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Digital Camera Agosto 2013
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Tutte le foto: Donata Basile
LA MISSIONE Chi: Donata Basile è una fotografa di reportage che viaggia per il mondo in solitaria Dove: Cava di granito di Pissy, Ouagadougou, Burkina Faso (Africa) Cosa: Testimoniare le condizioni dei lavoratori e delle loro famiglie, che vivono qui in condizioni di vera schiavitù Kit: Nikon D7000, con ottiche 18-70mm f/3.5-4.5G ED-IF AF-S DX Zoom, 50mm f/1.4D AF e un tele 300mm f/4D ED-IF AF-S Nikkor Altre informazioni: www.donatabasile.it www.issuu.com/gritzine/docs/grit4 www.basiledonata.tumblr.com www.basiledonatacina.tumblr.com
Bruciate all’inferno!
Reflex al collo, Donata Basile ha documentato la dura realtà dei lavoratori-schiavi nella cava di granito di Pissy, in Burkina Faso
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i muovi sempre da sola. Come hai organizzato il viaggio in Burkina Faso? I viaggi “lavorativi” li affronto volutamente in solitaria, non solo per entrare meglio in contatto con il luogo e le persone, ma anche per portare a spasso la mia tenacia e curiosità. Prima di partire, studio in maniera approfondita la meta e tengo conto di ogni più piccolo dettaglio. Solo così potrò gestire al meglio ogni situazione e sentirmi più libera nel fotografare. Questo viaggio, in particolare, ha rischiato di saltare almeno tre volte per problemi di sicurezza: l’Africa non è certo un paese semplice da percorrere da soli e il Burkina Faso, in quell’esatto momento, stava anche conoscendo forti disagi a causa della guerra che si combatteva nel vicino Mali. Le mie ricerche, inoltre, hanno fatto sì che UNHCR (The UN Refugee Agency) e WFP (Programma Alimentare Mondiale) mi contattassero per un reportage riguardante il loro operato nei campi profughi a nord del paese e che associazioni come C’est l’Afrique mi aprissero delle porte dirette con i burkinabè e le più crude realtà del paese.
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Perché proprio questa meta? Era da tempo che volevo rompere il ghiaccio con l’Africa e quando un mio cliente mi ha chiesto
quale meta fosse indicata per meglio rappresentare la genuinità dell’anima umana, è stato immediato per me pensare al “paese degli uomini integri e puri”: il Burkina Faso. Grazie a questa commissione sono riuscita poi a collegarmi parallelamente anche ad altre realtà che hanno arricchito ulteriormente il mio bagaglio culturale, fotografico e interiore.
In quali tappe è consistito il tuo progetto? Le tappe programmate dovevano essere di più di quelle che poi ho compiuto, ma questo fa parte del gioco e comunque è sempre bello per me trovare la soluzione agli imprevisti. Mi sono da subito resa conto di quanto un fotografo donna, che viaggia da sola senza le spalle coperte, possa avere difficoltà a gestire le diverse tempistiche di quei luoghi. Ho quindi sviluppato il progetto in tre mete principali: Ouagadougou, Bobo Diulasso e Banfora. A partire da questi punti strategici, mi sono poi spostata nella fascia nord per i campi profughi del Mali, a ovest e sud per i villaggi. Come sei venuta a conoscenza delle cave? Come hai fatto ad accedervi? Non occorreva essere dei segugi per trovare la cava di Pissy; era sufficiente spostarsi di un chilometro Digital Camera Agosto 2013
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Cava di Pissy (pagina precedente) Le donne risalgono con estrema abilità la cava di granito, trasportando sulle loro teste grossi carichi di pietre 01
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Bimba fuck corruption Alle sue spalle la pila di copertoni che ogni mattina vengono bruciati nelle insenature del granito per renderlo più malleabile alla lavorazione 02
03 Bimbo in fasce I bambini nascono e crescono in questo contesto. Già in fasce vengono legati sulle spalle delle loro madri mentre lavorano e portano il granito in superficie 04 Spaccare il granito Un burkinabè spacca il granito e respira il velenoso fumo sprigionato dai copertoni bruciati 05-06 Bambini della cava I bambini vengono lasciati soli dalle madri che devono lavorare. Li si vede sdraiati a terra – perché ancora in fasce – o mentre giocano ovunque con ciò che trovano
da dove alloggiavo per avvertire l’odore pungente di plastica bruciata che annientava l’olfatto e inaridiva la gola. Ho dovuto affidarmi al Burkinabè di fiducia e poi creare una scorta tra i responsabili della cava stessa per poter accedervi ben protetta.
È difficile per un fotografo entrare a contatto con una simile realtà e rimanere sufficientemente distaccato da riuscire a creare una testimonianza oggettiva di quel mondo? Sono luoghi in cui migliaia di esseri umani (bambini inclusi) nascono, crescono e muoiono spremendo le loro forze fisiche e psicologiche, convinti di non avere altre chance di vita esterna. Qualsiasi altra vita è meglio di questa, persino la morte spesso lo è! È facile farsi sopraffare dalle emozioni ma, una volta rotto il ghiaccio, in questi casi cerco sempre di trovare in me la giusta forza e la necessaria lucidità. Certo, l’anima si appesantisce, ma bisogna affrontare l’occasione e fotografarla con la premura di non far trasparire alcuna emozione. Serve vivere il momento con finta indifferenza e recitata naturalezza, assicurando ai protagonisti il massimo rispetto e, quando si riesce, regalandogli anche un sorriso. Com’è stata la reazione degli “abitanti” della cava al tuo arrivo? È facile immaginare che gli estranei non siano ben visti... Sono andata nella cava tre volte per riuscire a fotografarla da più angolazioni, facendo attenzione a non disturbare troppo i lavoratori. La mia presenza li incuriosiva molto, ma non Digital Camera Agosto 2013
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tutti hanno gradito la mia presenza. Ho fatto di tutto quindi per cercare di velocizzare il più possibile il lavoro e tenere alta la concentrazione – non solo per fotografare, ma anche per non finire con i piedi nelle braci! Il problema più grosso, comunque, è stata l’aria irrespirabile a causa dei fumi velenosi dei copertoni bruciati. Non mi è stato possibile
proteggermi in nessun modo, perché i bambini si spaventavano nel vedere una bianca dal viso coperto che spesso portava agli occhi anche una macchina fotografica!
Perché hai scelto il bianco e nero? Credo molto nella forza espressiva del bianco e nero. Trovo sia in grado di catturare meglio
“Sono entrata e uscita dall’inferno tre volte per poterlo fotografare e l’ultima volta credevo seriamente di morire”
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l’attenzione, indirizzandola verso i particolari ed enfatizzando la drammaticità della scena. Era mia intenzione, naturalmente, far capire ciò che ho provato stando lì dentro. La vita di queste persone appartiene a questo luogo, al granito: camminano trasportando la pietra, respirano la sua polvere, giocano con lei, conoscono le sue venature, sanno renderla malleabile per lavorarla a mani nude. Sono disposti anche a farsi ferire da lei, pur di sopravvivere.
Pensi che la fotografia di reportage sia ancora in grado di cambiare il mondo o di contribuire a farlo, come (forse) un tempo i grandi servizi di Life o Epoca? È vero che fotografare è diventato tecnicamente più semplice, ma i reporter di un tempo avevano la possibilità di documentare realtà lontane e sconosciute che ai nostri tempi si raggiungono invece con relativa facilità. Oggi è tutto molto più accessibile e condivisibile, tuttavia allo stesso tempo è diventato più scontato quello che prima era considerato “esotico”. Occorre dunque ricercare i sapori nascosti, quelli che il comune osservatore non coglie e come sempre essere al momento giusto nel posto giusto. È sicuramente una delle strade più efficaci per informare e trasmettere emozioni. Diversi sono i fattori che fanno di uno scatto una buona fotografia e a mio parere la differenza la fa il fotografo con la sua sensibilità interpretativa. Per questo motivo, nel limite del possibile cerco sempre di vivere il luogo, spogliandomi della mia personalità, per meglio interpretare la realtà che mi circonda, senza contaminarla (se non volutamente).
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Hai un modello di riferimento o qualche fotografo in particolare che ti ha ispirato in questo e nei tuoi precedenti lavori? Quotidianamente mi confronto con quel “libro aperto” che si chiama internet, guardando i lavori dei grandi maestri della fotografia, ma anche di chi semplicemente ama esprimersi attraverso le immagini. Tutto serve ad arricchire la mia fantasia e a stimolare la mia creatività. I miei modelli di riferimento sono fotografi di tanti generi diversi: da Margaret Bourke-White a Ivo Saglietti, da Henri Cartier-Bresson a Jan Grarup, da Richard Avedon a Annie Leibovitz
e Ellen von Undwerth, da Bruce Weber a Toni Thorimbert. Ma come faccio a non citare Gianni Berengo Gardin, Robert Doisneau, Sebastião Salgado, Steve McCurry, Mario De Biasi, Helmut Newton, Ansel Adams, Guy Bourdin, Martin Parr, Bruce Gilden, William Klein...
I bambini sono spesso protagonisti dei tuoi scatti. In realtà mi piace interpretare l’intero mondo che mi circonda, ma è vero: i bambini alla fine sono sempre protagonisti, in tutti i miei lavori fotografici! Il vero motivo? Con tutta probabilità Digital Camera Agosto 2013
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07 Trasporto pietre Sono le donne che trasportano le pietre di granito. Sono sempre loro a sedere a terra per rompere a mani nude i grossi massi in pezzi più piccoli e renderli più facilmente trasportabili – a volte anche mentre allattano il figlio appena nato 08 Bambini che giocano È inevitabile farsi delle domande, soprattutto quando si assiste alla visione di bambini che vivono questa realtà con estrema naturalezza, seppur feriti e malati. Sono sempre pronti a regalare grandi sorrisi e a rincorrerti per catturare la tua attenzione. Non tutti però conoscono la macchina fotografica e si spaventano se gliela fai vedere o se tenti di fotografarli!
Giovane burkinabè In genere sono i ragazzi che si occupano di spaccare i grossi pezzi di granito, aiutati semplicemente da lunghi e arrangiati martelli e tanto sudore. Un duro lavoro che affrontano a temperature elevatissime, superiori ai 40 gradi 09
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è perché i più piccoli sono più impulsivi degli adulti. Con loro è immediato il confronto e di solito sono più propensi a interagire con la macchina fotografica. Grazie a loro riesco a rompere il ghiaccio anche con i grandi più chiusi e introversi! I bambini ci aiutano a provare di nuovo emozioni innocenti, svelando quelle nascoste da qualche parte nel nostro cuore di adulti. Tutti siamo stati piccoli ed è naturale, di fronte ai bambini, ritrovare le stesse sensazioni di allora, anche in un ambiente tutt’altro che “fanciullesco” come la cava di Pissy. Digital Camera Agosto 2013
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“La mia più grande emozione è stata sapere che queste, per alcuni bambini, sono state le prime foto della loro vita e forse rimarranno le uniche” Durante il viaggio in Burkina Faso ho raggiunto villaggi in cui alcuni bambini – non solo i più piccoli – non avevano mai visto una donna bianca. La mia più grande emozione è stata sapere che queste, per alcuni, sono state le prime foto della loro vita e forse rimarranno le uniche.
Ricordo la loro estrema naturalezza, il timore e allo stesso tempo la curiosità di avvicinarsi a me per scrutare le mie forme e i miei colori. Un’esplosione di emozioni, un sentimento reciproco che ci ha portati alla commozione: non me li dimenticherò mai!