando ci si confronta, ad esempio nell’ambito del progetto Corrente – una iniziativa del Gse intesa a facilitare le piccole e media imprese nell’internazionalizzazione. La popolazione, in generale mostra disponibilità esemplare ai sacrifici necessari per ritrovare competitività, con pochi o nessun riscontro paragonabile altrove. È tempo di presentarsi a schiena dritta in Europa e rivendicare gli impegni che ci vedono in prima fila, dal Trattato di Roma alle politiche di austerità di oggi. È opinione comune, infatti, che la soluzione energetica per un paese come l’Italia sia la diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Non amo le soluzioni uniche, e qualunque proposta per risultare efficace andrebbe comunque declinata con le realtà territoriali e culturali di una nazione particolarissima, un paese di mare e montagne, nel quale probabilmente il 30% degli edifici pubblici e privati sono soggetti a vincoli dei beni culturali, dove incombe il rischio di delocalizzazione degli impianti produttivi: un paese di grandi disequilibri economici, dunque, tra Nord e Sud. Ritengo che qualsiasi politica energetica debba, garantire, in senso americano, proiezioni non a

2-3 anni, ma a 20, 30, 40 di una possibile evoluzione del contesto, quindi politiche di largo respiro e lunga durata. Una vision, a cui fare manutenzione, da rivedere ogni 5 anni, che consenta agli operatori di settore di essere rassicurati nei propri investimenti e che permetterà, soprattutto alla pubblica opinione la piena consapevolezza dell’interdipendenza tra crescita economica, disponibilità energetica, difesa ambientale e obiettivi finali. In fondo è la distinzione nel mondo anglosassone tra politics e policy, cioè tra le politiche generali di governo e di contrasto partitico di un paese e le politiche di settore e operative, che non risentano del colore dei governi se non in misura residuale. Le industrie tradizionali devono comprendere che certe politiche energetiche finalizzare a limitare le emissioni non sono un ostacolo, ma un’opportunità di sviluppo, di diversificazione, di efficientamento e abbassamento dei costi; come le piccole e medie realtà produttive che sono nate in conseguenza degli incentivi alle fonti rinnovabili e se non si aggregano e non riescono a crescere sul piano internazionale, sono destinate a scomparire. L’Italia ha il dovere di mantenere costante l’attenzione su ogni tipo di fonte energetica come il petrolio, il gas, il carbone, le rinnovabili, il nucleare e cogliere le opportunità di sviluppo e ricerca che ogni fonte comporta. Inoltre gli interventi di efficienza energetica devono tener conto dello straordinario patrimonio


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culturale e paesaggistico italiano. I vincoli dei beni culturali sugli edifici sono una difficoltà che può diventare un’opportunità. Il nostro straordinario contesto architettonico può smuovere la ricerca su materiali per la produzione energetica e la coibentazione che siano a impatto estetico o alterante nullo. Esistono in proposito alcuni esempi di eccellenza che fanno ricerca e producono resine e materiali atti alla coibentazione perfettamente invisibili o comunque rimuovibili senza alterare la struttura originaria, un campo dove l’Italia può e deve primeggiare nel mondo. Infine, ogni policy dovrà creare le condizioni per lo sviluppo di una mobilità a basso impatto di carbonio; in Italia il trasporto su gomma è tra i più intensivi d’Europa. Il passaggio a un trasporto merci più intermodale che riconosca al ferro almeno il ruolo che ha nei paesi dell’Unione e la penetrazione dell’auto elettrica sono opzioni su cui puntare. Naturalmente ci saranno vinti e vincitori nel cambiamento. Non è compito della politica rassicurare le categorie impegnate ora nella distribuzione su gomma e vendita di carburanti di una transizione guidata. Non può esserci progresso a spese di alcuna categoria. Anche nelle zone urbane è necessario un piano per la mobilità sostenibile, che rafforzi le infrastrutture per la trazione elettrica – metro, tramvie, filobus – e diffonda stazioni di ricarica per auto elettriche. L’elettri-

cità dovrà diventare protagonista degli spostamenti dei cittadini con benefici ambientali sia locali che su scala globale. La produzione rinnovabile avrà un’ulteriore possibilità, quella di fornire il suo contributo, avendo maggior spazio d’integrazione nel sistema elettrico. Una misura che la politica potrebbe adottare è quella di favorire il dialogo tra soggetti pubblici come il Gse, l’Enea, la Rse e i privati per creare un hub di idee e di proposte sull’argomento energia ed efficienza energetica, che sia da stimolo alle policy pubbliche, ma anche di sostegno ai privati. Una sorta di Fraunhofer institute italiano su energia, efficienza energetica, nuovi materiali, efficientamento edilizio, reti di distribuzione energetica e robotica. Un incubatore di idee e di imprese abbasserebbe i costi sul bilancio pubblico e darebbe quella spinta alla ripresa non attraverso il denaro pubblico, ma attraverso il lavoro capillare e quotidiano.

L’Autore emilio cremona Presidente della Gse.

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Il costo energetico si può abbassare

L’ITALIA PUÒ ESSERE IL PAESE DI “TRANSITO” PER L’ENERGIA EUROPEA

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Il Belpaese può diventare un hub di stoccaggio e distribuzione dell’energia per tutta l’Europa, ma bisogna cambiare le regole e dialogare, e soprattutto trattare con i paesi fornitori di materie prime con una sola voce europea. Le rinnovabili possono essere un’occasione irripetibile ma serve sostegno, ricerca e sviluppo. intervista ad ALESSANDRO ORTIS di PIETRO URSO

Concorrenza, separazioni dei monopoli e quadri normativi e regolatori uguali per tutti questa è la ricetta di Alessandro Ortis che per quasi dieci anni ha guidato l’Autorità per l’energia e il gas. Per Ortis il governo deve andare avanti con le liberalizzazioni, come ha fatto con la separazione di Snam da Eni, perché solo in questo modo si potrà veramente tutelare al meglio i consumatori e diminuire il costo bollette per le famiglie. Ma per ottenere tutto questo bisogna creare velocemente in Europa un “mercato unico” dell’energia, perché 500 milioni di utenti sono una massa critica vera che può far cambiare i prezzi.

In Italia manca una strategia energetica per il medio e lungo periodo, così pure nel nostro paese non si riesce a sviluppare una seria politica energetica? Quali sono i problemi che ci impediscono di essere competitivi?

Abbiamo quadri legislativi e normativi troppo mutevoli, persistenti sovrapposizioni di competenze e responsabilità istituzionali, una forte dipendenza dall’estero per le coperture del fabbisogno energetico e ritardi accumulati circa lo sviluppo delle infrastrutture. Problemi questi che richiedono soluzioni sollecite, comprensive di alcune specifiche linee di intervento: riordino ed efficientamento della governance e


BLACKOUT ITALIA intervista ad Alessandro Ortis

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delle politiche energetico-ambientali-industriali (fra loro sempre più fortemente interconnesse); promuovere continuamente l’efficienza energetica, migliorando il nostro modo di consumare l’energia; rendere il mix delle coperture sempre meno petroliodipendente, adottando anche politiche dei trasporti coerenti; rilanciare lo sviluppo delle infrastrutture per i settori elettrico e gas; sostenere la ricerca e l’innovazione tecnologica; rendere più efficienti i mercati, quello interno promuovendo più concorrenza e quello europeo promuovendo più apertura, più integrazioni e armonizzazioni; offrire al consumatore il potere vero di scelte libere, consapevoli, informate di fronte ad abbondanza di offerta e di offerenti in forte concorrenza fra loro. Come il governo Monti e l’Italia si stanno comportando in questo periodo di crisi. Anche riguardo alla separazione proprietaria della Snam lei cosa pensa? È la strada giusta o si deve fare di più?

La strada per promuovere più concorrenza e tutelare sempre meglio i consumatori richiede ulteriori passi avanti nelle liberalizzazioni e nell’integrazione dei mercati, anche a livello europeo; la scelta di separare i monopoli tecnici-naturali, quali le reti, dalle attività che devono essere sviluppate in piena concorrenza va nel senso giusto. Quindi la separazione di Snam dall’Eni, peraltro analoga a quella fatta, a suo tempo e felicemente, per Terna da Enel va nel senso giusto.

Resta solo il rammarico del ritardo accumulato negli anni passati, certamente molto oneroso per i consumatori. L’indipendenza assunta da Snam faciliterà pure il cammino verso una rete europea del gas più integrata e un vero “mercato unico” efficiente. Lei diceva infatti che servirebbe un mercato europeo integrato dell’energia?

Certamente. Passi in avanti sono stati fatti ma dobbiamo proseguire oltre il guado, superando anche persistenti o riaffioranti nazionalismi e protezionismi; per realizzare un vero mercato dell’energia europeo servono ulteriori aperture dei mercati nazionali e più integrazione fra essi. Allo stesso tempo dobbiamo migliorare il sistema degli approvvigionamenti energetici europei, soprattutto per gli idrocarburi. Serve inoltre lavorare per una armonizzazione dei quadri normativi e regolatori nazionali; se vogliamo un single market dobbiamo tendere a single rules. Che favori verrebbero all’Italia da un simile mercato unico? Le bollette potrebbero scendere?

Beneficeremmo di maggior concorrenza e di borse dell’elettricità e del gas più efficienti; quindi una situazione più conveniente per i consumatori. Per il gas in particolare, l’Italia potrebbe anche giocarsi l’opportunità di diventare un hub del sud europa, qualora recuperassimo rapidamente i ritardi nello sviluppo delle infrastrutture, vale a dire gasdotti, rigassificatori e stoccag-


BLACKOUT ITALIA intervista ad Alessandro Ortis

gi. Si può pensare di non restare solo un paese d’importazione, ma di diventare anche un paese di “transito” e quindi posizionarsi in una situazione migliore per il mercato all’ingrosso. Con le ultime dichiarazioni il ministro Passera auspicava proprio che l’Italia diventasse non solo un paese d’importazione dell’energia, ma anche di transito, questa è un’idea che lei sosteneva da anni?

Certo e, in coerenza con questo disegno, chiesi pure insistentemente la separazione di Snam, ora finalmente ottenuta, per facilitare il cammino verso una rete europea del gas più adatta ad un nostro ruolo di “transito”. L’ultima indagine di Legambiente smentisce che l’aumento delle bollette degli ultimi anni non è causato dagli incentivi alle rinnovabili, ma dal continuo e sempre maggiore acquisto di materie non rinnovabili come petrolio e carbone. Secondo lei cosa bisogna fare per abbassare i costi delle bollette?

gas; dobbiamo comperarli meglio, dotandoci di adeguate infrastrutture per poter accedere a mercati più diversificati e più efficienti, nonché sfruttando l’opportunità di una “voce unica” europea forte del potere contrattuale di 500 milioni di consumatori, e, perciò, molto più consistente di quello che può esprimere un singolo paese isolato o un singolo operatore. Dall’altro lato, dobbiamo fare in modo che il sacrosanto sostegno allo sviluppo delle rinnovabili sia garantito in modo più efficiente; si sostengano le rinnovabili senza sprechi e riconoscendo le loro singole e diversificate specificità in termini di maturità competitiva, ricadute industriali nazionali e fabbisogno di ulteriore ricerca. Gli ultimi atti del governo Monti vanno in questa direzione...

Tempo fa avevo espresso l’idea che si puntasse a far si che il governo e il Parlamento fissassero, come è giusto, gli obiettivi in termini di quote delle varie sorgenti rinnovabili per il mix di copertura, ma fosse lasciato poi all’Autorità per l’energia di definire i meccanismi di mercato più efficienti per garantire il raggiungimento degli obiettivi stessi. Quindi serve un riordino complessivo di ruoli, meccanismi, oneri e incentivi per contribuire giustamente, in termini efficaci e “sostenibili”, all’irrinunciabile sviluppo delle rinnovabili.

Non c’è dubbio che c’è stato un aumento dovuto alle quotazioni internazionali crescenti dei combustibili fossili, idrocarburi in particolare; inoltre abbiamo in bolletta anche un’onere legato a quanto disposto per sostenere in via crescente lo sviluppo delle rinnovabili; quindi sulla bolletta incidono entrambe queste componenti: combustibili fossili e incentivi per le rinnovabili. Ergo, da un lato, bisogna cercare di rendere più convenienti gli acquisti internazionali dei combu- Forse insieme ad un piano energetico stibili, in particolare petrolio e efficiente servirebbe soprattutto un pia-

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no più snello e più incisivo delle burocrazia, infatti, molte volte capita che le infrastrutture si blocchino non per mancanza di fondi, ma per procedure burocratiche che alla lunga impediscono gli investimenti, lei cosa pensa di questo?

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Le soluzioni devono essere ricercate in un bilancio costi/benefici che tenga conto sia delle legittime aspirazioni locali sia delle esigenze complessive e generali, riguardanti lo “sviluppo sostenibile”, competitività del sistema energetico compreso. In questo senso va pure sostenuta la necessità di investire in formazione e informazione riguardante il settore. Per il necessario sviluppo infrastrutturale i soldi ci sono; non si pone un problema di carenza di risorse perché noi consumatori già paghiamo puntualmente in bolletta un quantum che riguarda le infrastrutture di trasporto, distribuzione e stoccaggio. Ma ci vuole anche un processo autorizzativo spedito ed efficiente. Infine, ci vuole anche la volontà, chiara, degli operatori a fare gli investimenti, senza titubanze legate a eventuali conflitti di interesse. In questo senso è e sarà molto utile la scelta governativa per una separazione proprietaria tra le attività di produzione o commercializzazione o vendita delle risorse energetiche e le attività regolate, da monopolio tecnico-naturale, per i servizi di trasporto o distribuzione delle stesse risorse.

L’Intervistato

alessandro ortis

Dal 2003 al 2011 è stato Presidente dell’Autorità per l'energia elettrica e il gas; ricopre inoltre il ruolo di Vice Presidente del Consiglio europeo dei Regolatori per l’Energia, nonché quello di Presidente di Medreg, l’Associazione dei Regolatori per l’energia elettrica e il gas del Mediterraneo. Possiede un’elevata esperienza nel settore energetico, avendo ricoperto i ruoli di Vice Presidente dell’Enel; di Presidente di Eurelectric; Presidente del gruppo di esperti per il settore elettrico dell’Aie; di Direttore Generale per l’Energia e le Risorse Minerarie al ministero delle Attività produttive; Presidente della Ccse; membro del Governing board dell’Aie, del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, della Commissione tecnico-scientifica del Dipartimento della Protezione Civile e del Comitato scientifico della Sogin.

L’Autore pietro urso Giornalista, direttore responsabile di Charta minuta, conduce un programma radiofonico su Elle radio.


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IL FUTURO Ăˆ GIĂ€ QUI

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Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 16 - maggio/giugno 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

Avanti con le riforme Bru nett a - Lett a - Caz zola - Mal gier i Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno III - n. 17 - luglio/agosto 2009 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso

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DOPO IL MURO rivista bimestrale diretta da Adolfo Urso

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BLACKOUT ITALIA Michele Trabucco

Luce vs tenebre?

La Fede, ancora di salvezza tra corvi e tempeste “Pulizia” è la parola d’ordine che il Papa e i suoi più stretti collaboratori si sono imposti per rilanciare il messaggio evangelico della Chiesa,infangato negli ultimi anni da troppi episodi e da uomini che hanno approfittato della fede dei cristiani. DI MICHELE TRABUCCO

Non è solo questione di crisi economica da affrontare. La chiesa cattolica in generale e quella italiana in particolare, hanno ben altro da affrontare. Quello che preoccupa Papa Benedetto XVI e i suoi più stretti collaboratori è di “ripulire” la Chiesa stessa da quella “sporcizia” che l’allora cardinal Ratzinger denunciò così duramente alla nona stazione della Via Crucis di Roma già nel marzo 2005. Da allora le piaghe della vita di alcuni membri, anche illustri, della Chiesa hanno emanato tutto il loro fetore e sono state

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affrontate “a muso duro” dal Papa tedesco. Il dramma della pedofilia di alcune ampie fasce del clero mondiale – si ricorda ad esempio quello statunitense, irlandese, belga, tedesco e austriaco - ma anche i dubbi sulla gestione trasparente e corretta delle finanze delle casse del Vaticano, la “navigazione a vista” dei cattolici italiani nella crisi dei partiti tradizionali e la disaffezione alla vita politica della gente, la perdurante crisi delle vocazioni alla vita religiosa e i ricorrenti attacchi ai presunti privilegi della Chiesa italiana in


cammino della fede» e che «non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta». Pur con uno stile accorto, tipico della Chiesa, Papa Ratzinger non nasconde la sua preoccupazione e dice chiaramente che occorre un rinnovamento interno e spirituale dei cristiani. Non a caso egli stesso ha pianificato un altro importante e significativo appuntamento per il prossimo ottobre, l’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi sul tema de La Rinnovare In questa difficile e complessa nuova evangelizzazione per la trasmissione della situazione monfede cristiana. diale e italiana la Il vero problema «Sarà quella voce del Papa è un’occasione prostata sempre for- per Chiesa e cristiani pizia per introte e decisa nel è l’inconsistenza durre l’intera combattere i macompagine ecclel i “ d e n t r o l a della fede siale a un tempo Chiesa”, nel met- e dei valori di oggi di particolare riter in campo gli strumenti comunicativi e deci- flessione e riscoperta della fede» sionali per affrontare i proble- si legge nel testo papale. Così mi e dare risposte. Due segnali come riconoscendo che nella sono stati dati recentemente compagine ecclesiale «il rinnodal capo della Chiesa cattolica vamento della Chiesa passa anper dare continuità alla riforma che attraverso la testimonianza “silenziosa” della chiesa: l’anno offerta dalla vita dei credenti» dei sacerdoti (da poco concluso) il papa realisticamente precisa e l’anno della fede (che inizierà che “mentre Cristo, «santo, ina ottobre, in occasione dei 50 nocente, senza macchia», non anni dall’apertura del Concilio conobbe il peccato e venne solo Vaticano II e della promulga- allo scopo di espiare i peccati zione del Catechismo della del popolo, la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori chiesa cattolica). Con una lettera in motu proprio ed è perciò Santa e insieme intitolata Porta Fidei, Benedetto sempre bisognosa di purificaXVI ha dichiarato: «fin dal- zione, avanza continuamente l’inizio del mio ministero come per il cammino della penitenza Successore di Pietro ho ricorda- e del rinnovamento”. Per queto l’esigenza di riscoprire il sto «l’Anno della fede, in quetema di fiscalità. Solo per citarne alcuni, sono i segnali di una Chiesa che deve affrontare “i mari tempestosi” della modernità e che ha trovato soprattutto in Papa Ratzinger il vero “leader”, in grado di affrontare con coraggio e determinazione i nuovi problemi mondiali e italiani, avendo come unico e principale criterio di giudizio e di proposizione la “riscoperta della fede”.

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BLACKOUT ITALIA Michele Trabucco

sta prospettiva, è un invito a un’autentica e rinnovata conversione al Signore». A differenza del passato «oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede». In un altro significativo passo il Papa dice che «professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato». Ecco perché la fede «proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede». La lucida analisi del Papa sulla crisi della chiesa si basa su una motivazione più profonda che non è quella culturale e sociale, ma teologica, nel senso che il vero problema per la Chiesa ed i cristiani è l’“inconsistenza” della fede dei cristiani di oggi. Come ha sottolineato l’autorevole vaticanista, Luigi Accattoli, «la Chiesa Cattolica è in crisi: lo gridano i media e lo ammettono i custodi del tempio. Ma che crisi è? Qui le opinioni confliggono, sia tra gli analisti sia tra i protagonisti. Anche solo a spiegazione del gridìo dei corvi vaticani che dura ormai da tempo c’è chi parla di una crisi della fede cristiana in generale, chi di decadenza delle Chiese storiche, o delle Chiese europee, o della leadership della Chiesa Cattolica, o della governance curiale. I gior-

Il Libro L’enciclica sociale Joseph Ratzinger Caritas in veritate Rizzoli 2007, 446 pp., 20 euro La Caritas in veritate è la terza enciclica di Benedetto XVI ed è un’enciclica sociale. Essa si inserisce nella tradizione delle encicliche sociali che, nella loro fase moderna, siamo soliti far iniziare con la Rerum novarum di Leone XIII ed arriva dopo 18 anni dall’ultima enciclica sociale, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Quasi un ventennio ci separa quindi dall’ultimo grande documento di dottrina sociale. Non che in questo ventennio l’insegnamento sociale dei Pontefici e della Chiesa si sia ritirato in secondo piano. Si pensi per esempio al Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2004 o all’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI che contiene una parte centrale espressamente dedicata alla Dottrina sociale della Chiesa e che io, a suo tempo, ho definito una “piccola enciclica sociale”. Si pensi soprattutto al magistero ordinario di Benedetto XVI, su cui tornerò tra poco. La scrittura di una enciclica, però, assume un valore particolare, rappresenta un sistematico passo in avanti dentro una tradizione che i pontefici assunsero in sé non per spirito di supplenza ma con la precisa convinzione di rispondere così alla loro missione apostolica e con l’intento di garantire alla religione cristiana il “diritto di cittadinanza” nella costruzione della società degli uomini.

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nali si occupano soprattutto di novamento il Papa l’aveva riquest’ultima, Benedetto parla chiesta nell’omelia dell’ultimo invece di crisi della fede, e più giovedì santo quando aveva riprecisamente di crisi della fede chiamato i sacerdoti ad un vero in Europa». Papa Benedetto e proprio «zelo per le anime», XVI ritiene che la crisi sia mol- cioè per le persone perché «le to più profonda e che a “nulla persone non devono mai avere rimedierebbero quegli aggiorna- la sensazione che noi compiamo menti dell’organizzazione e del- coscienziosamente il nostro orala predicazione se non si realizza rio di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi». una ripresa della fede”. Ancora prima dello scoppio del Parole pesanti e durissime per cosiddetto Vatileaks nel suo di- coloro che affrontano il loro serscorso alla curia di fine anno, vizio a Dio e ai fedeli con quella aveva detto che «il nocciolo mollezza, abitudine e stanchezza della crisi della Chiesa in Euro- che non solo non giova ma che addirittura rischia pa è la crisi della di allontanare la fede. Se a essa non Benedetto XVI gente. Così il pretroviamo una rite Ratzinger afsposta, se la fede ha spinto in prima ferma che «un sanon riprende vita- persona per l’entrata cerdote non aplità, diventando una profonda con- dello Ior nella white list partiene mai a se stesso. Le persone vinzione e una dell’Ocse devono percepire forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo, il nostro zelo, mediante il quale tutte le altre riforme rimarran- diamo una testimonianza credino inefficaci». Il caso di alcuni bile per il Vangelo». documenti “scottanti” usciti dai Dopo aver affrontato “di petto” sacri palazzi nel mese di genna- le conseguenza drammatiche dei io, che hanno fatto pensare, per preti pedofili, il segno più evisimilitudine, a Vatileaks, indica dente di un clero non all’altezza, una lotta interna ai vertici più il Papa ha preso in mano anche alti della curia vaticana, una di- la questione della corretta e travisione tra “alti papaveri”, forse sparente gestione della finanza proprio a causa del rinnovamen- vaticana, spingendo per l’entrato che sta portando avanti Rat- ta della banca oltre Tevere e delzinger e forse per il sopraggiun- le sue strutture economiche e figere dell’età avanzata, ha appe- nanziarie nella white list dell’Ocna compiuto 85 anni, che fa se. Un percorso ritenuto da sperare alcuni a un possibile molti esperti ancora lungo. “avvicendamento” sul soglio di Un altro segno della svolta di “ricentramento” delle strutture S. Pietro. Una forza d’animo contro la vaticane al cuore del messaggio lentezza e le vie miopi del rin- e della missione della Chiesa ri-


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guarda l’avvicinamento della Impegno in politica Caritas Internationalis, la fede- «Alla sfiducia verso l’impegno razione delle organizzazioni ca- nel politico e nel sociale, i criritative cattoliche, alle linee e stiani, specialmente i giovani, alle direttive della chiesa trami- sono chiamati a contrapporre te un decreto del cardinal Berto- l’impegno e l’amore per la rene, segretario di Stato, con il sponsabilità, animati dalla cariquale si rimette l’organismo tà evangelica, che chiede di non adibito alla carità e all’aiuto ai rinchiudersi in se stessi, ma di paesi poveri, sotto l’ombrello farsi carico degli altri. Ai giovadel Pontificio Consiglio Cor ni rivolgo l’invito a saper pensaUnum, «Dicastero competente re in grande: abbiate il coraggio nei confronti di Caritas Interna- di osare! Siate pronti a dare tionalis per l’intero ambito della nuovo sapore all’intera società sua attività istituzionale». Una civile, con il sale dell’onestà e delle conseguenze più chiare di dell’altruismo disinteressato. È questo “controllo” necessario ritrodiretto del Vatica- Ratzinger ha lanciato vare solide motino sulla Caritas è vazioni per serviche «qualunque nuovamente l’appello re il bene dei cittesto di contenuto ad una “nuova tadini». Questo o orientamento appello fatto dal dottrinale o mora- generazione di cattolici Papa in occasione le, emanato da impegnati in politica” della visita a SanCaritas Internasepolcro nel magtionalis dovrà sempre essere gio di quest’anno, esprime molsottoposto alla preventiva ap- to bene il desiderio forte del provazione del dicastero vatica- pontefice di rendere la fede una no». Risale al maggio scorso lo scelta concreta e «sociale». Apstrappo più forte tra Caritas in- pello già sentito a Cagliari nel ternationalis e Vaticano quando 2007, quando lanciò la chiamai vertici oltreTevere bloccarono ta a una «nuova generazione di la rielezione del segretario ge- cattolici impegnati in politica». nerale in carica, l’inglese Le- Evidentemente il capo della slie-Anne Knight, lamentando chiesa non è soddisfatto dello mancanza di comunicazione e scenario della politica italiana e di coordinamento. Da allora le dei suoi principali protagonisti, cose sono migliorate e il nuovo franati inesorabilmente dalla segretario generale, il francese corruzione, dall’uso improprio e Michel Roy, in aggiunta alle a volte illegale del denaro pubnuove regole introdotte oggi blico, di una vita privata non avranno l’effetto di “integrare” consona ai criteri della vita cricon più forza la Caritas Interna- stiana, poco attenta a metter in tionalis all’interno della Santa pratica i principi della dottrina Sede. sociale. Anche nell’ottobre scor-

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so, prima del grande raduno di spacciati per visioni politiche», tutte le associazioni cattoliche a serve molto di più. Urgono iniTodi, nell’area industriale di La- ziative a lunga gittata, compormezia Terme, il Papa auspicò tamenti etici, comportamenti nuovamente la formazione da credibili. «I recenti risultati parte dei cattolici di «una nuova elettorali non possono incentigenerazione di uomini e donne vare involuzioni del quadro delcapaci di promuovere non tanto la responsabilità politica, ne deinteressi di parte, ma il bene co- magogie e furbizie, grossolane o sottili che siano», ha detto Bamune». Desideri e stimoli che il Cardi- gnasco con un implicito riferinale Angelo Bagnasco, presiden- mento alla crescita del fenomete dei Vescovi italiani, ha più no dei grillini. «Le astensioni volte ribadito sulla stessa lun- alle urne, le schede bianche, le ghezza d’onda del pontefice. Co- schede nulle, sono un messaggio me nella relazione a Todi quan- chiaro da prendere sul serio». I partiti si devono do disse: «i cririgenerare: il stiani sono consa- Non esistono laici tempo è scaduto. pevoli che hanno Secondo Grasso da dire qualcosa in grado di sviluppare «sembra che la di decisivo per il l’eredità culturale, scomparsa della bene dell’umaniDc (che molti tà» e che «la so- politica e sociale cattolici laici avecietà deve ricono- del cattolicesimo vano predetto e, scere questa presenza e questa dimensione: “ne- in alcuni casi, persino auspicato) garla o non riconoscerne la di- abbia fatto venire meno le ramensione pubblica, significa gioni di una vivacità intelletcreare una società violenta, tuale, di una presenza continua, chiusa e squilibrata a tutti i li- di un impegno critico e stimovelli personale, interpersonale e lante sulla vita pubblica». Le racivile». Bagnasco ha ripetuto gioni di questo ripiegamento ciò che già altre volte aveva det- sono molte e non facili da anato Benedetto XVI e cioè che la lizzare, secondo Grasso. «Sicureligione «non è un problema ramente non ha aiutato la creper la società moderna» e che la scita di un nuovo laicato autonomo e consapevole l’opera di Chiesa «non cerca privilegi». Anche nell’ultima assemblea dei supplenza che la gerarchia ecprelati a maggio, Bagnasco da- clesiastica si è trovata obbligata vanti al Papa, condannò dura- a esercitare dopo la repentina mente il fallimento dei partiti, scomparsa della Democrazia che non possono più fare finta cristiana. Ma la crisi del laicato che non sia successo nulla. cattolico sembra più vasta: oggi «Non è più ora di cambi di fac- si sente la mancanza di cattolici ciata o di mediocri tatticismi in politica, ma anche nel gior-


BLACKOUT ITALIA Michele Trabucco

nalismo, nella cultura, nella scuola, nello spettacolo, nelle università, nel mondo del lavoro e delle professioni. Ci si muove, talvolta, solo a sostegno di singole battaglie sui valori (la vita, la famiglia, la libertà d’insegnamento) peraltro giuste e doverose». Le affermazioni più dure riguardano il fatto che «la sensazione generale è che ai cattolici (o a parte di loro) manchi una prospettiva politica, un progetto a tutto campo, un programma che riguardi tutti gli aspetti dell’attività umana». Anche in questo ambito sembra che Papa Ratzinger veda più lontano dei suoi stessi collaboratori e che non abbia ancora trovato validi interlocutori e interpreti coraggiosi, audaci laici che si impegnino «in politica non per interessi di parte». A questa spinta ratzingeriana, la gerarchia ecclesiale italiana cerca di dare un seguito con altrettanti inviti e incoraggiamenti. Il cardinale Bagnasco, promotore di una linea meno “interventista” del suo predecessore, Camillo Ruini, ha ribadito che non c’è un partito di Bagnasco ma solo l’esigenza di dire «la verità» e che non c’è l’esigenza di formare alcun nuovo partito cattolico. Non c’è spazio per nostalgie di sorta, ma l’impegno deve essere prima di tutto culturale per ridare «visibilità pubblica alla fede e per sostenere i “principi non negoziabili e le parole chiave della dottrina sociale della Chiesa». Queste parole, tuttavia, non

hanno ancora trovato un alveo dove germogliare e portare frutto. Non si sono ancora visti laici e personalità in grado di prendere e sviluppare l’eredità culturale, politica e sociale della più nobile tradizione cattolica.

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L’Autore Michele trabucco Giornalista freelance, laureato in Teologia e in Scienze dello sviluppo e della cooperazione internazionale.


Vatileaks, la Chiesa non affonderà Gli attacchi feroci che hanno colpito la Santa Sede nelle ultime settimane hanno inferto un duro colpo all’interno delle mura di San Pietro, ma Benedetto XVI è in grado di affrontare con lucidità un tale momento. Sarà però difficile gli inquirenti scoprire chi sta muovendo le fila dietro le quinte. Per la religione cristiana è più arduo, invece, combattere relativismo e individualismo. intervista ad ANDREA TORNIELLI di PIETRO URSO


BLACKOUT ITALIA intervista ad Andrea Tornielli

Anche il Vaticano in questi mesi sta vivendo il suo blackout non tanto in termini di vocazioni, anzi sotto quell’aspetto negli ultimi anni la situazione sembra essere migliorata, ma sotto l’aspetto politico, dove la situazione tra “corvi”, documenti e arresti, è piuttosto critica. Ma per Andrea Tornieli, vaticanista del giornale La Stampa e autore di molti libri come Attacco a Ratzinger. Accuse e scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI o Santo subito. Il segreto della straordinaria vita di Giovanni Paolo II, queste vicende di palazzo sono sempre esisitite, l’unica differenza sta nel fatto che adesso sono state rese pubbliche al mondo intero. E questo per Tornielli indebolisce soprattutto la visione del Vaticano da parte dei fedeli, ma il vaticanista è convinto che Benedetto XVI sarà in grado di fronteggiare gli scontri scuotono la Santa Sede. Corvi, maggiordomi usati come spie, documenti riservati, i famosi Vatileaks, che finiscono nei giornali e nei libri, lo Ior che sfiducia il proprio capo, invidie e gelosie tra Vescovi, tutti contro la Segreteria di Stato vaticana, ma cosa sta succedendo all’interno delle mura di San Pietro?

Certamente questi ultimi mesi sono stati caratterizzati dai famosi Vatileaks, cioè dall’uscita di una serie di documenti riservati interni, che hanno messo in luce delle difficoltà legate al governo curiale, e ci hanno fatto assistere a lotte di potere tra le diverse cordate presenti all’interno delle Stanze vaticane, di cui pochi erano

al corrente. Tali elementi non sono mai stati assenti dalla vita della Chiesa e della Santa Sede, ma sicuramente le pubblicazioni di questi documenti hanno enfatizzato in maniera più grave tali comportamenti, rendendoli noti all’opinione pubblica. Da questo punto di vista non credo si possa parlare di una crisi dell’Istituzione per il fatto che emergono queste divergenze che alle volte si trasformano in duri confronti o addirittura scontri. In verità sono due gli elementi reali che hanno provocato una seria crisi ecclesiastica negli ultimi anni: il primo è stato lo scandalo della pedofilia e la gestione di tale scandalo, il secondo l’emergere, sempre più evidente, di un dissenso che ha radici anche piuttosto profonde e che si sta diffondendo in diversi paesi europei. Non è un mistero che siano esistiti degli scontri e delle polemiche anche abbastanza forti, come, per esempio, con il caso Boffo tra Segreteria di Stato e la presidenza della Cei. Il cardinal Bertone, durante l’intervista rilasciata al Tg1, ha definito le vicende delle ultime settimane come “attacchi feroci e organizzati contro la Chiesa”. Cosa ne pensa?

Sono parole molto forti che lasciano intendere una consapevolezza, o perlomeno un dubbio, sull’esistenza di una regia organizzata e anche abbastanza raffinata che sta gestendo l’operazione Vatileaks in questi ultimi sei mesi. Operazione che vede sicuramente il Segretario di Stato Vaticano nel

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Il Libro Scontri sotto la Cappella Sistina Andrea Tornielli, Paolo Rodari Attacco a Ratzinger. Accuse e scandali, profezie e complotti contro Benedetto XVI Rizzoli 2010, 321 pp., 18 euro

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Solo a scorrere le prime pagine dei giornali e le rassegne stampa internazionali ci si accorge di come sia in atto un attacco alla Chiesa, al papato e, in particolare, alla figura dell'attuale Pontefice. Un attacco dimostrato dal pregiudizio negativo, pronto a scattare su qualsiasi cosa il Papa dica o faccia, pronto a enfatizzare e creare "casi internazionali": le polemiche suscitate dal discorso di Ratisbona; il caso clamoroso delle dimissioni dell'arcivescovo di Varsavia Wielgus, che aveva collaborato con i servizi segreti comunisti; le critiche mosse alla pubblicazione del documento che liberalizza l'uso della messa antica; la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, coincisa con la diffusione dell'intervista negazionista di uno di loro; la crisi diplomatica per le dichiarazioni sul preservativo durante il viaggio in Africa; il dilagare dello scandalo degli abusi sui minori. C'è una strategia orchestrata dietro questo attacco? O piuttosto un'assenza di regia e di strategia comunicativa? E questo attacco ha origine solo fuori della Chiesa o nasce anche all'interno degli ambienti ecclesiali? Due vaticanisti svolgono un'inchiesta a tutto campo, che documenta tutto ciò che è avvenuto, facendo parlare i protagonisti e gli osservatori più qualificati, raccogliendo carte e testimonianze, che aiutano a ricostruire quanto accaduto nei sacri palazzi, e più in generale nella Chiesa, durante le crisi di questi primi cinque anni di pontificato.

mirino, anche se lui non è l’unico bersaglio dell’operazione. Possiamo definire la scelta coraggiosa di Bertone di esporsi mediaticamente in un momento così delicato per lui, il Papa e il Vaticano?

È stata una scelta logica perché la domenica conclusiva della “Giornata mondiale per le famiglie”, con oltre un milione di fedeli alla messa con Benedetto XVI, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato due pagine con diversi documenti, alcuni coperti da omissis, con data e firma di monsignor Ganswein, segretario particolare del Papa, volendo lanciare un segnale di unità e non di divisione, di compatezza e non di tensione all’interno dell’entourage e anche per arginare questi nuovi veleni e minacce. È chiaro che i documenti pubblicati lasciano intendere all’interno delle mura vaticane esistono tensioni. Attenzione, però, tensioni e scontri, fisiologici in un’istituzione millenaria. Su una cosa sono particolarmente d’accordo con quanto detto dal cardinal Bertone nella sua intervista al Tg1, e cioè che un solo documento non basta a far capire cosa veramente stia accadendo. Infatti, a quel documento può esserne seguito un altro, può esserci stato un dialogo chiarificatore tra gli attori delle missive, può esserci stata anche una decisione che va in senso opposto rispetto a quello che si è letto e che non è stato divulgato: ogni documento deve essere sempre contestualizzato.


BLACKOUT ITALIA intervista ad Andrea Tornielli

Il libro di Nuzzi e non solo ha aperto questo scenario. Cosa pensa del lavoro dell’informazione in questi casi?

Il giornalista ha delle carte e può decidere di pubblicarle o meno dopo che ha verificato se sono autentiche. In questo caso, credo, che ci sia una regia raffinata, ma non è detto che sia all’interno della Santa Sede. Dobbiamo ricordare che non esiste solo il libro di Nuzzi. È da oltre sei mesi che continuano a essere pubblicati documenti, in modo più o meno centellinato, ma dei quali non conosciamo né la provenienza, né la storicità e i contesti. Certamente bisogna cercare di capire chi tiene i fili di tale operazione, questa è una domanda legittima che anche noi giornalisti ci siamo fatti. È chiaro che un documento può illuminare su un fatto, ma la domanda che ci dobbiamo porre è: “Qual è il fine di tale operazione?”. All’idea della trasparenza per aiutare il Papa non ci credo, perché chi dice una cosa del genere non si rende conto dell’esito devastante a livello internazionale per l’immagine di tutta la Santa Sede. Non credo che i Vatileaks siano uno strumento per Benedetto XVI per fare pulizia all’interno del Vaticano, anzi questa è un’idea puerile. Sicuramente queste lotte all’interno del Vaticano vengono combattute o per motivi personali, o per risentimenti, o per lotte di potere, o per raggiungere degli obiettivi. Mi piace sottolineare, però, che alla base di tutte queste tensioni non ci sono posizioni dottrinali o

Il Libro Chiesa e Scienza possono convivere Joseph Ratzinger Fede e scienza. Un dialogo necessario I Pellicani 2007, 208 pp., 19 euro Il dibattito su fede e scienza attraversa tutta la storia del cristianesimo, a conferma dello stretto legame che unisce queste due forme di sapere. In epoca moderna, con la riduzione della ratio a ragione strumentale, l'una è stata spesso contrapposta all'altra. Oggi, il magistero della Chiesa e la teologia da un lato, molti scienziati "illuminati" dall'altro (ma non lo scientismo, non gli idolatri che fanno della scienza una "religione"), sono alla ricerca di un rapporto fondato sull'articolazione tra fede e scienza, mediante un dialogo che cerca un'integrazione tra le due. Autonomia, distinzione (non separazione) e complementarietà (non invasioni di campo) sono i connotati di un rapporto corretto fra i saperi. Papi e teologi del '900 hanno contribuito a questo cammino, soprattutto attraverso il Concilio Vaticano II e gli interventi di Giovanni Paolo II. Importante è stato l'apporto di Joseph Ratzinger, prima e dopo la sua ascesa al soglio pontificio. L'opera che qui presentiamo, dopo un'introduzione del curatore Umberto Casale, si articola in due parti: la prima contiene una selezione di passi ripresi da opere del teologo bavarese, scritte durante la docenza nelle facoltà di teologia delle università tedesche. La seconda raccoglie alcuni discorsi pronunciati da Benedetto XVI e rivolti a diverse istituzioni ecclesiali, in particolare la Pontificia Accademia delle Scienze e il Pontificio Consiglio della Cultura.

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idee diverse su che cosa sia la Chiesa cristiana; questa è la differenza tra le tensioni negli anni Sessanta e Settanta dove si discuteva molto aspramente su diverse idee di Chiesa. Oggi, la stragrande maggioranza dei personaggi citati nei Vatileaks, se si aprisse un Concilio starebbero dalla stessa parte. Quanto è vero il doppio gioco del maggiordomo?

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È necessario capire che cosa ha mosso Paolo Gabriele a fotocopiare una tale mole di documenti, che cosa lo ha mosso a trasferire le carte all’esterno e quali sono stati i suoi canali. Solo l’inchiesta può dare risposte certe a queste domande. Se poi esista il livello dei mandanti dipenderà solo da quello che dirà il maggiordomo durante gli interrogatori. Io ho dei dubbi che l’inchiesta possa arrivare eventualmente a scalfire un livello superiore. Magari ci si proverà, ma se esiste un livello superiore sarà sicuramente molto potente e quindi più difficile da scalfire. Quanto questo “terremoto” potrà incidere su un futuro conclave?

Dipende da quando il conclave ci sarà. Al momento il Papa ha rinnovato la propria fiducia nei suoi collaboratori e quindi non sono previsti cambiamenti in vista, almeno nel breve periodo. Soprattutto non credo in un Papa depotenziato che non decide o che non può decidere. Se Benedetto XVI continua a volere al suo fianco il cardinal Bertone, che ha scelto

personalmente, è perché crede ancora in lui. Se volesse, potrebbe in futuro cambiarlo. Ricordiamoci che Bertone compirà 78 anni il prossimo dicembre e dunque un cambio fisiologicamente si avvicina. Quello che noi non possiamo sapere è, invece, la questione del conclave. Perché questo Papa che tutti davano per un Papa di transizione regna ormai da sette anni e come ha dimostrato durante la Giornata mondiale della Famiglia con le sue risposte alle domande dei fedeli - decise, concise e incisive - ha dimostrato quanto ancora sia lucido in grado di svolgere il ruolo che gli è stato conferito nel 2005. Infatti, Benedetto XVI quando incontra la gente dà il meglio di sé e mi sembra, anche con i suoi ottantacinque anni, che stia molto bene: un’ipotesi di conclave al momento non è credibile. Invece, bisognerebbe capire meglio chi sta dietro ai Vatileaks per comprendere veramente lo scenario sul possibile successore di Benedetto XVI. Negli ultimi anni si è potuto notare un sensibile aumento delle vocazioni, secondo lei questo aumento è dovuto alla crisi economica o ci sono altre cause più profonde e complicate?

L’aumento delle vocazioni nell’ultimo anno non è legato principalmente alla crisi economica in atto, penso che la situazione sia più complessa. L’andamento delle vocazioni aveva subito un fortissimo calo nel post-concilio Vaticano, ma nei decenni a seguire c’è stata una lenta risalita. È interessante cercare di capire


BLACKOUT ITALIA intervista ad Andrea Tornielli

quali sono gli ordini religiosi nei quali le nuove vocazioni avvengono. Esiste una forte emorragia per quanto riguarda i vecchi ordini tradizionali, mentre c’è una crescita esponenziale per quegli ordini che offrono un’esperienza totalizzante, come quelli contemplativi o di clausura. Anche gli ordini nati negli ultimi anni hanno avuto un aumento vocazionale. Da questo si può evincere che l’aumento delle vocazioni non è un dato spiegabile con la questione della crisi economica tout court. Certamente l’insicurezza e l’incertezza del futuro, anche dal punto di vista economico, può portare l’uomo a farsi delle domande sulla propria esistenza, sul senso e su quei valori di riferimento alla base del significato della vita. Indubbiamente c’è nella contingente difficoltà e quindi nei problemi che si vivono anche un aspetto positivo. La Chiesa assume ruoli o compiti diversi in tempo di crisi?

In quest’ultimo periodo di crisi, l’operato della Chiesa ha una valenza ancora maggiore. Perché da una parte la Chiesa è un’istituzione pronta ad aiutare i bisognosi e dall’altra parte stanno aumentando in modo esponenziale le richieste per le borse della spesa con gli alimenti di prima necessità che normalmente le parrocchie offrono a quelle persone che vivono nel disagio. Per esempio, proprio qualche settimana fa parlavo con il vescovo del Nord, che mi raccontava come negli ultimi mesi siano crollate le offerte durante le

messe, segno evidente di una minore possibilità della gente. La Chiesa, comunque, svolge questa attività di bene sociale ma non solo: la sua missione è anche quella di una continua testimonianza di senso e di significato, particolarmente importante in questo tempo di crisi, in cui ci si pongono tante domande. Giovani, Cristiani ma non credere in Dio Gesù e Resurrezione, ma si può essere cristiani senza avere Fede nei suoi pilastri?

Questo è un aspetto di debolezza sia da parte della Chiesa che da parte dei fedeli. La stella polare, il punto fermo del pontificato di Benedetto XVI, che non a caso ha annunciato di voler celebrare “un anno della fede”, è proprio quello dell’annuncio essenziale della Fede. Nel maggio del 2010 a Lisbona Papa Ratzinger disse delle parole drammatiche ma passate ai più inosservate: “Spesso ci preoccupiamo delle conseguenze sociali, culturali e politiche della Fede, dando per scontato che la Fede ci sia”. Questo, purtroppo, è sempre meno realistico. Il dato di queste indagini è quello di un indebolimento del contenuto della Fede e della trasmissione della fede come è avvenuta per molti secoli in Europa, dunque, la priorità più che sulle conseguenze dovrebbe essere sull’origine. Credo che sia proprio questo il dato saliente del pontificato di Benedetto XVI. Negli stati europei e nell’Occidente sembra che la fede cristiana sia entrata in crisi, come spiega questo momento? E

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anche negli altri paesi la situazione sta diventando critica?

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Il focus primario è certamente l’Europa e più in generale l’Occidente, però il problema è molto più vasto, perché non bisogna dimenticare che anche in paesi come l’America Latina – il grande serbatoio del cattolicesimo che veniva chiamato da molti il “Continente della speranza” – , la crisi delle vocazioni si stia facendo sentire. Bisogna tener conto che anche in questi paesi, dove esiste un cattolicesimo popolare ancora molto radicato, sono tangibili i segni di debolezza nella trasmissione della Fede: esiste un grande potere di penetrazione da parte di alcuni gruppi, ad esempio negli Stati Uniti le sette evangeliche, non soltanto perché, oggettivamente, hanno soldi da spendere, ma soprattutto perché offrono esperienze di fede emotivamente totalizzanti e toccano aspetti sui quali anche la Chiesa dovrebbe tornare a riflette in maniera più attenta. Non credo, insomma, che la crisi vocazionale sia un problema europeo o occidentale, ma ormai sembra coinvolgere anche gli altri continenti. Molte volte si dice che la chiesa è lontana dalla realtà, può spiegare meglio un tale concetto?

La Chiesa è una realtà sicuramente molto complessa e diffusa, ma certamente non si può affermare che sia lontana dalla realtà. Basta vedere che cosa sono le parrocchie, che lavoro svolgono i parroci nelle realtà locali, quanto abbiano il polso della realtà territoriale per

accorgersi quanto siano inseriti nella realtà quotidiana. Se con lontananza dalla realtà, invece, si vuole intendere una incapacità di capire dove va il mondo e di dare delle risposte, adeguandosi a certe tendenze, allora il discorso cambia. Bisogna però avere chiaro che la Chiesa ha un messaggio da preservare e da tramandare e non può certamente far proprie tutte le tendenze o i mutamenti culturali della società, solo per essere in sintonia con questa. società. In questo periodo di crisi mi aspetterei di più da parte della Chiesa, non solo come aiuto alle persone in difficoltà, ma soprattutto nel mostrare dei segni visibili, concreti, per esempio, la Chiesa dovrebbe essere più sobria. È arrivato il momento di dare dei segni tangibili per educare i cittadini a una maggiore attenzione all’uso delle risorse, sensibilizzarli a evitare ogni tipo di spreco o di lusso, ma proprio per mostrare questo cambio di passo deve essere la Chiesa per prima a costituire un modello. Da questo punto di vista anche il Papa ha pronunciato parole molto interessanti, come quelle dette durante il suo viaggio in Germania. Per anni si è parlato di menzionare nella costituzione europea i valori fondanti del cristianesimo, secondo lei serve menzionarli oppure alla fede non serve un tale riconoscimento?

Ho seguito molto da vicino tutto il dibattito che ci fu nel 2004 sulla questione di menzionare o meno le radici cristiane nel pre-


BLACKOUT ITALIA intervista ad Andrea Tornielli

ambolo della Costituzione europea e di quanto la Chiesa e il Papa Giovanni Paolo II allora si impegnarono perché questo avvenisse. Mentre si discuteva di questo in Europa a poche centinaia di chilometri delle radici cristiane vive venivano colpite e incendiate – e mi riferisco ai monasteri ortodossi che venivano distrutti dai gruppi islamisti kosovari in Kosovo – , il tutto sotto l’impotenza dei caschi blu dell’Onu. Insomma, mentre noi discutevamo se mettere le radici cristiane nella Costituzione, radici cristiane vive nel cuore dell’Europa venivano falciate senza che noi praticamente ce ne accorgessimo, girando la testa da un’altra parte. Il problema vero è quanto sia viva nel tessuto delle società la fede cristiana in Europa, una volta sancita la fine della “Cristianitas europea”, questa è la questione più seria della quale discutere, perché in Francia e in altri paesi esiste un livello tale di ignoranza religiosa e di cosa sia il cristianesimo che sta infettando tutto il sistema e la società. Questo è il grande quesito del nuovo secolo, specialmente dal punto di vista culturale. Perché al di là della credenza religiosa, se non si conoscono gli elementi di base del cristianesimo non si possono capire la cultura, l’arte e la società europea. La libertà religiosa, soprattutto quella cattolica, è sempre più sotto attacco, particolarmente in quei paesi dove esiste una forte presenza della religione islamica, cosa dovrebbe fare la chiesa per proteggere al meglio i suoi fedeli?

Credo che il primo dato importante sia quello di non dimenticare e di non abbassare la guardia. La libertà religiosa è un diritto e la chiesa fa bene a continuare a professare e a diffondere anche in paesi difficili come quelli africani, o come quelli di religione islamica o come nello stato cinese. La comunità internazionale dovrebbe sostenere maggiormente un tale diritto, invece, alle volte sembra dimenticarsene. La chiesa deve mantenere alta e viva l’informazione, la conoscenza della gravità di taluni situazioni e al tempo stesso bisogna saper affrontare la situazione nella sua complessità e anche nella singolarità di ogni paese, perché le motivazioni di questi attacchi spesso sono diverse, infatti, ci sono alcuni casi in cui le sorti dei cristiani non possono essere giudicate separatamente dalle sorti di altri gruppi come e pure vero che ci sono circostanze nelle quali l’elemento religioso è uno degli elementi presenti nel gioco ma non è l’unico. In tanti altri, invece, l’elemento religioso è solo un pretesto per compiere delle azioni che con l’odio religioso non hanno nulla a che fare. Insomma da una parte serve una grande informazione e quindi la stessa chiesa si deve prodigare in questo, ma soprattutto serve un’azione forte da parte dei paesi occidentali perché c’è bisogno di una soluzione politica e non religiosa, il vero problema però è che la politica in questo momento è molto debole anche a livello internazionale. Il nostro paese si è

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indebolito molto e sulla scena internazionale abbiamo perso potere e abbiamo sempre meno influenza penso ad esempio alla Libia e a come abbiamo gestisto la guerra senza considerare i rapporti che avevamo con quello stato e senza soprattutto considerare le conseguenze. Credo che la politica dovrebbe recuperare il suo ruolo e da questo punto di vista recuperare il ruolo significa che nei rapporti politici e nei trattati internazionali e anche in quelli economici si deve far pesare il tema della libertà religiosa perché le minoranze vanno tutelate e nella fattispecie le minoranze cristiane soprattutto in quei paesi dove sono perseguitate. La chiesa non può certamente fare appello alla reciprocità, ma la politica invece lo può fare e lo deve fare, l’Italia deve mettere sul piatto delle trattative con questi paesi il tema della libertà religiosa e deve farsi rispettare. Individualismo e relativismo sono il cancro della fede oggi, come si possono sopraffare queste forze?

L’individualismo è una tendenza tipica della nostra cultura e della nostra società che ormai si è radicata da diversi anni. Possiamo certamente ammettere che al termine Persona, e alla costitutiva naturale evidenza del fatto che l’Uomo è “un’animale sociale” da relazione, si è sostituita l’idea dell’individuo come qualcosa di “a se stante”. Il relativismo è solo la conseguenza di un clima culturale che stiamo vivendo non da oggi, ma ormai da molti anni.

Relativismo è individualismo sono alimentate da una proposta della Fede troppo aleatoria, poco sentita, ma soprattutto poco tangibile. La verità è che la proposta della Fede deve tornare a essere qualcosa che si può incontrare, nel quale ci si può imbattere, perché il problema non è il richiamo ai valori cristiani, non è il richiamo a una tradizione, non sono i proclami morali che salvano il mondo, ne che convertano la gente, ne che cambiano l’idea delle persone. Non sono i discorsi, per quanto perfetti, emozionanti o significativi, che possono creare un’identità europea che si fonda sui valori cristiani. La chiesa deve fare in modo che le persone si possano imbattere in esperienze positive di fede, una fede vissuta, testimoniata come bellezza, quindi serve da parte della chiesa più umanità, serve qualcosa che colpisca e della quale si vuole far parte e tornare a far parte questa è l’unica possibile risposta. Tutto questo viene indicato molto bene e molto chiaramente in tanti passaggi nei discorsi di Benedetto XVI ed è questa è l’unica possibilità, perché altrimenti, per certi versi, il clima del relativismo rischia di diventare una Cernobyl delle coscienze che in qualche modo annebbia le lo spirito con la filosofia “dell’ogni cosa si equivale all’altra non ci sono più i punti fermi”. Non dobbiamo sottovalutare che questo clima della società liquida non significa che le persone non siano comunque in ricerca di qualcosa e una volta che


BLACKOUT ITALIA intervista ad Andrea Tornielli

si imbattono in una risposta che sia credibile, praticabile e soprattutto vissuta può accadere fede rinasca. Quindi per certi versi anche il clima di relativismo può essere un’occasione.

L’Intervistato

AndreA tornielli Laureato in lettere classiche e in particolare in storia della lingua greca all'Università di Padova, Tornielli è un giornalista e scrittore cattolico. Ha collaborato con la rivista Il Sabato. Dopo 15 anni passati a Il Giornale, dal marzo 2011 è vaticanista de La Stampa e collabora con altre testate giornalistiche e con il mensile cattolico Il Timone, oltre a tenere una rubrica radiofonica mensile a Radio Maria. Ha anche un blog molto visitato, Sacri palazzi. Tra le sue opere figurano numerosi saggi riguardanti la Chiesa contemporanea. È sposato e ha tre figli. Dall’8 dicembre 2010 è direttore responsabile del quotidiano in rete La Bussola Quotidiana. Fra i tanti temi affrontati, si è occupato, in particolare, della difesa dei comportamenti di Pio XII durante la Shoah e del problema del mito e della storicità di Gesù, controversia alla quale egli ritiene di poter dare una risposta affermativa della storicità.

L’Autore pietro urso Giornalista, direttore responsabile di Charta minuta, conduce un programma radiofonico su Elle radio.

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Una riforma necessaria

PER UNA DIFESA PIÙ UTILE Partendo dalla proposta di legge del ministro Di Paola sono necessari una riduzione del personale e un accorpamento di strutture che spesso si sovrappongono. Serve un esercito più snelloed efficiente per affrontare meglio il futuro. di VINCENZO CAMPORINI

Nessuno nutre dubbi sul fatto che la macchina dello Stato italiano e delle amministrazioni pubbliche in generale debba essere profondamente riformata, puntando a conseguire sia efficacia che efficienza, termini simili che significano due cose radicalmente diverse, ma non necessariamente in contrapposizione l’una con l’altra. Una struttura è efficace se consegue il suo scopo: esiste un obiettivo da raggiungere e si crea un’organizzazione per ottenerlo; in questa equazione non si prendono in considerazione le risorse utilizzate. Una struttura è efficiente se utilizza al meglio le risorse impiegate; in quest’altra equazione l’obiettivo non è in primo piano e può anche essere conseguito solo parzialmente, e si potrebbe sostenere che non ci sono sprechi, mentre in realtà è il caso di rilevare che nell’eventualità che un obiettivo non venga

conseguito, tutte le risorse utilizzate, anche se impiegate nel modo migliore possibile, sono di fatto sprecate. Partendo da questa consapevolezza, ogni volta che si avvia un progetto di riforma, la reazione di ciascuna struttura, comprensibile ma certo non condivisibile, è che si dovrebbe cominciare da qualcun altro. La Difesa non è immune da questa tentazione, ma l’evidenza degli ultimi vent’anni dimostra che una forte volontà riformatrice esiste e che ha gradualmente conseguito risultati importanti, anche se la strada da fare è ancora lunga, irta di ostacoli e il pieno successo non è affatto garantito. Già a partire dal 1989 si può dire che il progetto cominciava a delinearsi: la fine della guerra fredda aveva decretato l’inutilità delle strutture statiche di difesa dei confini e il successivo esplodere delle tensioni politiche, economi-

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che, interetniche in varie parti l’allora Capo di Stato Maggiore del globo, alcune delle quali peri- della Difesa, Ammiraglio Guido colosamente vicine a noi, o con Venturoni. dirette conseguenze sugli interes- In ogni paese del mondo le forze si primari nostri e dei nostri al- armate soffrono di una storica leati e partner, aveva evidenziato frammentazione, che ha profonde l’indispensabilità di conferire radici e solide giustificazioni nelagli strumenti militari capacità la tradizione e nello spirito di di proiezione fino ad allora im- corpo: l’Italia non fa eccezione. pensabili. Il caso italiano era uno Questo fatto strutturale aveva dei più emblematici: nella prima una sua ragion d’essere nel longuerra del Golfo non fummo in tano passato e non presentava condizione di schierare alcuna gravi inconvenienti operativi unità terrestre e il nostro inter- durante la guerra fredda, in cui vento si dovette limitare a una ciascuna componente,terrestre, presenza navale e aerea, in quanto navale e aerea, vedeva il proprio impiego inserito solo Marina e Aenell’ampio conteronautica durante In ogni paese le forze sto della pianificala guerra fredda zione dell’Alleanavevano sostan- armate soffrono zialmente mante- di una frammentazione za Atlantica elaborata a Shape (Sunuto contatti opepreme headquarrativi con le corri- di lunga data ters allied powers spondenti struttu- e con profonde radici europe) e si prepare alleate (con l’eccezione del Battaglione Susa, or- rava a combattere la propria batganicamente inserito nella Forza taglia nello scacchiere di compemobile del Comando alleato eu- tenza: l’Esercito per impedire all’Armata Rossa di irrompere atropeo, Amf). La lezione venne velocemente ap- t r a v e r s o l a “ s o g l i a d i presa ed è davvero ammirevole Gorizia”(poi si constatò che i come l’Esercito abbia rapidamen- piani sovietici prevedevano invete avviato una vera e propria rivo- ce di prendere alle spalle le noluzione interna, al fine di ade- stre difese, passando attraverso guarsi alla subitanea evoluzione l’Austria e il Brennero), la Maridel quadro strategico, che vedeva na per contendere, insieme alle un drammatico deterioramento flotte alleate, il controllo del della situazione di sicurezza nei Mediterraneo al Sovmedron1 , Balcani. Un impulso determinan- l’Aeronautica per tentare di conte avvenne con l’assunzione del- quistare il dominio dell’aria e l’incarico di ministro della Difesa per tagliare in profondità le lida parte di Beniamino Andreatta nee di rifornimento per le forze nel primo governo Prodi (maggio terrestri del Patto di Varsavia. 1996 - ottobre 1998), grazie al Ma dissolto quello scenario, il rapporto di piena sintonia con nuovo quadro strategico richie-


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deva e richiede tuttora un atteg- sulle proprie strutture, della logigiamento radicalmente diverso, stica in tutte le sue accezioni. per certi versi opposto, che si de- Unica realizzazione interforze del ve sostanziare in una stretta in- “dopo Andreatta” fu la creazione tegrazione delle singole forze ar- a opera del Capo di Stato Magmate che, senza smarrire la pro- giore della Difesa pro-tempore, pria orgogliosa individualità, Gen. Arpino, del Comando opedevono imparare ad attuare una rativo di vertice interforze (Coi) condivisione la più estesa possi- che, anche se con qualche residua bile, in primo luogo in tema di resistenza, assunse la gestione diimpiego operativo e conseguen- retta delle forze nei diversi teatri temente in termini formativi, operativi. Si avviava nel frattempo un’altra addestrativi e logistici. Ad Andreatta dobbiamo infatti grande riforma, quella della sola legge 25/97 , che avviò un pro- spensione dell’istituto della leva cesso virtuoso in tal senso, crean- e della conseguente professionalizzazione delle do una dipendenza forze armate, ma gerarchica dei Ca- La riforma Andreatta, si trattò di una ripi di Stato Magforma decisa sulla giore di forza ar- presa a esempio base di spinte promata dal Capo di da Alleanza Atlantica venienti dalla soStato Maggiore cietà civile, peraldella Difesa, iden- e Unione europea, tro quasi unanitificato come re- fu molto innovativa memente ritenuta sponsabile dell’impiego delle forze, nonché come necessaria nel nuovo quadro stratitolare della responsabilità della tegico, che considerò con una pianificazione finanziaria per certa superficialità i problemi l’intero strumento militare. Si che ne sarebbero scaturiti, sotrattava di una legge profonda- prattutto in termini di organici, mente innovativa, che rappresen- dei costi associati e soprattutto tò un esempio per molti altri pae- del tempo necessario (almeno un si dell’Alleanza e dell’Unione eu- paio di decenni) per raggiungere ropea. Ma come sovente accade, un accettabile equilibrio della in sede di redazione del regola- struttura gerarchica piramidale, mento attuativo della legge, le indispensabile per un funzionaineluttabili resistenze al cambia- mento efficiente dello strumenmento riuscirono ad attenuare so- to. In particolare gli interventi stanzialmente la spinta interforze sulla pianta organica furono modella 25/97, mantenendo ai sin- destissimi, né si incise in modo goli Capi di Stato Maggiore alcu- sostanziale sulla legge d’avanzani fondamentali poteri esclusivi, mento per gli ufficiali, i cui mecsoprattutto nel campo della for- canismi e i cui numeri rimasero mazione e dell’impiego del perso- sostanzialmente immutati. nale, della potestà organizzativa Sulla legge d’avanzamento è ne-

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cessario fornire qualche elemento. Il meccanismo è quello dell’avanzamento “normalizzato”: in sintesi, ogni anno, per ogni grado e per ogni ruolo, un numero fisso di ufficiali viene promosso al grado superiore, a prescindere dalla disponibilità o meno di posti nell’organico; gli eventuali ufficiali in eccedenza vengono, in buona sostanza, prepensionati (posti in posizione di Aspettativa per Riduzione Quadri, Arq) con il 95 % dello stipendio, a partire dai più anziani in ruolo. Con tale sistema, le aspettative di avanzamento di carriera per i giovani ufficiali neo arruolati sono fissate ab initio, ma dai tempi della guerra fredda, in cui ogni anno, a esempio, nell’Accademia militare di Modena entravano oltre 400 cadetti, a oggi, con concorsi limitati a poco più di 100 posti, tali aspettative si sono sostanzialmente quadruplicate! La conseguenza di questa evoluzione è stata l’aumento abnorme della percentuale di Ufficiali superiori e generali rispetto agli organici complessivi, che nel frattempo, con la sospensione della leva, si sono grandemente ristretti. Da qui nasce una delle esigenze prioritarie della riforma da fare, nel senso della riduzione importante degli organici nei gradi citati, che è tecnicamente possibile attuare in tempi rapidi, riducendo fin d’ora le aliquote di avanzamento da Tenente Colonnello a Colonnello (e gradi equivalenti) e per i gradi superiori. Indubbiamente si frustreranno le aspettative di un certo numero di uffi-

ciali, che vedranno sfumare, o quanto meno allontanarsi una promozione che già consideravano assicurata, ma gli squilibri sono tali da rendere urgente e necessario un provvedimento del genere. Al riguardo, e si può già fare un primo commento alla proposta di riforma che il ministro Di Paola ha presentato al Consiglio dei ministri, l’entità della riduzione necessaria è sostanziale: nel ddl delega si parla di una percentuale non inferiore al 30% dei generali e al 20% dei colonnelli, e si può davvero essere più coraggiosi, soprattutto per i gradi più elevati dei generali, con una riserva, tuttavia, per le posizioni da occupare in ambito internazionale, per le quali si può pensare di non computarle ai fini organici, in modo da non penalizzare le opportunità di presenza di personale italiano ai vertici delle organizzazioni internazionali. Ma andiamo per ordine: l’articolo 1 della proposta Di Paola pone in primo piano fra gli obiettivi da conseguire “la revisione, in senso riduttivo (...) dell’assetto strutturale e organizzativo del ministero della Difesa”. È certamente questa la prima cosa da fare, e in modo radicale e profondamente innovativo: le strutture oggi esistenti non rispondono solo a esigenze funzionali, ma soffrono di una ridondanza che scaturisce dalla rigida separazione tra le tre forze armate interessate (i Carabinieri sono esplicitamente esclusi dal progetto presentato), il che moltiplica per tre molte strutture che potrebbero essere invece mes-


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se a fattor comune; ciò deriva dall’aver voluto preservare nel regolamento attuativo della L.25/98 i poteri esclusivi dei singoli Capi di Stato Maggiore cui si è già fatto cenno e che con la riforma dovranno essere sostanzialmente attenuati. La struttura finale dovrà pertanto essere fortemente ispirata a criteri interforze in modo che tutto quanto è ragionevolmente possibile mettere in comune sia integrato in modo da evitare inutili duplicazioni. Per fare alcuni esempi, che potranno anche apparire provocatori, si potrebbe unificare la gestione logistica di tutte le flotte elicotteristiche, spesso equipaggiate da macchine caratterizzate da elevati livelli di comunalità; molte funzioni di stato maggiore, oggi esplicate

spesso in modo scoordinato e contraddittorio dai singoli stati maggiori di forza armata, potrebbero e dovrebbero essere accentrate presso lo Stato Maggiore della Difesa, minimizzando l’attuale pletorica dimensione delle strutture di vertice. Provvedimenti di questa natura sono in qualche modo evocati dal testo della legge delega, ma non con l’enfasi che sarebbe necessaria (si veda l’art.2, comma b,4, dove le parole “anche mediante la realizzazione di strutture interforze organizzative e di coordinamento” andrebbero sostituite con “soprattutto mediante la realizzazione di strutture interforze organizzative ed eventualmente, quando ciò non sia possibile, con strutture di coordinamento”).


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Il comma b,5 dello stesso art. 2 è il tema affrontato dal comma b, 8 esplicitamente riferito all’esigen- dell’art. 2, che tratta della razioza della riforma del servizio sani- nalizzazione delle strutture fortario militare, anche se con più mative e addestrative. In questo precisione si dovrebbe dire dei settore è davvero necessario ricorservizi sanitari delle singole forze rere agli strumenti della provocaarmate. L’intento è certo comple- zione, perché le ridondanze tra le tamente condivisibile, anche se è forze armate e le conseguenti dilecito nutrire dubbi sulla sua ef- seconomie, sia in termini finanfettiva realizzabilità, dal momen- ziari che in termini organici, sono to che di questa riforma si parla davvero significative. da decenni, senza che si siano fat- Cominciamo dalle scuole militati significativi progressi, a causa ri, cioè licei gestiti dalle forze ardella capacità di lobbying di chi in mate: ne esistono ben quattro, tale riforma vede compromessi i con tradizioni a volte secolari, cupropri interessi, a volte personali. stodite con gelosia sacrale; si tratta di istituzioni Il tema è di fatto che avevano e hanassai complesso e Le scuole militari no una duplice fimeriterebbe, pronalità, quella di babilmente un in- devono essere fungere da vivaio tervento normati- riformate perché per i futuri cadetti vo ad hoc, sopratdelle Accademie e tutto per il fatto seguono concezioni quella, per coloro che le professiona- ormai del passato che non proseguolità mediche assai difficilmente, ammesso che lo no nella carriera militare, di creapossano, riescono a essere inqua- re un forte legame con futuri prodrate nel rigido schema gerarchi- fessionisti e dirigenti della socieco tipico delle forze armate: gli tà civile. Il primo di questi scopi avanzamenti di carriera, infatti, ha francamente esaurito la sua vacostringono ad acrobazie organi- lidità: da decenni le domande di che al fine di continuare a potere ammissione ai concorsi per acceimpiegare in campo clinico lo dere alle Accademie delle forze stesso capitano che è diventato, armate sono di almeno un paio di col passare degli anni, colonnello. ordini di grandezza superiori ai Probabilmente occorrerà definire posti disponibili, con la conseper i medici militari una diversa guente possibilità di fare una seprogressione di carriera, con un lezione assai accurata, pertanto ridotto numero di gradi, in linea non servono “vivai”. La seconda con le esigenze di impiego tipi- finalità presenta invece ancora che dell’ambiente militare, ferma oggi una sua validità e consente restando ovviamente la progres- di creare preziosi raccordi tra il sione stipendiale, in modo da non mondo con le stellette e la società civile, contribuendo a limitare il penalizzare gli addetti. Un’attenzione particolare merita rischio di far diventare le forze ar-


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mate un corpo separato. La do- È tuttavia evidente che le magmanda che oggi ci si deve porre è giori difficoltà sono connesse con se questa finalità residuale giusti- la necessità di ridurre drasticafichi gli oneri connessi con la ge- mente il personale della fascia di stione di questi istituti e, se sì, se età dai 50 ai 58 anni, personale non sia il caso di ridurne il nume- arruolato in modo massiccio alro a uno solo, con una connota- l’inizio degli anni ‘80 del secolo zione interforze che possa dare scorso, nell’ottica di un ampliauna panoramica a 360° sul piane- mento delle forze armate per ta militare, azzerando alla nascita fronteggiare quella che appariva i campanilismi che da sempre ca- una crescente minaccia da parte dell’Urss e dei paesi satelliti. ratterizzano le forze armate. Proseguiamo con le Accademie, Questa fascia di personale è oggi onuste di retaggi storici, antichi scarsamente impiegabile, in e recenti. Anche qui, se si vuole quanto, al di là delle reali esigendavvero essere innovativi, ricer- ze numeriche di quadri anziani ed esperti che poscando economie di sano inquadrare le gestione, ma anche Esiste la necessità nuove leve, un nuuna migliore integrazione tra le di- di ridurre drasticamente mero elevato di verse componenti, il personale della fascia ufficiali e soprattutto di sottuffisi può pensare a ciali anziani manuna unificazione di età compresa ca delle basi e delquanto meno del tra i 50 e i 58 anni le motivazioni per primo biennio, da effettuare senza una scelta preli- potere efficacemente svolgere un minare di forza armata, per poi compito, sia operativo che orgagiungere a un completamento nizzativo, con i moderni metodi e degli studi specializzato, da con- con i sistemi d’arma di nuova e durre separatamente; un’ipotesi futura generazione e in qualche del genere vedrebbe l’abbandono modo viene utilizzato in struttuquanto meno di due siti storici e re che potrebbero essere molto il risparmio dei relativi onerosi più agili, ma che al contrario ricosti di esercizio e manutenzione sultano inutilmente pletoriche. È (e sul tema delle infrastrutture, una situazione che da un lato ridella loro valorizzazione ed even- sulta estremamente frustrante tuale alienazione è necessario fare per il personale, dall’altro non un discorso a parte). Ma anche consente al paese di giovarsi effiqui si dovranno fare i conti con cacemente di vaste esperienze, tutti coloro, e saranno tanti, che maturate in situazioni a elevato grideranno allo scandalo, veden- stress ambientale e operativo, cado messe in pericolo tradizioni si- ratterizzate da un senso del dovecuramente radicate e valide, ma re e della disciplina di cui c’è proche purtroppo non possiamo più babilmente molto bisogno in numerosi ambienti. Il disegno di permetterci.

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legge delega individua correttamente questo come uno dei problemi di più difficile soluzione e indica una serie di provvedimenti che, presi nel loro complesso e attuati con la dovuta gradualità, potranno, nell’arco di almeno un decennio, riequilibrare nella caratteristica forma piramidale la struttura delle forze armate che sia adeguata alla loro ragion d’essere. Il problema deve essere affrontato lungo due direttrici: la prima è quella già indicata del transito di personale anziano sia nei ruoli del personale civile della Difesa, sia in altre amministrazioni, centrali o locali; non ci si deve illudere che sia una strada agevole: nel passato è già stata tentata, e per numeri di gran lunga inferiori a quelli che sono in gioco oggi, ma le resistenze, sia del personale interessato, che delle amministrazioni potenzialmente riceventi, sono state insormontabili; i problemi di inquadramento, retributivi, di rapporti sindacali, solo per citarne alcuni, sono destinati a rendere assai difficoltosa, e comunque da negoziare con molta pazienza la concretizzazione di una misura di tal fatta. La seconda direttrice riguarda invece i più giovani: le forze armate, per la loro stessa natura richiedono un’età media dei propri operatori bene al di sotto di quella della popolazione lavoratrice nel suo complesso; occorre pertanto trovare dei meccanismi che consentano di restituire alla società civile, dopo un periodo di quattro/otto anni, i militari che non possano essere ulteriormente

trattenuti, offrendo loro concrete opportunità di reimpiego sia in attività che siano in qualche modo attinenti alla professionalità conseguita (e questo già si sta facendo, creando corsie preferenziali per l’arruolamento in corpi come le varie polizie, a partire da quella di Stato, o come quello dei Vigili del Fuoco e analoghi), sia provvedendo a qualificazioni professionali di particolare interesse per le imprese, qualificazioni da far conseguire in forme concordate con le imprese stesse. La proposta del ministro Di Paola su queste tematiche è particolarmente dettagliata e precisa: resta da vedere quanto sarà possibile far approvare in sede parlamentare e quanto fedele poi ne sarà l’attuazione pratica. Le passate esperienze non inducono all’ottimismo, ma non devono neppure scoraggiare. Sul tema delle strutture organizzative, come detto prima sulla necessità di integrare il più possibile le componenti ora separate delle tre forze armate, sarà indispensabile che anche singolarmente Esercito, Marina e Aeronautica rivedano radicalmente alcuni concetti, in particolare quello della “territorialità”. A dire il vero l’Aeronautica in questo settore ha già da tempo avviato una vera e propria rivoluzione, integrando le attività territoriali nelle componenti operative esistenti sul territorio, rinunciando a priori a una propria presenza, anche ai massimi livelli, dove non ci sono comandi, reparti di impiego, addestrativi o logistici e concen-


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trando le proprie risorse operative su un numero assai contenuto di basi. D’altronde nell’età dell’informazione la visibilità non richiede certamente la presenza sul territorio ed è molto più efficace se attuata con mezzi che non siano una caserma fatiscente dove si svolge nulla di più di una vita di guarnigione. Inoltre le cosiddette funzioni territoriali sono per la gran parte di natura documentale o di rappresentanza: le prime non richiedono certamente una catena organizzativa dedicata, ma possono essere svolte, in modo integrato, per tutte e tre le forze armate, da un semplice ufficio incardinato in uno dei comandi, poco importa se di Esercito, Marina o Aeronautica, variamente distribuiti sul territorio; le seconde hanno francamente una priorità molto bassa: nel caso di eventi o cerimonie a livello locale che richiedano la presenza di autorità militari, non sarà certamente difficile inviare qualche ufficiale di adeguato livello, che potrà intervenire senza dover tenere in piedi una struttura ad hoc con tutti i costi, organici, logistici e finanziari connessi. Immaginiamo ora che, con una sorta di colpo di bacchetta magica, sotto la pressione dell’urgenza della situazione del paese in generale e della difesa in particolare, i provvedimenti che qui abbiamo tratteggiato, e che per una gran parte sono chiaramente indicati nel disegno di legge delega che è stato presentato, vengano approvati e vengano prontamente implementati. Non è esagerato

valutare che nel giro di pochi anni, due o tre al massimo, possano emergere risparmi di spesa di parecchie centinaia di milioni, per giungere a regime a un paio di miliardi di Euro. Ebbene, condizione imprescindibile per il successo della politica di efficientamento, che è il fine ultimo che si intende perseguire, è che i risparmi che si conseguiranno restino nelle disponibilità del Ministero della Difesa, per riequilibrare le diverse componenti del bilancio, oggi (e da qualche anno) patologicamente sbilanciate. I numeri magici, unanimemente considerati ottimali nel mondo occidentale, sono 50/25/25, intendendo che un moderno bilancio della difesa dovrebbe dedicare una metà delle risorse a pagare il proprio personale, suddividendo equamente l’altra metà tra esercizio (sostanzialmente addestramento delle unità e manutenzione dei mezzi) e investimento (acquisizione di nuovi mezzi per sostituire quelli usurati o resi obsoleti dall’avanzamento tecnologico). Personalmente ritengo che si possa anche arrivare a 55/20/25, riducendo leggermente la quota per addestramento e manutenzione, in quanto il personale dei nostri tempi ha una base culturale tale da garantire capacità di apprendimento più elevate e rapide che nel passato e i mezzi moderni hanno livelli di affidabilità indubbiamente migliori di quelli delle passate generazioni. In ogni caso, negli ultimi esercizi finanziari la fotografia dei bilanci della difesa italiani si discostava

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grandemente da queste cifre, per in cui, venuto meno l’effetto staassestarsi su un 70/10/20 assolu- bilizzante del confronto tra i due tamente intollerabile nel bre- blocchi, caratteristico della guerve/medio termine: in pratica, ad- ra fredda, sono esplose in modo destramento e manutenzione era- prepotente le conflittualità archeno e sono ridotti ai minimi ter- tipiche di tipo etnico, clanico, remini e solo il senso di responsabi- ligioso; conflittualità che il monlità delle gerarchie ha fatto sì che do occidentale credeva di avere i reparti inviati nei teatri operati- per sempre esorcizzato e che non vi esteri (principalmente Afgha- ci possono lasciare indifferenti, nistan, Kosovo, Libano) non sof- sia per motivi di carattere etico, frissero da questa situazione, ma sia, più pragmaticamente, per disponessero di tutto quanto ser- evitare che l’instabilità “tracimi” ve per operare efficacemente e e venga a turbare, come ha già nelle condizioni di massima sicu- fatto, a volte in modo drammatirezza possibile. Ciò a discapito di co, la convivenza delle nostre società. Ne nasce, coquei reparti che me si è purtroppo per la loro tipolo- Nei prossimi anni dovuto constatare gia non trovano negli ultimi due utile impiego nel bisognerà ridurre peacekeeping (ma le spese per il personale decenni, la necessità di disporre di sono indispensabiforze armate capaci li in altri tipi di e dirottare i risparmi e sufficientemente operazioni a più verso l’area esercizio flessibili per afelevata intensità, che i fragili equilibri strategici frontare con successo situazioni internazionali non possono far che vanno dal controllo del terriescludere) e che sono stati forzata- torio in ambiente non apertamente costretti a una sostanziale mente ostile, ma potenzialmente inattività e la cui prontezza ope- pericoloso (Bosnia, Kosovo), alrativa è oggi fortemente compro- l’interposizione tra forze e fazioni messa. Servono dunque risorse fi- pronte ad atti bellici veri e propri nanziarie e se non è possibile, co- (Libano), alle operazioni di antime non è possibile, ottenerne di guerriglia di tipo “cinetico”, aggiuntive, queste dovranno es- quindi con effettivo utilizzo delle sere reperite all’interno del bilan- armi, come in Afghanistan. cio della difesa, riducendo le spe- Già queste considerazioni sarebse per il personale e dirottando i bero sufficienti a indurre a prurisparmi verso l’area esercizio. Se denza chi volesse modellare le qualcuno invece pensasse che i ri- forze armate in modo che fossero sparmi ottenuti dovranno rien- in grado di operare efficacemente trare nelle disponibilità generali, solo in operazioni a bassa o metutto l’esercizio si rivelerà non so- dia intensità, dando una prevalo inutile, ma addirittura danno- lenza a unità leggere, altamente so, soprattutto in una fase storica mobili, anche se scarsamente


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protette e dotate di limitate ca- quelli che hanno da sempre nutrito ambizioni globali, come la pacità di fuoco. Ma è sufficiente uno sguardo a Francia e la Gran Bretagna, è ogciò che accade nel resto del mon- gi nella condizione di potere afdo, nel medio e nell’estremo frontare in solitudine le sfide aporiente e basta considerare le fon- pena citate e che l’Europa in ti di conflitto potenziale derivan- quanto tale, con il proprio pecuti dal progressivo esaurirsi delle liare modello di sviluppo econofonti energetiche, delle materie mico, non può sperare di avere prime, delle risorse alimentari e voce in capitolo e di poter difenidriche per rendersi conto che il dere efficacemente tale modello futuro non è affatto sereno e che se non farà decisi passi in avanti non è possibile escludere a priori verso una progressiva integraziola necessità di difendere anche ne in senso federale, e in questa con l’uso della forza gli interessi ottica una delle prime strutture vitali dei nostri paesi: sarà poi la che dovranno essere create, mettendo a fattor copolitica a scegliere se percorrere tale L’Europa deve decidersi mune quelle nazionali, dovrà esstrada o meno, ma sere quella delle verrebbe meno al a formare un esercito forze armate. Fino suo dovere etico europeo per poter a questo momento fondamentale il i progressi in tal pianificatore che affrontare i problemi senso sono stati ponesse il proprio del futuro minimi, ammesso paese di fronte all’eventualità di affrontare prati- che ve ne siano stati, nel nome di camente inerme le sfide che ci at- un approccio intergovernativo tendono nei prossimi decenni. che intende far salvi gli elementi Non si sta qui auspicando una costitutivi della sovranità nazionuova corsa agli armamenti, cor- nale, sovranità che si sta palesansa in cui peraltro sono fortemente do con sempre maggiore chiarezimpegnate le nuove potenze, Ci- za come del tutto illusoria, in na e India in primis, ma la via del ogni campo, in quello economiprogressivo disarmo deve essere co, come in quello fiscale e, non percorsa con prudenza e graduali- da ultimo, in quello militare. tà, in un quadro bilanciato, che Perché se sovranità significa pocoinvolga tutti gli attori globali, ter attuare autonomamente una senza utopistiche fughe in avanti, politica autonomamente decisa, che paradossalmente potrebbero non si può non constatare come avere l’effetto contrario a quello da tempo il concetto sia diventavoluto, alimentando tentazioni to del tutto astratto e come i vinavventuriste che non si possono coli derivanti dalla realtà impongano irrevocabilmente l’adozione escludere. È peraltro evidente che nessun di politiche sempre maggiormensingolo paese europeo, neanche te coordinate, fino a divenire di

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fatto elementi di una gestione di tipo federale. Se ancora fosse stato ritenuto necessario avere una prova di queste affermazioni per quanto attiene alla tematica della difesa, la recente vicenda libica ha nei fatti spazzato via qualsiasi dubbio, fornendo altresì evidenza di tutta una serie di gravi carenze che, se non colmate dal supporto degli Stati Uniti, avrebbero di fatto impedito la condotta stessa delle operazioni. Analizziamo entrambi questi aspetti: in primo luogo il numero di velivoli da combattimento che ciascun paese è stato in grado di mettere in campo e di supportare operativamente e logisticamente ha messo in luce il fatto che solo una coalizione dei paesi europei puó disporre della massa necessaria a condurre con successo una

qualsiasi azione militare: basti citare la dichiarazione del Primo ministro UK Cameron, quando ha annunciato con orgoglio e determinazione che, per avere ragione della resistenza del regime di Gheddafi, la Gran Bretagna avrebbe fatto un ulteriore sforzo, rischierando altri 4 (quattro) velivoli a Gioia del Colle (con ciò dando fondo alle sue riserve N.d.R.) e che la decisione norvegese di ritirare alla fine del luglio 2011 i suoi quattro F16 schierati a Souda Bay venne percepita non solo come un problema politico, ma anche come un problema tattico, per il venir meno di quasi il 10% delle forze aerotattiche a quel momento realmente disponibili. Altra difficoltà chiaramente emersa é stata quella relativa alle scorte di munizionamento:


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quando si tagliano i bilanci militari, le prime vittime sono sempre i riapprovvigionamenti dei materiali di consumo, soprattutto quelli di consumo eventuale, come il munizionamento, e durante la campagna ci si é trovati nella necessità di ricorrere con urgenza ai fornitori d’oltreatlantico per non correre il rischio di rallentare, se non fermare, le operazioni aeree. Ma veniamo al secondo aspetto: paradossalmente ci sono stati momenti in cui non erano gli aerei e le bombe a mancare, bensì gli obiettivi, non perché fisicamente non ce ne fossero, ma perché mancavano gli strumenti per identificarli, analizzarli e valutare l’effetto degli attacchi condotti, o meglio, sarebbero mancati se gli Usa, dopo aver deciso il ritiro dei loro mezzi dall’operazione, non avessero graziosamente concesso alla coalizione di poter continuare a usufruire di quelli che vengono definiti ‘elementi abilitanti’. Si tratta di tutto il complesso sistema informativo che in gergo militare viene indicato come Isr (Intelligence, Surveillance, Reconnaissance), composto da satelliti da osservazione, Uav e velivoli pilotati da ricognizione, sistemi e personale per l’analisi, l’identificazione e la designazione; un sistema che deve funzionare in tempo reale, al punto da essere in grado di fare il “tasking dinamico”, cioè di cambiare l’obiettivo di una specifica missione mentre i velivoli sono già in volo. Queste capacità richiedono rilevanti risorse e i paesi europei ne sono in possesso in

misura assolutamente insufficiente, sia singolarmente, sia anche nel caso riuscissero a superare tutta una serie di ostacoli politici e burocratici, mettendo a fattor comune le rispettive risorse. La lezione che se ne può e se ne deve trarre é che solo con un profondo e determinato processo di integrazione l’Europa in quanto tale potrà aspirare a disporre di uno strumento militare che sia utilmente utilizzabile e spendibile a sostegno di una politica estera che dovrà necessariamente essere comune. Da questa constatazione deriva una conseguenza fondamentale per la riforma delle nostre forze armate: ogni elemento di tale riforma dovrà ispirarsi a una compatibilità di principio con un futuro strumento militare europeo. A questo punto é lecito, anzi doveroso, domandarsi se il progetto Di Paola sia in linea con questi principi, ma non possiamo attenderci che la risposta sia un sí oppure un no, in quanto purtroppo, nell’attuale quadro politico, mancano le condizioni basiche per un approccio al problema che risulti unitario in ambito Ue. Dobbiamo quindi limitarci a constatare una compatibilità di principio, potenziale, che potrà attualizzarsi solo quando il nazionalismo alla radice dell’attuale approccio intergovernativo verrà definitivamente sconfitto dalla realtà di un mondo globalizzato, in cui, solo mettendo a fattore comune le risorse e le capacità di tutti i membri dell’Unione, l’Europa potrà sperare di non scomparire dal gruppo dei protagoni-

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sti della storia. Solo allora potran- ni programmi particolari, toccanno essere concretizzati concetti do, quindi, tasti molto sensibili quali la specializzazione (chi sa sia per le singole forze armate, sia fare bene una cosa la fa per tutti, per il comparto dell’industria e chi non la sa fare accetta che sia della difesa, che deve avere indiqualcun altro a garantirgli tale cazioni ben precise, al fine di pocapacità) e il pooling and sharing ter calibrare i propri investimen(ogni capacità ha senso solo se é ti, indirizzandoli verso un settore possibile assicurarla con una suf- piuttosto che un altro. ficiente massa critica e dato che La proposta di legge, infatti, é nessuno ha le risorse per assicura- volta a definire i lineamenti fonre da solo il conseguimento di ta- damentali della Difesa, ma non le massa, si mettono in comune può né deve entrare nel merito di mezzi che devono essere, se non capacità e programmi che per louguali, almeno il più possibile ro natura devono conservare un interoperabili) e che costituisco- livello di flessibilità tale da potersi adattare all’evono il primo stadio luzione strategica, delle future Forze La proposta di legge dottrinaria, tecnoarmate d’europa. logica e anche culVeniamo ora ad è volta a definire turale in senso laanalizzare sinteti- i lineamenti to, senza essere cocamente in che stretti alla rigidità misura sarà possi- fondamentali di atti normativi bile conseguire il della difesa... che sarebbe assai risultato, più volte enunciato dal ministro, di mante- arduo, per non dire impossibile, nere sostanzialmente intatte le modificare con una tempistica capacità operative oggi esprimi- compatibile con tale evoluzione. bili da parte delle nostre forze ar- Il problema é concreto e dobbiamate, con organici ridotti di oltre mo purtroppo constatarlo anche il 20%, sempre nell’assunto, non nel caso del tema che stiamo aflo si ripeterà mai a sufficienza, frontando: nell’ottica di una rache il bilancio mantenga nei zionalizzazione e semplificazione prossimi anni un’invarianza in del quadro normativo relativo altermini reali e che quindi i ri- la difesa, si é recentemente procesparmi che si potranno consegui- duto ad accorpare in un unico tere possano essere reinvestiti nella sto tutte le norme, sia di tipo ledifesa. Per fare questa analisi non gislativo che di tipo regolamenci basta il testo della proposta di tare, che si sono accumulate nei legge delega, ma dobbiamo met- decenni. tere questa in sistema con le di- Ne è nato il cosiddetto “Codice chiarazioni che in più occasioni il dell’ordinamento militare” (Deministro ha fatto, anche in sedi creto Legislativo 15 marzo 2010, istituzionali, parlando di struttu- n. 66) emanato in forza della legre operative in generale e di alcu- ge delega 28 novembre 2005, n.


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246, che, ovviamente, non può al combattimento (unità di artiessere modificato con atti ammi- glieria e logistiche). Per la comnistrativi, neppure a livello mini- ponente marittima si contrarransteriale. Trattandosi di una colle- no le linee delle unità di altura e zione di norme, solo formalmente costiere, dei cacciamine e dei armonizzate, il testo soffre di di- sommergibili. Per la componensomogeneità che ne può rendere te aeronautica si contrarranno le problematico l’utilizzo. Un solo linee degli aeromobili per la diesempio per tutti: l’ordinamento fesa aerea e dei velivoli della lidell’Aeronautica é definito negli nea aerotattica.” articoli dal 139 al 154, in parti- Francamente non é molto e, per colare l’art. 146 indica in modo certi versi, quanto detto non apdettagliato l’organizzazione for- pare in linea con la dichiarata vomativa e addestrativa, elencando lontà di privilegiare le capacità le singole articolazioni; nulla del operative: infatti, a fronte di una genere si riscontra per l’organiz- riduzione del personale di circa il 20%, le brigate di zazione operativa, manovra dell’Eserche é definita nelle ...ma non può né cito, cioè le articosue componenti fondamentali. Ne deve entrare nel merito lazioni che incarderiva che se si vo- di capacità e programmi nano la core function della forza lessero accorpare la armata, vengono Scuola marescialli che per loro natura dell’Aeronautica devono essere flessibili ridotte grosso modo della stessa enmilitare con la Scuola specialisti sarebbe necessa- tità. Per il resto siamo solo a indirio procedere per via parlamenta- cazioni qualitative, che nulla dire, mentre se si volesse sciogliere cono in concreto. uno Stormo sarebbe teoricamente Ben più preciso e dettagliato é sufficiente una semplice determi- invece il riferimento alle forze aenazione del Capo di stato mag- rotattiche, riguardo alle quali le giore, salvo poi incorrere negli polemiche in atto circa la partecipazione italiana al programma strali della politica reale. Non trovando dunque indicazio- Joint Strike Fighter hanno indotni nel disegno di legge, analiz- to il Ministro a riferire nei partiziamo quanto il ministro Di Pao- colari: “Oggi la componente aela ha detto davanti alle Commis- rotattica è assicurata da tre linee sioni Difesa riunite di Camera e di velivoli: i Tornado, gli Amx e Senato: “Per la componente ter- gli AV-8 Bravo, per un complesso restre, si ridurranno le brigate di di circa 160 velivoli distribuiti su manovra da undici a nove, si ri- tre linee operative. Questi velivodurranno la linea dei mezzi pe- li, nell’arco dei prossimi 15 anni, santi, carri e blindo, la linea de- usciranno progressivamente dalla gli elicotteri e un numero signi- linea operativa per vetustà.(...) ficativo di unità per il supporto [Quella del Jsf] è una scelta che

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ha senso operativamente perché consente di ridurre le linee da tre a una e di applicare un concetto joint alle varie componenti dello strumento. (...). L’esame fatto a livello tecnico e operativo - e anche da parte mia porta a ritenere come perseguibile, da un punto di vista operativo e di sostenibilità, un obiettivo programmatico dell’ordine di 90 velivoli”. Basiamoci dunque su questi numeri, dai quali possiamo desumere quali saranno le conseguenze della riforma nel suo complesso sulle capacità operative aeree del nostro strumento militare quando questo sarà a regime. Proiettiamoci dunque nel 2025, a linea Jsf sperabilmente completa, sia nella componente per l’AM che in quella per la MM: la difesa aerea sarà garantita dai 92 Eurofighter (circa due terzi dei quali consegnati e i restanti già contrattualizzati) che, tenendo conto dei cicli manutentivi e anche nella malaugurata ipotesi che si verifichi qualche perdita per incidente (purtroppo, qualche volta gli aerei cadono, fortunatamente molto meno di prima, ma accade), potranno assicurare la funzione di ‘polizia aerea’ per i nostri cieli e per gli altri che la Nato ci affida (Slovenia e, insieme all’aeronautica ellenica, Albania), con una ridondanza sufficiente a consentirci di offrire una cellula di 6/8 velivoli per un’operazione “no fly zone” in area di interesse; La linea aerotattica potrà contare sugli F35-A dell’Aeronautica e sugli F35-B di Marina e Aero-

nautica e sarà certamente pronta a contribuire a una qualsiasi operazione del tipo di quella in Libia, potendo anche utilizzare ancora per qualche anno i residui Tornado Ecr (una dozzina) nel vitale ruolo Sead, per minimizzare le capacità della difesa aerea avversaria. Gli Ecr dovranno poi essere sostituiti e a quel punto si potrà probabilmente scegliere se optare per una soluzione con pilota a bordo (una successiva variante dell’F35?) oppure su un Uav di nuova generazione. Le linee delle capacità ‘abilitanti’, se si concretizzeranno i programmi che sono in cantiere, si potranno considerare di buon livello qualitativo, ma, in qualche settore, non sufficienti dal punto di vista quantitativo: ad esempio si parla di un velivolo Sigint, per la ricognizione dello spettro elettromagnetico, che ha senso solo se impiegato a rotazione con assetti simili di altri paesi, in modo da assicurare una copertura 24/7 (H24 per sette giorni a settimana). Le capacità di ricognizione per immagini, se non verrà approntata una specifica versione dell’F35 (assottigliando la flotta per le operazioni di attacco al suolo), sarà assicurata da Uav (il successore dei Predator A e B attualmente in servizio, con risultati di assoluta eccellenza) e da eventuali capacità satellitari da mantenere con programmi che difficilmente potranno essere ancora nazionali, come Cosmo-Skymed. Gli aerorifornitori KC767A saranno nel pieno della loro maturità operativa e metteranno


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il nostro paese in condizione di partecipare da protagonista a qualsiasi forma di eventuale aggregazione delle capacità in ambito Ue o Nato. Le linee da trasporto cominceranno a denunciare l’anzianità dei C130-J (entrati in servizio a partire dall’anno 2000) e si potrà cominciare a pensare a un successore, che potrà anche essere quell’A400-M, risultato di un travagliatissimo programma di sviluppo, non ancora completato, da cui saggiamente l’Italia si é tenuta fuori. Il C27 (il primo esemplare é stato consegnato all’inizio del 2007) avrà ancora almeno un decennio davanti a sé e continuerà ad assicurare quella preziosa componente tattica di teatro che oggi egregiamente garantisce. In ogni caso, per il trasporto strategico dovremo continuare ad affidarci a contractor civili oppure alle residue disponibilità di alleati che di tali capacità dispongono (essenzialmente Usa e Regno Unito). Un settore critico sarà quello dell’ala rotante: infatti i programmi di ammodernamento in atto vedono ridursi in modo preoccupante i numeri delle macchine a disposizione, anche se di concezione più moderna, e quindi con capacità e livelli di efficienza più elevati degli attuali; ma questa é un’area dove i numeri sono ancora un fattore determinante: se si può ragionevolmente affermare che un velivolo aerotattico di nuova generazione può fare il lavoro prima svolto da due macchine di una generazione

precedente, le specifiche missioni assicurate dagli elicotteri, a causa delle intrinseche limitazioni di autonomia e velocità, richiedono una disponibilità sul territorio quasi capillare e quindi numeri elevati, che non saranno disponibili, il che significa che in caso di operazioni di coalizione in un qualsiasi teatro operativo bisognerà scegliere se continuare ad assicurare i servizi di istituto in patria o dare un contributo fuori dai confini che non sia meramente simbolico. L’elencazione fatta, che non é esaustiva in quanto non considera l’aspetto addestrativo, né quello della difesa aerea missilistica e neppure quello, forse minore, del collegamento, analizzata nel dettaglio, mette in luce un fatto fondamentale e cioè che le nostre forze, se e quando si procederà a un’integrazione di tipo federale, saranno in grado in qualsiasi momento di inserirsi armonicamente, con problemi sostanzialmente limitati, in un futuro strumento militare aereo europeo, in quanto il livello di interoperabilità e in qualche caso di standardizzazione sarà più che soddisfacente: da questo punto di vista la scelta dell’F35 si rivelerà particolarmente felice perché, senza sacrificare le capacità produttive nazionali, non si correrà il rischio della divergenza delle configurazioni, dolorosamente sperimentata con il Tornado e ripetuta, anche se su scala minore, con l’Eurofighter. Un pilota italiano potrà tranquillamente atterrare su una base britannica o danese,

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certo di trovare la stessa assistenza e lo stesso supporto logistico su cui può contare a casa propria. In modo analogo, anche se su scala diversa, le capacità di rifornimento in volo assicurate dal KC767-A, con entrambe le modalità boom e hose and drum2, ne consentono l’impiego integrato con gli Airbus che entreranno in servizio in Gran Bretagna, Francia e in altri paesi. Fatte queste considerazioni dal punto di vista operativo, peraltro abbastanza rassicuranti, veniamo all’aspetto organizzativo. Ciò che balza all’occhio é la grande e antieconomica frammentazione delle attività logistiche: tale constatazione é valida in generale e il settore delle macchine volanti non ne é certamente esente. Non ci sono dubbi che se le attività manutentive e la gestione dei rifornimenti fossero concentrate, almeno per tipologia dei mezzi, si otterrebbero non solo importanti economie di scala, ma ne trarrebbe sostanziale giovamento anche la disponibilità dei singoli sistemi d’arma. Per ottenere questo risultato si possono seguire due strade: quella dell’accentramento a livello interforze e quella del lead service, cioè l’affidamento a una singola forza armata delle attività logistiche anche a favore delle altre due (e si potrebbe aggiungere anche l’Arma dei Carabinieri). Si considerino ad esempio, come già precedentemente accennato, gli elicotteri, tutti prodotti da Agusta Westland, e si provi a immaginare quanto più razionale potrebbe essere la ge-

stione delle flotte e quanto più forte sarebbe la forza contrattuale di un unico committente per la gestione dei contratti di supporto e per la ricambistica, sicuramente assai complessa, vista la varietà dei modelli e delle configurazioni, ma che tuttavia potrebbe sfruttare le aree di comunalità che sono in ogni caso assai importanti (gli NH90 dell’Esercito sono certamente diversi da quelli della Marina, ma la coincidenza dei part number3 é elevatissima). Nel caso poi degli F35, la questione si pone su un piano ancora piú stringente: immaginando che i 90 esemplari di cui ha parlato il ministro siano suddivisi in 60 del modello A, a decollo e atterraggio convenzionale, e 30 del modello B, con caratteristiche Stovl4, equamente suddivisi tra Marina e Aeronautica, ma assolutamente identici per configurazione ed equipaggiamenti, nessuna delle due forze armate, con 15 macchine ciascuna, tenendo conto dei cicli manutentivi, potrebbe assicurare la disponibilità operativa dei 12 velivoli necessari a un gruppo di volo, che sia a terra o che sia imbarcato, mentre una gestione unitaria di 30 macchine renderebbe tutto più agevole ed economicamente sostenibile, soprattutto se il complesso delle attività venisse concentrato in un’unica base, dimezzando i costi degli equipaggiamenti manutentivi peculiari e ottimizzando i cicli ispettivi e gli interventi correttivi, poco o nulla importando se il pilota della Marina che decolla da Nave Cavour stia impie-


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gando un velivolo che la settimana prima si trovava a Amendola ai comandi di un pilota dell’Aeronautica. Si tratta solo di esempi, ma che mostrano in modo evidente quanto spazio esista per l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse, se solo si riesce a intaccare il comprensibile, ma ormai inaccettabile, campanilismo delle singole forze armate, inducendole a un supporto e a una collaborazione reciproca da cui hanno tutti da guadagnare. L’analisi della situazione e dei possibili sviluppi relativi alle altre forze armate può essere condotta con analoga metodologia, ma, oltre a esulare dallo scopo di questo scritto, è resa più aleatoria a causa dell’indeterminatezza dei dati numerici, che il ministro non ha fornito e anche per la variabilità dei contenuti reali delle singole definizioni: trent’anni fa una fregata (classe Maestrale) dislocava 3000 tonnellate e aveva un equipaggio di 225 uomini, oggi una Fremm ha un dislocamento di 6000 tonnellate e un equipaggio di 145 unità, e analogamente per l’Esercito é difficile porre sullo stesso piano una brigata così come era configurata negli anni ‘90, con una futura brigata digitalizzata, risultato del programma Forza Nec. In conclusione, le sfide che l’evoluzione dei rapporti internazionali ci costringerà ad affrontare non saranno certamente inferiori a quelle attuali ed è indispensabile che la pianificazione e lo sviluppo dello strumento militare siano coerenti con le esigenze ipotizza-

bili e compatibili con gli sperabili sviluppi politico-istituzionali nel quadro di un’Unione europea avviata verso un progetto federalista. La riforma proposta dal governo va certamente in questa direzione e se ne deve auspicare un celere e favorevole iter parlamentare, così come una progressiva attuazione che non ne tradisca lo spirito, come purtroppo si é già verificato nel passato. Note 1

Flotta Sovietica del Mediterraneo. La modalità boom viene effettuata con un tubo rigido, guidato da bordo del tanker, che si infila in un ricettacolo posto generalmente nel dorso de ricevitore ed é tipica dei velivoli dell’aeronautica Usa; la modalità hose and drum si attua con un tubo flessibile, srotolato dal tanker, alla cui estremità é posto un cestello in cui si infila una sonda del velivolo ricevitore ed è tipica dei velivoli europei e di quelli della marina Usa. 3 Codice che identifica univocamente ogni singolo componente particolare. 4 Short Take Off and Vertical Landing. 2

L’Autore vincenzo camporini è stato pilota militare su Starfighter durante la Guerra fredda, ha percorso tutta la scala gerarchica fino a diventare capo dell’Areonautica e poi della Difesa. Si occupa di strategia e sicurezza ed è ora vicepresidente dell’Istituto affari internazionali.

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Da Gorizia a Kabul. E dopo?

Finaziamenti alla Difesa, serve più qualità I nostri budget dedicati alla Difesa sono più bassi che in Francia e Inghilterra, ma li spendiamo male. Infatti, il costo maggiore è destinato all’apparato militare mentre si spende solo il 12% per le operazioni su campo. Nella riforma Di Paola, pur con un taglio del personale, verrà migliorata la qualità del servizo delle Forze armate. 171 DI PAOLO QUERCIA

Il finanziamento del sistema Difesa italiano, le sue problematiche e il processo di riforma

Il bilancio complessivo italiano della Difesa si è assestato nel triennio 2009 – 2011 a un valore annuo di circa 20 miliardi di euro su un prodotto lordo di circa 1.500 miliardi. Scorporando le parti di spesa non strettamente dedicate alla Difesa in senso stretto, come l’Arma dei Carabinieri, i costi per le funzioni interne e le pensioni, essa si riduce a circa 14 miliardi di euro, dunque meno dell’1% del prodotto interno lordo1. Un valore che da esperti e analisti è comunemente ritenuto al di sotto della spesa necessaria per mantenere aggiornato e operativo un moderno strumento militare al passo con

l’inarrestabile evoluzione tecnologica e con le sfide alla sicurezza di un mondo in cui la minaccia asimmetrica degli Stati falliti tipica dello scorso decennio convivrà assieme a un “ritorno” della politica di potenza tra più poli regionali, consolidati o emergenti. E dunque al ritorno di forme di minaccia di tipo tradizionale. Usando i dati dell’Eda, da un’analisi comparata tra i primi cinque paesi europei per spese nel campo della Difesa, nell’ordine Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Spagna, emergono alcune caratteristiche del “caso” italiano. Oltre al basso livello quantitativo in valore assoluto della spesa, tre sono in particolare le principali criticità qualitative della spesa per la Difesa: l’ele-


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vata incidenza della spesa per il della Difesa* in Italia si può fare personale, il basso livello degli ricorso ai lavori pubblicati dallo investimenti (in particolare per Iai, che appaiono essere i più reaquanto riguarda la componente listici in quanto escludono penRicerca e Sviluppo), e il basso li- sioni e funzioni interne ma imvello di output di forze terrestri putano una quota di disponibilisostenibili all’estero a fronte tà per la Difesa del personale deldell’elevata quota di personale l’Arma dei Carabinieri (circa il 7%) e soprattutto stimano anche militare impiegato. In altre parole, l’Italia dedica alla il valore dei fondi Mise per gli Difesa una percentuale di risorse investimenti e il fondo missioni nazionali significativamente bas- (che negli ultimi anni è sempre sa rispetto ai principali partner venuto a sopperire alle carenze europei di riferimento; questa dei fondi di esercizio). I dati per spesa bassa è in buona parte as- il 2011 sono contenuti nella tasorbita da spese esterne alla co- bella 2. Utilizzando lo siddetta funzione stesso approccio Difesa (Arma dei L’Italia dedica metodologico, lo Carabinieri, tratIai calcolava per il tamenti pensioni- alla Difesa un budget 2010 un valore tostici, funzioni in- significativamente più tale della spesa Diterne) e da un elevato costo del per- basso rispetto alle altre fesa, depurata dai sonale militare e nazioni, europee e non costi esterni e integrata dai fondi Micivile. Il valore del procurement e della Ricerca se e missioni, leggermente infee Sviluppo, ossia degli investi- riore al valore del 2011, ossia di menti con cui si costruisce l’effi- 17.630 milioni di euro. cacia futura dello strumento mi- La maggiore accuratezza di quelitare, è decaduto in maniera pre- ste misurazioni “integrate” rioccupante, in particolare per spetto ad altri calcoli non cambia quanto riguarda la R&S. Ciò ha la sostanza del problema che è la fatto recentemente dichiarare al stessa che si evince dalle altre ministro della Difesa Di Paola fonti. Il dato che solitamente che il nostro “è uno strumento viene indicato come il più preocsbilanciato che è destinato a per- cupante è quello che vede la spedere rapidamente efficacia d’in- sa per il personale incidere per tervento se non si opera su di es- circa i due terzi sul budget della so. Il nostro strumento militare è Difesa, mentre la media europea ipertrofico dal punto di vista del si colloca attorno allo standard dimensionamento e ipofinanziato Nato del 50%3. Questa struttura dal punto di vista delle capacità della spesa non lascia pressoché operative”2. (Tabella 1) nessuno spazio per l’ammodernaVolendo frazionare con maggiore mento e la trasformazione del siaccuratezza i dati del bilancio stema, ed è proprio su questo pa-


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Defence Data: EDA participating Member States in 2012

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Fonte: European Defence Agency, 2012. I dati EDA comprendono anche le funzioni esterne al sistema difesa.

Spese complessive nel campo della Difesa 2011

Fonte: Istituto Affari Internazionali, Economia e Industria della Difesa, Valerio Briani, Alessandro Marrone, Anna Veclani, marzo 2010.


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rametro che la riforma Di Paola tare il budget per la Difesa, tali andrà, per forza di cose, preva- parametri possono essere riportalentemente a incidere. Tuttavia, ti a norma solo con una contrase guardiamo bene il paragone zione del personale militare a con gli altri paesi Ue, vediamo 150.000 uomini (dagli attuali che in realtà in termini assoluti 183.000) e a 20.000 per il persola spesa per il personale dell’eser- nale civile (dagli attuali 30.000). cito italiano è molto simile a Secondo i calcoli del ministero quella degli altri paesi. Il Regno della Difesa ciò potrebbe produrUnito, con una forza numerica- re un risparmio di 1,8 miliardi mente molto simile alla nostra di di euro, che verrebbero liberati 190.000 uomini, spende per il per essere messi a disposizione personale 14,7 miliardi contro i per l’operatività o gli investi16,2 dell’Italia. Francia e Ger- menti. mania, che hanno dai 40.000 ai Eppure, nonostante queste limi50.000 uomini in più, spendono tazioni strutturali e i bilanci decurtati dello strurispettivamente mento militare, 18,6 e 17,8 mi- I nuovi scenari negli scorsi anni liardi di euro per abbiamo manteil personale. La internazionali hanno nuto un numero triste realtà è che portato a una molto elevato di il costo del persotruppe impegnate nale militare ita- rivoluzione dell’uso liano incide su un dello strumento militare all’estero, un livello che in alcuni bilancio totale ridotto al lumicino, che è la metà anni è arrivato molto vicino alla di quello inglese e un terzo infe- capacità massima delle forze imriore a quello francese e tedesco. piegabili. Le spese per le missioCon una tale sproporzione della ni militari all’estero sono esplose spesa militare l’Italia non ha po- nella seconda metà degli anni tuto che sacrificare i restanti due novanta, in coincidenza con l’avparametri che la Nato ha fissato vio della dottrina statunitense come benchmark operativi, ossia delle guerre umanitarie, affermal’operatività e l’investimento che tasi nel corso delle due presidennon hanno gli stessi caratteri di ze democratiche americane degli rigidità della voce personale e so- anni novanta di Bill Clinton no pertanto maggiormente com- (1992 – 2000), la cui dottrina è primibili. L’operatività è ridotta ulteriormente evoluta dopo l’unal 12% circa della spesa totale, dici settembre, con le due presicontro un valore ideale di riferi- denze Bush (2001 – 2008), verso mento del 25%, mentre gli inve- una più complessa strategia di stimenti sono fermi attorno al regime change4. La guerra umani18% (sempre su 25%). Secondo i taria per proteggere le minoranze calcoli del ministro Di Paola, etno – politiche e quella per stante l’impossibilità di aumen- l’esportazione della democrazia


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attraverso il cambio di regime divengono i due grandi motori della sicurezza e dell’insicurezza internazionale, aprendo le porte a un mondo totalmente diverso rispetto a quello a cui eravamo abituati, fatto di Stati sovrani, di non ingerenza negli affari interni, di balance of power, di deterrenza e di conflittualità simmetrica. Il paradosso del notevole aumento dell’impegno militare internazionale dell’Italia, solo parzialmente seguito da un efficientamento dello strumento militare e dalla sua valorizzazione, può essere solo spiegato da un eccesso di ambizioni sia della classe dirigente (politica e mili-

tare) del paese rispetto alle risorse disponibili – o indisponibili – sia come conseguenza di un’eccessiva dipendenza del processo decisionale dalle scelte strategiche di alleati maggiori o organismi internazionali. (Tabella 3) I cambiamenti negli scenari internazionali che hanno reso possibile, o forse necessaria, questa nuova stagione della Difesa italiana hanno portato a una vera e propria rivoluzione nell’impiego dello strumento militare, e solo parzialmente a una trasformazione dello strumento. La più importante delle quali è stata rappresentata dalla riforma del 2000 con l’abolizione della leva, l’in175

Tabella: andamento costi per le missioni militari all’estero

Fonte: Elaborazione su dati Camera dei Deputati


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troduzione del reclutamento professionale e l’adozione di un modello di Difesa da 190.000 uomini. In tale contesto, da anni – e giustamente – militari, addetti ai lavori, esperti, giornalisti di settore avvertono sul pericolo del decadimento dello strumento militare italiano a causa dei mancati investimenti e delle mancate riforme strutturali. E mettono in guardia sul fatto che continuare a perpetuare un sistema di Difesa che al tempo stesso è sovradimensionato e sottofinanziato costituisce un pericoloso errore che può mettere a repentaglio la sicurezza del paese a causa dell’imprevedibilità con cui possono manifestarsi rischi e minacce alla sicurezza nazionale. Il decadimento del sistema Difesa italiano sarebbe ulteriormente accresciuto dal logorio causato da un eccesso di missioni militari all’estero verificatesi nell’ultimo decennio e oramai divenute una costante della nostra postura internazionale. Eppure in tale situazione non abbiamo lesinato sforzi per contribuire alla sicurezza internazionale, vera o presunta. È forse un paradosso, ma negli stessi anni in cui – a detta degli esperti – avveniva tale involuzione della Difesa italiana, l’Italia Repubblicana del dopo guerra fredda ha dimostrato un livello di interventismo nelle questioni di sicurezza internazionali degno di una potenza globale. Sostanzialmente non ci siamo fatti mancare nulla. Dalle missioni combat in Afghanistan sotto il cappello di Enduring Freedom a caccia di ba-

si terroriste sui monti al confine con il Pakistan, alla protezione dei monasteri ortodossi in Kosovo, ai bombardamenti sul cielo della Libia, al disarmo di gruppi paramilitari in Macedonia, alle operazioni aeree per applicare l’embargo nel Golfo Persico, alla scorta ai convogli marittimi nel Golfo di Aden in funzione antipirateria, al sostegno alle vittime di calamità naturali in Pakistan e a Haiti, alla stabilizzazione postconflict e alle operazioni anti guerriglia in Afganistan e in Iraq, e alle decine di classiche missioni di peacekeeping in Africa, Medio Oriente e Balcani. Delle 125 missioni militari italiane all’estero dal dopoguerra a oggi oltre 100 hanno avuto luogo dopo il 1989, a un ritmo di cinque nuove missioni l’anno. Tornando ai valori della spesa per la Difesa, può essere utile contestualizzare il trend della spesa italiana con le tendenze degli altri paesi occidentali. Il paragone con l’evoluzione dei bilanci della Difesa europei e quello statunitense nello scorso ventennio fornisce interessanti spunti. Nel 1990 gli Usa “escono” dalla guerra fredda con una elevatissima quota del Pil destinata alla Difesa del 5,7% mentre la media dei paesi europei, nello stesso anno era del 2,4%. L’Italia si attestava all’1,5. Gli anni novanta sono stati gli anni della grande riduzione. Il bilancio americano dedicato alla Difesa è crollato dal 5,7% al 3,2% mentre quelli europei sono scesi all’1,5% con un trend di ridu-


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zione importante e significativo per tutti i paesi occidentali senza nessuna eccezione. Una tendenza che nel 2000 era arrivata quasi a dimezzare i bilanci di dieci anni prima. La crisi dell’11 settembre ha arrestato questa tendenza e gli anni successivi al 9/11 sono stati caratterizzati per tutto il blocco occidentale dallo stesso fenomeno: l’arresto della riduzione o addirittura l’aumento della quota del Pil destinata alla Difesa. L’Italia ha seguito quest’ultimo trend, arrestando la caduta del budget della Difesa, che nel biennio 1997 – 1998 era arrivato a toccare i minimi storici5, riportandolo nel triennio 2003 – 2005 a sfiorare quasi i valori della guerra fredda. (Tabella 4)6 Tale processo è stato il frutto sia della nuova stagione di sicurezza internazionale creatasi con l’avvio della war on terror americana e con le due campagne militari terresti in Afghanistan e in Iraq, ma anche dell’avvio d’importanti

programmi di cooperazione internazionale. In termini di quota del Pil la spesa per la Difesa dell’Italia nello scorso ventennio è dunque oscillata tra un punto e un punto e mezzo del prodotto interno lordo, seguendo un processo – simile a quello avvenuto negli altri paesi occidentali – di riduzione dai valori della guerra fredda. Con questa frazione tendenzialmente decrescente della ricchezza nazionale siamo passati da un modello statico di difesa territoriale a un modello dinamico basato sulla proiezione della forza all’estero in missioni multinazionali. E con essa abbiamo fatto fronte a importanti impegni militari, anche gravosi, tra cui la prima Guerra del Golfo (1990), la missione in Somalia Unosom Ibis 1992 – 1994 (11 caduti), Jugoslavia 1999, Kfor Kosovo 1999 – in corso, Isaf Afghanistan 2003 – in corso (30 caduti), Antica Babilonia Iraq 2004 – 2006 (25 caduti).

Tabella8: andamento della spesa per la Difesa nel 1090, 2001, 2003 e 2008

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Secondo il The Military Balance, in termini assoluti nell’ultimo decennio la spesa militare italiana è oscillata tra un valore minimo di 12,8 miliardi di dollari (2002) e un massimo di 24 miliardi di dollari (2008)7. Secondo il Sipri Military Expenditure Database, nel 2011 la spesa per la Difesa italiana – che l’Istituto di Stoccolma stima (in eccesso) in 24,7 miliardi di euro – è sostanzialmente tornata ai livelli nominali del 2001 (ma con una perdita di potere d’acquisto di circa il 20%). Nello spesso periodo, secondo lo stesso istituto, quella Usa è cresciuta di 308 miliardi di dollari, quella cinese di 96, quella russa di 35, quella dell’Arabia Saudita di 20, quella dell’India di 18, quella del Regno Unito di 14, quella della Corea del Sud di 10, quella del Brasile di 9, quella dell’Algeria di 5 e quella della Francia di 1. In altre parole, se nello scorso decennio noi abbiamo dovuto combattere per evitare tagli particolarmente elevati che potessero mettere in pericolo la funzionalità dello strumento Difesa, i maggiori paesi del mondo – sia emergenti che dominanti, sia autoritari che democratici – hanno investito in maniera significata nel settore Difesa, accrescendone le capacità al punto tale da relativizzare in maniera significativa la nostra spesa stagnante. Secondo le stime meno conservatrici, nel 2007 eravamo ancora – almeno per valore nominale della spesa – il nono paese del mondo per budget militare. Nel 2008 siamo

divenuti il decimo, superati dall’India. Nel 2009 siamo usciti dalla classifica dei primi dieci, superati dal Brasile8. Dal 2009 tutti e quattro i paesi Bric sono nella top ten del bilancio militare mondiale e nello stesso anno la Cina ha raggiunto il secondo posto superando il Regno Unito. Nei prossimi 3 – 5 anni saremo verosimilmente scavalcati dalla Corea del Sud, che negli ultimi venti anni ha mantenuto una crescita annuale costante della propria spesa per la Difesa. (Tabella 5) Ovviamente qui si sta parlando solo dell’aspetto quantitativo della spesa e non dell’aspetto qualitativo. Questi dati, già abbastanza discordanti tra le varie fonti e di controversa lettura, tendono a enfatizzare solo i valori quantitativi, in eccesso o in difetto, rispetto a presunte medie ottimali. E forse anche nel dibattito italiano proprio la tendenza a concentrarsi sui valori quantitativi della spesa per la Difesa che ha rappresentato uno dei principali colli di bottiglia nelle polemiche tra “militaristi” e “anti-militaristi” e che non ha molto aiutato a una maturazione del dibattito sulla sicurezza nazionale e sulla spesa per la Difesa in Italia. Il valore quantitativo può tuttavia essere utile a identificare la soglia della spesa oltre la quale sarebbe opportuno non scendere. Certo è che con una spesa per la Difesa inferiore ai 15 miliardi di euro un paese della grandezza e della posizione geografica come l’Italia si preclude ogni possibili-


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Tabella: i primi 10 paesi per spesa per la difesa

179 Fonte: The Military Balance 2011. Country comparison, p. 469

tà di poter giocare un ruolo attivo per contribuire a determinare lo scenario internazionale di sicurezza, specialmente nell’attuale fase mondiale che vede una crescita della spesa militare in pressoché tutti i continenti (Asia in particolare). In una condizione come la nostra è chiaro che per il futuro massima attenzione dovrà essere concentrata sulla qualità della spesa, sperando che la quantità non scenda sotto i livelli di guardia. Nell’attuale situazione economica l’efficientamento della macchina della Difesa è una questione di strategica rilevanza che potrà fare la differenza in tempi difficili. Riuscire a produrre out-

put maggiori anche in presenza di input decrescenti non è una sfida facile. Ma è su di essa che tutto il mondo della Difesa gioca la sua credibilità in una fase storica ove risorse aggiuntive per il settore non saranno verosimilmente disponili per un periodo non facilmente determinabile. Naturalmente, la valutazione dell’efficacia di uno strumento complesso e particolare come quello militare è sicuramente un’operazione difficile da fare e che esula da questo studio. Nello scorso decennio un parametro importante, ancorché riduttivo, d’efficacia è sicuramente stato quello della deployability9. E su questo metro abbiamo visto che a fronte della


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grandezza dello strumento e del suo costo l’output producibile è piuttosto basso. La progressiva erosione della quota del budget della Difesa italiano dedicato alla ricerca e sviluppo (al punto da spingere molte aziende del settore ad auto-finanziare la propria R&S per un valore che ha raggiunto nel 2010 il 12% del fatturato del settore) pone ulteriori difficoltà all’efficientamento della macchina Difesa ed è divenuta una delle maggiori preoccupazioni per il futuro. Nel biennio 2012 – 2013, l’effetto lungo della crisi economico-finanziaria apertasi nel 2008 (Pil - 1,5%) e 2009 (Pil - 5,4%) investirà pienamente il comparto Difesa, che negli scorsi anni aveva sostanzialmente tenuto alla crisi economica mantenendo il bilancio complessivo della Difesa sopra i 20 miliardi di euro e la funzione Difesa sopra i 14. Il 2012 rischia di essere l’anno in cui i valori scenderanno sotto queste due soglie portando il bilancio complessivo della Difesa ad appena l’1,2% del Pil. Un valore che il bilancio della Difesa italiana non toccava dal 2002. Con il Disegno di Legge di Delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale presentato il 23 aprile 2012 ecco che – dopo tanti libri bianchi, scenari strategici e analisi dei rischi per la sicurezza nazionale – prende il via un nuovo processo di trasformazione dello strumento militare, dettato da cause sostanzialmente interne, ovverosia l’incapacità dell’econo-

mia del paese di continuare a mantenere un livello di costi d’operatività proporzionali alla grandezza dello strumento militare ereditata dal passato. Un’accurata analisi delle motivazioni per l’efficientamento del sistema difesa italiano e della delega di riforma al governo si trova nel capitolo 2 del presente volume curato dal Generale Vincenzo Camporini. Le missioni militari italiane all’estero nell’ultimo ventennio. Lezioni apprese e prospettive strategiche

Sicuramente l’analisi delle missioni militari italiani all’estero10 compiute negli ultimi vent’anni può aiutare a comprendere meglio il processo evolutivo dell’ambiente di sicurezza internazionale in cui il nostro paese si trova a operare e a pianificare lo strumento militare. Pur non mancando esempi di missioni militari antecedenti al Libano 1982 – come l’invio di un ospedale da campo ai tempi della guerra di Corea, o l’impiego di assetti aeronautici nella crisi del Congo dei primi anni Sessanta, o, ancora, gli assetti navali per il soccorso ai boat people vietnamiti della fine degli anni Settanta – l’inizio di una nuova stagione per le missioni militari all’estero può farsi risalire agli anni Ottanta. Da Italcon in poi, difatti, nel contesto internazionale sono venute gradualmente delineandosi le nuove sfide di instabilità poi esplose con la fine della guerra fredda, e si sono aperte le prime


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opportunità per una partecipazione militare all’estero con dichiarati obiettivi di mediazione. Con il Libano, l’Italia iniziò a entrare nel grande gioco della sicurezza internazionale, inteso come strumento per aumentare il nostro leverage sulla scena politica internazionale, interponendo le forze militari in aree di crisi da cui non proveniva una diretta minaccia. (Tabella 6)11 Gli impegni militari italiani all’estero nel periodo trentennale scelto, 1982 – 2012, sono stati ventinove*, quasi un nuovo impegno l’anno. La maggioranza di essi, quasi il 40%, è stata rappresentata da missioni di peacekeeping, mentre meno del 15% delle missioni si colloca all’estremo opposto della tipologia combat.

In mezzo a queste due categorie vi sono due missioni intermedie che forse potremmo definire ibride, ossia le due missioni terrestri più importanti del dopoguerra, Isaf e Antica Babilonia. Queste due missioni sono state anche quelle che hanno prodotto un maggior numero di vittime. Difatti, i caduti in questi due teatri ammontano a circa il 70% del totale dei caduti di tutto il trentennio. Interessante notare che le missioni di categoria combat (La Prima Guerra del Golfo in Iraq, Deliberate Force in Bosnia Erzegovina, Joint Guarantor in Kosovo, Nibbio in Afghanistan, Odissea Dawn in Libia) non hanno finora avuto nessun caduto, in ragione del fatto che trattasi di impegni a prevalente connotazio-

Prospetto delle missioni militari italiane all’estero dal 198013

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ne aeronautica in contesti di superiorità aerea. Gli impegni di stabilizzazione in primis, e finanche quelli di peacekeeping, si pongono in tal senso come i più “letali” a causa della composizione quasi prevalentemente terrestre delle forze impiegate. Un’altra interessante considerazione riguarda la localizzazione geografica dei teatri d’impiego. L’area di maggiore impegno è stata quella adriatico-balcanica, confermando come la vicinanza geografica necessariamente ha rappresentato uno dei principali driver nella determinazione degli interventi militari italiani. Inoltre, in quest’area, le forze militari italiane hanno operato variamente, sia sotto comando Nato, Ueo e Ue, sia in missioni multilaterali e persino in maniera autonoma, come per l’Operazione Pellicano in Albania, o in posizione lead di coalition of the willing per l’operazione Alba. Infine, nella regione balcanica le operazioni militari italiane hanno operato sia con tutti i tipi di assetti (a prevalente connotazione area, navale e terrestre) e sia in operazioni combat che di peacekeeping. Gli impegni militari in Bosnia e in Kosovo sono quelli che da più tempo vedono impiegati senza soluzione di continuità assetti italiani di una certa rilevanza, anche a fronte della diminuzione della conflittualità e del progressivo mutamento degli scenari di sicurezza. Tale importanza politico – strategica della regione per il nostro paese dimostra anche la permanente rilevan-

za della componente geopolitica nella determinazione dei teatri operativi, anche a fronte di una significativa riduzione della conflittualità. Segno che, se spesso sono le necessità di sicurezza e le logiche multilaterali a generare l’avvio di una missione, nel lungo periodo considerazioni di carattere politico possono contribuire anche in maniera significativa a determinare la durata o meno della missione militare. Al secondo posto dei teatri d’impiego vi è l’area mediterraneo – mediorientale, che ha interessato circa un terzo degli interventi militari italiani dell’ultimo trentennio. Anche per quest’area la pluralità di missioni è a connotazione sia terrestre, che aerea, che navale, e talvolta con funzioni combat. Tuttavia, per questi ultimi teatri le missioni di peacekeeping sono state solamente un paio (benchè importanti nella loro dimensione, se si pensa a Unufil II o alla Italcon dei tempi del Generale Angioni), mentre impegni più “attivi”, quali missioni di stabilizzazione, o di embargo enforcing, security sector reform, o protezione del traffico mercantile, sono risultati essere più comuni. Analogamente, quasi tutte le missioni relative all’ambito mediorientale hanno visto il loro inquadramento in framework multilaterale/coalition of the willings. Una parte non piccola, circa un sesto, degli impegni militari italiani si è concentrata nell’Africa Subsahariana – dove venti anni fa si ebbe la prima sfortunata missione challenging delle Nazioni

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Unite, Unosom, il cui esito ha a questo teatro ha addirittura visto lungo condizionato le missioni anche lo schieramento dell’unica militari nell’area – riguardando operazione terrestre di tipo comperò quasi solamente impegni di bat mai verificatasi per il nostro puro peacekeeping e limitati nella strumento miliare del secondo loro durata e composizione, quasi dopoguerra, la Task Force Nibprevalentemente terrestre. Le bio (1000 uomini, febbraio – missioni antipirateria nel Golfo settembre 2003) con cui abbiadi Aden stanno acquisendo una mo partecipato al passaggio dalla rilevanza sempre più elevata a terza alla quarta fase dell’operacausa dell’effetto diretto che tali zione Enduring Freedom. Il operazioni hanno sulla sicurezza mandato della missione commarittima del naviglio commer- prendeva, oltre al controllo del ciale italiano che transita dal- territorio e l’interdizione della l’Asia verso l’Europa. Le difficol- propria area di responsabilità, tà di risolvere a monte il proble- anche la neutralizzazione e distruzione di sacche ma della pirateria di gruppi combatcon operazioni di Osservando la durata tenti terroristici e state building sulla delle loro basi opeterra, aumente- nel tempo delle rative. ranno l’importan- missioni, appare che Le missioni militaza di questo tipo ri italiane hanno di operazioni in gli impegni combat visto un dominanfuturo, come di- siano di breve durata te impegno prevamostrato anche dall’ampliamento del mandato lente degli assetti terrestri, oltre della missione anti-pirateria del- il 50%, che aumenta ulteriorla Ue, che dal 2012 comprende, mente se si considera i casi delle oltre alle operazioni marittime, missioni con assetti aereo-terreanche la possibilità di operazioni stri e terrestri-navali. Si tratta di dati che non possono stupire, dal militari sulla costa. A sé stante, rispetto alle altre ti- momento che la maggior parte pologie di intervento, potremmo degli impegni si è focalizzata in considerare l’impegno italiano in azioni di peacekeeping, di norma Afghanistan. Esso rappresenta missioni a quasi prevalente conl’unico impegno militare di rilie- notazione terrestre. Gli impegni vo in Asia compiuto dalle Forze di carattere prevalentemente naArmate Italiane e, tanto per la vale hanno riguardato circa un sua durata che per il numero di quinto dei casi esaminati, mentre caduti registrati in combatti- un decimo sono quelli a connotamento, costituisce il più impor- zione aerea. È interessante notare tante impiego di forze aereo-ter- che la missione Odissea Dawn in restri delle nostre Forze Armate Libia è stata il primo caso nell’ardai tempi delle seconda guerra co di tempo preso in consideramondiale. Per un breve periodo, zione di missione condotta con


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forze aereo – navali. Ovviamente, di peacekeeping, a quelle di stabile missioni navali e aeree sono lizzazione o umanitarie. La parte quasi interamente missioni di restante degli impegni del nostro strumento militare in missioni natura combat. Osservando la durata nel tempo all’estero ha riguardato o contesti delle missioni, appare che gli multilaterali/coalition of the wilimpegni di tipo combat siano lings, o i pochi casi di impegni quelli di più breve durata (sem- nazionali autonomi. pre misurabile in termini di me- Infine, qualche considerazione su si), mentre sforzi in tal senso ben alcuni caratteri operativi delle più estesi sono stati evidenziati missioni militari italiane all’esteda tutte le missioni di stabilizza- ro a partire da una valutazione zione e dalle più importanti mis- delle esperienze degli ultimi due sioni di peacekeeping come Unifil decenni che potrebbero produrre II e Kfor. Anche gli impegni an- conseguenze anche sul procureti-pirateria, che per certi versi ment. Gli anni novanta hanno visto una tendenpossono essere za verso la lightness considerati i corri- La Nato continua degli equipaggiaspettivi marittimi menti e dei mezzi, delle missioni ter- a dimostrare la sua allo scopo di esalrestri di stabilizza- versatilità per tare la proiettabizione, durano da anni senza soluzio- per le diverse tipologie lità delle forze, in contesti operativi ne di continuità. di intervento militare post-conflict e in Le restanti missioni con assetti navali, con la pur ambienti multinazionali che verilevante eccezione della missio- dono il supporto di grandi pone Active Endeavour, si colloca- tenze con capacità full spectrum. no di solito in una posizione in- Su tali esigenze sono state cotermedia fra gli estremi della du- struite le forze di reazione rapirata del peacekeeping e del combat; da, sia nazionali che multinaziol’Alleanza Atlantica, in tal senso, nali, che hanno visto il passaggio ha rappresentato e continua a ri- da componenti corazzate verso manere l’organizzazione quadro componenti blindate, ruotate e di riferimento per quasi la metà all terrain. Tuttavia, in alcuni degli impegni militari all’estero teatri operativi, questo approccio dell’Italia, mentre Nazioni Unite ha mostrato degli importanti lie Unione europea hanno rappre- miti a causa dell’alto livello di sentato ciascuna poco meno di contrasto asimmetrico portato un quinto dei contesti di riferi- dalle forze ostili e in particolare mento delle operazioni nazionali. al massiccio ricorso agli ImproviLa Nato continua a dimostrare la sed Explosive Device (Ied), ma sua versatilità per le diverse tipo- anche razzi Rpg o persino granalogie di intervento militare, da te anticarro lanciabili a mano. quelle di natura combat, a quelle Ciò ha portato in alcuni casi a un

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ritorno agli Infantry Fighting Veicle (Ifv) e Main Battle Tank (Mtb), ma soprattutto all’impiego di veicoli Mine Resistant Ambush Protected (Mrap). Un’altra caratteristica delle dottrine operative dello scorso ventennio è legata alla cosiddetta jointness, ossia alla tendenza verso una maggiore specializzazione delle varie Forze Armate, che dovrebbero rimanere il più possibile legate alla loro natura originaria, e una conseguente sempre più stretta e necessaria integrazione tra le capacità delle differenti Forze12. Il processo sempre più spinto di costruzione di forze Joint (integrazione tra almeno due Ffaa) e Combined (integrazione tra Ffaa di almeno due paesi) rappresenta sicuramente un utile strumento per raggiungere un sempre maggiore livello di efficacia delle forze e – da non trascurare in un’epoca di costrizioni di bilancio – di riduzione dei costi del loro approntamento. Tuttavia, le principali missioni nazionali all’estero negli scorsi due decenni sono state condotte con un impiego di forze piuttosto compartimentato e sostanzialmente svolto per branch of service. Nel caso del Kosovo e della Libia, le operazioni sono state condotte nel solo ambiente aereo, così come le missioni antipirateria e di embargo enforcing sono condotte dalle sole forze navali, mentre le missioni boots on the ground, anche quelle più demanding come in Iraq e Afghanistan, hanno visto l’impiego pressoché esclusivo di eserciti, con le aero-

nautiche impiegate in funzione di supporto e con significative preclusioni delle funzioni combat. La questione della maggiore o minore unificazione delle forze non è affatto questione secondaria in quanto è legata sia al quadro strategico d’impiego, sia al ruolo politico che si vuole giocare all’interno di una coalizione militare. Modelli estremamente unificati delle forze per un impiego all’estero tendono a ridurre le opzioni politiche di gestione del conflitto e si addicono maggiormente a paesi piccoli che devono puntare tutto sulla specializzazione o a paesi più grandi ma che hanno interessi marginali nel conflitto in corso. I processi di riforma della Forza Armata avvengono in un momento eccezionale che vede sia la riduzione dei bilanci, sia il progressivo mutamento nelle tipologie di conflittualità future che, a differenza degli anni passati, non possono escludere la possibilità di nuovi conflitti di tipo simmetrico. Dunque, è importante che la riforma in corso – pur dovendo necessariamente procedere a una riduzione della Forza – non penalizzi eccessivamente sia in termini quantitativi che qualitativi le capacità militari italiane che ancora – almeno sulla carta – rappresentano una capacità militare full spectrum. Saranno fondamentali le scelte attuative del progetto di riforma che – come già avvenuto in passato – si basa sulla formula meno quantità più qualità. Negli anni novanta si passò da un modello da 300.000


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uomini basato prevalentemente sulla leva obbligatoria, che costava 1,5% del Pil ma che consentiva una bassissima power projection, a un modello significativamente più piccolo che con il 40% in meno del personale e budget significativamente ridotti poteva dare un output in termini operativi molto superiori rispetto al modello precedente13. Oggi siamo di fronte a un ulteriore balzo in avanti del modello di Difesa italiano. I trend di riduzione dei bilanci della Difesa uniti a quelli dei cambiamenti nel settore dell’industria per la Difesa produrranno uno strumento militare che tenderà a stressare sempre più le capacità “joint and combined”, tendendo a sacrificare una parte importante delle capacità full spectrum. Tale processo, forse inevitabile, dovrà essere affrontato con la dovuta attenzione, in particolare per quanto riguarda l’Esercito, che rappresenta l’ambito su cui maggiormente si abbatteranno i tagli di personale e di reparti. Difatti, proprio per la funzione esercito, l’elemento quantitativo risulta importante e non può essere trattato come una variabile indipendente che può essere ridotta a piacimento e magari sostituita con miglioramenti tecnologici. L’evoluzione della Funzione Difesa in Italia

Da circa trent’anni l’Italia riveste un ruolo di primo piano nelle missioni militari internazionali. Tre decenni di operazioni militari con uomini e mezzi che hanno

contribuito a segnare il processo di evoluzione dello strumento militare nazionale e hanno modificato il rapporto delle Ffaa con il paese. L’avvento delle missioni militari all’estero ha posto in particolare evidenza una tra le molteplici funzioni delle Ffaa, quella “internazionalista”, avviando una tendenza che si sarebbe incrementata nel corso degli anni. Tuttavia, la funzione internazionale delle Ffaa resta una delle molteplici funzioni dello strumento militare, la cui efficienza organizzativa e operativa è una delle principali ragioni di esistenza stessa delle organizzazione statuali. Difatti quasi tutte le nazioni del mondo, con alcune minori eccezioni, dispongono di Forze Armate e strumenti militari che tradizionalmente vengono intesi come una necessità ineludibile per la garanzia della difesa di un qualsiasi Stato che voglia conservare le proprie prerogative di sovranità e indipendenza. Le Forze armate, pur nascendo con delle funzioni principali ben definite, progressivamente hanno assunto una pluralità di funzioni anche molto diverse tra loro, che oggi costituiscono un patrimonio delle Ffaa occidentali che merita essere brevemente analizzato. La funzione principale delle Forze Armate è naturalmente la Funzione politico territoriale. La difesa del territorio, dei cittadini, della sovranità, del sistema di governo e dell’ordinamento costituzionale: sono le funzioni core che in ultima analisi costitui-

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scono la raison d’etre dello stru- mondi precedenti al secondo mento militare nazionale, quelle conflitto mondiale si sono purche ancora portano con sé l’im- troppo rivelate delle superficiali printing fondativo originale e non illusioni. Le gerarchie di potenza sono funzioni derivate nel tempo internazionali non sono stabili e dovute ai mutati scenari interna- definite – non lo erano neanche zionali. Sono funzioni primarie, nel periodo della guerra fredda – che realisticamente mai scompa- e non lo sono oggi più che mai. riranno dalle organizzazioni sta- Questo perché mutevoli sono le tuali umane, almeno così come basi demografiche, sociali, econoi le conosciamo oggi, e che nomiche, ideologiche e politiche sottendono all’esistenza stessa della ricchezza delle nazioni e del delle costose e complesse mac- loro benessere. Fermo restando chine organizzative deputate che tutti i paesi mirano al miall’uso legittimo e istituzionaliz- glioramento della propria condizione, la mutabilità della scala zato della forza armata; gerarchica dei rapLa Funzione di porti di potenza potenza: i sistemi Le scelte attuative del divide i paesi in umani organizzati sotto forma sta- progetto di riforma che due grandi categorie: conservatori tuale non vivono si basa sulla formula dello status quo e in un vuoto pneurevisionisti. I primatico, ma sono meno quantità più parte di micro-si- qualità saranno decisive mi mirano ad accrescere la propria stemi regionali e macro sistemi-globali la cui potenza mantenendo la struttura grammatica è comunque rappre- vigente del sistema internazionasentata dai rapporti di potenza, le esistente che li vede in posisiano essi di natura economica, zioni di primato o vantaggiose; i finanziaria, politica, culturale, secondi, al contrario, mirano ad militare, identitaria, ideologica, accrescere il proprio ruolo moditecnologica, industriale, occupa- ficando il proprio posizionamenzionale, territoriale, demografica to o addirittura cercando di moetc. Tutte queste competizioni dificare la natura stessa del sistecostruiscono una rete complessa ma internazionale. Il processo di di concorrenza – collaborazione – ascesa o discesa in questa scala conflitto tra gli Stati e i governi gerarchica, così come i tentativi del sistema internazionale, e han- di alterare le regole “ordinatrici” no come risultanza la costruzione del sistema portano a conflitti tra di temporanee gerarchie di rap- paesi, coalizioni, blocchi regionaporti di potenza. Il ventennio li, ideologici o di intenti. In aspassato ha dimostrato che le illu- senza di un potere terzo capace sioni che tali rapporti gerarchici di risolvere i conflitti o di impordi potenza fossero espressione del re il rispetto delle soluzioni conmondo della guerra fredda o dei cordate, resta alla potenza milita-


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re, sia deterrente che di compel- no di politiche pubbliche infralence, non solo il compito di ri- strutturali (come, ad esempio, nel solvere con l’uso o la minaccia caso del supporto dei battaglioni dell’uso della forza eventuali costruzioni in taluni paesi in via ostilità, ma anche quello di ren- di sviluppo) e di servizi ritenuti dere “reale” il confronto politico, utili allo sviluppo di un Paese delimitando il campo delle am- (come nel caso di politiche di bizioni politico-strategiche di vaccinazioni o sminamento in siogni paese all’effettiva capacità tuazioni post-conflict). Nel caso di sostenerle anche di fronte a dell’Italia, la Funzione interna riuna opposizione mediante l’uso veste un ruolo particolarmente della forza. In altre parole, è la importante in virtù della collocapotenza militare di un paese – o zione della componente Carabidi una coalizione di paesi – a nieri all’interno delle Forze Arprodurre il “carburante” delle mate. Complessivamente per sue capacità politico-diplomati- l’Italia la funzione Sicurezza del Territorio assorbe che. Anche per circa un quarto questo, general- Gli Stati più influenti dell’intero bilanmente, gli Stati più influenti del ambiscono a cumulare, cio della Difesa. pianeta ambiscono conservare e mantenere Funzione di leverage internazionaa cumulare, conservare e mantene- una capacità superiore le: sono riferite, dai tempi della re una capacità di a quella necessaria Società delle Napotenza superiore a quella necessaria per la sola di- zioni ma soprattutto dalla fondafesa del proprio territorio. È im- zione del sistema delle Nazioni portante tenere ben presente che Unite, alle possibilità di ritorni i fattori produttori di potenza politici per quegli Stati che decicambiano al mutare delle epoche dono di mettere a disposizione i storiche e/o dei contesti geopoli- propri strumenti militari per tici globali o regionali di riferi- missioni multinazionali e/o mulmento. La funzione di potenza tilaterali volte al mantenimento della Difesa consente a ciascun dell’ordine internazionale e della paese di poter esercitare una pro- sicurezza internazionali, siano espria influenza nei processi di re- se missioni di pace, di interposivisione o di conservazione del- zione, di stabilizzazione, etc. Nella maggioranza di tali misl’ordine internazionale. Funzioni interne: queste possono sioni, solitamente, in gioco non essere di vario tipo e vanno dalla sono coinvolti interessi diretti, Sicurezza del Territorio, a un ruo- che al contrario potrebbero raplo di ausilio alle forze di polizia presentare dei fattori inibitori per il mantenimento dell’ordine (argomenti in passato utilizzati pubblico, fino al concorso ad atti- per limitare l’impegno militare vità di protezione civile, o persi- dell’Italia in teatri come i Balca-

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ni o il Corno d’Africa) quanto piuttosto le possibilità di ricadute di leverage internazionale, da spendere in sede multilaterale. L’importanza di tale funzione è progressivamente cresciuta con il passare del tempo nel secondo dopoguerra, e oggi essa si riferisce non soltanto alle principali organizzazioni internazionali a carattere universale, quanto anche a organizzazioni di sicurezza regionali, come l’Unione europa, la Nato e l’Unione africana. Funzioni occupazionali: sono relative alla costruzione di modelli di Forze Armate che orientati anche a produrre significativi effetti occupazionali e di ammortizzatore sociale di determinate quote di forza lavoro di difficile assorbimento, specialmente da aree depresse di un paese. Funzioni produttive e di ricerca e sviluppo: queste sono più che altro relative al ruolo del procurement e dei suoi rapporti con l’industria nazionale della difesa in qualità di traino tecnologico e della sua posizione nel tessuto produttivo di un Paese. Per questa importnate funzione sono fondamentali gli stanziamenti per la ricerca e sviluppo e per l’investimento, che consentono di partecipare ad avanzati programmi internazionali di cooperazione militare, cementando in tal modo le alleanze politicostrategiche, e aumentando il livello delle capacità tecnologiche nazionali a quello dei principali partner internazionali. Le potenziali ricadute sull’industria civile rappresentano un’ulteriore conse-

guenza della funzione produttiva della Difesa. In Italia il sistema industriale nazionale ha enormemente beneficiato dal travaso di tecnologie dal militare al civile. Le commesse militari sono state un volano di ricerca, produzione e occupazione, specialmente nei periodi di crisi economica. Funzioni di trasferimento di capacità: Le Forze Armate non rappresentano solamente una capacità d’impiego, ma anche una capacità di “saper fare”, che può essere gestita al pari di un'altra risorsa e rappresenta un’asset particolarmente pregiato che può essere trasferito a paesi amici e alleati bisognosi di aumentare le proprie capacità di sicurezza. Questa funzione è divenuta sempre più importante nel contesto strategico recente in virtù del fatto che il trasferimento di capacità militari diviene spesso fondamentale negli scenari postconflict delle missioni internazionali ove spesso si opera all’interno di contesti in cui le strutture statuali sono state distrutte dal conflitto o dalle sue successive conseguenze (come nel caso dell’Iraq) oppure sono inesistenti a causa del prolungarsi della mancanza di organizzazione statale per periodi significativi di tempo (come è il caso per i numerosi failed states, dall’Afghanistan alla Somalia). Se tali sono le diverse funzioni possibile dell’uso della forza organizzata da parte degli Stati e che corrispondono ad altrettante classiche ragioni di essere della Difesa, occorre quantomeno rile-


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vare che con sempre maggiore ricorrenza sta emergendo in Occidente un impiego della forza che per i caratteri e le metodologie del suo utilizzo si distingue dei precedenti e che si potrebbe definire un impiego umanitario o democratizzante delle forze armate. Sempre più ricorrenti, difatti, sono i casi in cui apposite coalizioni internazionali vengono costruite con lo scopo specifico di intervenire all’interno di Stati sovrani per impedire che le Forze Armate governative portino avanti repressioni di opposizioni politiche o etniche mediante un uso indiscriminato della forza che violi i diritti dell’uomo e le principali convenzioni internazionali. Naturalmente, tali interventi non vanno a costituire una vera e propria “funzione” delle Ffaa in quanto molto spesso l’intervento “umanitario” avviene come corollario di altre finalità. Tuttavia, la pseudo-funzione umanitaria assume un valore sempre più rilevante soprattutto in quanto abbinata a fasi crescenti di mediatizzazione che precedono l’intervento militare e costruiscono con maggiore facilità il consenso sociale all’intervento. Nella fase compresa tra la formazione dell’unità d’Italia e la seconda guerra mondiale le funzioni dominanti della difesa sono state quella di difesa del territorio e quella della politica di potenza. Difatti, il quadro internazionale di mutevoli alleanze e di elevata facilità all’uso della forza nelle relazioni internazionali produceva una costante indetermina-

bilità della provenienza delle possibili minacce al territorio nazionale facendo aumentare notevolmente il peso specifico di tale funzione sull’organizzazione dello strumento militare. Allo stesso modo, all’epoca lo status di grande potenza imponeva il mantenimento di grandi flotte e l’acquisizione e conservazione di colonie, dando vita a un’ampia tipologia di conflitti coloniali. Anche la funzione interna aveva la sua ampia rilevanza, con il frequente utilizzo delle Forze Armate per ragioni di ordine pubblico e in particolare per la lotta al brigantaggio al Sud e per le repressione delle rivolte sociali a carattere rivoluzionario. In questa fase storica le missioni internazionali erano ancora a livello embrionale se paragonate con lo sviluppo successivo, anche se non sono mancati casi importanti di impegni oltremare a partire dalla partecipazione alla Guerra di Crimea del Regno di Sardegna – concepita proprio allo scopo di mettere lo Stato italico sul piano delle principali potenze dell’epoca e costruire la propria politica di potenza che avrebbe reso possibile l’unità d’Italia – fino alla partecipazione all’intervento in Cina in occasione della rivolta dei boxer e alle missioni della Società delle Nazioni negli anni venti e trenta. Importante era anche la funzione industriale della Difesa, visto che all’epoca buona parte degli armamenti necessari per il mantenimento di un ruolo di grande potenza doveva essere prodotta internamente. In contrasto con la

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situazione attuale, spicca la bassa funzione occupazionale, dovuta al fatto che gli eserciti di leva di massa rendevano secondario il ruolo di questo fattore. Dopo la sconfitta militare nella seconda guerra mondiale, il necessario declassamento del nostro paese dallo status di grande a quello di media potenza, e il consolidarsi del sistema delle Nazioni Unite e di altri organismi regionali che limitano sia l’uso della forza che la sovranità del paese, si verifica una sostanziale modifica nelle principali funzioni della Difesa italiana. Resta ovviamente alta la funzione della Difesa del territorio in quanto la polarizzazione del mondo in due blocchi comportava l’esatta identificazione del tipo di minaccia, letale e incombente, verso il territorio italiano; al tempo stesso diminuiva la funzione di politica di potenza, anche in virtù dell’affermarsi della deterrenza nucleare come principale fattore di potenza con la conseguente marginalizzazione degli Stati che ne erano privi. Si rafforza al contempo la funzione internazionale, con la partecipazione con intensità sempre crescente a missioni militari come quella in Congo, quella in Libano, il salvataggio dei profughi vietnamiti in fuga dal Sud dopo la vittoria del Nord comunista (Boat people), e la protezione del traffico marittimo nel Golfo Persico. La fine della guerra fredda ha comportato la conflagrazione mondiale di numerose nuove instabilità e il conseguente accrescersi d’interventi multilaterali

necessari per tentare di riportare ordine, ma soprattutto sicurezza, nel “disordine mondiale”. In un tale sistema, scemano e si appannano le tradizionali distinzioni fra piccole e medie potenze (ma non fra grandi e superpotenze), mentre si evidenzia la riduzione del leverage primario del contesto euro-atlantico sugli affari mondiali. Gli anni novanta, almeno fino alla rottura dell’undici settembre si sviluppano attorno a paradigmi ideologici e culturali che prescrivono una perdita di importanza della distinzione fra ambito interno e esterno degli Stati, e un processo di de-statualizzazione in favore di una integrazione globale dei sistemi produttivi e sociali. Ciò ha conseguenze anche sull’identificazione dei rischi e delle minacce alla sicurezza, che conseguentemente tendono a venire “trans-nazionalizzati” nella loro natura. Per quanto riguarda le funzioni Difesa identificate, il periodo post-89 è caratterizzato da una diminuzione importante e significativa della funzione di protezione territoriale delle Forze Armate. L’Italia si trova oramai ad appartenere alla più potente alleanza militare sopravvissuta alla guerra fredda e lo stesso estero vicino diviene un’area d’espansione politico – militare euro-atlantica, con una trasformazione degli antichi avversari in prossimi alleati. Anche la guerra in Jugoslavia, che ha luogo alle porte di casa, non travalica i confini di una pur sanguinosa guerra civile non generando rischi elevati per la sicu-


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rezza nazionale. Aumentano tuttavia molte altre funzioni della Difesa, che nel rigido contesto geopolitico precedente avevano minori possibilità di espressione. Aumenta il grado di mobilità nel sistema gerarchico di potere internazionale e conseguentemente di competizione internazionale, rendendo politicamente meno costosa la riproposizione di politiche di potenza. Allo stesso tempo si apre la grande stagione del multilateralismo e dell’espansione delle Organizzazioni Internazionali, anche come presunta alternativa alla sovranità statuale per raggiungere delicati e complessi equilibri di governance globale. La scomparsa dell’Urss e l’affievolirsi della deterrenza nucleare rendono possibili frequenti iniziative militari multilaterali di tutela dell’ordine internazionale in Europa, Africa e Asia. Tra i principali organismi politici mondiali, pur diversi tra loro ma operanti nel campo della sicurezza internazionale, si avvia una complessa partita di competizione/divisione del lavoro, in particolare tra Nato, Ue e Un. L’Italia, forte della sua scelta multilateralista, tenta di mantenere un attivo impegno militare in missioni internazionali con tutte e tre le dimensioni multilaterali, (atlantica, regionale europea, mondiale) che in alcuni casi cooperano, in altri si sovrappongono in altri ancora si ostacolano. La prevalenza della funzione internazionale della Difesa in questi anni produce un livello di impegno militare fuori area mai

conosciuto in passato, e che probabilmente rappresenta anche un picco che difficilmente sarà replicato in futuro. Anche la funzione interna delle Ffaa conosce un espansione del suo impiego a causa dell’indebolimento del sistema politico-istituzionale nazionale, all’elevarsi della sfida posta dalla criminalità organizzata nonché all’emersione di problematiche trans-nazionali, quali l’immigrazione clandestina e il terrorismo. Il trend caratterizzante del dopo ’89 è dunque quello di una diminuzione delle minacce vitali, dirette e incombenti al territorio nazionale e il contemporaneo accrescere di numerose altre esigenze tipologicamente diversificate e soprattutto destrutturate tra loro, ossia non riconducibili a un’unica strategia politica o militare di un avversario. Negli stessi anni si affermano anche i primi principi dell’interventismo umanitario, dalla no fly-zone sull’Iraq settentrionale fino all’intervento contro la Jugoslavia del 1998. Al classico peacekeeping stile Nazioni Unite si affiancano nuove e più complesse missioni di human security che tutt’ora rappresentano una delle principali motivazioni per l’uso della forza da parte dell’Occidente, come dimostrato anche dal caso della Libia. Dopo il 2001, al peacekeeping di nuova generazione e all’interventismo umanitario si aggiunge la guerra globale al terrorismo voluta dagli americani e che coinvolge non solo i tradizionali alleati atlantici, ma un più esteso gruppo di paesi.

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Nella piramide della conflittualità che parte dal gradino più basCon oltre venti guerre in corso di so delle dispute che non trovano significativa portata, almeno al- una soluzione politica fino alle trettante guerre a intensità mi- guerre aperte (nella terminologia nore, svariate decine di conflitti dell’Hiik disputes, non violent criviolenti e centinaia di conflitti ses, violent crises, limited wars, latenti più o meno violenti, il wars) è evidente che il mondo di2011 può sicuramente essere de- spone di un serbatoio pressoché finito un anno ad alta conflittua- inesauribile di conflitti potenzialità che lascia intravedere come li dalla natura più diversa (ideola guerra e il suo opposto – ovve- logica, religiosa, territoriale, ro le capacità di costruire la sicu- identitaria, per le risorse, di porezza e di gestire i conflitti vio- tenza, ecc.), che è influenzato ma lenti – resteranno ancora a lungo non determinato dalla struttura una variante determinante del si- del sistema internazionale e dal stema internaziobalance of power nale14. La guerra Secondo l’Heidelberg globale. In altre oggi continua a parole, un’analisi mietere il suo tri- Institute il 2011 è stato attenta della conbuto di vittime e un anno record flittualità dell’ultidistruzioni, nonomo ventennio non stante la fine della per il numero potrebbe non eviguerra fredda, la di guerre in corso denziare come alla caduta del comuriduzione delle nismo, l’avvento delle guerre conflittualità e delle divergenze umanitarie, numerosi tentativi sistemiche non sembra corrispond’esportazione della democrazia, dere un uguale riduzione a livelun decennio di guerra al terrori- lo infrastatuale o intrastatuale, smo e la cablatura del mondo in né una riduzione nella radicalizun sistema globale di valori poli- zazione di vecchi conflitti né un tico-economici da cui nemmeno calo nella apertura di nuove forla Corea del Nord può restare me di conflittualità. immune. Sono guerre spesso non Anzi, l’ideologia democratica combattute tra Stati sovrani ma delle guerre umanitarie e del diriguardano conflitti interni, che ritto d’ingerenza umanitario che a volte coinvolgono più Paesi. si è sviluppata nell’ultimo venSecondo il prestigioso istituto te- tennio – con il decisivo supporto desco Heidelberg institute for dei media occidentali – ha contriinternational conflict research, il buito a far diventare guerre inter2011 è stato un anno record per nazionali quelle che in passato il numero di guerre in corso, su- erano conflittualità interne di perando i valori toccati negli ul- portata minore. In un contesto timi 50 anni, ossia da quando dove l’informazione è sempre più l’Hiik conduce le proprie analisi. accessibile, di portata globale, Gli scenari della conflittualità del 2011. Prospettive per il futuro

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sempre più veloce e sempre meno cekeeping, di interventi più o meverificabile, è aumentato anche il no necessari. Una politica che in ruolo dei moltiplicatori – o dei gran parte sfugge al diritto intersilenziatori – delle conflittualità. nazionale e solo in parte passa atMedia e Ong hanno assunto un traverso il sistema onusiano. ruolo oramai determinante nella Un fenomeno interessante, inolselezione, preparazione e giustifi- tre, appare essere quello della incazione delle guerre contempora- termittenza mediatica dei connee lasciando però nell’ombra de- flitti, ossia della sovraesposizione cine e decine di conflitti. Inoltre, sui media globali che certi coni media e l’azione delle Ong han- flitti hanno nell’imminenza di no chiaramente dimostrato di un intervento militare e della lopossedere non solo l’effetto di ro successiva sparizione al termimobilitazione dell’opinione pub- ne dell’intervento, indipendenteblica internazionale su un deter- mente dal fatto se la conflittualiminato conflitto, ma anche la tà interna che aveva originato l’intervento sia o moltiplicazione stessa della violen- Le guerre sono accese o meno risolta. È il caso di conflitti za nel conflitto: i conflitti “illumina- spente in una partita di come quello afgano, quello irachet i ” d a i m e d i a , potere globale, dove no, ma anche deldall’azione delle Ong e dall’opinio- media e Ong hanno un l a p i ù r e c e n t e guerra libica. La ne pubblica inter- ruolo importante cosiddetta “guerra nazionale tendono spesso a intensificarsi e ad au- dopo la guerra”15, ossia il detementare di potenza anche nel vol- rioramento della situazione intergere di poche settimane e mesi, na dopo la caduta dei regimi e diventando dei magneti per l’at- l’apertura di nuove conflittualità trazione di risorse finanziarie e viene presto dimenticata e oscucapacità militari, alla cui fornitu- rata alla pubblica opinione. La ra competono una vasta gamma conflittualità post-bellica è decidi attori statuali e non statuali. I samente meno mediatizzata della conflitti, dunque, possono venire conflittualità pre-bellica; mentre accesi o spenti, in una complessa la prima serve a giustificare l’inpartita di potere globale in cui tervento armato, la persistenza alcune guerre vengono dimenti- della conflittualità post-bellica cate o abbandonate, magari nono- solitamente mette in dubbio l’efstante le dimensioni rilevanti, e ficacia dell’intervento militare, e altre conflittualità secondarie soprattutto i suoi fini, mettendo vengono invece esasperate e fatte in discussione il punto di vista crescere artificialmente. Esiste umanitario e quello della demodunque una politica della conflit- cratizzazione, due motivazioni tualità, fatta di scelte, di priorità, che spesso sono la giustificazione di graduatorie, di missioni di pea- per gli interventi militari occi-

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dentali, ai quali però, difficilmente segue l’instaurazione di regimi democratici o l’istituzione di regimi di tutela dei diritti dell’uomo efficaci e compatibili con gli standard occidentali. Oggi, una quota importante di guerre – e in particolare i conflitti maggiori e quelli strategici – è il frutto della politica del regime change, ossia dell’intervento militare volto a sostituire leadership politiche antidemocratiche e responsabili di ripetute violazioni dei diritti dell’uomo. Esiste dunque uno spazio ideologico oltre il quale i regimi possono spingersi solo al prezzo di esporsi al rischio di un intervento armato occidentale che oramai prescinde in buona misura dal diritto internazionale e dal divieto di uso della forza che non sia per legittima difesa, come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. L’Occidente è dunque un importante produttore di conflittualità in diverse parti del pianeta e mantiene il più ampio dispiegamento di forze militari impegnate in scenari post conflict. Un altro rilevante scenario di conflittualità è rappresentato dallo spazio post-sovietico. In questa vasta regione euro-asiatica numerosi sono i conflitti ad alta intensità che tuttora interessano gli Stati successori dell’Urss e in particolare la Russia. Molti di questi conflitti sono un’eredità dell’imperialismo totalitario dell’Unione Sovietica e in particolare della politica staliniana delle nazionalità. Di particolare gravità sono i conflitti originati

nell’area del Caucaso dovuti all’incrocio tra il nazionalismo irredentista con i movimenti radicali jihadisti che rivendicano la creazione di un Emirato del Caucaso che comprenderebbe le Repubbliche del Dagestan, della Cecenia, dell’Inguscezia, la Cabardino Balkaria, il Carachay – Cirkassia. Nel 2011 questa cintura islamica del Caucaso russo è stata interessata da violenti atti di ribellione e terrorismo contro la popolazione civile, le forze di sicurezza russe, le istituzioni locali e gli imam moderati filo governativi causando quasi 1.000 vittime. Ma il 2011 ha aperto un altro fronte di conflittualità e di guerre civili nell’area Mediterranea, all’interno del grande sommovimento provocato dalla cosiddetta Primavera Araba. Se la caduta dei regimi autoritari arabi ha gettato le basi per una democratizzazione nel lungo periodo della sponda Sud del Mediterraneo, vero è che la rimozione delle leadership autocratiche ha creato un enorme vuoto di potere che ha aperto le porte per numerosi nuovi conflitti interni che possono coinvolgere gli Stati della regione. Nel 2011 lo Yemen è sprofondato in una complessa e sanguinosa guerra civile che ha prodotto migliaia di vittime e in cui si sono intrecciati almeno tre conflitti, tra forze governative e opposizione politica, tra governo e formazioni qaediste, tra forze sunnite e sciite. La Libia, dopo la guerra contro il regime di Gheddafi e le forze che lo sostenevano, è in piena anarchia con una pre-


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caria situazione di sicurezza e costantemente sull’orlo di una guerra civile mentre il rischio concreto che di frantumi in mini entità è elevato. La Siria è tuttora travagliata da un conflitto interno di difficile soluzione esploso nel 2011, che ha prodotto almeno 5.000 morti, e che vede il governo di Damasco confrontarsi con l’opposizione del Consiglio di Sicurezza Nazionale (Snc) e il suo braccio armato, l’Esercito Libero Siriano (Fsa) Infine, dal punto di vista delle guerre in corso e delle potenziali nuove conflittualità, particolare attenzione va riservata alla regione dell’Africa Sub Sahariana che si dimostra essere il continente caratterizzato da maggiori trend di dinamicità e potrebbe diventare la nuova scacchiera del confronto internazionale tra le vecchie potenze e le nuove potenze emergenti, unendo endemiche cause di instabilità regionali ai cambiamenti prodotti dalla redistribuzione del potere mondiale. Molte delle guerre e dei conflitti di questa regione, in cui avvengono quasi la metà delle guerre, sono ancora di eredità coloniale, aggravate però dai regimi dispotici post-coloniali e dal loro intreccio con la conflittualità delocalizzata della guerra fredda. Il 2011 ha visto avverarsi per l’Africa un fatto storico, ossia l’indipendenza del Sud Sudan da Khartoum dopo decenni di conflitto per la secessione. È la prima volta che i confini ereditati dalla decolonizzazione vengono rimessi in discussione nel continente africano, un conti-

nente la cui cultura politica aveva da decenni estromesso dalle opzioni possibili il riconoscimento e la legittimazione dei movimenti armati di secessione. Per tale motivo ancora a oggi sono pochissimi i paesi africani che hanno riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente, in quanto in Africa si possono contare centinaia e centinaia di situazioni similari da un punto di vista politico strategico e il loro incoraggiamento metterebbe a dura prova l’integrità territoriale di un ampissimo numero di Stati. Con l’indipendenza del Sud Sudan è finita una guerra di secessione che andava avanti dal 1995, ma la debolezza istituzionale del nuovo Stato, la povertà di mezzi e il conflitto per le risorse con Karthoum potrebbero presto produrre nuove conflittualità, come in parte già avvenuto con le tensioni inter-etniche nel Sud Sudan e l’esplosione in territorio Sudanese di un violento conflitto tra il SPLM/A-Nord e il governo di Kartoum nelle regioni del Kordofan meridionale e del Blue Nile. La situazione in Nigeria si è ulteriormente deteriorata al punto che la conflittualità violenta rischia di divenire una generalizzata guerra civile che vede violenti scontri tra le popolazioni Mussulmane del Nord e quelle Cristiane originarie del Sud che vivono al Nord (800 morti e 60.000 rifugiati nel 2011). A questa conflittualità si aggiunge l’intensificarsi dell’attività terrorista del movimento pro Sharia Boko Haram i cui attentati hanno causato circa 600 morti e prodotto decine di

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migliaia di profughi fuggiti dalle violenze degli attentati. Anche la Somalia, paese che da vent’anni è privo di governo ed è precipitato in una sanguinosa guerra civile, ha visto nel 2011 un’escalation della conflittualità con la cacciata degli Shabaab dalla capitale Mogadiscio e l’avvio delle operazioni militari del Kenia nella regione meridionale del Juba. Uno scenario in rapida evoluzione ma che fa temere il ripetersi di un’escalation del conflitto come quella avvenuta in seguito all’invasione etiope del 2006. Se in Europa progressivamente vanno riducendosi le guerre – ma non necessariamente le conflittualità – e l’unico caso di conflitto attivo è quello tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabak, alle porte d’Europa guerre e conflittualità sono in aumento costante e pericoloso. Lo spazio ex sovietico, quello della primavera araba, e quello dell’Africa Sub Sahariana (tre macro regioni di particolare interesse per l’Italia) vedono la permanenza di numerose conflittualità latenti, e il radicalizzarsi di antichi conflitti sotto nuove forme della guerra contemporanea. Il 2012, dopo le elezioni in Serbia, potrebbe portare delle novità positive per quanto riguarda l’annosa questione del Kosovo, su cui recentemente il governo di Belgrado e quello di Pristina hanno fatto importanti passi avanti al tavolo tecnico mediato dall’Unione Europea. Eventuali progressi in tal senso potrebbero avere conseguenze positive anche sulla com-

plessa questione bosniaca, rimettendo il paese in marcia verso l’integrazione europea. Al di fuori dello spazio politico europeo, il mondo degli Stati è ancora un mondo di conflitti e di guerre. Guerre che, forse a differenza del passato, non sono più un monopolio quasi esclusivo degli Stati sovrani ma sono alla portata delle cosiddette società civili, che sempre più spesso prendono le armi – per cause endogene o eterodirette – le une contro le altre o contro i rispettivi governi. Anche per questo il numero dei conflitti interni supera di gran lunga quello dei conflitti tra Stati, con ben 301 conflitti infrastatuali e meno di un terzo di conflitti interstatuali. Il costante mutamento delle forme della conflittualità e il “nascondersi” delle guerre all’interno degli Stati deboli, falliti o autoritari, non devono farci dimenticare che conflitti e guerre sono ancora parte importante della grammatica delle relazioni internazionali. L’Europa, più o meno pacificata lungo i suoi confini massimi, deve sempre più dedicarsi allo sviluppo di capacità di risoluzione dei conflitti interni agli Stati, specialmente nelle aree calde del mondo che fanno parte del suo estero vicino, ossia Nord Africa, Africa Sub Sahariana, Medio Oriente, Europa Orientale e Caucasica. La trasformazione dell’industria italiana per la Difesa, i campioni nazionali e il contesto d’integrazione europeo

L’industria italiana per la Difesa


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rappresenta una parte importante e significativa del settore industriale nazionale. Il fatturato del comparto è di circa l’1% del Pil italiano con 52.000 addetti e un indotto di circa 200.000 persone16. Il fatturato complessivo del settore nel 2010 è stato di 13 miliardi di euro (+3,7%) – grosso modo pari alla stessa spesa dello Stato per la funzione Difesa – e per oltre metà è stato prodotto dall’esportazione. L’export delle industrie italiane per la Difesa è difatti pari al 2% del totale dell’export nazionale. Un dato che rende il saldo della bilancia dei pagamenti del settore superiore ai 4 miliardi di euro, contribuendo al finanziamento del nostro deficit commerciale. Importante è la quota dei ricavi del settore che viene re-investita in progetti di Ricerca Sviluppo. È un industria il cui “mercato” ha caratteristiche particolari, diverse per dinamiche, attori e specificità dai mercati dei beni di consumo. È un mercato che vive di commesse pubbliche e di costosi programmi di ricerca e sviluppo pluriennali, anch’essi finanziati dai governi spesso attraverso complesse collaborazioni industriali internazionali, e dove dominante e determinante resta il ruolo dello Stato. Per dimensioni il settore industriale italiano della difesa occupa il settimo posto nel mondo e il quarto posto in Europa. Negli scorsi anni l’Italia è riuscita a entrare nei maggiori programmi cooperativi internazionali, quali il Tornado, l’Efa, il Jsf, l’NH90, le Fregate multimissione Fremm, i sistemi missilistici Pa-

ams/Fsaf e Meteor, il sistema satellitare di posizionamento globale Galileo, ricoprendo ruoli di primo piano che hanno consentito la creazione di un’importante eccellenza nazionale in diversi settori dell’industria della Difesa. Ciò è stato reso possibile grazie alla presenza d’importanti investimenti da parte dello Stato italiano che difficilmente saranno raggiunti in futuro. L’industria italiana del settore Aereospazio e Difesa è basata su una filiera composta da tre livelli. Il primo livello è composto dai grandi soggetti, i “campioni nazionali” che rappresentano punte d’eccellenza mondiale dell’industria della Difesa che producono sistemi d’arma complessi e integrazione di sistemi. I quattro grandi sono Finmeccanica (attiva nei settori dell’aeronautica, dell’elicotterestica, dei sistemi di difesa e nell’elettronica per la sicurezza), Fincantieri (primo partner della Marina Militare italiana e leader mondiale nella progettazione e costruzione di navi mercantili, passeggeri e militari), Avio (leader mondiale nel settore della propulsione aerospaziale) e Iveco Defence Vehicles (dedicata alla progettazione e produzione di veicoli multiruolo, autocarri tattici e veicoli blindati ruotati)17. Sotto il livello dei grandi 4 players ricordati, vi è un secondo livello costituito da un piccolo gruppo di società di medie dimensioni, spesso partecipate dalle majors, e specializzate nella produzione di singoli apparati o sottosistemi. Il terzo livello è invece

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costituito da piccole e medie im- tica ha costruito una lunga espeprese che lavorano in subappalto rienza e capacità grazie ai proper altre aziende producendo grammi di cooperazione europea componentistica e servizi per le come Eurofighter, Tornado, ATR e ha raggiunto particolari livelli industrie dei primi due livelli. Il comparto aeronautico e del- d’eccellenza nel veivoli multiruol’elettronica della difesa è domi- lo, negli addestratori avanzati e nato dal principale gruppo italia- nei veivoli per la sorveglianza no del settore, ossia la holding marittima, e il trasporto tattico. Finmeccanica. Il gruppo ha al L’azienda continua a disporre di suo attivo un portafoglio di pro- capacità autonome tecnologiche dotti ad alta tecnologia nel cam- e produttive di primario livello po aeronautico (Alenia Aeronau- che le consentono di sviluppare, tica, Alenia Aermacchi) dell’eli- integrare, realizzare e supportare cotteristica (AgustaWestland), per l’intero ciclo di vita veicoli nei sistemi di difesa (Wass, Oto militari ad ala fissa. Oltre al proseguimento del Melara, Mbda), progetto dell’Eunell’elettronica La Difesa rappresenta rofighter Thyphoper la difesa (Selex on e della comSistemi Integrati, una parte importante mercializzazione Selex Galileo, Se- e significativa del C27J JCA sono lex Communicada segnalare l’avvio tions) e nel settore del settore industriale della produzione aereospazio con le italiano del veivolo da adjoint ventures assieme alla francese Thales. In destramento avanzato M-346 particolare l’Italia vanta capacità Master, un segmento in cui l’Itadi punta sia nel segmento del- lia possiede la leadership a livello l’ala rotante che in quello dell’ala mondiale, e la partecipazione delfissa. AgustaWestland rappresen- l’azienda al programma F35 – Jsf ta uno tra i principali quattro con la realizzazione di infrastrutproduttori mondiali del settore ture, attrezzature e assistenza teced è ormai divenuta un player nica (Faco) per la produzione delglobale grazie alle acquisizione le ali e l’assemblaggio dei veivoli di stabilimenti produttivi negli destinati all’Italia e all’Olanda. Usa, in Polonia e alle joint-ven- Infine Avio sia nell’ala fissa che tures in Russia, Turchia e India. nell’ala rotante rappresenta un In quest’ultimo paese è stata co- partner stabile e consolidato dei stituita una joint venture con il principali consorzi internazionali gruppo Tata Sons per l’assem- sia per la progettazione e produblaggio finale del AW139. Il zione di sistemi propulsivi per segmento dell’ala fissa si basa caccia di superiorità aerea, di atprevalentemente sulle competen- tacco al suolo, aerei da trasporto ze di Alenia Aeronautica e delle che per l’elicotteristica. sue controllate. Alenia Aeronau- L’industria della cantieristica mi-


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litare italiana vanta sicuramente molto più complesse che per altri un’eccellenza mondiale, che però settori del settore. Per quanto ri– come tutta la cantieristica eu- guarda Fincantieri, l’internazioropea – è messa in crisi dal crollo nalizzazione del settore vede, oldella domanda. Nel corso del tre alle collaborazioni europee, 2010 gli ordini mondiali di na- l’importante scelta strategica viglio militare si sono attestati a della presenza diretta nel mercapoco più di 4 miliardi di euro, to Usa con l’acquisizione del cancon una flessione del 55% rispet- tiere Marinette Marine nel Winto al 200918. L’era delle grandi sconsin e la costituzione negli commesse europee appare essere Emirati Arabi Uniti della joint oramai alle spalle. Attualmente venture Etihad Ship Building. lo sviluppo industriale del setto- Queste strategie di internazionare militare prosegue con due im- lizzazione hanno consentito, anportanti commesse, relative a che in un periodo di crisi per il programmi bilaterali sviluppati settore, l’aggiudicazione di una commessa per con Francia e Gerconto della Marimania, che coin- L’industria italiana na Militare degli volgono FincantieEmirati Arabi ri. Il primo riguar- per la Difesa vanta Uniti per la coda la costruzione numerose punte struzione di due di quattro fregate pattugliatori comultiruolo Fremm di eccellenza a livello stieri stealth e di mentre il secondo europeo e mondiale 4 unità Lcs per il è relativo alla costruzione di sottomarini di nuo- governo Usa. va generazione dotati di un siste- Il settore dei mezzi terrestri ma di propulsione su celle a dell’industria per la Difesa è un combustibile che utilizzano idro- settore di crescente interesse, geno. Lo sviluppo di questo im- sempre più rilevante in funzione portante ramo dell’industria per dell’alto numero di militari imla Difesa è sempre più legato pegnati in missioni internazionaall’esportazione, anche se ciò im- li. Missioni che, sia nella loro naplica delicate e complesse scelte tura combat che in quella di peadi politica industriale in quanto cekeeping, hanno dimostrato puril procurement internazionale troppo un alto tributo di caduti. della cantieristica è caratterizzato Le esigenze della force protection dal trend crescente di richiesta nei teatri d’operazione, in contedell’apertura di cantieri navali sti spesso asimmetrici e di connei paesi acquirenti affinché le troguerriglia che necessitano navi siano costruite nel loro terri- sempre più mezzi che uniscano le torio con l’utilizzo di propria capacità di mobilità, letalità e manodopera e materie prime. protezione, rappresentano le Ciò pone delle sfide di politica nuove sfide di questo settore. Un industriale, estera e di difesa settore, che rispetto ad altri, è

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molto segmentato e molti paesi ancora sviluppano l’intera gamma di prodotti. L’Italia, anche grazie alla collaborazione tra Iveco e Oto Melara, produce ancora l’intera filiera completa di veicoli da combattimento, dal carro Ariete, all’Ifv Dardo, all’8x8 Vbm, alle blindo leggere Puma, a quelle pesanti Centauro, al Veicolo Tattico Leggero Multiruolo Lince. Quest’ultimo, in particolare, si è rivelato essere un assetto particolarmente adatto a quelle missioni di peacekeeping in cui si rivela cruciale l’abbinamento di doti di elevata mobilità con quelle di alta protezione, e difatti ha avuto un ottimo successo commerciale in Europa (3.000 veicoli venduti a 10 eserciti europei). L’industria italiana per la Difesa vanta dunque numerose punte di eccellenza a livello mondiale e negli scorsi anni ha intrapreso un significativo processo di internazionalizzazione, con importanti acquisizione negli Stati Uniti e in Europa. Tuttavia la vitalità dell’industria e la sua capacità di contribuire alla ricchezza nazionale è minacciata dalla crisi economica e dal rallentamento della crescita europea, che preme sui bilanci pubblici e produce una drastica riduzione dei budget per la Difesa nei principali paesi occidentali. In particolare, è il mercato europeo che si va particolarmente restringendo, mentre la concorrenza tra le stesse aziende dei vari paesi d’Europa diviene sempre più aggressiva, anticipando forse una stagione di ulteriore impoverimento e semplifi-

cazione nel panorama industriale europeo del settore. Ciò è una conseguenza dei processi di divisione internazionale del lavoro e delle, pur attenuate rispetto ad altri campi, tendenze di liberalizzazione e globalizzazione del settore. Per molti paesi il binomio Difesa dello Stato – Industria nazionale per la Difesa inizia sempre più a conoscere un processo di dissociamento. Da un lato le Ffaa occidentali, caratterizzate da bilanci decrescenti e da una crescente integrazione operativa internazionale, richiedono sempre più prodotti tecnologicamente avanzati al miglior prezzo possibile; un obiettivo raggiungibile solo attraverso la realizzazione di significative economie di scala, possibili con la specializzazione, la divisione internazionale del lavoro e il sacrificio di buone fette di ridondanti industrie nazionali. Per certi versi il futuro del procurement appare spingersi sempre più verso la ricerca dell’acquisto di prodotti “puri” secondo logiche più di mercato che di strategie industriali, tenendo sempre meno in conto necessità di carattere industriale o volte a conservare una ownership nazionale dei processi strategici della filiera produttiva. In tale direzione vanno ad esempio sia le spinte della Commissione europea per mettere al bando la pratica degli offsets nelle importazioni intraeuropee di prodotti per la Difesa, sia l’approccio best value imposto dal governo americano ai partner industriali internazionali. L’Ita-


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lia, così come molti altri paesi avanzati, sta progressivamente correndo il rischio di perdere le capacità industriali di filiera a causa dei processi di divisione internazionale del lavoro che spinge molti paesi a concentrarsi solo sul system engineering e al ruolo di design authority. Ciò porta alla necessaria perdita delle capacità produttive di molte componenti vitali, con la conseguenza che i nostri sistemi d’arma utilizzano componenti che sono delle vere e proprie “scatole nere” comprate all’estero, che vengono assemblate ma di cui mancano le capacità di padroneggiamento, di adattamento e di aggiornamento. Ovviamente, ciò non è la conseguenza della “perfidia” dei meccanismi di mercato, quanto piuttosto di una mancanza di politica industriale e strategica del settore che ha fatto mancare negli scorsi anni gli investimenti adeguati nel settore della ricerca e sviluppo. In tale contesto, molti identificano nella possibile integrazione europea della industria della Difesa una possibilità di bilanciare le esigenze industriali nazionali con le logiche di un mercato che diviene sempre più globale e specializzato. Ciò è sicuramente vero, e come l’Italia deve mantenere alta la spinta alla creazione di una politica estera e di sicurezza europea, coerentemente deve operarsi per la creazione di una vera Europa della Difesa. Tuttavia la realtà che abbiamo davanti agli occhi è tutt’altra. Dopo quasi un decennio di tentativi di in-

tegrazione, non possiamo non costatare che il processo di costituzione di una industria per la Difesa integrata su scala europea è sostanzialmente fallito. Nel 2010 il 78% del procurement per la Difesa fatto dai paesi europei è stato realizzato all’interno dei confini nazionali. È da notare che l’Italia figura essere – assieme alla Spagna – uno dei paesi più europeisti nell’acquisto di prodotti per la Difesa, con una quota di European Collaborative Defence Procurement pari al 45%; a fronte dell’appena 13% della Germania, del 22% della Francia, del 29% della Gran Bretagna. Il protezionismo è dunque una concreta realtà e nonostante gli sforzi l’industria europea della Difesa rimane profondamente frammentata lungo linee nazionali, ciascuna con il proprio procurement, le proprie industrie strategiche da sostenere e tutelare, la propria supply chain. Ogni paese dirige le proprie strategie industriali e di procurement in modo da assicurare che la maggior quota possibile degli investimenti nazionali finisca al proprio settore manifatturiero. Ciò non solo allo scopo di proteggere l’industria nazionale dalla competizione esterna, ma anche di mantenere la massima parte possibile di know how strategico come patrimonio nazionale. Queste logiche hanno resistito anche ai numerosi tentativi di apertura e liberalizzazione del mercato tentati dalla Commissione europea, che con scarso successo ha cercato di espandere i principi di concor-

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renza e non discriminazione su base nazionale anche al settore della Difesa; settore protetto grazie all’applicazione estensiva dell’articolo 346 del Trattato di Lisbona19. L’entrata in vigore della Direttiva europea sul procurement (Eu Defence and Security Procurement Directive 2009/81/EC) adottata dalla Commissione nel 2009 e recepita dagli Stati membri avrebbe dovuto ridurre gli abusi della clausola d’eccezione dell’articolo 346 e aprire la competizione transfrontaliera alle industrie per la Difesa europee20. Particolarmente sanzionati dovrebbero essere gli offsets – in particolare i non military indirect offsets – previsti nelle importazioni tra paesi europei. Ma verosimilmente gli sforzi della Commissione non riusciranno a modificare la situazione di fatto, ma i tentativi di liberalizzazione del mercato della Difesa potrebbero addirittura produrre un’ulteriore frammentazione del settore in blocchi industriali contrapposti. Alcuni paesi, difatti, potrebbero essere tentati dal prediligere la via degli accordi industriali con paesi terzi che – non essendo riguardati dalla direttiva Ue – potrebbero includere gli offsets nei contratti di esportazione verso l’Europa. Ciò potrebbe portare alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, a rafforzare la cooperazione industriale per la Difesa con gli Stati Uniti d’America. Una seconda tendenza, potrebbe portare al rafforzamento della collaborazione industriale bilaterale, (o di clusters di

paesi costruiti attorno a un’asse principale), poiché la Direttiva 2009/81 contiene l’importante clausola d’eccezione che prevede la non applicabilità della Direttiva stessa ai programmi cooperativi europei sviluppati tra almeno due Stati membri che contengano una fase di R&S; ciò porterebbe alla creazione di poli industriali europei contrapposti. Certo, l’osservazione fatta da molti analisti ed economisti circa l’opportunità non solo di integrare l’industria europea della Difesa ma di passare a una Difesa unica europea (un continente i cui paesi membri spendono circa 180 miliardi di euro l’anno per il settore Difesa e hanno un milione e settecentomila uomini sotto le armi) specialmente al fine di razionalizzare ed efficientare la spesa per la Difesa è sempre valida da un punto di vista teorico, specialmente nel corso di una grave crisi economica che ha messo in ginocchio l’Europa. Ma, ancora una volta, la realtà politica e sociale dell’Europa è un'altra ed è diversa da quella desiderata dai sostenitori dell’integrazionismo europeo. Il caso dell’accordo franco–britannico23 del novembre 2010 per una nuova partnership militare strategica a tutto campo – che spazia dalle attività operative a quelle addestrative, alle capacità nucleari, alla logistica, ai programmi di armamento – rischia di rappresentare probabilmente la pietra tombale sulla possibilità di costruire un’industria della Difesa europea.


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Gli sforzi della Commissione e alcune costrizioni del mercato europeo porteranno probabilmente a marginali miglioramenti verso una maggiore integrazione del mercato europeo della Difesa, che tuttavia non diverrà nulla di simile a un mercato né liberalizzato né integrato, né nel breve né nel medio periodo. Anche gli obiettivi dell’Eda di portare la quota di procurement collaborativo intra-europeo dal 22 al 35% non sembra apparire un grande traguardo strategico che possa portare a una forte integrazione nelle politiche di sicurezza europee. A ogni modo, è fondamentale non commettere nel campo dell’integrazione delle Difese europee lo stesso errore che si è compiuto facendo procedere l’integrazione finanziaria a quella economica e favorire quest’ultima a quella politica. Così come si è probabilmente commesso un errore strategico nel far precedere l’allargamento ai paesi dell’Europa dell’Est alla loro effettiva integrazione. Non è realistico costruire un’integrazione nella Difesa solamente su considerazioni di carattere economico o industriale. Costruire una politica di Difesa comune senza aver costruito una politica estera condivisa è semplicemente un processo irrealizzabile nelle società europee di oggi. E la stessa politica estera europea non potrà mai nascere e decollare se non ci sarà prima un’integrazione politica interna. A meno che non si immagini un’Europa anti-democratica e pilotata dall’alto nel di-

sprezzo della sovranità popolare, non ci sono chances realistiche di costruire una politica di sicurezza comune che non sia un semplice coordinamento delle politiche nazionali esistenti. E, soprattutto, i tempi di crisi sembrano i meno indicati per procedere in tale direzione, in quanto l’aumento della competizione economica e il disagio sociale dovuto ai processi di de-industrializzazione portano a una maggiore risovranizzazione delle economie e dei processi produttivi. È una tendenza chiaramente in atto in tutta Europa ma anche su scala mondiale da almeno un quinquennio. È forse giunto il momento, in una fase di transizione importante per il sistema paese, che l’industria della Difesa italiana e lo Stato italiano ricostruiscano una strategia condivisa che consenta di evitare le scelte di campo totali, (del tipo Europa vs Usa o protezionismo vs liberismo etc.) elaborando un mix strategico per il medio termine, nell’attesa che migliori indicazioni strategiche potranno essere dedotte dalla ri-configurazione del sistema internazionale attorno a nuovi poli di potenza regionali. Tenendo sempre ben presente che il driver principale di ogni strategia va cercato più nelle ambizioni che nelle costrizioni o nelle minacce vere o presunte. La redistribuzione del potere economico avvenuta nello scorso decennio inizia progressivamente a produrre una redistribuzione del potere politico su scala mondiale e un costante incremento della

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spesa militare globale rispetto global war on terror (2001 – agli anni novanta, che ormai ha 2011). Sicuramente sarà necessasuperato il valore che aveva rag- ria una maggiore attenzione alla giunto nell’ultima fase della possibilità di ritorno verso un sistema di conflittualità di tipo guerra fredda. Assistiamo difatti a un processo tradizionale o quantomeno midi emersione di potenze regionali sto, visto che il prossimo decenche ambiscono a costruire su base nio sarà verosimilmente caratteregionale/continentale una pro- rizzato tanto da un proliferare di pria sfera di influenza, che altro failed states quanto da un ritorno non è se non un ambito di inter- a politiche di sicurezza più asserdizione alle ingerenze locali di tive da parte delle potenze emeraltre potenze, in particolare gli genti o di ritorno. I nuovi scenari strategici che si Stati Uniti. Sia che il mondo evolva verso un delineeranno modificheranno somultipolarismo bilanciato, sia stanzialmente la cornice degli interventi militari che permanga an(di stabilizzazione, cora a lungo il Si assiste negli ultimi di peacekeeping o presente unipolarismo asimmetri- anni a grande attivismo combat) possibili a cui parteciperanno co, il sistema in- da parte di politiche le Forze Armate ternazionale è entrato da qualche regionali nella gestione italiane e la geopolitica della loro anno in una fase delle conflittualità estensione. Con di revisionismo caratterizzata dalla contrazione l’affermarsi di nuovi attori regiodella presenza politico – militare nali crescerà anche l’attrito che statunitense e l’emersione di essi potranno creare a interventi nuovi attori regionali dalle am- militari a guida occidentale in bizioni continentali. Non neces- varie parti del pianeta, a meno sariamente sono le potenze emer- che forze delle aspiranti potenze genti quelle contrarie allo status regionali non siano incluse nelle quo, anzi, le loro intrinseche de- varie coalition of the willing e gli bolezze e la fragilità della loro interventi militari siano costruiti ascesa spesso le pone nel campo con un consenso politico più dei “conservatori” dell’attuale si- condiviso. Ciò potrebbe portare a una revisione dei ruoli ricoperti stema internazionale. Quando l’Europa sarà uscita dal- dai vari paesi all’interno del sila crisi economica e finanziaria, stema politico e di sicurezza ocsi sarà lasciata alle spalle sia il cidentale. decennio dell’illusione dell’ege- Se ancora l’Occidente si trova monismo occidentale e della fine molto in vantaggio nella capacità delle Storia (1989 – 2001), sia di soluzioni militare dei conflitquello della predominanza della ti, vero è che spesso il ritorno poconflittualità asimmetrica e della litico rispetto agli sforzi compiu-


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ti e i rischi corsi è modesto. Nel e un potenziale assestamento, dofrattempo si assiste a un nuovo po il 2014, del numero di uomiattivismo delle organizzazioni ni impiegati attorno alle 4.000 politiche e di sicurezza regionali, unità. Balcani, Mediterraneo sempre più orientate ad avere un Orientale e Africa Sub-Sahariana ruolo di primo piano nella ge- restano i contesti geopolitici in stione delle conflittualità nelle cui è più verosimile che le autoaree di loro competenza. Lo si ve- rità politiche decidano di impede con l’attivismo della Lega gnare nel prossimo futuro le ForAraba nella crisi siriana o del- ze Armate, per missioni di stabil’Unione africana nei conflitti lizzazione, di peacekeeping o di addestramento. In particolare, non dell’Africa Sub Sahariana. In questo contesto, è possibile possiamo dimenticare che la coche vi sia un mutamento di prio- siddetta “primavera araba” ha rità nelle aree di crisi che vedono prodotto numerosi cambi di reoggi coinvolta l’Italia in missioni gime e altri possono aver luogo in un breve arco militari all’estero. di tempo. Tali La ristrettezza del- Per l’Italia il primo transizioni, chiale risorse economiramente auspicache e finanziarie, livello di sicuerzza bili dal punto di innanzitutto, por- dovrebbe restare vista dei diritti terà a privilegiare dell’uomo e della quelle missioni il Mediterraneo governance demoche hanno un di- allargato cratica, rischiano retto riferimento per gli interessi politici, econo- tuttavia di aprire una grave stamici e finanziari del paese, con gione di instabilità in un arco una progressiva riduzione del geopolitico molto prossimo alcontributo generico alla “sicurez- l’Italia che non deve prenderci za internazionale”, specialmente alla sprovvista. in contesti geopolitici estranei al Per l’Italia, il primo livello della nostro paese e afferenti ad ambiti politica estera e di sicurezza dostorico – culturali diversi. Nella vrebbe restare il Mediterraneo algeografia dei nostri interventi largato, che include i Balcani, il militari all’estero vi sarà proba- Mar Nero, Mar Rosso e Golfo di bilmente una riduzione del diva- Aden. Ma questo ambito geoporio che si era creato tra estero vi- litico è di gran lunga troppo vacino ed estero rilevante, con un sto per le nostre capacità e risorritorno d’importanza del primo se. In un ottica realista, al fine di dei due concetti24. Così come vi non condannare al velleitarismo sarà una semplificazione e una ri- e al fallimento la nostra azione duzione delle circa venti missio- internazionale, l’Italia non può ni militari internazionali del- ambire a esercitare una politica l’Italia all’estero, eliminandone regionale in quest’area ma piutalcune e incrementandone altre, tosto dovrebbe identificare alcu-

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ne priorità sub regionali, sulle quali concentrare l’azione politica, diplomatica, economica e di sicurezza. Un primo livello di tali priorità potrebbe essere rappresentato dai Balcani Occidentali, dal Corno d’Africa, dal Libano, dall’Egitto, dalla Libia nonché dalla sicurezza degli spazi marittimi e degli approvvigionamenti. Con la consapevolezza che non abbiamo la forza di esercitare una coerente politica regionale in un’area così vasta e frammentata senza il supporto dell’Unione europea, della Nato, delle Nazioni Unite e in coordinamento con le principali Organizzazioni regionali. Il processo di regionalizzazione del sistema mondo potrebbe nel lungo periodo risultare vantaggioso per l’Italia, che in un sistema caratterizzato da una competizione globale e da sfide globali per la sicurezza, è necessariamente destinata a un ruolo di marginalizzazione. La politica estera e di difesa nazionale dovrà orientarsi nel prossimo futuro su uno scenario che sarà dunque caratterizzato da una multivettorialità delle sfide, con un “ritorno” degli Stati sovrani come attori principali delle relazioni internazionali e da un ritorno della Storia come dialettica competitiva tra sistemi ideologici e valoriali differenti. Ma non è un ritorno al passato, in quanto nel futuro prossimo permarranno le sfide tipiche della post-modernità globale, che in buona parte nascono all’interno di società pre-moderne, in cui ancora oggi vive la

maggioranza della popolazione mondiale; senza dimenticare il processo di territorializzazione degli spazi marittimi e le problematiche aperte dalle necessità di mantenere in sicurezza i cosiddetti commons (mari, cieli, spazio e cyberspazio) ossia quelle intercapedini geopolitiche vitali che nessun paese possiede o controlla stabilmente ma che costituiscono il tessuto connettivo del sistema internazionale. Se, in maniera estremamente sintetica, questo potrebbe essere il contesto strategico di riferimento per il nostro paese, appare evidente che il sistema Difesa dell’Italia – e con esso il sistema industriale per la Difesa italiano – continueranno ad avere una fondamentale rilevanza sia per garantire la sicurezza sia per consentire all’Italia di giocare un ruolo importante nel nostro estero vicino. Un’area la cui stabilizzazione è fondamentale, sia per evitare il proliferare di minacce, sia per contribuire ad aumentare il benessere economico nazionale. Infine, è necessaria una riflessione sugli strumenti con cui il nostro paese dovrà affrontare un mondo così incerto e imprevedibile. Solitamente, parlando dei pilastri della politica estera e di sicurezza italiana – sia in contesti accademici che politico/diplomatici – si fa riferimento alle tre grandi organizzazioni internazionali che costituiscono i nostri riferimenti dell’azione politica, diplomatica e militare dell’Italia, ossia Nato, Ue, Un. È naturalmente un’ovvia considerazione


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ribadire che nessun’azione politica italiana di rilievo ha possibilità di successo al di fuori di questo triplice contesto di riferimento internazionale. Tuttavia, è anche opportuno fare chiarezza sui rapporti che devono esistere tra livello nazionale e livelli multinazionali o sovranazionali. Difatti un multilateralismo efficace si può costruire solo in presenza di un chiaro investimento nazionale sugli assetti internazionali dell’Italia (come la diplomazia, le forze armate, una politica industriale internazionale, la cooperazione allo sviluppo, il soft power culturale etc.) e soprattutto di una semplice ma precisa definizione dell’interesse nazionale e di un approccio geloso e conservatore della sovranità nazionale. Nella presente situazione internazionale dobbiamo evitare di commettere l’errore di poter pensare che possiamo ancora essere consumatori di sicurezza internazionale o di azioni di politica estera altrui, riducendo ulteriormente le risorse nazionali destinate alla politica italiana verso l’estero (politica estera, politica di sicurezza, politica industriale e commerciale internazionale), abbassando ulteriormente il profilo nazionale e aumentando il grado di multilateralismo del paese. Quella del multilateralismo e dell’internazionalismo costruiti a scapito della sovranità nazionale e dell’interesse nazionale è una pessima e dannosa concezione del ruolo dell’Italia nel mondo e non produce nessuno dei ritorni attesi. Essa è frutto di un errore di percezione

che vuole imporre una visione del multilateralismo contrapposto e antagonista agli interessi nazionale. Va in buona parte sostituita con un ritorno a un più sano multilateralismo ed europeismo costruiti a partire da una visione nazionale della politica estera e di sicurezza, che ristabilisca anche il corretto ordine tra mezzi e fini.

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L’Autore paolo quercia Analista indipendente di relazioni internazionali, politica estera e di sicurezza. Ha lavorato come consulente per il ministero del Commercio e per il ministero degli Affari esteri. È ricercatore presso il Centro Militare di Studi Strategici – Centro Alti Studi Difesa di Roma e Direttore del Center for Near Abroad Strategic Studies di Vienna. Collabora con la Fondazione Farefuturo.


Note 1

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Sulle modalità del calcolo della spesa italiana per la Difesa non vi sono uniformità di vedute. Ciò è dovuto non solamente all’approccio ideologico favorevole o contrario all’aumento della spesa per la Difesa ma anche alla particolarità del sistema italiano e alla complessità della lettura dei suoi bilanci. Oltre alle citate componenti interne della spesa per la Difesa che solitamente vengono scorporate dal totale (circa 6 miliardi), vi sono anche le voci di spesa di provenienza di altri ministeri come Mise e Miur a finanziamento di programmi di investimento che andrebbero aggiunte al bilancio (che oscillano da 1 a 2 miliardi). Vi è poi la questione dibattuta e non risolta se il costo delle missioni militari all’estero che figurano nel bilancio del Mef debba o meno essere computato come una spesa della Difesa. Nel 2010 il bilancio era pari a circa 1,5 miliardi. A seconda del metodo utilizzato la stima può cambiare notevolmente. Ciò spiega anche la diversità di dati che si trovano nelle varie pubblicazioni specialistiche come il Military Balance, il Sipri Military expenditure database, o gli studi dell’Eda etc. 2 Vedi Resoconto stenografico dell’Audizione del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola sulle linee di indirizzo per la revisione dello strumento militare, Commissione Difesa congiunte, 15 febbraio 2012. 3 Tuttavia, confrontando l’Italia con i principali paesi europei, si osserva che la nostra eccedenza di personale non è sostanzialmente dovuta ad un eccesso di risorse umane in termini assoluti quanto piuttosto alla progressiva contrazione del budget. L’Inghilterra ha sostanzialmente lo stesso numero di personale militare dell’Italia, ma pesa sul budget della Difesa solo per il 34% per il fatto che il bilancio inglese è il doppio di quello nazionale. Francia e Germania hanno un numero di effettivi superiore al nostro, entrambi sopra i 200.000 uomini, ma riescono a contenere il peso sul budget totale della Difesa attorno al 50%.

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Cfr. David Halberstam, War in a time of peace. Bush, Clinton and the Generals. Simon & Schuster 2002. 5 Dati dedotti dalla pubblicazione La spesa dello Stato dall’Unità d’Italia 1862 – 2009, a cura del ministero dell’Economia. Secondo la serie storica del Sipri l’anno che ha visto il più baso allocamento per il budget della Difesa è stato il 1995. 6 Fonte: ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, Servizio Studi. La spesa dello Stato dall’Unità d’Italia 1862 – 2009. Roma, 2010. 7 The Military Balance 2011, Nato Defence Budgets 2001 – 10, p. 470. 8 The Military Balance 2011, Global Top Ten Defence Budgets 2008 – 2010, p. 469. 9 Ossia della capacità di proiezione di potenza, posizionando uomini e mezzi in un teatro di crisi sostenendone nel tempo lo sforzo. 10 Sono state prese in considerazione solamente le missioni militari propriamente dette, quelle, cioè, che hanno visto un deciso ed esteso spiegamento di vere e proprie unità e assetti militari. Sono dunque stati tralasciati impegni limitati per incarichi di monitoraggio e osservazione neutrale di processi di pace, demarcazioni confinarie etc. 11 Per quanto riguarda le tipologie di missioni analizzate, ci si è limitati a tre gradazioni dell’uso della forza, distinguendo tra missioni di “peacekeeping”, missioni di “stabilizzazione” e missioni “combat”, indicando come “altro” tutte le restanti tipologie di missioni che vanno dalla scorta umanitaria fino all’antipirateria. Con “peacekeeping” si è scelto di descrivere quelle missioni che, sia nelle intenzioni che nelle situazioni concrete, hanno richiesto alle unità schierate null’altro che compiti di interposizione, controllo e monitoraggio di processi di pace e accordi di cessate il fuoco. Sotto il termine “stabilizzazione”, invece, sono state descritte quelle missioni che, indipendentemente dalle finalità peace-oriented originarie, hanno impo-


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sto agli assetti schierati anche situazioni di vero e proprio combattimento, tuttavia sempre subìto, perlomeno dal punto di vista del concetto di “iniziativa strategico-operativa”, quando l’ingaggio attivo di forze avversarie non era previsto nelle regole d’ingaggio iniziali. In questa tipologia sono state fatte rientrare anche quelle missioni in cui le forze in teatro hanno dovuto assumere iniziative tattiche, come pattugliamenti e ricognizioni offensive, sequestri d’armi, ricerca e annientamento di formazioni armate, per mere finalità preventive. Infine, sotto il termine “combat” si è voluto descrivere quegli impegni in cui l’ingaggio attivo delle forze nemiche è stato previsto come opzione ordinaria della missione ed elemento costitutivo del teatro di crisi, includendo pertanto anche le missioni di peaceenforcing). 12 Vedi ad esempio William A. Owens, Living Jointness, JFQ, Winter 1993 – 1994, p. 7 – 14. 13 Una ricerca curata dall’Istituto ISTRID del 2006 valuta in 6 volte maggiore l’aumento delle capacità operative del modello di Difesa italiano dopo la transizione. Cfr. Gen. C.A. Agostino Pedone, Gen. B. Luigi Morrone, Prof. Daniele Cellamare, Interoperabilità tra le Forze Armate in campo nazionale, internazionale, multinazionale, Istrid 2006. 14 I dati relativi alla conflittualità riportati in questo articolo sono tratti dal Barometro della Conflittualità 2011 pubblicato dall’Heidelberg institute for international conflict research. Pur utilizzando un metro troppo elastico di definizione di conflitto e non distinguendo in maniera opportuna tra conflitti interstatuali e conflitti infrastatuali, il Barometro dei Conflitti dell’Università di Heidelberg resta la più attendibile e documentata pubblicazione sul tema delle conflittualità violente e delle guerre. 15 Fabio Mini, La guerra dopo la guerra, Einaudi 2003. 16 Dati Aiad 2010. 17 Per un quadro del settore vedi Valerio

Briani, L’industria della Difesa italiana, Istituto Affari Internazionali – Osservatorio di Politica Internazionale, dicembre 2009 e Pietro Batacchi, L’industria della Difesa italiana e le cooperazioni internazionali, Informazioni della Difesa n. 5 2008. 18 Rapporto Aiad 2011. 19 L’articolo 346 del Treaty on the Functioning of the European Union (ex articolo 296 TEC) prevede che: 1. The provisions of the Treaties shall not preclude the application of the following rules: (a) no Member State shall be obliged to supply information the disclosure of which it considers contrary to the essential interests of its security; (b) any Member State may take such measures as it considers necessary for the protection of the essential interests of its security which are connected with the production of or trade in arms, munitions and war material; such measures shall not adversely affect the conditions of competition in the internal market regarding products which are not intended for specifically military purposes. 2. The Council may, acting unanimously on a proposal from the Commission, make changes to the list, which it drew up on 15 April 1958, of the products to which the provisions of paragraph 1(b) apply. 20 Su questo punto vedi Jay Edwards, The EU Defence and Security Procurement Directive: A step Towards Affordability? Chatam House, Agosto 2011. 21 Vedi Michele Nones, Londra e Parigi voltano le spalle all’Ue, Affari Internazionali, 24/02/2011. 22 Sui concetti di estero vicino e estero rilevante vedi: Paolo Quercia, Ultima chiamata per l’Italia, in La Cina spacca l’Occidente, Limes, Rivista italiana di geopolitica, Settembre 2009.

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gli strumenti di

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Pubblichiamo le conclusioni ufficiali del vertice del 28 giugno tra i capi di Stato dei 27 paesi europei. Molte le decisioni prese durante il Consiglio d’Europa per salvare la moneta unica e la finanza europea dagli attacchi speculativi degli utimi mesi.


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Negli ultimi due anni e mezzo l’Unione europea ha adottato importanti misure di ampio respiro per superare la crisi e migliorare la governance dell’Uem. Tuttavia, l’Europa sta vivendo una nuova recrudescenza delle tensioni. La crisi che assedia il debito sovrano e la debolezza del settore finanziario, unitamente alla scarsa crescita persistente e agli squilibri macroeconomici, stanno rallentando la ripresa economica e creando rischi per la stabilità dell’Uem. Ciò sta avendo conseguenze negative sulla disoccupazione e potrebbe ridurre il potenziale dell’Europa di beneficiare di un graduale miglioramento delle prospettive economiche globali. Siamo pertanto impegnati ad adottare ferme misure per affrontare le tensioni nei mercati finanziari, ripristinare la fiducia e dare nuovo impulso alla crescita. Ribadiamo il nostro impegno a preservare l’Uem e a darle una base più solida per il futuro. La nostra priorità fondamentale rimane una crescita forte, intelligente, sostenibile e inclusiva, basata su finanze pubbliche sane, riforme strutturali e investimenti per incrementare la competitività. Per questo motivo i capi di Stato o di governo hanno convenuto oggi un "patto per la crescita e l’occupazione" comprendente le misure che gli Stati membri e l’Unione europea dovranno adottare al fine di rilanciare la crescita, gli investimenti e l’occupazione e rendere l’Europa più competitiva. Abbiamo inoltre approvato le raccomandazioni specifiche per paese volte a fornire orientamenti per le politiche e i bilanci degli Stati

membri. Abbiamo infine evidenziato il ruolo che dovrebbe svolgere il prossimo quadro finanziario pluriennale per consolidare la crescita e l’occupazione. Il presidente del Consiglio europeo ha presentato la relazione “Verso un’autentica Unione economica e monetaria”. Siamo determinati ad adottare le misure necessarie per garantire un’Europa finanziariamente stabile, competitiva e prospera e accrescere in tal modo il benessere dei cittadini. Crescita, investimenti e occupazione L’Unione europea continuerà a compiere tutto ciò che è necessario per riportare l’Europa sulla via di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Ricordando l’importanza che rivestono risanamento di bilancio, riforme strutturali e investimenti mirati per una crescita sostenibile, i capi di Stato o di governo hanno convenuto un "patto per la crescita e l’occupazione" che offre un quadro coerente per l’adozione di misure a livello nazionale, dell’Ue e della zona euro con il ricorso a tutti gli strumenti, leve e politiche possibili. Hanno invitato il Consiglio a esaminare con rapidità come migliorare la cooperazione tra le istituzioni per assicurare l’attuazione tempestiva delle disposizioni del presente patto che richiedono atti legislativi dell’Ue. Il Consiglio europeo ha in generale approvato le raccomandazioni specifiche per paese che gli Stati membri recepiranno nelle loro prossime decisioni nazionali in materia di bilancio, riforme strutturali e politiche occupazionali, concludendo in


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tal modo il semestre europeo 2012. I capi di Stato o di governo degli Stati membri partecipanti hanno concordato una soluzione per l’ultima questione in sospeso del pacchetto brevetti, vale a dire la sede della divisione centrale del tribunale di primo grado del tribunale unificato dei brevetti (Tub). Tale sede, congiuntamente all’ufficio del presidente del Tribunale di primo grado, sarà ubicata a Parigi. Il primo presidente del Tribunale di primo grado dovrebbe provenire dallo Stato membro che ospita la divisione centrale. Data la natura altamente specializzata della risoluzione delle controversie in materia di brevetti nonché l’esigenza di mantenere standard di elevata qualità, verranno creati gruppi tematici in due sezioni della divisione centrale, una a Londra (sostanze chimiche, compresi i prodotti farmaceutici, classificazione C, necessità umane, classificazione A) e l’altra a Monaco (ingegneria meccanica, classificazione F). Per quanto riguarda le azioni da proporre dinanzi alla divisione centrale, si è convenuto che le parti avranno la facoltà di proporre un’azione per violazione dinanzi alla divisione centrale se il convenuto è domiciliato fuori dall’Unione europea. Inoltre, se presso la divisione centrale è gia pendente un’azione revocatoria, il titolare del brevetto dovrebbe avere la possibilità di proporre un’azione per violazione dinanzi alla divisione centrale. Se il convenuto è domiciliato nell’Unione europea, non avrà alcuna possibilità di chiedere il trasferimento di un’azione per violazione da una divisione locale alla divisione centrale.

Proponiamo che vengano soppressi gli articoli 6, 7 e 8 del regolamento relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria, che dovrà essere adottato dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Relazione sull’Uem La relazione “Verso un’autentica Unione economica e monetaria” presentata dal presidente del Consiglio europeo, in cooperazione con i presidenti della Commissione, dell’Eurogruppo e della Bce, illustra i “quattro elementi costitutivi essenziali” della futura Uem: un quadro finanziario integrato, un quadro di bilancio integrato, un quadro integrato di politica economica e il rafforzamento della legittimità democratica e della responsabilità. A seguito di aperte discussioni, durante le quali sono state espresse diverse opinioni, il presidente del Consiglio europeo è stato invitato a elaborare, in stretta collaborazione con il presidente della Commissione, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Bce, una tabella di marcia specifica e circoscritta nel tempo per la realizzazione di un’autentica Unione economica e monetaria, che comprenda proposte concrete volte a preservare l’unità e l’integrità del mercato unico dei servizi finanziari e che tenga conto della dichiarazione sulla zona euro e, tra l’altro, dell’intenzione della Commissione di presentare proposte a norma dell’articolo 127. Essi esamineranno ciò che può essere fatto nell’ambito dei trattati vigenti e

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quali misure richiederebbero una loro modifica. Al fine di garantire la titolarità degli Stati membri, questi saranno strettamente associati alle riflessioni e regolarmente consultati. Sarà inoltre consultato il Parlamento europeo. Una relazione intermedia sarà presentata nell’ottobre 2012 e una relazione finale entro la fine dell’anno.

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Quadro finanziario plueriennale Il Consiglio europeo ha svolto una discussione approfondita con il presidente del Parlamento europeo sul futuro quadro finanziario pluriennale. Il Consiglio europeo si è compiaciuto dei progressi realizzati durante la presidenza danese, che forniscono una base e orientamenti per la fase finale dei negoziati durante la presidenza cipriota entrante. Lo schema di negoziato sarà ulteriormente sviluppato, in previsione di un accordo entro la fine del 2012, pur rispettando il principio "nessun accordo senza un accordo su tutto". Dovrebbero anche essere accelerati i lavori sui pertinenti testi legislativi nella prospettiva di una rapida adozione secondo le procedure previste dal trattato. Tutte le istituzioni competenti sono invitate a cooperare strettamente in questo processo, in linea con le competenze stabilite dal trattato. Patto per la crescita e l’occuppazione I capi di Stato o di governo, dichiarandosi determinati a stimolare una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, efficiente sotto il profilo delle risorse e creatrice di occupazione, nel quadro della strategia Europa 2020, sottolineando la

necessità di mobilitare a tal fine tutti gli strumenti, leve e politiche, ad ogni livello di governance nell’Unione europea, ricordando l’importanza che rivestono finanze pubbliche sane, riforme strutturali e investimenti mirati per una crescita sostenibile, hanno convenuto il seguente patto.

Misure da adottare al livello degli stati membri Tutti gli Stati membri restano pienamente impegnati ad adottare le misure immediate e necessarie a livello nazionale per conseguire gli obiettivi della strategia Europa 2020. I nuovi strumenti di governance economica dell’Unione europea devono essere applicati appieno e con efficacia e si dovrebbe ricorrere maggiormente alla "pressione tra pari". Le proposte in sospeso volte a completare questo quadro ("two-pack") devono essere adottate celermente. Nell’attuare le raccomandazioni specifiche per paese, gli Stati membri insisteranno in modo particolare sulle seguenti azioni: portare avanti un risanamento di bilancio differenziato e favorevole alla crescita rispettando il patto di stabilità e crescita e tenendo conto delle specificità dei singoli paesi; deve essere prestata un’attenzione particolare agli investimenti nei settori orientati al futuro aventi un nesso diretto con il potenziale di crescita dell’economia e alla garanzia della sostenibilità dei regimi pensionistici. La Commissione sta valutando attentamente l’incidenza delle forti restrizioni di bilancio sulla spesa pubblica a favore della crescita e sugli investimenti pubbli-


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ci. Pubblicherà una relazione sulla qualità della spesa pubblica e sulla portata di possibili azioni entro i limiti dei quadri di bilancio nazionali e dell’Ue; ripristinare la normale erogazione di prestiti all’economia e completare con urgenza la ristrutturazione del settore bancario; promuovere la crescita e la competitività, in particolare rimediando agli squilibri radicati e portando avanti le riforme strutturali per liberare il proprio potenziale di crescita, anche attraverso l’apertura alla concorrenza delle industrie di rete, la promozione dell’economia digitale, lo sfruttamento del potenziale di un’economia verde, l’abolizione delle restrizioni ingiustificate imposte ai fornitori di servizi e l’agevolazione dell’avvio di un’attività commerciale; lottare contro la disoccupazione e affrontare con efficacia le conseguenze sociali della crisi; portare avanti le riforme per migliorare i livelli di occupazione; intensificare gli sforzi, anche sostenuti dall’Fse, intesi ad aumentare l’occupazione giovanile, in particolare per facilitare la prima esperienza lavorativa dei giovani e la loro partecipazione al mercato del lavoro, al fine di assicurare che entro alcuni mesi dal completamento del percorso scolastico i giovani ricevano un’offerta qualitativamente buona di occupazione, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio, e sviluppare e attuare politiche efficaci per combattere la povertà e fornire assistenza alle categorie vulnerabili. Gli Stati membri attueranno rapidamente i propri piani nazionali per l’occupazione e ne elaboreranno di più ambiziosi e precisi per il prossimo semestre

europeo. Gli Stati membri dovranno avvalersi delle possibilità di finanziare temporaneamente, a partire dal Fondo sociale europeo, gli incentivi a favore delle assunzioni; e) modernizzare la pubblica amministrazione, in particolare rimediando ai ritardi della giustizia, riducendo gli oneri amministrativi e sviluppando i servizi amministrativi online. A tale riguardo dovrebbero essere condivise le migliori pratiche. Contributo delle politiche europee alla crescita e all’occupazione Sono necessarie nuove misure urgenti a livello di Unione europea per stimolare la crescita e l’occupazione, potenziare il finanziamento dell’economia nel breve e medio periodo e rendere l’Europa più competitiva come luogo di produzione e di investimento. Rafforzare il mercato unico eliminando gli ostacoli rimanenti costituirà un fattore chiave per promuovere la crescita e l’occupazione, in particolare nelle industrie digitali e di rete. La Commissione intende presentare a tal fine ulteriori misure a sostegno della crescita nell’autunno 2012 nell’ambito del secondo atto per il mercato unico. Sono già stati conseguiti notevoli progressi sulle misure che sono contenute nel primo atto per il mercato unico, in particolare l’adozione della proposta sulla normalizzazione e l’accordo raggiunto in sede di Consiglio sulle proposte in materia contabile, i fondi di venture capital e i fondi per l’imprenditoria sociale e sulla risoluzione alternativa delle controversie e la risolu zione delle controversie online. Si dovrà

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raggiungere al più presto un accordo sulle proposte relative agli appalti pubblici, alla firma elettronica e al riconoscimento delle qualifiche professionali. Si accoglie con favore la comunicazione della Commissione volta a migliorare la governance del mercato unico. Gli Stati membri e la Commissione provvederanno a una migliore attuazione ed esecuzione della normativa sul mercato unico e la Commissione sorveglierà i risultati, anche mediante una relazione annuale nell’ambito del semestre europeo. Si accoglie inoltre con favore la comunicazione della Commissione sull’attuazione della direttiva “Servizi” che dovrà essere attuata immediatamente, anche attraverso una rigorosa revisione tra pari delle restrizioni nazionali e un’azione celere per eliminare ostacoli ingiustificati. La direttiva potrebbe consentire di realizzare un ulteriore utile economico fino a 330 miliardi di Eur. Il Consiglio europeo esaminerà i progressi entro la fine del 2012. Occorre progredire celermente per conseguire un mercato unico digitale funzionante entro il 2015, che imprimerà nuovo dinamismo all’economia europea. In particolare, è necessario dare priorità alle misure intese a sviluppare ulteriormente il commercio elettronico transfrontaliero, facilitando anche la transizione alla fatturazione elettronica e promuovendo l’uso transfrontaliero dell’identificazione elettronica e di altri servizi elettronici. È inoltre essenziale stimolare la domanda per lo sviluppo di Internet ad alta velocità, modernizzare il regime europeo di proprietà intellettuale e facilitare il rilas-

cio delle licenze, assicurando nel contempo un alto livello di protezione dei diritti di proprietà intellettuale e tenendo conto della diversità culturale. Occorre continuare ad adoperarsi al fine di ridurre l’onere normativo complessivo a livello dell’Ue e nazionale. La Commissione presenterà entro la fine del 2012 una comunicazione su ulteriori iniziative concernenti la "regolamentazione intelligente", fra cui misure a sostegno delle microimprese. Completare integralmente il mercato interno dell’energia entro il 2014 conformemente alle scadenze concordate, garantendo nel contempo che nessuno Stato membro rimanga isolato dalle reti europee di distribuzione del gas e dell’energia elettrica dopo il 2015, contribuirà notevolmente alla competitività, alla crescita e all’occupazione nell’Ue. Dopo l’adozione formale della direttiva sull’efficienza energetica, gli Stati membri dovranno attuarla rapidamente, avvalendosi appieno delle sue disposizioni allo scopo di sfruttare il notevole potenziale per la creazione di posti di lavoro in questo settore. Dovrebbe essere raggiunto rapidamente un accordo sulla proposta relativa alle infrastrutture energetiche transeuropee. Occorre continuare ad adoperarsi affinché l’impegno nella ricerca sia tradotto rapidamente in innovazioni rispondenti alle esigenze del mercato, così da potenziare la competitività europea e contribuire a far fronte alle sfide della società . Occorre rafforzare lo Spazio europeo della ricerca, migliorando in particolare il sostegno all’R&S e le


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opportunità d’investimento per le startup e Pmi innovative. Il futuro programma per la competitività delle imprese e le piccole e le medie imprese (Cosme) e il programma Orizzonte 2020 aiuteranno le Pmi innovative ad accedere ai finanziamenti. Importa in particolare rafforzare le tecnologie abilitanti fondamentali che rivestono un’importanza sistemica per la capacità innovativa e la competitività dell’industria e dell’intera economia, anche in settori quali la nanotecnologia, la biotecnologia e i materiali avanzati. Ad alcuni paesi la politica di coesione riformata, in quanto strumento principale di investimento, crescita e creazione di occupazione a livello dell’Ue nonché́ di riforma strutturale a livello nazionale, offre l’opportunità di investire per uscire dalla crisi. Tale politica rappresenta una quota importante degli investimenti pubblici nell’Ue e contribuisce al rafforzamento del mercato interno. L’accordo raggiunto oggi sul brevetto unitario consentirà di ridurre notevolmente i costi per le Pmi e di dare impulso all’innovazione offrendo un brevetto dal costo abbordabile e di alta qualità in Europa, con un’unica giurisdizione specializzata. È fondamentale potenziare il finanziamento dell’economia. Vengono mobilitati 120 miliardi di Eur (equivalenti a circa l’1% dell’Rnl dell’Ue) per misure ad effetto rapido a favore della crescita: si dovrà aumentare di 10 miliardi di Eur il capitale versato della Bei, allo scopo di aumentarne la base di capitale e di accrescerne la capacità totale di prestito di 60 miliardi di Eur, liberando in tal modo

fino a 180 miliardi di Eur di investimenti supplementari, ripartiti in tutta l’Unione europea, compresi i paesi più vulnerabili. Tale decisione dovrà essere adottata dal consiglio dei governatori della Bei affinché entri in vigore entro il 31 dicembre 2012; si dovrà avviare immediatamente la fase pilota dell’iniziativa sui prestiti obbligazionari per il finanziamento di progetti, consentendo investimenti supplementari fino a 4,5 miliardi di Eur a favore di progetti pilota nei settori chiave dei trasporti, dell’energia e dell’infrastruttura a banda larga. In futuro potrebbe essere potenziato ulteriormente in tutti i paesi il volume di tali strumenti finanziari, anche a sostegno del meccanismo per collegare l’Europa, a condizione che la relazione e la valutazione intermedie dalla fase pilota siano positive; ove opportuno e nel rispetto delle regole di disimpegno, gli Stati membri hanno la possibilità di collaborare con la Commissione, nell’ambito delle norme e prassi esistenti, per usare parte delle dotazioni provenienti dai fondi strutturali in modo tale da condividere il rischio di prestito della Bei e offrire garanzie sui prestiti per conoscenze e competenze, efficienza delle risorse, infrastrutture strategiche e accesso ai finanziamenti per le Pmi. I fondi strutturali hanno riassegnato risorse a sostegno della ricerca e dell’innovazione, delle Pmi e dell’occupazione giovanile e ulteriori 55 miliardi di Eur saranno destinati a misure a sostegno della crescita nel periodo in corso. Dovrebbe essere ulteriormente rafforzato il sostegno alle Pmi, anche facilitando il loro accesso ai finanzia-

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menti dell’Ue. Gli Stati membri hanno anche la possibilità di valutare l’eventualità di riassegnazioni all’interno delle dotazioni nazionali, nel rispetto delle norme vigenti e in cooperazione con la Commissione; occorre ampliare l’intervento del Fondo europeo per gli investimenti, in particolare con riguardo all’attività di venture capital, in collegamento con le strutture nazionali esistenti. Il bilancio dell’Unione europea deve costituire un catalizzatore della crescita e dell’occupazione in tutta Europa, stimolando in particolare gli investimenti produttivi e in capitale umano. Nell’ambito del futuro quadro finanziario pluriennale la spesa dovrà essere mobilitata a sostegno della crescita, dell’occupazione, della competitività e della convergenza, in linea con la strategia Europa 2020. La politica tributaria dovrebbe contribuire al risanamento di bilancio e alla crescita sostenibile. Occorre proseguire i lavori e le discussioni sulle proposte della Commissione riguardanti la tassazione dell’energia, la base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società e la revisione della direttiva sulla tassazione dei redditi da risparmio. Come rilevato nella sessione del Consiglio del 22 giugno 2012, la proposta relativa a una tassa sulle transazioni finanziarie non sarà adottata dal Consiglio entro un periodo ragionevole. Vari Stati membri chiederanno pertanto una cooperazione rafforzata in questo settore, affinché tale proposta sia adottata entro dicembre 2012. La Commissione continua a lavo-

rare su soluzioni concrete per potenziare la lotta contro la frode e l’evasione fiscali e presenterà a breve un piano d’azione comprendente opzioni a tal fine. Devono essere rapidamente convenute le direttive di negoziato per gli accordi sulla tassazione dei redditi da risparmio con i paesi terzi. Gli Stati membri che partecipano al patto Euro Plus proseguiranno le loro discussioni strutturate in materia di politica tributaria, in particolare per assicurare gli scambi di migliori pratiche. Promuovere l’occupazione sia delle donne sia degli uomini, in particolare tra i giovani e i disoccupati di lungo periodo, rappresenta una precisa priorità. Il Consiglio esaminerà e deciderà celermente sulle proposte contenute nel pacchetto occupazione della Commissione, in cui si insiste sulla creazione di posti di lavoro di qualità, sulla riforma strutturale dei mercati del lavoro e sugli investimenti in capitale umano. È fondamentale affrontare la disoccupazione giovanile, ricorrendo soprattutto alle iniziative della Commissione sulle garanzie per i giovani e sul quadro di qualità per i tirocini. È anche importante promuovere la riattivazione dei lavoratori anziani. La governance Ue, anche sotto il profilo della sorveglianza multilaterale sulle politiche per l’occupazione, dev’essere migliorata. La mobilità dei lavoratori all’interno dell’Ue deve essere agevolata. Occorre trasformare il portale Eures in un autentico strumento europeo di collocamento e assunzione ed esaminare la possibilità di estenderlo agli apprendistati e ai tirocini nonché di fornire ulteriore


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sostegno all’azione preparatoria “Il tuo primo posto di lavoro Eures”. È necessario sviluppare nuovi strumenti Ue per individuare meglio le nuove competenze richieste, migliorare il riconoscimento delle qualifiche professionali e delle competenze linguistiche, ridurre il numero delle professioni regolamentate e consolidare l’acquisizione e il mantenimento dei diritti a pensione transfrontalieri e altri diritti di sicurezza sociale dei lavoratori dell’Ue. Occorre anche proseguire i lavori sulla proposta relativa all’esercizio dei diritti dei lavoratori distaccati. Il commercio deve essere usato meglio come motore della crescita. L’Unione europea è determinata a promuovere scambi liberi, equi e aperti affermando nel contempo i propri interessi, in uno spirito di reciprocità e di mutuo vantaggio, specialmente nei confronti delle più importanti economie mondiali. Si dovrebbe esaminare rapidamente la proposta della Commissione relativa all’accesso ai mercati degli appalti pubblici nei paesi terzi. Fermo restando che il rafforzamento del sistema multilaterale rimane un obiettivo essenziale, i negoziati bilaterali in corso e i possibili negoziati bilaterali futuri rivestono un’importanza economica particolarmente elevata. Un maggiore impegno dovrà in particolare essere orientato verso l’eliminazione degli ostacoli agli scambi, il miglioramento dell’accesso al mercato, condizioni di investimento appropriate, la protezione della proprietà intellettuale e l’apertura dei mercati degli appalti pubblici. Gli accordi finaliz-

zati devono essere firmati e ratificati con rapidità. Gli accordi di libero scambio con Singapore e con il Canada dovranno essere messi a punto entro la fine dell’anno; i negoziati con l’India richiedono un nuovo impulso da ambo le parti e dovranno proseguire i lavori per l’approfondimento delle relazioni commerciali dell’Ue con il Giappone. I capi di Stato o di governo attendono con interesse le raccomandazioni del Gruppo di lavoro Ue-Usa ad alto livello su occupazione e crescita e si impegnano a lavorare per il conseguimento dell’obiettivo di avviare nel 2013 i negoziati su un accordo globale transatlantico sul commercio e gli investimenti. La stabilità finanziaria è un prerequisito della crescita. La relazione “Verso un’autentica Unione economica e monetaria” delinea idee significative al riguardo. In alcuni settori gli Stati membri che condividono una moneta unica e altri che desiderano associarsi allo sforzo intendono spingersi oltre, per coordinare e integrare le rispettive politiche finanziarie, di bilancio ed economiche nell’ambito dell’Unione europea, rispettando appieno l’integrità del mercato unico e dell’Unione europea nel suo complesso.

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Nazioni Unite, sotto scacco di Assad Rodolfo Bastianelli ESTERI

Una Primavera araba dai valori occidentali Francesca Siciliano RUBRICA Africa felix

L’onore di lavorare per gli ultimi Michele Trabucco



Rodolfo Bastianelli

Nazioni Unite, sotto scacco di Assad L’Onu non trova una soluzione per risolvere il problema siriano tra veti incrocati e paure sul futuro mediorientale. Ma anche sul fronte interno della protesta le divisioni sono tante e nella situazione di impotenza il dittatore di Damasco continua imperterrito la sua carneficina.

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Negli ultimi mesi la situazione in Siria è andata ulteriormente complicandosi non solo sul piano politico, ma anche su quello umanitario, come testimoniato dal crescente numero di vittime negli scontri che quotidianamente si registrano nel paese. Tuttavia, pur di fronte ad un sempre più evidente isolamento internazionale, il potere di Assad, secondo la maggior parte dei commentatori, non appare al momento sul punto di crollare viste anche le divisioni esistenti tra i suoi oppositori. La struttura del regime di Assad e del suo apparato di sicurezza Uno degli aspetti sui quali più si è soffermata l’attenzione della diplomazia internazionale nel corso delle proteste avvenute in questi mesi è la particolare organizzazione del potere siriano unitamente alla struttura dei vari organismi incaricati di

garantire l’ordine interno, organismi che, è bene sottolinearlo, si sono distinti soprattutto per la loro brutalità nei confronti degli attivisti dei movimenti d’opposizione. Ed è proprio la struttura del regime siriano il primo punto da prendere in esame per comprendere le ragioni per cui, nonostante le sempre più massicce proteste popolari, Bashar Assad continua a rimanere al potere. Seppur indebolito e isolato internazionalmente, il leader siriano continua a godere del sostegno dell’élite economica e di quello dell’importante confessione degli alawiti, alla quale appartiene lo stesso Assad e il cui appoggio è considerato fondamentale per il regime. Difatti, anche se da alcuni mesi al suo interno si sta levando un diffuso malcontento per le modalità con le quali il governo ha gestito la protesta interna, la stragrande maggioranza dei suoi


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esponenti continua a ritenere la permanenza al potere dell’attuale regime siriano la soluzione più vantaggiosa per la comunità, temendo che un eventuale arrivo delle forze d’opposizione, composte in massima parte da esponenti di fede sunnita, finisca per relegarli in una posizione subordinata simile a quella dei cristiano-maroniti in Libano o degli sciiti in Iraq. Insieme agli alawiti, Assad può contare sul sostegno dei cristiani e di minoranze come i curdi e gli ismailiti, per i quali il regime laico di Damasco è in grado di garantire il rispetto dei loro diritti religiosi in maniera assai più convincente delle forze d’opposizione che vengono viste come radicali e legate agli ambienti islamici fondamentalisti. Inoltre, lo stesso mondo degli affari e del commercio, pur avendo espresso molte critiche per i contraccolpi subiti dall’economia siriana in conseguenza alle proteste popolari, non si è tuttavia schierato a favore dell’opposizione preferendo rimanere in disparte ad attendere gli eventi. Inoltre, una parte consistente dei siriani teme che il precipitare della situazione possa condurre a uno scenario di tipo libico segnato dal vuoto di potere e dal crollo delle strutture istituzionali, oppure a una difficile e rischiosa fase di transizione simile a quella che sta attraversando l’Egitto. Non va poi dimenticato, come ricorda un’analisi preparata qualche settimana fa dal Center for International and Strategic Studies di Wa-

Il Libro L’altra Siria Antonella Appiano Clandestina a Damasco Castelvecchi 2011, 168 pp., 12,50 euro Che cosa significa lavora r e c o m e giornalista in Siria, un paese agitato dalle rivolte e che non rilascia accreditistampa? Come ci si inventa una nuova identità credibile? E poi un’altra, e un’altra ancora? Identità e ruoli che cambiano con il mutare degli eventi in un luogo in cui i pochi reporter lasciano il Paese spesso su suggerimento delle proprie ambasciate. Il racconto esclusivo di una giornalista che è rimasta in Siria per tre mesi (dai primi di marzo alla fine di maggio 2011) e ci è ritornata in luglio, sempre da “clandestina”, scrivendo prima per il suo blog poi per il quotidiano on-line Lettera43 e cercando di trasmettere con gli articoli del suo “Diario da Damasco”, e poi attraverso i collegamenti con Radio 24 e con Uno Mattina, sensazioni, emozioni, timori, speranze, inquietudini, vissute dai siriani in un periodo storico che potrebbe modificare la realtà politica e sociale del paese e di tutto il Medio Oriente. Nascosta sotto il niqab, con documenti falsi, aiutata da un gruppo di manifestanti anti-regime che organizza i suoi piani nei minimi dettagli. E stata tra le poche a intervistare gli attivisti e i ribelli ma anche quelli che la rivoluzione non la vogliono.


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shington (Csis), che le proteste popolari, pur se massicce, si sono concentrate essenzialmente nelle province rurali evitando di coinvolgere i due centri urbani più importanti, Damasco e Aleppo, uno scenario, dinque assai diverso da quello che si presentò in Tunisia e in Egitto, dove le manifestazioni ebbero il loro epicentro proprio nelle capitali. Il regime di Assad può contare sul sostegno dell’apparato di sicurezza siriano: suddiviso in quattro direttorati – Intelligence Militare e Aeronautica, Sicurezza di Stato e Politica, i primi due diretti da esponenti di fede alawita, gli altri controllati da ufficiali sunniti designati con l’intento di placare le tensioni popolari visti i frequenti contatti che i cittadini hanno con le forze dell’ordine. Questo, di fatto, è dominato dagli appartenenti al clan Assad tanto che, al loro interno, un ufficiale inferiore legato a rapporti di parentela con la famiglia presidenziale, dispone di un’autorità e di privilegi superiori a quelli formalmente attribuiti ai gradi più elevati. Più complessa appare la situazione esaminando l’atteggiamento delle Forze Armate. Questa istituzione in Siria gode tuttora un ampio prestigio tra la popolazione come dimostra il fatto che davanti alle proteste popolari, al pari di quanto avvenuto in Egitto e Tunisia, i militari hanno mantenuto un ruolo piuttosto defilato, visto che solo alcuni reparti – la “Guardia Repubblicana” e la “Quarta Divisione” due unità gui-

date dal cognato del Presidente Maher Assad – si sono rese responsabili di violente azioni di repressione contro i manifestanti. Ma sulla compattezza delle Forze Armate le opinioni degli analisti divergono profondamente. Se per diversi esperti israeliani uno scenario simile a quello avvenuto in Egitto e Tunisia sembra improbabile possa verificarsi in quanto i militari appaiono tuttora saldamente legati al regime e le diserzioni registrate in questi mesi riguarderebbero solo coscritti, sottufficiali e ufficiali di medio rango e non i quadri superiori, per altri non è escluso che anche in Siria possa ripetersi quanto avvenuto a Il Cairo e Tunisi. Con effettivi composti in massima parte da personale di leva – anche se i coscritti svolgono il servizio militare lontano dai loro luoghi d’origine – le Forze Armate siriane già in diverse occasioni hanno registrato l’ammutinamento di alcuni reparti che si sarebbero rifiutati di aprire il fuoco sui manifestanti; la stessa compattezza dei vertici militari, invece, dovuta all’appartenenza alla fede alawita della grande maggioranza degli ufficiali, non sarebbe così salda come appare, in quanto i reparti hanno una composizione religiosa assai diversa e la loro insubordinazione costringerebbe anche i comandi a rivoltarsi ad Assad. La situazione rimane dunque quantomai fluida ed è resa ancora più incerta dalla debolezza delle forze d’opposizione.

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L’organizzazione delle forze d’op- mere un ruolo politico determinante vista la loro persistente framposizione al regime La struttura dei movimenti che gui- mentazione. Come è stato sottolidano la protesta al regime di Ba- neato da un rapporto preparato shar Assad si presenta assai diver- da esperti israeliani, gran parte sificata e con forze profondamen- dei gruppi d’opposizione è di picte divise al loro interno. Solo di cole dimensioni contando spesso recente, hanno deciso di stabilire non più di cinque appartenenti. un coordinamento allo scopo di Un elemento questo che ne inderedigere una piattaforma pro- bolisce non solo la capacità grammatica e preparare la transi- d’azione sul terreno ma anche la zione democratica del Paese. A credibilità politica di presentarsi questo scopo nell’Ottobre dello come una forza alternativa al regiscorso anno è stato istituito, il Sy- me. Questo scetticismo troverebbe rian national council (Snc), una conferma sia nelle sempre più evidenti contrappostruttura che include sizioni esistenti diverse formazioni di Le forze che guidano nel Syrian natioopposizione e che nal council, il cui la protesta sono intende agire come leader Burhan ala politica dei movifortemente spaccate Ghalioun nei menti di protesta al al loro interno e questo giorni scorsi si è fine di far comprendimesso denundere alla comunità favorisce Assad ciandone l’incainternazionale le pacità a svolgere aspirazioni del popolo siriano. Gli obiettivi del Snc, una funzione di coordinamento, che è stato riconosciuto come “in- nonché la sua sempre maggiore terlocutore” e “legittimo rappresen- distanza dalle aspirazioni del potante del popolo siriano” da nu- polo siriano, che nei contrasti con merosi paesi, sono quelli di ga- il National coordination commitrantire un’ordinata transizione per t e e f o r d e m o c r a t i c c h a n g e il dopo-Assad per evitare pericolo- (Nccdc), un cartello composto da si vuoti istituzionali, creare una Si- forze orientate più a sinistra operia democratica e unitaria dove rante all’interno del territorio siriatutte le componenti etniche e reli- no, ha sempre rigettato l’ipotesi di giose godano di pari diritti e pre- un intervento internazionale prefeservare il carattere non – violento rendo invece aprire un negoziato della protesta popolare contro il con Assad al fine di risolvere la regime. Tuttavia, tra gli osservato- crisi politica del paese. ri, continua a rimanere lo scettici- Come ha affermato l’Economist in smo riguardo all’effettiva capacità un reportage apparso qualche delle forze d’opposizione di assu- mese fa, tutti questi gruppi hanno


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un’influenza assai limitata sulle vi- violenza nei confronti di militari cende del paese, senza contare appartenenti ai reparti dell’Eserciche molti siriani credono che l’Snc to siriano catturati nel corso delle sia sbilanciato a favore dei “Fra- operazioni. Rimane comunque il telli Musulmani” e legato in manie- dato di fatto che l’Fsa dispone di ra fin troppo evidente agli Stati effettivi, equipaggiamento e armaUniti. Ulteriori interrogativi iniziano menti assolutamente insufficienti ad emergere, inoltre, sulle stesse per contrastare l’azione delle Forcaratteristiche della protesta, che ze Armate regolari che mantengoper molti analisti starebbe perden- no ancora il controllo sul territorio do i suoi tratti pacifici per trasfor- e nei principali centri urbani. Ed è marsi in un vero e proprio conflitto proprio su questi interrogativi che armato. Anche se da parte del- tuttora punta il regime, il quale l’opposizione siriana e della co- conta di utilizzare a suo vantagmunità internazionale si tende a gio il timore espresso dai diversi settori della sominimizzare, numerocietà che un suo se testimonianze hanLa protesta eventuale crollo no riportato non solo possa portare a i violenti scontri avvesta perdendo i suoi un vuoto di potenuti in Siria centrale, tratti pacifici e si sta re o all’avvento ma anche la presentrasformando in un vero di un governo za all’interno delle islamico in cui i forze d’opposizione conflitto armato diritti delle minodi elementi legati alla ranze non sarebcriminalità e di estremisti islamici provenienti da paesi bero garantiti. Resta il fatto tuttavia stranieri. Altrettanti dubbi sono sor- che il paese attualmente appare ti riguardo all’attività della Free sy- in uno stato di profonda crisi, tanrian army, il gruppo armato com- to che qualcuno parla di “decomposto principalmente da disertori posizione” delle strutture istituziodelle Forze Armate regolari. E di- nali. Come ha evidenziato un rapversi esperti sottolineano che que- porto del novembre scorso stilato sta potrebbe diventare una struttu- dall’International crisis group, per ra militare stabile e sottoposta al rimanere al potere Assad ha sfrutcontrollo politico del Syrian natio- tato le divergenze tra i diversi nal council, oppure trasformarsi in gruppi etnici e religiosi creando una sorta di milizia disorganizzata un clima di rivalità e sfiducia in divisa per appartenenza etnica e ogni ambito della società, nonché pronta ad agire come forza auto- abbia cercato, allo stesso tempo, noma, aggiungendo poi come i di convincere la popolazione che suoi componenti si siano resi re- la sopravvivenza del regime è presponsabili di deprecabili azioni di feribile all’arrivo al potere delle

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forze d’opposizione, senza contare che la corruzione pervade tutti i settori dello Stato e la criminalità, fino a pochi mesi fa quasi sconosciuta, ha raggiunto livelli allarmanti in diverse aree. Sul piano economico poi la situazione siriana è diventata estremamente critica. Le sanzioni imposte al paese dalla comunità internazionale stanno avendo un impatto pesantissimo sull’industria petrolifera le cui perdite, secondo le stime degli analisti, hanno raggiunto i quattro miliardi di Dollari. Da sempre settore chiave per l’economia nazionale, le esportazioni di greggio prima dell’esplosione delle proteste garantivano entrate per sette milioni di Dollari al giorno, una cifra capace di assicurare il mantenimento alla quota prefissata delle riserve in valuta pregiata possedute da Damasco. Molto rilevante è anche l’impatto sociale che l’embargo sta avendo nel paese: i carburanti scarseggiano e il loro prezzo oggi è quattro volte più alto rispetto a un anno fa; la difficoltà nell’importare generi di prima necessità sta favorendo l’emergere del mercato nero e le attività produttive si sono di fatto fermate. Le ultime mosse politiche attuate dal regime in primis quali la convocazione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento che dovrebbero segnare l’inizio di una fase di riforme, sono state accolte con grande scetticismo dalla popolazione e dalla comunità internazionale secondo

le quali non rappresentano altro che un tentativo di Assad di conservare il suo potere. La posizione internazionale davanti alle vicende siriane Davanti alla crisi siriana la reazione internazionale è stata assai più tiepida di quella mostrata davanti all’insurrezione libica. Escluso fin dall’inizio ogni ricorso all’opzione militare, la risposta si è incentrata principalmente sull’introduzione di sanzioni economiche e la ricerca di una soluzione politica in grado di assicurare una transizione ordinata dei poteri dal regime attuale alle forze d’opposizione. Senza contare, poi, che le profonde divisioni esistenti tra Stati Uniti e Unione europea da una parte e Russia e Cina popolare dall’altra, ne hanno frenato fortemente l’azione. Questo è apparso evidente lo scorso Febbraio in occasione del dibattito all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove una proposta di risoluzione presentata dalla Lega Araba e sostenuta dagli Usa, nella quale si proponeva che Bashar Assad abbandonasse il potere trasmettendo le sue funzioni al vice presidente e si formasse un esecutivo di “unità nazionale” incaricato di organizzare entro due mesi nuove elezioni presidenziali e legislative nel Paese, ha incontrato il veto di Cina Popolare e Russia. Il timore di Mosca, già critica verso le operazioni in Libia, è che un’azione internazionale provocherebbe il crollo del regime pri-


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vando il paese non solo di un importante mercato degli armamenti, ma anche della perdita dell’accesso al porto di Tartus, unico sbocco nel Mar Mediterraneo di cui ancora dispone la flotta russa, mentre per Pechino, la cui politica estera si è sempre basata sul principio della “non ingerenza”, ogni prospettiva di intervento esterno è considerata con sospetto, in quanto i dirigenti cinesi temono che questa eventualità potrebbe in futuro essere invocata nel caso uno scenario analogo dovesse presentarsi anche in Cina viste le forti tensioni etniche esistenti e la difficile questione di Taiwan ancora irrisolta. In questo contesto, l’azione diplomatica delle Cancellerie si è concentrata nell’elaborazione di piani in grado di assicurare una transizione ordinata e nell’avvio di iniziative tese a rafforzare il ruolo dei movimenti d’opposizione. Il primo di questi è stato avanzato nel mese di febbraio dall’ex Segretario generale dell’Onu Kofi Annan nel suo ruolo di inviato speciale per la Siria per conto delle stesse Nazioni Unite e della Lega Araba. Articolato in sei punti, il progetto auspicava l’avvio di un negoziato tra governo e opposizione per favorire il processo di democratizzazione, il rilascio di tutte le persone arrestate arbitrariamente e unitamente all’impegno da parte di Damasco di garantire il diritto a manifestare e ad assicurare la libertà di movimento dei rappresentanti della stampa estera, l’invio di assistenza umani-

taria nelle aree più colpite dalle proteste e la cessazione di ogni violenza nel paese. Il piano tuttavia non ha prodotto alcun risultato risolvendosi, di fatto, in un fallimento. La seconda iniziativa – avanzata sempre a Febbraio dall’allora ex presidente francese Nicolas Sarkozy – prevedeva la creazione di un “gruppo di contatto” internazionale – sul modello di quanto istituito a suo tempo per la Libia – per cercare di raggiungere una soluzione alla crisi siriana. Denominata Group of friends of the syrian people la conferenza, istituita dopo che il veto di Russia e Cina Popolare, verso le quali Parigi ha usato toni molto severi, ha paralizzato l’azione del Consiglio di Sicurezza, raggruppa numerosi paesi e ha tenuto finora due incontri svoltisi rispettivamente a Tunisi e a Istanbul, mentre un terzo è stato programmato a Parigi per gli inizi di Luglio. Per molti commentatori si tratta di un’iniziativa più che altro simbolica il cui impatto sulle vicende siriane appare molto limitato.

l’autore rodolfo bastianelli Esperto di questioni internazionali, collabora con la rivista dello Stato Maggiore della Difesa Informazioni della difesa, firmando anche su Liberal, Affari Esteri, Rivista Marittima e il periodico dello Iai Affari internazionali. Ha collaborato con Ideazione e la rivista Acque & Terre.

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Una Primavera araba dai valori occidentali Le rivoluzioni democratiche che hanno investito i paesi arabi, soprattutto del Mediterraneo, hanno tutte un comune denomiatore: i media e i social network, strumenti che hanno permesso alla gente di abbattere le dittature dall’interno.

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È passato più di un anno, ma sembra ancora troppo presto per fare un bilancio definitivo dello straordinario cambiamento dello scenario mondiale che è stato definito Primavera araba. La Tunisia e l’Egitto, primi due paesi in cui si è accesa la scintilla della rivolta, si trovano ancora nel pieno di una transizione democratica; in Libia si è compiuto il drammatico abbattimento del regime di Gheddafi e si sta profilando una nuova fase; in Siria e nello Yemen sono ancora in atto sanguinosi conflitti interni. Le rivoluzioni che hanno dato vita alla Primavera araba sono state definite “proteste arancioni” e hanno colpito molti paesi riconducibili al mondo arabo. Hanno in comune l’uso di tecniche di resistenza civile (sciope-

ri, manifestazioni, marce e cortei), talvolta atti estremi (come i suicidi, definiti “autoimmolazioni” o atti di autolesionismo) e l’utilizzo dei social network – Facebook e Twitter – che hanno reso possibile l’organizzazione, la comunicazione e la divulgazione degli eventi organizzati a dispetto dei numerosi tentativi di repressione da parte dello Stato. I fattori che hanno portato alle proteste sono numerosi e comprendono tra le maggiori cause la corruzione, l’assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani e le condizioni di vita molto dure, che nella maggior parte dei casi rasentavano la poverà estrema. A tutto questo si aggiunse, poi, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la conseguente fame.


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Le proteste iniziarono il 18 dicembre del 2010, in seguito all’estremo atto del tunisino Mohamed Bouazizi che si diede fuoco per i maltrattamenti subiti da parte della polizia locale. Questo gesto rappresentò il casus belli che scatenò l’intero moto di rivolta, definito rivoluzione dei gelsomini (o “giorni della rabbia”, per indicare i momenti più accesi della rivolta). Per gli stessi motivi un effetto domino investì molti altri paesi del mondo arabo e del Nordafrica, propagandosi come una gigantesca macchia d’olio. A distanza di un anno e mezzo i capi di Stato dei paesi maggiormente interessati sono stati costretti a dimettersi o a fuggire. In Tunisia, dopo il gesto disperato di Bouazizi, i giovani laureati e disoccupati manifestarono per le strade di Tunisi, venendo colpiti dalla mano armata e pesante della polizia. Il presidente Ben Alì, in un intervento sulla tv nazionale, si impegnò a lasciare il potere entro il 2014, ma il suo discorso non riuscì a placare le proteste per cui fu costretto a dichiarare lo stato di emergenza. In trent’anni di regime vi erano state altre ondate di protesta, sempre represse dalla polizia, ma nessuna così tenace. Per la prima volta, in quell’inverno, la possibilità di sovvertire il regime e rovesciare il dittatore sembrava possibile e l’insurrezione popolare continuò in uno scenario caratterizzato da scon-

tri sanguinosi e violenti. Ben Alì fu costretto ad abbandonare il paese e a fuggire in esilio a Jedda, in Arabia Saudita. Il 14 gennaio 2012, a un anno esatto dalla fuga del leader, migliaia di Tunisini sono scesi in piazza per celebrare l’anniversario “della liberazione” al grido di «lavoro, libertà, dignità». Ben Alì, in esilio, è stato accusato di molti reati tra cui omicidio e cospirazione contro lo Stato e, assieme alla moglie Leila Trabelsi, è già stato condannato in contumacia per appropriazione indebita e traffico di droga. Fino ad oggi l’Arabia Saudita ha respinto due richieste di estradizione da parte della Tunisia e, a un anno dalla sua fuga, le autorità tunisine faticano a rintracciare il suo “tesoretto” che, secondo l’Ong (Associazione tunisina per la trasparenza finanziaria) ammonterebbe a oltre 13 miliardi di euro sparsi per il mondo (si pensa in banche Argentine, delle Isole Cayman, delle Isole Vergini, del Qatar e negli Emirati Arabi Uniti). Il 13 giugno del 2012 Ben Alì ha subito le ultime due condanne consecutive: la prima a vent’anni di reclusione, la seconda all’ergastolo; entrambe per la repressione attuata nei confronti dei moti della rivoluzione e per le decine di morti che ne conseguirono nelle città, definite martiri, di

Il “tesoretto” di Ben Ali ammonterebbe a circa 13 miliardi di euro, ma le autorità tunisine non lo trovano


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Thala, Kasserine e Ouardanine; la condanna all’ergastolo gli è stata attribuita per la repressione a Thala e Kasserine. Si tratta, ovviamente, di condanne virtuali, dal momento che Ben Alì è tuttora in esilio. La situazione egiziana si è sviluppata in maniera molto simile. Nel gennaio 2011, in seguito a diversi casi di giovani che si erano dati fuoco, vi furono forti proteste contro la mancanza di lavoro e le misure repressive. Al Cairo si svilupparono violenti scontri, che portarono un bagno di sangue anche nella patria delle piramidi. I manifestanti contrari al regime di Hosni Mubarak invocavano la liberazione dei detenuti politici, la liberalizzazione dei media e denunciavano la corruzione e i privilegi dell’oligarchia. Il 29 gennaio Mubarak licenziò il governo e nominò come proprio vice l’ex capo dell’intelligence, Omar Suleiman, ma questo al popolo egiziano non bastò e gli scontri e le manifestazioni proseguirono. Pochi giorni dopo, l’esecutivo del Partito nazionale democratico di Mubarack al completo si dimise e il leader lasciò tutti i suoi poteri nelle mani di Suleiman. Il 24 giugno del 2012 si sono svolte le elezioni presidenziali del dopo Mubarak, con la vittoria di Mohamed Morsi con il 51,7% dei voti. All’annuncio della vittoria migliaia di egiziani sostenitori di Morsi hanno urlato e pianto di gioia in quella

piazza Tahrir già teatro di scontri al tempo dell’insurrezione. Il portavoce del nuovo presidente ha dichiarato: «Siamo arrivati a questo momento grazie al sangue versato dai martiri della rivoluzione. L’Egitto inizierà una nuova fase della sua storia». Soltanto nel 2005, nelle ultime elezioni presidenziali, Mubarak trionfò con l’88% dei voti. Ma da allora il suo “sole” iniziò a tramontare: la mancanza di prosperità economica, le accuse di corruzione contro i membri del governo accrebbero gradualmente la rabbia degli egiziani, mentre crebbero i sospetti sul patrimonio accumulato all’estero dalla famiglia del raìs. Il 2 giugno 2012 Mubarak ha concluso la sua parabola politica con la condanna all’ergastolo per aver provocato la morte di oltre 800 manifestanti durante la rivoluzione. In seguito alla condanna, il 19 giugno, l’ex leader è stato colpito da un ictus e sarebbe deceduto. Il condizionale è d’obbligo, però, poiché la notizia della morte, diffusa dai medici curanti, è stata in seguito smentita da fonti della sicurezza che parlano di “condizioni molto gravi”. Dopo Tunisia ed Egitto, anche la Libia ha avuto la sua giornata della collera il 16 febbraio del 2011. La città di Bengasi venne insanguinata da violenti scontri tra polizia e manifestanti in conseguenza all’arresto di

Poche settimane fa Mohamed Morsi ha vinto le presidenziali ottendendo la maggioranza

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un attivista dei diritti umani. Gheddafi schierò l’esercito e i propri sostenitori – dotandoli di armi molto pesanti come razzi Rpg e armi anticarro – e diede il via a una violenta repressione. Gli scontri di Bengasi – diventata poi città simbolo della rivolta libica – furono molto violenti: si registrarono decine di morti e, come raccontarono i “ribelli”, si verificarono vere e proprie esecuzioni da parte delle forze di polizia. Due giorni dopo venne indetta la “giornata della collera”: milizie giunte da Tripoli a Beida (est della Libia) colpirono i manifestanti causando morti e feriti. La maggior parte dei soprusi e delle violenze (a tre giorni dalla scoppio i morti registrati erano circa 300) si verificarono a Bengasi, roccaforte dei ribelli poiché molto influenzata dalla cultura isalmica. Dopo una settimana la viralità della protesta invase anche Tripoli dove i contestatori – molti dei quali non libici ma mercenari pagati da inglesi e francesi – diedero fuoco agli edifici pubblici; poche ore dopo un raid aereo tentò inutilmente di soffocare la protesta. Il 21 febbraio la delegazione libica dell’Onu prese le distanze da Gheddafi e il vice ambasciatore libico, Ibrahim Dabbashi, accusò il colonnello di genocidio e di aver praticato crimini contro l’umanità. La battaglia ben presto infiammò tutto il paese: a Ras Lanuf, città pe-

trolifera, a Misurata, assediata e bombardata dall’esercito del rais, e nella zona di Tobruk. Gheddafi si chiuse nel suo bunker di Tripoli da dove comparve più volte con videomessaggi alla popolazione alternativamente per rassicurare o minacciare. Siamo ai primi di marzo e mentre la Libia brucia, migliaia di profughi si accalcano al confine con la Tunisia per sfuggire alla guerra. Le truppe di Gheddafi intanto avanzano inesorabilmente verso Bengasi, diventata ormai roccaforte dei ribelli antiregime dove gli insorti si organizzano nel “Consiglio nazionale di transizione” e chiedono l’intervento della comunità internazionale. La Francia dà il via, riconoscendo il governo dei ribelli e il 17 marzo l’Onu approva una no fly zone sui cieli libici, lanciando due giorni dopo il suo primo raid aereo nel tentativo di contenere l’avanzata dell’esercito di Gheddafi. In due mesi gli insorti conquistano l’aeroporto di Misurata pochi giorni dopo il tribunale penale internazionale emette un mandato di arresto contro Gheddafi. I raid aerei su Tripoli si fanno sempre più intensi, ma il rais non si arrende e ancora il 15 agosto incita i suoi sostenitori a opporsi. Senza incontrare particolari resistenze, i ribelli a una settimana dall’ultimo messaggio del colonnello entrano a

Protagonista delle rivolte è la nuova generazione araba, educata ai principi democratici dai media e dal web


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Tripoli: dopo 6 mesi di battaglia la fine sembrava vicina. Gheddafi scompare, si nasconde. Gli scontri si concentrano nella città di Sirte, assediata per settimane, con i ribelli che avanzano lentamente e migliaia di civili in fuga. Nonostante le forze fedeli a Gheddafi resistano, l’epilogo di 42 anni di regime avviene il 20 ottobre. Risultando vana ogni ulteriore resistenza nella difesa di Sirte, Gheddafi tenta di fuggire nel deserto per continuare la lotta armata, ma il convoglio sul quale viaggia viene intercettato e attaccato da parte di aerei francesi e della Nato. Gheddafi viene catturato e ferito alle gambe e linciato dai ribelli, ma è un colpo di pistola alla tempia a ferirlo mortalmente. Gli ultimi istanti di vita del rais, immortalati in un video, fanno il giro del mondo, mentre il suo cadavere, trasportato a Misurata, viene esposto al pubblico prima della sepoltura. La fine dei principali leader-dittatori dei paesi arabi non ha messo il punto, tuttavia, agli scontri della Primavera araba che, come noto, sono ancora in atto in moltissimi Stati. Non si può dire, dunque, che il fenomeno della Primavera araba sia terminato, né come Europa, ci possiamo sotrarre alle responsabilità che che ci chiamano in causa. Tuttavia si deve guardare in modo positivo a questa grande e autentica rivoluzione che potrebbe essere considerata come un successo dei valori occidentali. Protagonista della rivolta, infatti, è stata la nuova generazione degli arabi, che si è educata

ai principi democratici attraverso media, tv e grazie all’utilizzo intelligente e scaltro del web, entrando in collegamento diretto con il “nostro” mondo e la nostra civilità.

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l’autore francesca siciliano Laureata in Scienze politiche, collabora con FareitaliaMag.


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L’onore di lavorare per gli ultimi DI MICHELE TRABUCCO*

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La Focsiv compie quest’anno 40 anni di presenza nei paesi in via di sviluppo. È la più grande federazione di Organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana presente in Italia. Sul sito ufficiale si legge che ne fanno parte 65 organizzazioni, che contano 7.624 soci, 490 gruppi d’appoggio in Italia e oltre 60.000 persone tra aderenti e sostenitori. Sono oltre 1.000 i volontari espatriati nei nostri 660 progetti di sviluppo e circa 6.000 gli operatori locali. In Italia più di 5.000 volontari collaborano alle iniziative promosse sui territori e nella gestione dei progetti nei Pvs. Le risorse economiche annualmente mobilitate per le nostre attività ammontano a circa 90 milioni di euro. Impegnata dal 1972 nella promozione di una cultura della mondialità e nella cooperazione con le popolazioni dei Sud del mondo, Focsiv contribuisce alla lotta contro ogni forma di povertà e di esclusione, all’affermazione della dignità della persona e alla tutela dei diritti umani e alla crescita delle comunità e delle istituzioni locali. Dalla sua nascita, Focsiv, con i suoi 65 soci, ha impiegato oltre 16.000 volontari che hanno messo a disposizione delle popolazioni più povere il proprio contributo umano e professionale. Parallelamente, la Federazione promuove

in Italia campagne di sensibilizzazione e di educazione allo sviluppo e compie un intenso lavoro di lobbying istituzionale per promuovere la giustizia sociale per tutti gli uomini e le donne del pianeta. A livello nazionale aderisce al Forum nazionale del Terzo settore che rappresenta oltre 80 organizzazioni nazionali di secondo e terzo livello, all’Associazione Ong Italiane che costituisce la forma più ampia e rappresentativa del panorama non governativo nazionale, al Cisa – Comitato italiano per la Sovranità alimentare, una rete di oltre 270 associazioni di categoria, organizzazioni non governative, sindacati, associazioni e movimenti sociali e ambientalisti che hanno deciso di unirsi per sostenere la Sovranità alimentare, e alla Gcap – Coalizione italiana contro la Povertà sostenuta da oltre 10 milioni di cittadini italiani e da 70 organizzazioni, associazioni, sindacati e movimenti della società civile italiana e internazionale. A livello internazionale aderisce a diverse reti mondiali tra cui Cidse, la rete europea e nordamericana delle maggiori organizzazioni cattoliche di sviluppo della Chiesa cattolica, Forum, rete di organizzazioni, governative e non, impegnate nel volontariato internazionale e Concord, Confederazione europea delle Ong d’emergenza e di sviluppo.


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Focsiv inoltre, ha lo status consultivo speciale presso l’Ecosoc (United nation department of Economic and social affairs) dal 2004, è Focal point del programma Unv (United nation volunteers) per l’Italia dal 1997 e dal 2010 ha riconosciuto lo status di Osservatore presso lo Iom (International organization for migration). I valori portanti su cui Focsiv fonda il proprio agire sono: le radici cristiane e la Dottrina sociale della Chiesa; il volontariato, basato sulla centralità della persona; la democrazia partecipativa, perché solo attraverso il coinvolgimento pieno delle persone si possono ottenere risposte concrete e precise ai bisogni di pace e di giustizia. Gli obiettivi delle singole associazioni che aderiscono a Focsiv sono: promuovere il volontariato internazionale come risorsa specifica per lo sviluppo umano in una prospettiva di partenariato con le popolazioni locali; favorire un’adeguata crescita degli organismi federati e rappresentarli nelle sedi nazionali e internazionali; contribuire alla giustizia sociale per tutti ed eliminare le cause delle disparità per costruire un mondo più equo e promuovere uno sviluppo sostenibile mediante azioni di lobbying e di confronto con le Istituzioni pubbliche e private. Il direttore generale, Sergio Marelli, spiega così il modo di operare: «Ci teniamo a sottolineare che vogliamo accompagnare, non assistere, sostenere, non sostituire. Solo in questo modo riusciamo a portare avanti dei progetti di “prossimità e solidarietà” accanto ai poveri e agli esclusi di tutto il pianeta. Ci impegniamo in prima persona per valorizzare le risorse delle comunità, delle popolazioni e delle istituzioni locali, per accrescere la loro coscienza e consapevolezza di essere i soggetti e i protagonisti del loro sviluppo. I progetti che le singole Ong portano avanti nei diversi continenti sono attuati nell’ambito delle foreste e ambiente, dell’arte e della cultura, del

buon governo e cittadinanza, della comunicazione sociale e informazione, dei diritti umani e delle donne, dell’educazione e dell’istruzione, dell’emergenza sanitaria e assistenza umanitaria, della sicurezza alimentare e sviluppo economico e sociale, del commercio e del rafforzamento delle istituzioni e della tutela dell’infanzia. La Focsiv ha la maggior parte di relazioni e partnership con le chiese e le realtà locali dei paesi poveri, non certo l’esclusiva. Abbiamo un rapporto privilegiato e prevalente con le chiese locali, anche con accordi ufficiali di collaborazione e sostegno, come con la Conferenza episcopale del Camerun, del Burundi, dell’Ecuador e tante altre con le singole diocesi». Riportiamo qui di seguito la testimonianza di una delle tantissime volontarie che hanno deciso di dedicare la propria vita, o parte di essa, e le proprie competenze a servizio di persone che stanno lottando per migliorare i livelli di sanità, istruzione, sviluppo e benessere della popolazione. «Mi chiamo Nancy D’Arrigo, ho 32 anni, sono siciliana, e da oltre 5 anni vivo in Tanzania, occupandomi di progetti di cooperazione allo sviluppo rurale per il Cope di Catania, ong federata da lungo tempo con Focsiv, Federazione organismi cristiani di servizio internazionale volontario. Da oltre 2 anni, in veste di Responsabile paese, lavoro al coordinamento di tutti i progetti che portiamo avanti nel paese e di tutto il gruppo volontari che lavora giù con me. Il mio ruolo mi ha portato a conoscere sia il contesto rurale che quello urbano di un paese come la Tanzania, che nonostante possa godere di un regime politico stabile e di una serena convivenza fra oltre 130 etnie diverse, non riesce ancora a risolvere i suoi problemi di sopravvivenza e sviluppo. Il divario fra le aree urbane e quelle rurali è davvero enorme, e vivendo a Dar (ex capitale del paese) da circa 2 mesi, mi sto rendendo tristemente

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RUBRICA

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conto di quanto può essere difficile per chi vive in contesti urbani, “quartieri ricchi”, capire fino in fondo cosa serve e cosa va fatto per migliorare le condizioni di chi vive realtà diverse, di reale privazione dei più elementari diritti umani: l’accesso a servizi sanitari adeguati, a una buona educazione, a una alimentazione varia e completa. Nel nostro caso questo spostamento in città rappresenterà una nuova sfida nel portare comunque avanti le necessità delle aree rurali, attraverso la sensibilizzazione delle zone urbane, la creazione di network con le altre Ong internazionali e locali e tanto altro. Tornando a quanto facciamo già, i nostri progetti si occupano prevalentemente di contesti rurali, dove si lavora per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, soprattutto con interventi di carattere sanitario e sociale, con un’attenzione particolare alle categorie più vulnerabili e bisognose di supporto, quali bambini, donne e giovani. Questi ultimi sono stati il target di uno dei progetti più grossi di cui mi sono occupata personalmente e che il Cope ha portato avanti per oltre 3 anni con il supporto del ministero degli Affari esteri italiani, assieme a Focsiv (Ong proponente dell’intervento). Tale collaborazione ha portato alla costruzione e all’avvio di un Centro di Formazione agrozootecnico nel piccolo villaggio di Msindo, contrada di Mahinya, coinvolgendo con i suoi corsi di formazione, i suoi seminari, il suo programma di microcredito e il supporto tecnico offerto attraverso lo staff di formatori locali, oltre 300 giovani agricoltori e non del distretto di Namtumbo. Nonostante il finanziamento del Mae si sia concluso già da oltre un anno, il progetto va avanti, i giovani che studiano e ricevono il nostro supporto per la creazione e l’avvio di piccole attività produttive sono sempre di più, il programma di microcredito è ormai avviato e gestito da

personale locale come tutto il resto e il Centro di Mahinya è ormai riconosciuto a livello regionale, come valido riferimento agro zootecnico per i giovani che vogliono imparare, trovando così una valida opzione all’esodo a volte incosciente verso la città in cerca di fortuna. Lo staff locale è sempre più cosciente del suo coinvolgimento in un progetto che ha tutte le potenzialità per andare avanti da solo, in considerazione dell’importanza degli interventi in campo agricolo e zootecnico, in un paese che si basa ancora prevalentemente su questo per la sua economia. “Kilimo Kwanza” (l’agricoltura come priorità) questo lo slogan della nuova politica nazionale. Un centro di formazione che attraverso le sue potenzialità produttive, conta di dare ai giovani coinvolti non solo spunti teorici ma tanta pratica, esperienza, supporto tecnico e soprattutto incoraggiamento a uscire da livelli di semplice sussistenza. L’aver lavorato e il continuare a lavorare per il rafforzamento, l’autonomia, il riconoscimento governativo, la valorizzazione di questa realtà e dei tanti giovani che ne continuano a usufruire, mi riempie di energia… necessaria per affrontare le difficoltà e gli imprevisti che non mancano mai. L’aver lavorato, anche se prevalentemente a distanza, con personale Focsiv, come Giusy Fiorillo, nella gestione Mae di questo progetto nei suoi primi anni di vita, mi ha aiutato a crescere professionalmente e conoscere meglio la realtà federativa di cui facciamo parte. Parlare di cooperazione non è facile, ma metterla in pratica lo è ancora meno… il mio, il nostro è un modo di provarci, nella volontà di crescere, nel rispetto dell’identità e della dignità di chi vogliamo aiutare». *Giornalista freelance


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