POESIA E CONOSCENZA Rivista di testimonianza e di ricerca Numero 2 – Maggio 2016 DIRETTORE Donatella Bisutti REDAZIONE Andrea Peverelli COLLABORAZIONE ARTISTICA Stefania Scarnati, Luciano Ragozzino, Silvia Venuti RESIDENZA DI SCRITTURA Carlo Severgnini PROGETTO GRAFICO Il Darietto di Dario Francesco Pericolosi www.ildarietto.altervista.org
In copertina “Poesia e Conoscenza” (china e foglio d’oro su carta) di Stefania Scarnati. Pubblicato su gentile concessione dell’artista. I capolettera sono di Luciano Ragozzino. Le foto degli eventi sono di Silvia Venuti. La foto di Patrizia Valduga è di Francesco Maria Colombo. La foto di Giampiero Neri è di Luca Carrà.
Poesia e Conoscenza
Rivista di testimonianza e di ricerca per i valori spirituali e civili
DIRETTORE RESPONSABILE Donatella Bisutti PERIODICITÀ Annuale REDAZIONE via Anelli 8, 20122 Milano e-mail: rivista@poesiaeconoscenza.it apevere@hotmail.it REDAZIONI ESTERE Francia: Sophie Braganti braganti.sophie@orange.fr Grecia: Polixene Kasda polykasda@hotmail.com La rivista è in sinergia con Sphinx Thebes Festival e le Edizioni Sphinx Olanda: Gandolfo Cascio gandolfo74@hotmail.com Portogallo: Manuele Masini perodeguimaraes@hotmail.com Scozia: Giuseppe Albano giuseppe.albano@keats-shelley-house.org REGISTRAZIONE Tribunale di Milano n.406 del 19 dicembre 2014 ESERCENTE L’IMPRESA GIORNALISTICA Associazione Culturale La Poesia salva la vita via Luigi Anelli 8 - 20122 Milano RIVISTA ONLINE Sito internet: www.poesiaeconoscenza.it Facebook: www.facebook.com/rivistapoesiaeconoscenza La rivista è sfogliabile on line dal sito e acquistabile in ebook
Si collabora alla rivista solo su invito. I manoscritti non si restituiscono. Non si ricevono libri per recensioni. Ci scusiamo se per cause del tutto indipendenti dalla nostra volontà avessimo omesso o citato erroneamente alcune fonti. Per i testi di cui non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto l’Editore si dichiara disposto ad assolvere i propri doveri.
SOMMARIO
Manifesto 8
Editoriale 12 Dibattito – Economia e Poesia in collaborazione con la Biblioteca Sormani di Milano
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Intervengono: Massimo Bacigalupo – Economia e poesia in America Patrizia Gioia – L’esperienza del “fare sacro” Fulvio Cesare Manara – Un paradosso solo apparente Gianni Vacchelli – La poesia profetica e critica di Dante
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Contributi 35 Piccola antologia di testi poetici Antologia di poeti americani – a cura di Massimo Bacigalupo 36 Dalla sapienza dell’India – a cura di Donatella Bisutti: Rabindranath Tagore – da E poi?, discorso tenuto nel 1906 a Calcutta 44 Nagarjuna, VII Dalai Lama – da La preziosa ghirlanda 45 Il Poeta Ospite
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in collaborazione con la Bogliasco Foundation Luisa Castro – Poesie di Framura Traduzioni di Manuele Masini Luisa Castro – Manuele Masini L’incertezza della scrittura Luisa Castro – Note di Poetica
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Dossier – Testo poetico e psicoanalisi
Antonio Techel – Fra poetry therapy e poesia psicoanalitica Marisa Brecciaroli – Trasportare le teorie psicoanalitiche nell’altrove della poesia Giorgio Linguaglossa – La buia danza di scorpione-Indagine psicoanalitica sulla poesia di Alfredo del Palchi Giancarlo Stoccoro – Brevi considerazioni sull’inconscio e la scrittura poetica Maurizio Spatola – Gian Pio Torricelli: Un caso letterario e umano Intervista a Elio Gioanola a cura di Andrea Peverelli
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Testi a Fronte
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Patrizia Valduga – A buon titolo Patrizia Valduga – Un sonetto di Carlo Porta
L’Anticipazione 108
Giampiero Neri – da Via Provinciale
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Sinergie
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Poesia e Immagine Francesca Maria Corrao – Correndo a perdifiato nel wadi di Petra Oralità e Gestualità George Yamazawa – Dear Grandma Poesia e Figurazione John Taylor – Wind
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I Poeti
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Anna Maria Carpi – Intercettazioni 1 e 2 Mariastella Eisenberg – Migranza Giuseppe Langella – Naufragi Angela Passarello – Frammenti
Poeti in Ombra
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Vito Trombetta – da La Sala Bianca
La voce nuova
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Andrea Lanfranchi – Il punto stabile
Dossier – L’Islam di Victor Hugo: una riproposta attuale
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Antonio Barahona – La leggenda di Muhammad Traduzione di Manuele Masini Victor Hugo – da La Légende des Siècles Traduzione di Manuele Masini Manuele Masini – Per-versioni d’autore
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Hanno collaborato
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MANIFESTO DELLA NUOVA POESIA UMANISTA
Poiché siamo consapevoli che: se si vuole salvare la Terra e l’esistenza dell’uomo nel mondo in un momento in cui un intero sistema minaccia di affondare mettendo a rischio anche l’esistenza del nostro pianeta, è indispensabile cambiare le coscienze che oggi le nostre coscienze sono sempre più manipolate e la maggior parte delle persone pensa quello che altri hanno pensato per loro che in un mondo impoverito dall’omologazione e dalla globalizzazione, occorre riaffermare il valore della differenza e dell’unicità di ogni uomo e di ogni creatura vivente che quindi la differenza deve essere considerata un diritto naturale inalienabile con tutte le conseguenze che ciò comporta che come ha scritto Raimon Panikkar il disarmo militare può avvenire solo attraverso un disarmo culturale che il nostro sapere oggi è per lo più un accumulo di informazioni che prescindono dall’esperienza e per questo diventiamo sempre più fragili che la società è diventata un forma di individualismo esasperato in cui a nessuno importa del vicino e il senso interiore del limite è sempre più sbiadito che per questo abbiamo perso la nostra anima e anche il riferimento alla parola “anima” sostituendola con altre prese a prestito dalla sociologia e dalla psicoanalisi, che non possono essere sinonimi che quindi la nostra vita, il nostro pensiero hanno perso il loro punto di congiunzione con l’Essere. Senza questo, la nostra vita e il mondo stesso cadono nel Non-Senso. Di ciò vediamo ogni giorno le conseguenze: non solo per il dilagare della violenza, di un’avidità sfrenata, di uno scadimento dei sentimenti, della cultura e delle aspirazioni , di un impoverimento di ogni tessuto connettivo sociale , ma ancor più di ogni percezione di responsabilità, di ogni distinzione fra bene e male, di un’accettazione paurosamente indifferenziata di ogni aberrazione, di una perdita insieme del senso della giustizia e del senso della pietà 8
Poiché abbiamo la convinzione che l’uomo non sia solo un animale razionale, ma in lui corpo e spirito siano indissolubilmente connessi che, anche chi non aderisce a una religione, possa dare il nome di Dio all’energia cosmica che è dentro e fuori di noi e ci unisce all’universo che le idee non possano mai essere universali, ma esistano dentro di noi verità eterne che non hanno bisogno di dimostrazione e che dovrebbero guidare la nostra vita e a cui daremo il nome di Miti nel senso usato da Raimon Panikkar che l’unica via di salvezza sia il perseguire una nuova coscienza collettiva universale in cui la società non possa più essere considerata una somma di numeri da manipolare ai fini di un’economia di mercato che solo in questo modo si possa raggiungere una reale uguaglianza degli esseri umani che prescinda da ogni ideologia politica
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Poiché crediamo che l’essenza e il compito della Poesia è quello di esprimere l’ineffabile, e che per questo il Linguaggio della Poesia, come credeva Hölderlin, è il linguaggio in cui si manifesta l’Essere, inteso come l’esistente inscritto in una dimensione di Spiritualità, da cui la qualità sacrale della Poesia e della Vita che a tale fine la Poesia si avvale, come credevano i Simbolisti in opposizione a una concezione materialista, di una facoltà profetica, visionaria e medianica per metterci in contatto con un Universo/Essere in continuo divenire che per questo la Poesia è una delle più alte possibilità concesse all’uomo di fare l’esperienza di una realtà che vada oltre la realtà quotidiana immediata, costituendo una chiave di conoscenza diversa e privilegiata, in grado di postulare l’esistenza di una dimensione psichica del mondo, quell’Anima del Mondo esplorata dal grande poeta irlandese Yeats che la Poesia, attivando e alimentandosi di quel pensiero analogico che è il motore dell’immaginazione e dell’intuizione e quindi della creatività umana, è in grado di cogliere quella fitta rete di corrispondenze, di cui ha scritto Baudelaire, che ci fa sperimentare interiormente l’interdipendenza di tutto ciò che esiste, per cui nessuno di noi può considerarsi narcisisticamente come una realtà a sé stante che la Poesia rimane tuttavia il luogo della Differenza, in quanto afferma il valore unico e assoluto anche della più piccola cosa che la Poesia, coniugando indissolubilmente pensiero, sentimento ed emozione attraverso il suono e l’immagine, ricostruisce l’unità della nostra psiche, scissa schizofrenicamente nella nostra società attuale fra cuore, mente e corpo che oggi tuttavia questa vocazione forte della Poesia è per lo più disattesa, a favore di un pensiero debole, materialista e nichilista che celebra il nulla, il nonsenso e la disgregazione, e viene meno così al suo compito salvifico attraverso la Parola che è quindi tempo e più che mai necessario che la Poesia si riappropri del suo ruolo originario
Per questi motivi vogliamo oggi lanciare il 10
Manifesto di una Nuova Poesia Umanista Universale per affermare con forza la necessità di una Poesia che - ridia all’uomo una centralità e un valore che non sia quello oggi imperante del denaro e del potere, ma sia invece quello già potentemente affermato dall’Umanesimo e inscritto in una dimensione di Spiritualità, evitando la tentazione demonica di fare dell’uomo una pseudo divinità megalomane e distruttiva in grado di interferire e modificare le leggi dell’Universo - riscopra la permanenza dentro di noi dei miti e dei simboli che danno atto all’uomo della sua sostanziale unità con la Natura e il Cosmo, riallacciandosi a una millenaria tradizione mistica e sapienziale convergente in tutte le epoche e civiltà - affermi con forza quel valore di Libertà che le è connaturato e per cui sono morti nel secolo scorso e continuano ancora oggi a morire tanti poeti, perché il linguaggio della Poesia è per sua natura politico e rivoluzionario affermando insieme l’Uguaglianza e la Differenza e per questo mette in difficoltà chi ha come unico fine la supremazia, lo sfruttamento e la conquista - faccia riacquistare all’uomo la consapevolezza della sua dignità a fronte della spersonalizzazione provocata dalla globalizzazione, e così facendo lo sollevi dal disprezzo di sé che oggi lo rode e dilaga dentro di lui come una ripugnante metastasi cui la mistificazione l’ha condotto - ridia al Sociale, contrastando e demistificando la manipolazione dei media, la sua perduta dimensione spirituale Solo questa poesia potrà trovare un linguaggio che metta l’uomo in contatto con il suo io profondo e lo aiuti a raggiungere una nuova consapevolezza, dando forma alle ansie e alle speranze del nostro tempo non su un piano intellettuale/ideologico, ma su quello della coscienza di sé, del sentimento e dell’emozione, capaci di far vibrare e smuovere gli animi, perché solo il desiderio e l’emozione sono mezzi potenti capaci di indurci al cambiamento. Questo linguaggio potrà essere la forza dirompente che aiuterà gli individui a riconoscersi non semplici pedine su uno scacchiere economico, ma portatrici di quel valore assoluto in nome del quale Omero poteva chiamare “divino” anche Eumeo, semplice porcaro. Questa voce ritrovata di una Nuova Poesia Umanista Universale dovrà levarsi sempre più forte dappertutto nel mondo, mettendo in moto una resistenza spirituale condivisa da un numero sempre maggiore di persone, per contrastare un’economia fuori controllo, causa di una sempre più scandalosa diseguaglianza, ingiustizia, schiavitù, che vorrebbe fare di noi oggetti spersonalizzati manovrati da poteri anonimi e sfuggenti. Ma niente è più forte di ciò che nasce dalle profonde regioni dell’Anima, che sono anche le regioni della Poesia, e questo, aiutando gli uomini a ritrovare la loro “divinità” conculcata, potrà alimentare nel mondo un movimento di salvezza che ci auguriamo inarrestabile. Perché La Poesia è Conoscenza. Perché La Poesia salva la Vita. Donatella Bisutti 11
DITORIALE
Il primo numero di Poesia e Conoscenza è stato accolto con molto favore e questo ci incoraggia a perseguire nel nostro progetto, che ritengo occupi un posto del tutto particolare nel panorama delle riviste di poesia in Italia e si distingua da tutte le altre per gli intenti, certo ambiziosi, che si prefigge. Il primo numero è stato presentato nella Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano , e ne ringraziamo la direttrice dottoressa Bianca Girardi, dando luogo, più che a una semplice presentazione, anche qui con una formula nuova, a un vero proprio spettacolo che ha visto alternarsi poeti venuti anche da lontano a leggere i propri versi, performances, video realizzati per l’occasione, elaborazioni pittoriche gestuali e sonore, lungo l’arco di un intero pomeriggio. L’evento è stato animato dalla partecipazione fra gli altri di Alberto Casiraghi, Vivian Lamarque, Giulia Niccolai, Luisella Carretta, Silvio Raffo, Sandro Boccardi, Luciano Ragozzino. Il video realizzato è stato poi riversato sulla pagina face book della rivista. L’intenzione è quella di realizzare per ogni nuovo numero un evento similare che assuma la consistenza di un festival. In questo secondo numero si affronta nel Dibattito un tema davvero insolito, quello del rapporto Poesia-Economia. Su questa apparentemente insormontabile antitesi, hanno indagato quattro relatori di qualità come Massimo Bacigalupo, famoso americanista, professore all’università di Genova, Gianni Vacchelli, già collaboratore di Poesia e Spiritualità, dantista e biblista, Fulvio Manara, dell’università di Bergamo, filosofo), e Patrizia Gioia, scrittrice, animatrice dello SpazioStudio e collaboratrice della fondazione svizzera Arbor. Con questo Dibattito, che si è svolto anch’esso alla Biblioteca Sormani, premeva sottolineare l’urgenza di aprire un dialogo fra poesia e società. Gli interventi sono corredati da una piccola, e credo davvero nuova quanto a tematica, antologia di testi poetici “classici”, ispirati in vario modo all’argomento “economia”. Fra orizzontalità e verticalità, fra sociale e spirituale, si muove anche il corposo Dossier su Testo Poetico e Psicoanalisi, occasione per riflettere, da varie angolazioni, sul rapporto affascinante e inquietante fra le profondità della nostra psiche e l’espressione artistica. La psicoanalisi, un nuovo strumento che aveva focalizzato 12
l’interesse di letterati e poeti nella seconda metà del Novecento, è ancora attuale oggi in quanto strumento di indagine e di ispirazione, e in quali forme? Lo abbiamo chiesto a uno dei nostri maggiori critici, uno dei primi ad aver applicato la psicoanalisi allo studio dei testi letterari, Elio Gioanola, autore di studi su Leopardi, Pascoli, Montale, Ungaretti che hanno aperto nuove prospettive sulla genesi e sul significato dell’opera di questi poeti. Lo abbiamo chiesto a due psichiatri che si interessano o scrivono di poesia, Antonio Tekel e Giancarlo Stoccoro, i cui interventi intrecciano diversi fili fra la poesia contemporanea e il lettino dell’analista. Questi fili danno atto dell’ineludibilità di un legame profondo fra scrittura poetica e inconscio, spesso altamente condizionante sul piano esistenziale, a volte anche distruttivo, come dimostra la tragica esistenza di un poeta oggi pressoché ignorato, che viene presentato a ragione da Maurizio Spatola in queste pagine come un “caso letterario”: Gian Pio Torricelli, il cui internamento in manicomio durato cinquant’anni ci ricorda la vicenda di Dino Campana o, più felicemente conclusa, quella di Alda Merini. Si è tenuto su di lui, recuperato a una menomata “normalità”, un recente convegno a Rimini, che non mi pare abbia avuto troppa eco. Se ne parla volentieri qui perché sia riparata almeno in piccola parte una grande ingiustizia della vita nei suoi confronti. Del rapporto fra la propria poesia e la psicoanalisi parla in prima persona Marisa Brecciaroli, ricercatrice nel campo della poetry therapy e studiosa di psicoanalisi nell’arte, mentre è il critico e poeta Giorgio Linguaglossa a esaminare un testo “storico” esemplare di Alfredo De Palchi, Sessioni con l’analista. Nella sezione Testi a fronte, abbiamo una presenza prestigiosa, quella della poetessa Patrizia Valduga, che ci ha regalato una resa in italiano di un sonetto di Carlo Porta, in cui la sua bravura di traduttrice non si smentisce, messa a confronto con una analoga traduzione di Dante Isella. Valduga polemizza anche con garbo, acume e ironia sul modo in cui sono stati tradotti in italiano alcuni titoli famosi, in un saggio intitolato appunto “A buon titolo”, riconducendoci alle difficoltà e agli abissi della traduzione. Una nuova sezione, Sinergie, dà atto di interazioni fra gestualità, oralità, figurazione, immagine. Ne fa parte un giovane spammer giapponese, George Yamazawa, i cui testi, che sondano il disagio del suo essere nato in America come figlio di immigrati, i cosiddetti Asian Americans, e trattano della discriminazione razziale e del problema dell’identità, mi sono sembrati molto belli al di là di una presenza scenica e danno atto della vitalità della slam poetry, il cui impatto anche violento sull’ascoltatore è più coinvolgente di quello della poesia “tradizionale”, ma non per questo necessariamente estraneo a una dimensione e a un valore letterario. Una delicata sinergia tra la poesia e l’arte ha dato invece vita a un libro concepito e realizzato come esemplare unico, Wind, di John Taylor e Caroline François-Rubino, che non si sfoglia ma si apre come un ventaglio. Mentre la sinergia con cui Francesca Corrao, professore di lingua e letteratura araba all’università Luiss di Roma oltre che poetessa, è riuscita a cogliere la straordinaria “energia della roccia” coniugando la pulsione della parola e l’immagine fotografica, si è 13
accesa nel wadi di Petra “correndo a perdifiato”. Varia e fitta la presenza dei poeti. Innanzitutto quella di Giampiero Neri, poeta molto amato, che non ha certo bisogno di presentazioni, essendo da tempo considerato un “Maestro”. Ci ha dato in anteprima alcuni testi che faranno parte del suo nuovo libro, in uscita l’anno prossimo da Garzanti, e di questo gli siamo particolarmente grati. Ospite nella residenza di Framura è stata Luisa Castro, giovane e già affermata poetessa spagnola che dirige l’Istituto Cervantes di Napoli, ma appartiene a un’antica cultura minoritaria, quella della Galizia, e scrive per lo più in gallego. In sinergia con la Bogliasco Foundation, la Conversazione sul tema dell’Incertezza fra lei e Manuele Masini, che conosce e traduce dal gallego, venuto per l’occasione da Lisbona dove lavora all’università, si è svolta nella biblioteca di questa prestigiosa Fondazione americana, di cui in quel periodo io ero ospite con una borsa di studio. Nella sezione Poeti segnalerò la prevalenza di temi ispirati alla nostra dolorosa attualità, dall’ecologia, in Naufragi di Giuseppe Langella, non solo professore universitario ma recente autore per Interlinea di un bellissimo Reliquiario della grande tribolazione, ispirato al calvario della Grande Guerra, alla società priva di valori evocata con tagliente ironia da Anna Maria Carpi, traduttrice e poetessa fra le più significative e riconosciute, notissima in Germania, al dramma dei migranti nelle poesie di Maria Stella Eisenberg, pubblicata da Interlinea e attiva nel sociale, e anche nei Frammenti di Angela Passarello, poetessa e artista da tempo milanese ma senza perdere il contatto con le sue ancestrali radici siciliane. Un altro “caso letterario” può essere considerato quello di Vito Trombetta, poeta “in ombra”, amante dei boschi e dei lunghi pellegrinaggi a piedi attraverso l’Europa, autore di un poema affascinante che da anni attende di essere pubblicato interamente e non solo in piccola parte su riviste o in antologie: La stanza bianca. Una voce nuova è quella di un poeta marchigiano, Andrea Lanfranchi, che predilige immagini tratte dalla sua attività di architetto e scrive testi in cui confluiscono e si fondono due poiein, quello della poesia e quello legato alla manualità, agli strumenti e agli attrezzi, che della poesia diventano metafora, forse così trovando inconsapevolmente una risposta alle domande poste dal nostro Dibattito, perché “certi manufatti restituiscono una percezione vera della materia e della luce, nonché un’idea originaria dello spazio.” Il Dossier finale rappresenta un sostanzioso e complesso lavoro di ricreazionetraduzione che mette in gioco tre lingue , due epoche - la nostra e l’Ottocento francese - e due culture - quella francese e quella portoghese. Questo corposo dossier è nato per iniziativa e cura sempre di Manuele Masini, che ce ne spiega la genesi e l’ha organizzato in modo che si possa raffrontare agevolmente con l’originale il testo del poeta portoghese Barahona, ricreazione più che traduzione di un testo di Victor Hugo. Si tratta quindi complessivamente di tre versioni affiancate: quella francese, quella portoghese e quella italiana in modo da 14
permettere di valutare l’opera di ricreazione del poeta portoghese. Veramente un “laboratorio” preziosissimo, di grande valore letterario e scientifico. Esso si inserisce nella nostra ricerca nel campo della spiritualità immettendo una voce dall’Islam: Barahona è infatti di religione musulmana e firma il suo testo con il nome islamico da lui adottato di Muhammad Abdur Rashid Ashraf e il testo di Victor Hugo si rifà al Corano. Inutile aggiungere quanto sia attuale e possa essere considerato emblematico dopo i recenti drammatici eventi questo dialogo con l’Islam di un grande scrittore francese morto quasi alle soglie del Novecento. La rivista ha un nuovo redattore, Andrea Peverelli. La copertina è sempre di Stefania Scarnati. I capolettera escono come sempre dall’inesauribile fantasia e dalla perizia di Luciano Ragozzino. Dario Francesco Pericolosi è colui che dà alla rivista una veste grafica on line e cartacea. La rivista sta cominciando ad aprire delle redazioni all’estero di cui si dà conto nel colophon. Auguro a tutti una buona lettura. Donatella Bisutti
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IBATTITO
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CONOMIA E POESIA
In collaborazione con la Biblioteca Sormani di Milano
Da sinistra: Flavio Manara, Patrizia Gioia, Donatella Bisutti, Massimo Bacigalupo e Gianni Vacchelli Foto di Silvia Venuti
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MASSIMO BACIGALUPO ECONOMIA E POESIA IN AMERICA
I poeti populisti di Chicago Nell’ambito della rinascita poetica americana legata alla fondazione nel 1912 della rivista Poetry di Chicago, i travagli dell’uomo comune e dell’operaio vittima del banchiere sono al centro dell’interesse dei cosiddetti poeti di Chicago. Mi riferisco alla triade Masters, Sandburg, Lindsay. Masters non ha bisogno di presentazione in Italia, vista la popolarità durevole della sua Spoon River Anthology, dove sono sempre i direttori di banca e i giudici corrotti a rappresentare lo sfruttamento interessato e bacchettone contro cui la ribellione è vana. Anche se in Masters c’è poi il gusto della passione, della libertà, della poesia della vita, nonché la condanna del militarismo (la spedizione americana nelle Filippine), in contrasto con il sogno della vecchia America rappresentato per tutti dal corregionale Abe Lincoln. Anche Carl Sandburg (come mostra un recente volume di Franco Lonati: I am the people: Carl Sandburg e i Chicago Poems, Aracne editrice 2015) è un poeta populista che accetta il male e il bene della sua città e si rivolge whitmanianamente a un lettore fraterno e democratico di cui prende le parti. Vachel Lindsay, il terzo dei poeti di Chicago, è un menestrello avveduto che celebra in una poesia William Jennings Bryan, sfortunato candidato populista alle presidenziali sullo scorcio del secolo, campione di un’umanità “crocefissa su una croce d’oro” (la frase è sua), e ricostruisce le fasi emozionanti della campagna in cui l’ovest operoso per un momento sfida lo strapotere dell’est finanziario e affarista: July, August, suspense. Wall Street lost to sense. August, September, October, More suspense, And the whole East down like a wind-smashed fence.1 Un’ampia scelta dei poeti di Chicago (ma non questo componimento, vera epica della politica) fu offerta nel 1958 da Roberto Sanesi nell’importante antologia feltrinelliana Poeti americani da E.A. Robinson a W S. Merwin (1900-1956), riproposta da Bompiani nel 2014 in edizione ridotta e purtuttavia utile (è l’unica antologia di poesia statunitense oggi disponibile in Italia). I modernisti: Wallace Stevens fra ricchezza e povertà Nei modernisti maggiori – Frost, Stevens, Pound, Moore, Eliot, Williams – 18
non abbiamo difficoltà a riscontrare una presenza di temi economici, declinati in chiave sia teorica che storica e personale. Si pensi per tutti al cristianesimo “sociale” espresso da T.S. Eliot nei Choruses from “The Rock”, in cui si dà voce agli operai e ai disoccupati. Wallace Stevens, che aveva fatto studi di giurisprudenza e lavorò nel campo assicurativo, sentenziò in un aforisma che “Money is a kind of poetry”, il denaro è una forma di poesia, lasciando del resto a noi l’interpretazione, come sempre nella sua enigmatica produzione. Il denaro è un segno che sta per altro e conferisce potere (d’acquisto), forse come la poesia, che dà accesso ad altre forme di acquisizione e ricchezza. Certo Stevens fu un lavoratore indefesso e determinato e i soldi non gli mancarono. Il padre gli aveva detto da giovane: “devi pensare a farti una posizione per mantenere una famiglia e provvedere alla tua vecchiaia”. E Wallace rinunciò a dedicarsi interamente alla poesia per mettere prima da parte il denaro bastante a dargli sicurezza economica (scrisse poco o nulla nel decennio successivo alla sua prima tarda raccolta, Harmonium, 1923, finché non ebbe raggiunto una buona posizione e alcuni corrispondenti curiosi lo stimolarono a rimettere mano ai versi). Le parole “ricchezza” (affluence) e “povertà” (poverty) hanno rilievo tematico nell’opera. La povertà economica ma anche spirituale richiede, rende necessario, lo sforzo creativo dell’immaginazione: Then from their poverty they rose, From dry catarrhs, and to guitars They flitted Through the palace walls. They flung monotony behind, Turned from their want, and, nonchalant, They crowded The nocturnal halls... Poi dalla loro povertà si levarono, da secchi catarri, e a chitarre per le mura del palazzo trasvolarono. Gettarono la monotonia alle spalle, la loro miseria, e con nonchalance affollarono le notturne sale... Così nella poesia The Ordinary Women, le “donne ordinarie” che trovano un momento di liberazione dalla “monotonia” e dai “secchi catarri” nei “palazzi” (cinematografici) e nelle “sale” (da ballo). È evasione, termine di solito sentito con accezione negativa. Invece in Stevens si tratta di accedere a una realtà più 19
gioiosa e vera, quella della creatività e della fantasia. Hemingway, che ebbe con Stevens un famoso scambio di pugni a Key West (da cui il più alto e grosso Stevens uscì ammaccato ma convinto di aver avuto la meglio), scrisse un’analoga difesa di ciò che libera dalla routine aguzzando le nostre percezioni nel racconto Il giocatore, la monaca e la radio (1933). Quando un messicano dice al protagonista Mr. Frazer ricoverato in ospedale che la religione è l’oppio dei poveri, Frazer riflette: “Sì, e la musica è l’oppio del popolo. [...] E ora l’economia è l’oppio del popolo; insieme al patriottismo, che è l’oppio del popolo in Italia e in Germania. E i rapporti sessuali? Erano un oppio del popolo. Di qualcuno in mezzo al popolo. Di qualcuno dei migliori in mezzo al popolo. Ma il bere era un sovrano oppio del popolo, oh, un oppio straordinario. Anche se qualcuno preferisce la radio, altro oppio del popolo, roba a buon mercato che aveva appena usato anche lui”2. Non si può liquidare nulla come “oppio del popolo”. E si sa che Hemingway aveva un debole per la religione. Quello che egli dice per via negativa – tutti abbiamo il nostro oppio – il neoromantico Stevens lo dice riprendendo con ironia raffinata l’idealismo di un Wordsworth, la ricerca del conoscere attraverso un “oppio” che poi non è esterno a noi ma nasce da un rapporto con il mondo, la natura, l’opera umana. La “povertà” delle donne, lungi dall’essere una condizione riservata alle vittime ignare della società, è condizione umana generalizzata. Robert Frost e il buon senso yankee Nella poesia di Robert Frost, che si identificò col paesaggio boscoso e pietroso della Nuova Inghilterra e con i suoi abitanti yankee, laconici risparmiatori, troviamo diverse indicazioni disilluse sull’economia dell’esistenza. Per esempio è celebre quanto misteriosa la poesia Provide Provide, che in terzine a rima baciata raccomanda al lettore di “provvedere” prima che sia troppo tardi: Make the whole stock exchange your own! If need be occupy a throne, Where nobody can call you crone. Fa’ tua la Borsa, tutta la Borsa valori! Occupa un trono, se questo bisogna: Non ti darà nessuno della vecchia carogna.3 Inutile ingannarsi sulla realtà economica: Alcuni hanno puntato sul loro sapere; Altre persone solo su essere sincere. Per te, come per loro, questo può valere. Gli avvertimenti sono ambigui, quasi consigli del diavolo. (Dobbiamo essere 20
sinceri – nell’originale true vuol dire anche “fedeli” – o fidarci dell’esperienza?) La morale è forse che ognuno deve decidere (provvedere) per sé, non può delegare. Ma un po’ di buon senso, calcolo e preveggenza, non guasta. Nella poesia Alberi di Natale (anch’essa nella raccolta Conoscenza della notte curata da Giudici, purtroppo dal 2003 non più ristampata) Frost offre addirittura una contrattazione. Un uomo di città lo visita in campagna per comprare i suoi abeti, calcola che sono mille e gli offre trenta dollari. Il poeta rurale calcola che sarebbero 3 centesimi per albero: troppo poco. Sicché decide di tenerseli: Mille alberi di Natale, che non sapevo di avere, E che dati via in dono valessero tre cent più che venduti, Come un semplice calcolo può dimostrare! Peccato che non possa entrare in una lettera: Ma come avrei voluto almeno uno mandarvene Nell’augurarvi con la presente un Buon Natale. Frost scrive poesia insieme arguta e piana, amichevole e sardonica. Non so quanto sia chiaro il calcolo economico che offre qui. Ci provi il lettore. Ezra Pound poeta economista Ovviamente il caso più vistoso fra America e Europa di poeta economista è quello di Ezra Pound, che tenne addirittura nel 1933 una serie di conferenze alla Bocconi, da cui trasse l’opuscolo ABC dell’economia (ma Eliot osservò che i manuali di Pound non mantengono la promessa implicita di semplificare l’argomento). Pound scopre lo sfruttamento economico come tema alla fine della Grande Guerra, e nel poemetto canonico Hugh Selwyn Mauberley (anch’esso tradotto da Giudici) inveisce contro usury age-old and age-thick / and liars in public places (usura antica di scorza e di età / e bugiardi nei pubblici poteri). I potenti come propalatori di menzogne. È l’atmosfera di denuncia diffusa alla fine della catastrofe del 1914-1918. L’usura riapparirà come filo conduttore del poema sacro e profano (ed economico) di Pound, i Cantos. Il celebre Canto 45 afferma che “con usura nessuno ha una casa fatta di buona pietra”, e “non con usura venne Angelico”, o i Gonzaga, o il Giambellino. Così Pound unisce alla sua protesta contro l’economicismo il suo sogno medievale-rinascimentale. Il canto 45 si apre (insolitamente) con un titolo in corsivo: With Usura With Usura hath no man a house made of good stone each block cut smooth and well fitting In una delle sue trasmissioni da Radio Roma, Pound lesse e commentò questi 21
versi (vedi Se questo è tradimento, Udine 2006, pp. 70-71). Spiegò che nel titolo (ma non nel primo verso) aveva in mente il significato arcaico di with: contro. Nel dopoguerra ribadirà: Bellum cano perenne / fra l’usuraio e l’uomo che vuol fare un buon lavoro. Così il suo poema ha un tema di fondo, e interi canti raccolgono e trascrivono dati economici sul rapporto oro-argento, sulle monete islamiche, sull’interesse sui prestiti nelle varie epoche. Dalla qualità di un dipinto è possibile dedurre, sostenne Pound, la tolleranza dell’usura vigente al suo tempo. L’età barocca sarebbe un’epoca usuraia, visto che in arte e architettura Pound aveva gusti futuristi-preraffaelliti. Così nella prima pagina dei Canti pisani, accanto all’immagine tragica di Mussolini “per i calcagni a Milano” (novella vittima sacrificale dell’usura) appaiono i perenni mosaici di Santa Maria in Trastevere, “Sponsa Christi in mosaico fino al nostro tempo”, cioè la nitida arte medievale già cara a John Ruskin. Da questi contrasti violenti nasce una poesia efficace, icastica, che alla violenza dei tempi risponde con la violenza dell’impeto e della protesta. All’economia sono dettagliatamente dedicati i canti che precedono l’invettiva contro l’usura del Canto 45, che ripercorrono la fondazione del Monte dei Paschi senese (il nome era di per sé garanzia), trascrivendone gli atti notarili. Gianfranco Contini ha scritto acutamente di queste avventure di Pound fra vecchi incartamenti di difficile decifrazione (vedi Una ghirlanda per E.P., a cura di A. Rizzardi, Urbino 1981). Altrove Pound insiste che senza l’economia non si capisce la storia, e che Il Bardo di Avon menzionò l’argomento / Dante menzionò l’argomento, / e i professori di letteratura discutono altri passi / in abuleia / o in totale incoscienza (Canto 93, 1955). Cioè l’economia è stata trattata dai maggiori suoi predecessori. C’è un precedente per i Cantos, l’unico poema a essere fondato sull’economia, come notò il non proprio imparziale Giano Accame, nel peraltro utile volume Ezra Pound economista (Roma 1995), che ha in copertina un collage del neofuturista Pablo Echaurren.
Da Bryan, Bryan, Bryan, Bryan, 1919 Traduzione di Vincenzo Mantovani 3 Traduzione di Giovanni Giudici 1 2
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PATRIZIA GIOIA L’ESPERIENZA DEL “FARE SACRO”
Per entrare subito nel tema, non posso non trarre esperienza dal momento di riflessione “L’economista mistico”1 che tempo fa organizzai, ricordando che nulla è separato né separabile. Dobbiamo reimparare a tenere insieme tutti i saperi dell’uomo: “indisciplinare le discipline” (parole dell’amica Antonietta Potente che ci aiutano a tornare a essere creatori, liberatori e risvegliatori); colligere fragmenta, come recita la frase evangelica. Ricomponiamo i frammenti, perché frammentare la conoscenza significa frammentare colui che conosce. E non occorre disturbare una morale eretica: basterebbe ripassare quella evangelica (quanto di più umano esista). Chiederci: “ma che cosa c’entra l’economia con la poesia?” è come domandarci: “ma cosa c’entra il mio cuore con il mio fegato?” La cura deve tenere insieme ogni nostra dimensione e ogni nostro organo. L’uno ha influenza su ciascuno degli altri, l’armonia tra le parti è la salute. Corpo, anima, spirito, una formidabile tripartizione: la nostra umanità. Osserviamo come è definita nel vocabolario Devoto Oli la poesia: “Poesia, l’espressione di un contenuto spirituale in corrispondenza di peculiari schemi ritmici e stilistici, tradizionalmente contrapposta a prosa... il momento in cui si realizzano le possibilità creatrici e suggestive delle intuizioni e della fantasia… motivo di ispirazione, idealizzazione, illusione e ancora: la produzione letteraria in versi, nel quadro di una classificazione storica o estetica o di una attribuzione individuale”. Vediamo ora che cosa ci dice sempre il vocabolario Devoto Oli alla parola economia: “Impiego razionale del denaro e di qualsiasi altro mezzo, diretto a ottenere il massimo vantaggio col minimo di sacrificio, quindi cauta ed oculata e anche parsimoniosa amministrazione, risparmio”. Quel che dice il vocabolario ci potrebbe subito far pensare che i due campi sono troppo distanti per influenzarsi mutuamente. Che hanno da dirsi spiritualità, intuizione, fantasia, con razionalità, massimo vantaggio, minor sacrificio? Proviamo invece a tornare alle origini della parola economia, che in greco (oikos nomos) letteralmente significa “legge della casa”, o “governo della casa”. Certo che vorremmo governare al meglio la nostra casa, ma ci siamo dimenticati che la nostra casa è prima di tutto relazione: la ragione e il cuore; me e l’Altro; noi e la città, lo Stato, il mondo, il cosmo. E questa relazione è la stessa che esiste nella Poesia. Scrive Gustave Thibon, filosofo francese scomparso nel 2001, detto “il 23
filosofo contadino”, che nel 1941 ospitò nella sua casa Simon Weil: “l’infinito si ritrae indefinitamente da chi corre a conquistarlo e si dona a chi lo osserva senza muovere un passo”. E questo rapporto di dare e avere è Economia. Se ci fermassimo e provassimo a stare in silenzio, ci renderemmo conto che quando una parola smarrisce il suo significato diventa paradossalmente “più spendibile”, una parola economicistica che ci permette di “usarla”, spendendola in tutti gli ambiti che ci fanno piacere. Ma senza più valore alcuno, perché abbiamo violato il primigenio significato di quella parola, e questa violazione ha deprivato d’energia noi e il cosmo intero. Una parola anenerge, una parola che non crei realtà, una parola che non produce quello che dice è parola vana. È il silenzio che nutre la parola. Oggi “fare economia” è diventata un’espressione negativa, perché la accomuniamo subito alla rinuncia, e non sappiamo più, né vogliamo, rinunciare a niente. Potremmo invece fare dell’economia davvero il buon governo della nostra comune casa, dove lo spirituale sta insieme all’economico e al politico, come sapevano grandi imprenditori illuminati del passato che hanno fatto poesia del loro lavoro economico, benessere non soltanto per loro. Dobbiamo riaprirci al senso profondo e creativo del sacrificio, ritrovando sia l’esperienza spirituale che quella psicologica del “fare sacro”, un momento e un movimento che coinvolga noi e l’altro, che coinvolga la solidarietà e l’empatia, che coinvolga il nostro spazio e il nostro extra ordinario tempo, mettendoci in una feconda relazione con tutto il creato. Nel “fare sacro” si parla di essenza e non di superfluo, perché per fare buona economia e buona poesia si tratta di togliere quel che non serve, di sottrarre, di eliminare, di ridurre, di levare per arrivare al nucleo profondo dell’Essere (qui la maiuscola è essenziale). Solo se sapremo bruciare tutto, anche il dolore scomparirà. Perché il dolore, scrive Raimon Panikkar, è “il fumo prodotto da tutto ciò che era troppo verde per il sacrificio”. Il sacrificio è ciò che conserva e che perpetua la vita, ciò che dona la vita e le infonde speranza. È ciò che permette all’Essere di essere. A Monserrat, l’abbazia stretta tra le morbide montagne della Catalogna, dove il mio amato amico Raimon Panikkar officiò la sua prima funzione sacra, c’è una statua – che stranamente non si trova tra le mille immagini in vendita sul posto e nemmeno fotografata in Internet -, un grande angelo di bronzo nero. Il viso sorridente non è né maschile né femminile, le fiamme che arrivano da sotto i suoi piedi sono quelle che vanno a formare le sue ali e al posto del cuore c’è un buco. Ecco il cuore puro: è solo quando tutto è tolto, quando tutto sembrerebbe addirittura perduto, che emerge la natura dell’essere, la nostra vera natura, e ci ritroviamo al posto giusto con quel che ci occorre, né più, né meno. E questo “niente” basterebbe per tutti. Sarebbe una nuova ridistribuzione dei pani e dei pesci. Un rinnovato miracolo economico, proprio come fu quello di Gesù. “Il nostro futuro dipende da quello che sarà il futuro della nostra natura 24
umana”, dice Panikkar: è una trasformazione antropologica quella a cui siamo chiamati. Ma non solo oggi, da sempre, la natura dell’umano è trasformazione. Oggi ci sembra solo più urgente perché abbiamo peccato molto di omissione. Ma da sempre s’alza l‘eterna voce della Sapienza. Ascoltate per esempio cosa dice l’antico libro sacro dei Veda2: ” Brahman è coscienza e gioia / la suprema ricompensa di colui / che offre doni / e di colui che sta zitto e conosce”. Il poeta Rainer Maria Rilke andò da Rodin per imparare l’arte del “cuore puro”: aveva intuito che Rodin era un grande economista. Rodin conosceva la pietas per la terra che plasmava e con questo gesto “sacro” rendeva all’invisibile quel che non serviva più. Ecco perché sapeva far pulsare le vene dei polsi, lo sforzo del muscolo, lo sguardo e il sorriso della pietra: Rodin sapeva economizzare lo sforzo, rendendo libera la materia. Fu osservando silenziosamente e quotidianamente Rodin, che Rilke iniziò a uscire dalla facile ma sterile ricchezza ridondante della sua parola e iniziò a non dire, a guardare e ascoltare la silenziosa musica del vuoto, tra un passo e l’altro della pantera che nella gabbia chiedeva la sua economia, il suo spazio, il suo peso, il suo tempo: Dal va e vieni delle sbarre è stanco l’occhio, tanto che nulla più la trattiene. Mille sbarre soltanto ovunque vede e nessun mondo dietro mille sbarre Molle ritmo di passi che flessuosi e forti girano in minima circonferenza, è una danza di forze intorno a un centro ove stordito un gran volere dorme 3 “La poesia trova riparo / dove l’uomo si prosciuga”, scrive Dome Bulfaro nel suo ultimo libro di poesia, Prima degli occhi4. E ancora Rilke nel Canto d’amore e di morte dell’Alfiere Christoph Rilke: “Si daranno cento nomi diversi e di nuovo se ne toglieranno, / tutti piano, come si toglie un orecchino.” “Il linguaggio dei poeti è simile a quello degli amanti”, scrive Flavio Ermini nel suo Rilke e la natura dell’oscurità5. “Infatti anche l’amore viene riconosciuto nella sua perfezione non quando aderisce a un tu, ma quando si orienta al di sopra di esso, verso ciò che è senza oggetto: verso l’aperto”. E che cos’è la vita se non l’arte di imparare a vivere sul bordo di un abisso senza voler possedere nulla? Un togliere quel che non serve più, tornare ad essere “nudi”: ecco l’essenza del messaggio di Francesco d’Assisi, non un’utopia ma un’indicazione per la nostra vita quotidiana, indicazione totalmente tradita, dato che continuiamo ad accumulare. Questa è “la lupa” di cui ci parla Dante, l’avidità che non è mai sazia. Sperperiamo, accumuliamo senza saper fare economia del patrimonio che 25
ci è stato dato in uso gratuitamente. “Saremo sommersi dai nostri rifiuti”, scrive Ghandi. È nostro e vivo, invece, solo quello che sappiamo trasformare. Vorrei concludere queste riflessioni con la mia esperienza di poeta economista. Nel mio ultimo libro di poesia, TITA, su una gamba sola6, le parole scritte volevo fossero tutte necessarie. Lavorando così, ho ridotto le pagine: l’umiltà della sottrazione e non la prepotenza dell’accumulo. Lavorando così, arriva un momento in cui senti che il silenzio ha nutrito la parola. E così ho guadagnato io nello scrivere e i lettori nel leggere: in questo modo ho contribuito a che meno alberi vengano abbattuti, e uccelli, scoiattoli, api e margherite conservino il loro habitat nella nostra comune casa. E che cos’è questo se non mettere insieme poesia ed economia?
1 Momento di riflessione a Milano, al teatro Filodrammatici, a cura di Patrizia Gioia, Fulvio Manara, Gianni Vacchelli, organizzato con il prezioso contributo di Fondazione Arbor. Gli atti del convegno, con relatori di fama mondiale (Serge Latouche, Riccardo Putrella) sono a disposizione di chi volesse, tramite invio mail a: info@spaziostudio.net. 2 Brihadaranyaka Upanishad III, 9, 28. 3 Da R. M. Rilke, La pantera, in: Libro delle ore (1905). 4 Edizioni Mille Gru, 2015. 5 AlboVersorio, 2015. 6 Mille Gru, 2012.
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FULVIO CESARE MANARA UN PARADOSSO SOLO APPARENTE NOTE SU POESIA ED ECONOMIA Non è così comune mettere una accanto all’altra due parole come “economia” e “poesia”. Non si stabilirebbe tra loro un’immediata vicinanza. Per alcuni questo genererebbe un ossimoro o un paradosso. Sembrano infatti rappresentare l’uno la negazione dell’altra. In questa sede non farò nient’altro che richiamare alcune dimensioni di questo apparente paradosso, per proporre un esercizio di pensiero che esplori possibili trascendimenti di tale contrapposizione dialettica. Non quindi un discorso che vada a vedere sul piano pratico, concreto, come la poesia e l’economia si mescolino continuamente nella nostra esperienza. Ci porremo invece che sul piano dei fatti, su quello del pensiero. Perché le parole con le quali noi pensiamo queste categorie non sono da dare per scontate. Come scriveva Simone Weil1: “Chiarire le nozioni, screditare le parole congenitamente vuote, definire l’uso delle altre parole grazie a precise analisi; ecco qui, per strano che possa sembrare, un lavoro che potrebbe preservare molte vite”. Vorrei offrire pertanto un mantramanjari di paradossi. Un’antologia di parole che il senso comune giudica come contradditorie e conflittuali. 1. Utile/inutile Prendiamo come spunto di partenza le parole di Montale in proposito. Come sappiamo, riflettendo sulla sua esperienza di poeta, durante la cerimonia di consegna del premio Nobel, Montale ebbe modo di affermare che la poesia è un prodotto assolutamente inutile, per quanto per lui abbia rappresentato una vocazione assolutamente endemica e ineludibile. Anche in queste parole del grande poeta italiano si riflette la dialettica da cui prendiamo le mosse: economia e poesia sarebbero campi contradditori perché la prima rappresenta il terreno dell’utile e la seconda quello dell’inutile. D’altra parte, sono stati in molti, non solo Montale, a porsi la classica domanda “qual è l’utilità della poesia?”. Apparentemente, la distinzione regge. L’utile rappresenta ciò che possiamo adoperare, usare ai fini del necessario, ciò che facciamo per garantirci la sopravvivenza. O magari, procurarci profitti e guadagni, proprietà e benefici. L’inutile è invece ciò che riguarda la creazione e l’invenzione, lo spazio evanescente dell’animico e dello spirituale, quei saperi, quelle esperienze culturali che non hanno a che fare con la sostanza materiale dell’esperienza della vita e i suoi bisogni. Per questo si tenta di ricondurre l’inutile all’utile: ci si chiede quale sia l’utilità dell’inutile. Ci dovremmo invece interrogare sull’utilità dell’utile, o meglio, di ciò che 27
comunemente riteniamo utile. Sono utili l’economicismo e l’ideologia dell’homo oeconomicus? Quali sono i buchi neri dell’utilità? A questo proposito ci viene in aiuto un’espressione di Paul Éluard, quasi in apertura di un discorso a Londra del 1936, dove a un certo punto afferma, lapidariamente, che “La poesia è più utile del pane”. Proviamo a riflettere su questa affermazione. Chi fa il pane in casa, compie un’opera non solo creativa, ma anche, letteralmente, poetica. Certo, fisiologicamente, la poesia non nutre come il pane. Ma quanti tra gli esseri umani sono sopravvissuti alla disumanizzazione brutale o anche alla morte solo grazie alla poesia? Togliere la poesia (e l’amore, l’amore-passione, come dice sempre Éluard) all’essere umano non lo uccide forse ancora più brutalmente della forza fisica? E quanto viceversa una produzione del pane secondo criteri industriali ed economicistici non peggiora invece le nostre condizioni di vita? C’è di che riflettere, come vediamo, non solo sull’utilità dell’inutile, ma sull’inutilità, o addirittura la dannosità, di ciò che riteniamo utile. 2. Prodotto/creazione All’interno di questa tensione paradossale tra mondo dell’utile e mondo dell’inutile possiamo anche considerare il significato profondo della parola stessa “poesia”. Poiēsis, derivando dal verbo greco poiéō, può significare “produzione”, “preparazione”, “costruzione”, perfino “procreazione”, prima che “creazione”. Un prodotto, o una costruzione creativa. Sembra evidente che si tratti di due mondi distinti. Uno, quello della produzione e riproduzione seriale su scala industriale, all’interno di un sistema di mercato. L’altro, quello della libera creazione che sarebbe priva di valore economico se non inquadrata e supportata, appunto, da un “sistema produttivo”. Voglio porre, a questo proposito, due domande. C’è una dimensione creativa nell’economia, che si differenzia dalla semplice produzione-ripetizione di oggetti di consumo, dalla semplice ossessiva produzione di profitto? C’è una dimensione economica nella creazione artistica, e nella produzione poetica, che permetta di farne una maniera di vivere, se non un “mestiere”, una “professione” nel senso derridaiano? 3. Processo/sostanza Fin qui si è detto dei “prodotti” – economico e poetico – e delle possibili contraddizioni. Interroghiamoci ora sul soggetto sia dell’economia che della poesia. Conosciamo bene quale sia il soggetto dell’economicismo: l’homo oeconomicus. Con Illich, potremmo dire che è “il soggetto del pervertimento dell’umano”. O, riferendoci a Günther Anders, potremmo dire: “la realizzazione dell’obsolescenza dell’umano”. Faremmo bene, credo, a interrogarci sul soggetto che agisce nell’azione, come anche sulla nostra tendenza a reificare ogni cosa secondo processi di pensiero 28
che si sclerotizzano divenendo astratti e privi di radici. Questo è tipico della riflessione filosofica di questi ultimi due secoli: cercare di considerare non solo e non tanto ciò di cui parliamo, ma chi è che dice ciò che dice, chi è che parla, chi è che opera ciò che opera. È in gioco la comprensione stessa del nostro essere umani. Se parliamo di poesia ed economia infatti, è anche questione di stile e di ethos, di modi di essere e di sentire, oltre che di modi di operare. A questo proposito, varrà riprendere una famosissima citazione da Gibran2, che dice: “Alcuni sentono con le orecchie, altri con lo stomaco, e altri ancora con le tasche; ce ne sono poi altri che non sentono affatto”. Da questo dipende che tipo di esseri umani siamo. Evidentemente, ce ne possono essere molti diversi. Difficile davvero darne una esauriente classificazione, altresì impossibile definire univocamente una “natura umana”. Ma sembra evidente che se non ci si preoccupa almeno di cercarla, possiamo non solo finire col renderla evanescente, ma anche con il generare i mostri di una disumanizzazione distruttiva che travolge tutto, gli uomini, il mondo, gli dei, nel suo crollo. Tolstoj poneva una questione in parte analoga quando scriveva il suo straordinario racconto Cosa fa vivere gli uomini. Ciò che li rende vivi non è qualcosa di utile, o forse è la cosa più utile, reale, per quanto immateriale e forse invisibile. È qualcosa di altrettanto concreto e reale del gelo e della fame. 4. Lavoro/opera È a tutti noto perché la scritta appesa all’ingresso di Auschwitz rappresentasse un pervertimento terribile. Purtroppo, ancora oggi, il lavoro sembra non essersi liberato dalle caratteristiche negative per cui in diverse lingue la parola che lo connota deriva da un vocabolo latino che indicava uno strumento di tortura (tripalium, da cui travail, trabajo, trabalho, e il “travagliare” di molti dialetti italiani meridionali). Quell’espressione scritta dai nazisti ancora potrebbe essere posta all’esterno di molti luoghi di lavoro nelle nostre società cosiddette “libere”, generando la stessa amara sensazione di pervertimento: perché il lavoro in troppi luoghi della terra continua a essere e anche da noi è tornato a essere una maledizione, una forma di tortura e uno strumento di dominio, oppressione e schiavitù. In ogni caso, in economia, si tratterebbe di lavorare, mentre nella poesia e nelle arti di creare opere. Due campi impermeabili fra loro? Ma che cosa rende libero l’essere umano? La riproduzione e la ripetizione evidentemente lo impoveriscono. La creatività esprime invece la libertà, a tutto vantaggio della stessa economia. Olivetti, come industriale, l’aveva intuito. Questo è un campo, come ci ha mostrato Simone Weil, in cui “screditare le parole congenitamente vuote”3 diventa un compito morale, un dovere intellettuale, un compito filosofico e sociale di portata inestimabile. 5. Ricchezza/povertà Sarebbe facilissimo richiamare dati storici e sociologici a tutti noti. Quanto 29
spesso è accaduto che artisti e poeti abbiano vissuto in condizioni economicamente disagiate, per non dire di radicale povertà? Sembrerebbe un fatto inevitabile, una conferma della lacerazione tra attività economiche e arte poetica. Dietro tutto questo, ovviamente, fa capolino la tensione sul problema del valore, sulla pluralità e contraddittorietà dei valori, e sui paradossi che ne conseguono. Nell’era dell’economicismo folle, appiattito sul pervertimento dell’utile in profitto, in un contesto a rischio di tragedia, che può fare la poesia nella sua nuda povertà? Propongo una breve lettura da La regola di Taizé4, la comunità ecumenica e internazionale di monaci in Francia, non lontano da Lione. Nel capitolo dedicato alla “Comunità dei beni” della loro Regola si legge: “L’esprit de pauvreté ne consiste pas à faire misérable, mais à tout disposer dans la beauté de la création”. Indicazioni mistiche, ma di una mistica concretamente esperibile. Lo spirito di povertà consiste nel disporre ogni cosa nella semplice bellezza della creazione. Non è questo un atto poetico? È un contribuire creativamente al dispiegarsi della creazione. E anche un atto economico in senso pieno, se economia è oikos nomos, ossia ordine della casa, ordine cosmico, dharma. E un atto che disvela il poetico nell’economia, ristabilendo l’ordine in merito alla nostra nozione di ricchezza, oggi sempre più sperequata, spesso frutto di rapina. Un’opera e una parola che richiamino la semplice bellezza della creazione, la cui contemplazione e scoperta nella meraviglia non può certo essere una fuga dalla realtà. Perché la “contemplazione”, come ci ricordava Panikkar5, “ha intrinsecamente una dimensione politica, sociale, mondana nelle navate del mondo”. Essa è un’opera: l’arte della vita.
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Simone Weil, La Condition ouvrière, Paris, Gallimard, 1951. Khalil Gibran, The Prophet, New York, Alfred A. Knopf, 1923 (115a rist, 1986). 3 Weil S., Ne recommençons pas la guerre de Troie (Pouvoir des mots), in Écrits historiques et politiques. Deuxième partie: Politique, Paris, Éditions Gallimard, 1960. 4 La regola di Taizé, VI ed., Brescia, Morcelliana, 1978. 5 Raimon Panikkar, Contemplare nelle navate del mondo, in: L’utopia di Francesco si è fatta ... Chiara, Assisi, Cittadella, 2008. 2
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GIANNI VACCHELLI LA POESIA PROFETICA E CRITICA DI DANTE LA DENUNCIA DEL REGNO DELLA LUPA
Poesia ed economia: alcune suggestioni introduttive Il tema scelto, insolito e più che mai necessario oggi, ci porta subito a riflettere sulla imprescindibilità del principio-economia. Si tratta naturalmente di un tema immenso, tanto che non può esistere una interpretazione della realtà intera senza tenere adeguatamente conto di questo principio. Non si tratta di assolutizzare l’economia, di considerarla marxianamente struttura da cui germina ogni sovrastruttura. Il principio-economia non è l’unico, ne esistono altri (un principiointeriore/spirituale, un principio-misericordia, etc.), eppure, quanto più oggi, in periodo di economicismo assoluto e totalitario – tale principio diventa quasi rivelativo dell’umano e del non-umano, di quale piega prende la realtà. Dimmi che economia fai e ti dirò chi sei. L’economico oggi rivela la sfigurazione dell’umano (ma anche del divino, del cosmico) ed eventualmente la sua ri- e con-figurazione. Naturalmente l’economico influenza la poesia. In parte la cagiona, certo non totalmente. Del resto parlare rettamente dell’economico significa anche ricordarsi che esiste un elemento materiale fondamentale. Posso fare poesia se ho il necessario di cui vivere, se ho cibo per nutrirmi. L’economico è ancora rivelativo: della morte che produce (oggi), della necessità di garantire un principio materiale di vita per tutti (come non avviene oggi). Insomma l’economico determina la poesia in molti modi e sensi. Ci potremmo poi chiedere quanto la poesia determini l’economico, quanto lo modifichi, lo trasformi. Oggi di fatto forse in nessun modo. Il che ribadisce il degrado antropologico nel quale siamo. Ancora: la poesia può avere una sua “teoria critica”, o meglio: criticopoetica, dell’economia. E qui, per noi, il fulcro è Dante. La selva oscura dell’oggi Nessuno legge un testo in vitro. Siamo dentro un contesto, che pure dobbiamo interpretare e che ci determina, e che ci porta ad alcune sottolineature o ad altre. Il contesto può ammorbarci, destituirci: in quel caso neppure siamo coscienti che è un contesto e che noi vi siamo dentro. Ebbene, il contesto nel quale siamo e dal quale partiamo per rileggere Dante, e per essere da lui riletti, è quello di una fittissima “selva oscura”, di una “notte del mondo”, per dirla con Heidegger. La selva, la notte è quella di un nichilismo economicistico e crematistico onnipervasivo, biopolitico, necrofilo. Ancora più radicalmente potremmo dire che ci troviamo a vivere un nuovo totalitarismo, il terzo del XX secolo e l’unico sopravvissuto nel XXI, proprio per la sua viralità, per la sua subdola e terribile 31
raffinatezza, per la sua aggressività perniciosa (quasi cellulare). Si tratta di un totalitarismo, oggi neoliberista, che ha però radici ben più antiche: è un effetto di una certa idea di modernità, come elaboreremo più tardi. Esso oggi sembra non avere alcuna resistenza (a differenza di fase più dialettiche del capitalismo). Naturalmente la parola stessa “totalitarismo” è discutibile. L’ideologia ideologicissima che ci domina si è proprio presentata come fine delle ideologie e fine della storia: e le due ideologie più terrificanti sarebbero appunto i due totalitarismi nazista e sovietico. Chi ci avrebbe affrancato da tutto ciò appunto altro non sarebbe stato che una forza di liberazione, di cui si occultano sempre i crimini atroci, a cominciare dalle due bombe atomiche del 1945. Il fatto di essere un totalitarismo apparentemente non totalitarista, che asservisce ma che soprattutto si serve della schiavitù volontaria dei suoi asserviti1, rende il dispositivo odierno molto più complesso ed evoluto, nella sistemica del male e del negativo, rispetto ai suoi precedenti2. La lezione mistico-critico-politica dantesca: tra interiore ed esteriore La tesi fondamentale è che il nesso dantesco è mistico-critico-politico, interioreesteriore, intimo-comunitario. Questa costante coincidentia oppositorum, che attraversa tutta l’opera dantesca, è la marca del trinitarismo ontologico dell’avventura umanopoetico-mistica di Dante. Il trinitarismo dantesco tiene insieme costitutivamente la dimensione divina, quella umana e quella cosmica (perché questa è la trinità radicale della realtà). Ecco perché anche le discipline non possono essere disgiunte e autonomizzate nel pensiero dantesco: la poesia, regina, non è senza la filosofia, la teologia, la scienza, la politica, l’economia, etc. Non avranno pure statuto di scienza nel senso moderno alcune di queste: ciò non toglie che nessuna può essere assolutizzata. Tanto meno l’economia, l’“a-teologia nichilista e acefala” del nostro tempo. La trinità è relazione. Ecco perché, fin dal primo canto, Dante mette in evidenza in modo inequivocabile la sua via mistico-critico-politica, dentro la selva oscura personale e collettiva del suo tempo. Il ritrovamento di sé, del Sé E così nel suo incipit Dante fotografa lo smarrimento suo e dell’umanità, ed insieme, in filigrana ma chiarissimo, il ritrovamento: Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita (If I,1-3). La prospettiva è fin da subito comunitaria, ma ancora di più: integrale. Al centro c’è la nostra vita, la Grande Vita, la vita dell’umanità tutta, la vita in tutta la sua manifestazione divinoumanocosmica. La Grande Vita si articola, si declina nell’irripetibilità di un “mi”: si fa persona, si fa corpo, si fa intimo: la Grande Vita e la mia vita, particolare, unica e interconnessa a tutto. Il nesso è chiarissimo fin 32
dall’inizio. E così mi ritrovai per una selva oscura dice anche, fin da subito: “ritrovai me stesso, ritrovai il mio essere, la mia essenza, il mio sé, il Sé, attraverso, dentro una selva oscura”. L’antropologia dantesca è attiva: l’uomo esiste nascendo da più nascite, umanizzandosi in un cammino progressivo e insieme sincronico. L’uomo esce dal sonno (non fisiologico) in cui è immerso (cfr. If I,11) e si risveglia alla realtà, alla vita. Così si incarna, così diventa ciò che è. E così può manifestare nella realtà la sua essenza. Come non sentire attuale, fondamentale e necessario questo movimento interiore, umano, mistico, nel nostro tempo, dove l’uomo appare disgregato, “uomo di sabbia” (Ternynck), “identità fluttuante” (A. Elliott), “liquida” (Baumann), di un “solipsismo senza ipse” (Adorno), di un narcisismo senza io? Il primo movimento per rispondere all’alienazione, all’uomo divenuto feticcio, merce, meccanismo, strumento, abisso impersonale, è il “mi ritrovai ”, le mie profondità. Dire che il primo movimento è mistico-interiore non significa tanto stabilire un ordine cronologico. La pienezza dell’uomo per Dante è sempre insieme misticopolitica, intimo-comunitaria. Se l’uomo non si fa “compagnevole animale” (Cv IV, iv, i), è intimista. Se è solo sociale, si aliena da se stesso, dal fondo infinito che lo abita. I due movimenti sono quindi interconnessi, sincronici, anche se pedagogicamente, come fa qui Dante, potremmo mettere in evidenza per primo il recede in te ipsum. La denuncia critico-profetico-utopica Ma a questa primizia di ritrovamento segue, poco dopo, la denuncia del “regno della lupa”. Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame, questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza (If I,49-54). Da una parte, storicamente, Dante sta bollando quello che potemmo dire un proto-capitalismo3, un “bieco affarismo”4. Più radicalmente ancora la lupa è un pervertimento sì sempre intimo ma evidentemente politico-sociale: è una forza devastante di accumulo, di brama monetaria, di moltiplicazione smisurata delle ricchezze5, una cupiditas che disarticola il singolo interiormente ma getta in rovina, in miseria (cfr. “fé già viver grame”) i popoli, le genti. Miseria che è ben diversa da povertà. Senza naturalmente che ci sia una scienza economica nel senso moderno, pure il poeta espone in numerosissimi punti della sua opera (non solo la Commedia, ma anche le Rime, il Convivio, il Monarchia, molte Epistole) una sorta di teoria-denuncia critica, che insieme è ragionevole, razionale e profetica. Non si sta dicendo che Dante “preveda” l’oggi. Gli indovini sono all’inferno (If XX): Dante denuncia 33
una tendenza, una minaccia, un dinamismo perverso che, se totalmente assunto, disarticolerà l’ordine di tutto l’esistente. Si ricordi che la cupiditas distorce la iustitia, e reca quindi morte, mentre la caritas la incrementa e porta pace (Mon I, XI, 13). Non moralisticamente, ma antropologicamente, politicamente, socialmente. Ecco perché la teoria dell’impero dantesca è ancora una volta trinitaria, integrale: un’entità sovranazionale fondata sui due pilastri dello spirituale e del politico, della fede (come apertura al mistero) e della ragione, distinti ma collaboranti. Il fine: la pace universale dell’umanità (non solo certo dei cristiani), anzi, dell’intera realtà. L’utopia dantesca non è fumosa. È un’eu-topia. Un bel-buon luogo per un uomo inedito, per una storia inedita che deve e può nascere. Una utopia che naturalmente andrebbe ripensata e declinata oggi creativamente, con simboli ancora più pluralistici, interculturali e all’altezza dei tempi. In qualunque caso la denuncia dantesca ci appare terribilmente attuale: non è forse la lupa di una finanza e di una finanziarizzazione usate come “arma di distruzione di massa” (Hinkelammert) che affama gli stati, i popoli, i continenti, che distrugge il pianeta? Non è la lupa la follia del Capitale, di un economicismo oggi neoliberista che intride e sussume tutto? Una modernità sbagliata: ancora la profezia mistico-critico-politica di Dante e di S. Francesco Possiamo facilmente renderci conto di come la posizione dantesca non solo non sia reazionaria – come è stato facile dire, perché chi non segue lo spirito del tempo deve essere necessariamente una caricatura: un pazzo, un povero poeta, un utopista, un perdente ecc. – ma piuttosto illuminante, e, appunto, straordinariamente critica, razionale. Ecco allora che i due forse più grandi geni del Medioevo – S. Francesco e Dante – ci appaiono oggi come due straordinarie intelligenze critiche e insieme costruttive. Da una parte la loro denuncia della cupiditas è profetica, alla vista dei secoli successivi. Dall’altra entrambi sembrano testimoniarci un altro possibile inizio, un’altra possibile nascente modernità, che allora perse, ma che è ancora viva, come seme. “Per i subalterni la servitù, insieme alla sorveglianza sulle prestazioni ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette, sta diventando un’attività “fai da te” nel senso più vero e più pieno di questa espressione” (Z. Bauman – D. Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, Bari 2013). Il fatto che queste parole siano riferite soprattutto al lavoro in azienda non sembri fuori tema. L’aziendalizzazione mercatistica è uno dei modi principi di questo dominio economicistico. L’occupazione totalitaria e di servitù volontaria delle nostre vite è racchiudibile nella formula “24/7” (cfr. J. Crary, 24/7: Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015). 2 Sulla natura criminale del sistema, cfr. R. Mancini, Trasformare l’economia, Franco Angeli, Milano 2015, p. 9 e nn. 1-4, con ampia bibliografia. 3 «Eppure a Firenze da qualche tempo, quasi all’insaputa degli stessi attori, era maturato un affare così ricco di slancio che ancora adesso ha l’aire: a Firenze era nato il capitalismo» (M. Tobino, Biondo era e bello, Mondadori, Milano 2012, p. 27). 4 U. Dotti, La Divina Commedia e la città dell’uomo. Un’introduzione a Dante, Donzelli, Roma 1995, p. 21. 5 Cfr. tutto il IV libro del Cv, lucidissimo in tal senso. 1
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CONTRIBUTI AL DIBATTITO PICCOLA ANTOLOGIA DI TESTI POETICI
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POESIA ED ECONOMIA IN AMERICA ANTOLOGIA A CURA DI MASSIMO BACIGALUPO
STEPHEN CRANE L’IMPATTO DI UN DOLLARO L’impatto di un dollaro sul cuore ride calda luce rossa espandendosi roseo dal focolare sul tavolo bianco, con le ombre fresche di velluto appese che muovono piano contro la porta. L’impatto di un milione di dollari è un rovinio di lacchè. ed emblemi sbadiglianti di Persia appoggiati a quercia, Francia e sciabola, il grido dell’antica bellezza prostituita da mercanti ruffiani che la sottomettono a vino e chiacchiere. Sciocchi contadini arricchiti pestano tappeti di uomini, uomini morti che sognarono fragranza e luce nei loro orditi, le loro vite; la pelliccia di un orso onesto sotto il piede di uno schiavo indecifrabile che parla sempre di gingilli, dimenticando stato, moltitudine, lavoro e stato, tramestio e mastichio di cappelli, con uno squittio topesco di cappelli, cappelli. traduzione di Massimo Bacigalupo
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EDGAR LEE MASTERS HARRY CAREY GOODHUE Voi non vi meravigliaste, sciocchi di Spoon River, quando Chase Henry votò contro le osterie per vendicarsi di esserne stato messo fuori. Ma nessuno di voi fu abbastanza penetrante da seguire i miei passi, o arrivare a vedermi fratello spirituale di Chase. Vi ricordate quando affrontai la banca e la combriccola del tribunale, perché intascavano gli interessi dei fondi pubblici? E quando affrontai i nostri ottimati perché facevano dei poveri bestie da soma del fisco? E quando affrontai le imprese idrauliche che rubavano rincarando le tariffe? E quando affrontai gli affaristi che mi avevano tenuto testa? E allora ricordate: barcollante tra le rovine della sconfitta, e le rovine di una carriera distrutta, tirai fuori il mio estremo ideale, nascosto fino allora agli occhi di tutti, come la vagheggiata mandibola dell’asino, e picchiai sulla banca e sulle imprese idrauliche e sugli uomini d’affari col proibizionismo, e feci pagare a Spoon River le spese della guerra che avevo perduto. traduzione di Fernanda Pivano
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CARL SANDBURG ESSI DIRANNO Di te, mia città, il peggio che gli uomini diranno è che i bimbi hai strappato al sole, alla fresca rugiada, alla luce che scherzava sull’erba sotto l’aperto cielo, alla pioggia monotona, e li hai chiusi tra fredde mura, li hai costretti al lavoro, snervati e stanchi, per un poco di pane e di salario, a inghiottire la polvere e a morire così, con il cuore sfibrato, per una manciata di spiccioli, in poche notti di sabato. traduzione di Franco De Poli
CARL SANDBURG MAG Volesse Iddio che t’avessi veduta, Mag. Che mai tu avessi lasciato il tuo lavoro per venire con me. Che mai avessimo comprato la licenza e un vestito bianco per te, per sposarci, quel giorno che corremmo dal pastore per dirgli che volevamo amarci, prender cura l’uno dell’altra sempre e poi sempre, come durano eterni il sole e la pioggia. Sì, ora vorrei che tu abitassi in un luogo lontano da qui, ed essere piuttosto un triste vagabondo senza un soldo, mille miglia distante. Vorrei che i figli non fossero mai venuti e la pigione il riscaldamento gli abiti da pagare e il droghiere che vende solo a contanti, a contanti ogni giorno per i fagioli e le prugne. Volesse Iddio che mai t’avessi veduta, Mag, Volesse Iddio che i figli non fossero mai venuti. traduzione di Franco De Poli 38
VACHEL LINDSAY HANNO OCCHI DI PIOMBO Non lasciate che l’anime giovani vengano soffocate prima che facciano qualche stranezza e interamente sfoghino il loro orgoglio. Il solo delitto del mondo è che i suoi bimbi crescano ottusi, i suoi poveri simili a buoi, torpidi e occhi-di-piombo. Non che essi muoiano di fame, ma che siano affamati senza sogni; non che essi seminino, ma che raccolgano troppo raramente; non che essi servano, ma che non abbiano déi cui servire; non che essi muoiano, ma che muoiano simili a greggi. traduzione di Roberto Sanesi
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ROBERT FROST PROVVEDI, PROVVEDI Quella strega che venne (vizza e vecchia) a lavare le scale con straccio e secchia fu un tempo la bellissima Abishag vanto e orgoglio di Hollywood. Troppi eran grandi e alteri e non son più perché tu metta in dubbio che quella lei fu. Muori presto, evita questo fato, o se un tardo morire t’è destinato fa modo di morire in ricco stato. Fa tua la Borsa, tutta la borsa valori! occupa un trono, se questo bisogna, dove nessuno darà a te di vecchia carogna... Alcuni hanno puntato sul loro sapere; altri sull’essere semplicemente sinceri. Per te, come per loro, questo può valere. Nessun ricordo di primo attore può ripagare il tardivo squallore, o salvare la tua fine dal dolore. Meglio scendere bene ossequiati circondati da amici comprati che da nessuno. Provvedi, provvedi! traduzione di Giovanni Giudici
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WALLACE STEVENS L’UOMO BUONO NON HA FORMA Per secoli visse in povertà. Dio solo era la sua sola eleganza. Poi di generazione in generazione divenne più forte e più libero, un po’ più agiato. Viveva ogni vita perché, se era cattiva, diceva che una vita buona sarebbe stata possibile. Alla fine la vita buona arrivò, buon sonno, frutti lucenti, e Lazzaro lo tradì agli altri, che lo uccisero, piantandogli piume nella carne per beffarlo. Gli misero accanto nella tomba vino acido per scaldarlo, un libro vuoto da leggere; e sopra posero una rozza insegna, epitaffio alla sua morte, che leggeva L’UOMO BUONO NON HA FORMA, come sapessero. traduzione di Massimo Bacigalupo
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EZRA POUND CANTI PISANI (dal Canto 74) e le due truffe maggiori sono cambiare il valore del denaro (dell’unità del denaro METATHEMENON TE TON KRUMENON) e l’usura al 60% o prestare quel che è creato dal nulla e lo stato può prestare denaro come fu fatto da Atene per la costruzione della flotta di Salamina e se il pacchetto si perde in transito chiedete ai banchieri di Churchill che fine ha fatto lo stato non ha bisogno di prestiti e i veterani non hanno bisogno di garanzie statali per ottenere prestiti privati a usura in effetti, qui sta l’intoppo lo stato non ha bisogno di prestiti come fu dimostrato dal sindaco di Wörgl che produceva latte e la cui moglie vendeva camicie e calzoni corti e aveva sulla mensola la Vita di Henry Ford e una copia della Divina Commedia e dei Gedichte di Heine una bella cittadina in Tirolo in una valle ampia e distesa presso Innsbruck e quando un biglietto della cittadina di Wörgl comparve a uno sportello di Innsbruck e il banchiere lo vide comparire tutti i ceffi d’Europa furono terrorizzati “nessuno” disse la Frau Bürgermeister “in città che possa scrivere un articolo di giornale. Sapevano che era denaro ma facevano finta di no per non avere guai con la legge”.
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Ma in Russia sbagliarono e apparentemente non afferrarono l’idea del certificato di lavoro e avviarono la NEP disastrosa e l’immolazione degli uomini alle macchine e il lavoro al canale e la grande mortalità (comunque sarà stata) e si diedero al dumping per portare scompiglio nell’inferno degli usurai e tutto questo porta alle celle della morte ciascuno nel nome del suo dio traduzione di Alfredo Rizzardi
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DALLA SAPIENZA DELL’INDIA A CURA DI DONATELLA BISUTTI
RABINDRANATH TAGORE da E POI? Discorso tenuto nel 1906 a Calcutta È vero che l’Europa ha acquistato una certa forza proprio riponendo la sua fiducia nel mondo, rifiutandosi di considerarlo puramente transitorio e condannando come morbosa la preoccupazione della morte. I figli d’Europa sono allevati per la lotta che, secondo quanto dice la scienza, permette al più capace di sopravvivere. A quanto pare, secondo la concezione europea, questo è il vero significato della vita. (...) Se si considera l’albero solo come legna da ardere, è evidente che non lo si considera nella sua interezza; se si considera l’uomo semplicemente come difensore della patria o produttore di ricchezza, lo si riduce a un soldato, a un mercante, a un diplomatico e si misura la sua umanità in base alla sua efficienza. Una visione così ristretta è offensiva per l’uomo, e in realtà non si fa che degradare coloro che si desidererebbe coprire di gloria. (...) I nostri saggi ritenevano lo spirito umano dotato di un’infinita dignità, quello spirito che trovava la sua pienezza nello stesso Supremo Spirito. Una visione limitata dell’uomo non può essere che falsa. L’uomo non può essere semplicemente un cittadino o un patriota, poiché né la città né il paese, e neppure quella gran caldaia che si chiama mondo, possono contenere la sua anima eterna. (...) I saggi dell’India non ritenevano che lo sforzo costante fino al termine della vita dovesse essere glorificato. Per loro il lavoro non era affatto tutta l’essenza e tutto lo scopo della vita; anzi il loro scopo era piuttosto quello di giungere alla fine di ogni lavoro. Non hanno mai dubitato che il maggior scopo dell’uomo fosse la liberazione dell’anima. L’Europa non si stanca mai di intonare peana alla libertà, che colà significa libertà di acquisire, libertà di volere, libertà di lavorare. Questa libertà non è certo poca cosa. Ma i nostri saggi non riuscirono a trovare in essa una completa soddisfazione, ed è per questo che si pone la domanda: “E poi?”. Per i nostri saggi questa non poteva essere una vera assoluta libertà, perché il loro scopo era di ottenere la libertà anche dal desiderio e dall’azione. (...) In Europa la vita mortale dell’uomo si divide solo in due periodi, il periodo dell’addestramento e quello del lavoro. (...) Il lavoro è solo un mezzo, non può essere fine a se stesso. Deve avere come scopo un qualche guadagno, un qualche risultato. L’Europa invece ha omesso di proporre all’uomo lo 44
scopo ben preciso che dovrebbe essere il fine naturale del lavoro. Non vi è limite a ciò che si desidera acquistare nel campo materiale come in quello della conoscenza, e la civiltà europea sottolinea unicamente il progresso e l’accumularsi di questa conquista, dimenticando che il miglior contributo che ogni singolo individuo può dare al progresso dell’umanità consiste nel perfezionamento della propria vita. Così per gli europei, la fine arriva sempre a metà delle cose: non esiste preda, ma soltanto la caccia. (...) L’attività finita ha dei diritti sull’individuo, ma anche il compimento dell’infinito rappresenta per lui un richiamo; solo quando rispondiamo a questo richiamo la morte non rappresenta l’improvvisa rottura del nostro mondo reale. Perciò l’India divideva la vita mortale dell’uomo in modo che il lavoro rappresentasse la metà, e la libertà, la fine. (...) Qualsiasi altro indirizzo di vita si possa concepire, il patriottismo, la filantropia, per quanto possano avere nomi altisonanti, non potranno mai portarci alla finalità, ma ci lasceranno improvvisamente sprovveduti, nel bel mezzo della nostra attività, mentre al nostro orecchio risuona la domanda: “E poi? E poi?”. (...) 1
NAGARYUNA, VII DALAI LAMA da LA PREZIOSA GHIRLANDA 251. Cura sempre generosamente i perseguitati, le vittime dei raccolti mancati, i colpiti da calamità, quelli afflitti da contagi, e gli esseri delle aree conquistate. 252. Fornisci di semi e mezzi di sostentamento i contadini colpiti da calamità. Elimina le tasse alte imposte dal monarca precedente, riduci l’entità della tassa sui raccolti. 253. Proteggi il povero dalla pena di aver bisogno della tua ricchezza. Non imporre nuovi dazi e riduci quelli pesanti. Libera anche i commercianti di altre aree dalle afflizioni causate dall’attendere alla tua porta. 254. Elimina banditi e ladri dalla tua e dalle nazioni altrui. Per favore, fissa i prezzi con onestà e mantieni il livello dei profitti anche nei periodi di scarsità. 45
255. Dovresti prendere conoscenza per bene del parere che ti offrono i tuoi ministri e dovresti sempre metterlo in atto se esso sostiene il mondo. 256. Proprio come sei intento a pensare ciò che potrebbe essere fatto per aiutare te stesso, così dovresti essere intento a pensare cosa dovrebbe essere fatto per aiutare gli altri. 257. Se solo per un momento ti rendi disponibile per l’uso di altri, proprio come terra, acqua, fuoco, aria, medicine e foreste sono a disposizione di tutti. 258. Perfino durante il settimo livello, meriti senza misura come il cielo si generano nei Bodhisattva la cui attitudine è di dare via tutte le ricchezze.2 traduzione di Anì Maria Luisa Donà
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Da La civiltà occidentale e l’India, Gli Archi, Bollati Boringhieri, 1991. http://www.sangye.it/altro/?p=2799
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IL POETA
SPITE
La Residenza di Scrittura di Framura 47
Luisa Castro è nata a Foz, Lugo, nel 1966. Ha ottenuto il premio di poesia Hiperión col suo Los versos del eunuco (I versi dell’eunuco) e il premio Rey Juan Carlos I con Los hábitos del artillero (Le abitudini dell’artigliere). Come romanziera ha vinto il premio Azorín con El secreto de la lejía (Il segreto della candeggina), il premio Torrente Ballester con il suo libro di racconti Podría hacerte daño (Potrebbe farti male), e ha ricevuto il premio Biblioteca Breve con La segunda mujer (La seconda donna), già tradotto in italiano. Ha pubblicato inoltre Viajes con mi padre (Viaggi con mio padre), un compendio narrativo a metà fra autobiografia e fiction. Il suo ultimo libro di poesia, Amor mi señor (Amore mio signore), è uscito poco dopo la comparsa della sua opera poetica completa, stampata con il titolo di Señales con una sola bandera (Segnali con una sola bandiera). Collabora a vari giornali come El País, ABC e El Mundo, e ha riunito parte della sua opera giornalistica nel libro Diario de los años apresurados (Diario degli anni frettolosi). Per la sua opera giornalistica ha ricevuto i premi Voces del Año de Galicia, Vieira de Plata de la Cultura e Puro Cora. Melancolía de sofá (Malinconia del divano) è il suo ultimo lavoro giornalistico. Laureata in Linguistica Ispanica all’Università Complutense di Madrid, è stata docente di sceneggiatura e scrittura creativa presso l’Institut d’Humanitats di Barcellona e presso l’Università di Santiago de Compostela. Attualmente risiede a Napoli, città in cui lavora come direttrice dell’ Instituto Cervantes.
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LUISA CASTRO UNA POETESSA GALLEGA
Traduzione dallo spagnolo di Manuele Masini
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Da sinistra: Luisa Castro, Manuele Masini, Donatella Bisutti e Carlo Severgnini
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Luisa Castro, Donatella Bisutti e Carlo Severgnini a Portovenere
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LOS POEMAS DE FRAMURA I Estaba allí viajaba hacia Milán como un ave acechando el mundo con ojos profundos de joven napolitano atravesando el tren hacia Milano atravesando el mundo II No. Los dioses no existen en este lugar no son necesarios el mundo es hermoso sin ellos, ¿no lo ves? Él solo se organiza de la mejor manera él solo se las compone pero ese joven, ¿dejará de ser? III Los dioses no existen y sin embargo yo quiero conocer la opinión de otros poetas que aseguran que el llanto no se acaba que no se acaba nunca y nunca el sufrimiento y el dolor de vivir sin dios en la incertezza IV ¿Lo sienten las gallinas? Y vos, ¿sentís como yo siento el llanto en un segundo? Llorar sin pausa mientras el sol se oculta llorar por dentro mientras el sol se eleva llorar sin tregua 52
POESIE DI FRAMURA I Si trovava lì viaggiava verso Milano come un uccello che spia il mondo con occhi profondi da giovane napoletano attraversando il treno verso Milano attraversando il mondo II No. Gli dèi non esistono in questo luogo non sono necessari non vedi come senza di loro il mondo è più bello? Da solo si organizza nel migliore dei modi da solo compone le sue parti eppure questo giovane, non smetterà forse di essere? III Gli dèi non esistono e tuttavia voglio conoscere l’opinione di altri poeti che assicurano che il pianto non finisce che non finisce mai come mai finiscono la sofferenza e il dolore di vivere senza dei nell’incertezza IV Le galline lo sentiranno? E voi sentite come me il pianto in un secondo? Piangere senza pausa mentre il sole si occulta piangere dentro mentre il sole si alza piangere senza tregua 53
V ¿Y sienten acaso el miedo? No lo sienten las piedras ni los árboles pero ese pino que me enseñas Carlo por qué me dices que se va a morir mientras caminamos VI Sí era un pino recio con una copa espesa y ahora tú puedes ver como ralean las hojas y reconoces en ello un signo de debilidad como en la cabeza de un padre anciano VII Para llegar a ser un ángel me han hecho falta cuarenta y nueve años mil veces preferiría no haberlo sido no haber volado de mi propio cuerpo de mis dos certezas de mis tres creencias del pequeño diccionario que me devolvía una y otra vez a la lengua madre y a la lengua oculta y a la lengua muerta
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V E forse sentono la paura? Alberi e pietre non la sentono ma la sente il pino che mi indichi Carlo perchĂŠ mi dici che presto morirĂ mentre camminiamo VI SĂŹ era un pino robusto dalla spessa chioma e ora puoi vedere come il fogliame scarseggia e riconoscere in esso un segno della debolezza come sulla testa di un anziano padre VII Per arrivare ad essere un angelo mi ci sono voluti quarantanove anni avrei preferito mille volte non esserlo mai stata non volare via dal mio corpo dalle mie due certezze dai miei tre credi dal piccolo dizionario che mi restituiva di quando in quando la lingua madre e la lingua occulta e la lingua morta
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VIII Pero ese ángel desconoce la lengua que vendrá no puede interpretarla lo han desposeído antes su canto era un canto de alabanza pero ya no tu cara más oscura le has mostrado como el niño al que la noche coge fuera de casa como el pequeño pájaro al que el pájaro grande alecciona en la roca antes cantaba y su canto le protegía pero en esta nueva esfera el ángel desconoce la lengua que vendrá es un espectador alguien que todo acepta IX Y cómo hablar sin esta competencia pero el infierno lo sabe, lo conoce quien ha sido expulsado del mundo inteligible quien soporta la pena de no poder decirlo de no poder decirse 56
VIII Ma questo angelo non conosce la lingua che verrà non può interpretarla lo hanno deprivato prima il suo canto era un canto di lode ma ormai non lo è più il tuo volto più oscuro, glielo hai mostrato come il bambino che la notte sorprende fuori casa come il piccolo uccello che l’uccello più grande ammaestra sulla roccia prima cantava e il suo canto lo proteggeva ma in questa nuova sfera l’angelo non conosce la lingua che verrà è uno spettatore qualcuno che tutto accetta IX E come parlare senza questa competenza Ma l’inferno lo sa, lo conosce chi è stato espulso dal mondo intellegibile chi sopporta la pena di non poterlo dire di non poter dirsi 57
X Mira mira como nos mira este silencio como nada nos reclama nada quiere de nosotros tan solo somos estatuas nos rodea merodea nos observa este silencio déjalo que se aproxime que regrese como un animal nos mide que se aleja XI Pero tú no tú debes estar atenta no es tu amigo no es tu cómplice es el ser que ha entrado en ti sólo tú puedes contenerlo con palabras no con susurros no un silencio que te cerca que te reta a sentir que lo que ves habla de sí y por sí no necesita atletas que corran esa carrera de argumentos, pensamientos palabras de que estás hecha con susurros no con palabras no
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X Guarda guarda come ci guarda questo silenzio come nulla esige da noi nulla vuole da noi siamo solo statue ci circonda ci accerchia ci osserva questo silenzio lascialo avvicinarsi lascialo tornare come un animale che si allontana ci misura XI Ma tu no tu devi stare all’erta non è amico tuo non è tuo complice è l’essere che è entrato in te solo tu puoi contenerlo non con parole non con sussurri un silenzio che ti recinge che ti sfida a sentire che ciò che vedi parla di sé e per sé non ha bisogno di atleti che corrano su questa strada di argomenti, pensieri parole di cui sei fatta non con sussurri non con parole
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XII ¡Todo ha terminado! He dejado la vieja piel en la montaña de Vanderecca dos veces a la fuente fui, dos veces y de nada sirvió eso me reconforta que no hubieran palidecido las aves ni el cielo al verme que no se hundiera bajo mis pies la tierra horadada por los jabalíes ocurrió como si a nadie le importase nada no parecía yo un caminante al que hay que preguntarle ciertas cosas qué hubiera dicho entonces cómo hubiera respondido pero nadie habló nadie preguntó no quedaron huellas de mi paso por Vanderecca y al cruzar el río ya no era la misma no era yo cuando la piel se iba desprendiendo XIII ¡Benditos los que a esta hora han de cruzar un mar más negro que tus mañanas! ¡Benditos los que desembarcan sabiéndose perseguidos en la isla del abandono! 60
XII Tutto è finito! Ho lasciato la vecchia pelle sulla montagna di Vanderecca due volte sono stata alla fonte, due volte e a niente è servito ma mi conforta che non siano impalliditi gli uccelli o il cielo al vedermi che non sia affondata sotto i miei piedi la terra perforata dai cinghiali tutto è successo come se a nessuno importasse nulla io non sembravo un viandante a cui si devono domandare certe cose che avrei detto allora come avrei risposto ma nessuno ha parlato nessuno ha domandato non ho lasciato tracce del mio passaggio a Vanderecca e attraversando il torrente non ero più la stessa non ero più io quando la pelle poco a poco si staccava XIII Benedetti coloro che in questa ora attraverseranno un mare più negro delle tue mattine! Benedetti coloro che sbarcano sapendosi perseguitati sull’isola dell’abbandono! 61
XIV Antes no querías vivir, eras culpable de vivir culpable podrían perseguirte si quisieran encarcelarte pero ahora te paseas como si ya pertenecieras a otro lugar ¿cuándo fuiste libre? ¿Dónde acabó tu pena?
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XIV Prima non volevi vivere, eri colpevole di vivere colpevole potevano perseguitarti se avessero voluto incarcerarti ma ora passeggi come se già appartenessi a un altro luogo quando sei stata libera? Dove si è consumata la tua pena? traduzione di Manuele Masini
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LUISA CASTRO – MANUELE MASINI L’INCERTEZZA DELLA SCRITTURA In collaborazione con la Bogliasco Foundation
Manuele Masini in conversazione con Luisa Castro nella biblioteca della Fondazione
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D - Incertezza, incerto. Etimologicamente: non separato, non scelto. Ogni genesi comincia dall’indefinito. Cos’è l’incerto del linguaggio? R - È curioso che se lo riferiamo alla poesia e alla nostra attività di poeti, vediamo come, almeno nel mio caso, tutto cominci da un sentieno di certezza: da qualcosa di certo, di autentico, che sentiamo il bisogno di esprimere. Il cammino verso questa intuizione, verso l’espressione, la materalizzazione della scrittura, è invece il cammino dell’incertezza, della ricerca. Ma in ogni caso la poesia è una ricerca di chiarezza e di discernimento. D - La poesia, come in-certezza, è anche la ricerca dell’inatteso, ossia di un’aurora, che è il momento della creazione? R - Quando penso all’incertezza penso soprattutto a quel lungo cammino che attraversiamo dal momento della percezione fino all’espressione. Cammino lungo anche in una vita in cui non siamo sempre dove o come vogliamo. La mancanza di conforto occupa forse il 90% delle nostre vite. In questo senso ne parlerei come incertezza ontologica. La poesia sarebbe allora la necessità e la ricerca di un altro luogo, più certo, più confortevole, da abitare. Credo che la nostra epoca possa essere la meno comoda per il nostro essere. Esiste un forte sentimento di distruzione, di mancanza di visione del futuro, in un momento di forte transizione e di minacce che, forse per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, giungono di nuovo a noi intensamente. Per i poeti, che cercano attraverso la parola un luogo confortevole da cui spiegare o raccontare la loro visione del mondo, il momento è estremamente delicato. D - Nella società siamo, appunto, obbligati a relazionarci con altri tipi di incertezza, e non solo con quello del linguaggio. Viviamo in un mondo in cui molte delle sicurezze in cui le generazioni precedenti hanno vissuto sembrano scomparire (vera crisi epocale, simile ad altre vissute nel passato, e per esempio a quella che sul finire del XIX secolo ha dato vita alla modernità letteraria). Esiste ancora una speranza di futuro, in un contesto che sembra condannato alla scomparsa della storia? Possiamo pensare alla poesia come a una forma per esprimere una sorta di esilio interiore? La voce di un esilio? R - Certamente. Ma si tratta anche di un esilio che ci restituisce a una unità originale. La voce dei poeti è essenziale per mantenere la continuità della storia attraverso il tempo. Non si tratta di una storia effimera, anche se la storia e le sue visioni cambiano, qualcosa di essenziale esiste nella poesia, una ricerca di dialogo con coloro che hanno scritto secoli prima. Questo tipo di idioma, di lingua, è un linguaggio universale. Qualcosa che ci fa 65
pensare che, sebbene le epoche cambino, non siamo obbligati a inventare un linguaggio nuovo per ogni epoca. Il linguaggio cambia solo in relazione all’interiorità, e alla maturazione del poeta corrisponde anche assumere altre voci e altri discorsi. Possiamo pensare per esempio che l’affermazione di una poesia che si colloca al di là dell’idea di gruppo, scegliendo un tono elevato, elegiaco, possa oggi essere superata, a favore di un tipo di poesia che si alimenta sempre più di altri discorsi, vicini alla prosa, al saggio, al teatro. Frequentemente mi avvicino di più all’idea di poesia atraverso generi che non si pensano comunemente come poesia. Nel mio caso il mio lavoro narrativo porta con sé o scatena un lavoro poetico parallelo, e viceversa. Le preoccupazioni essenziali che vogliamo trasmettere o chiarire, o sapere di noi stessi, trovano il loro cammino, sia in prosa che in poesia, tuttavia non smettono di essere cammini distinti. Forse potrei dire che la narrativa è una costruzione, mentre la poesia è un ascolto, soprattutto. D - In questo senso l’incertezza è, in senso positivo, il luogo vuoto, neutro, dell’interrogazione, indispensabile alla creazione, in contrasto con certezze sociali, a volte vuote, che finiscono invece per scrivere noi stessi? R - Curiosamente la parola è un luogo di consenso. Quando dialoghiamo, quando parliamo, cerchiamo di parlare a partire da una serie di concetti e idee condivise, necessarie a far sì che il dialogo proceda. Ma quando scriviamo il dialogo è con il nostro stesso pensiero, la nostra percezione delle cose. In questo senso la scrittura è il luogo della massima libertà, dell’espressione più genuina dell’essere, dell’individuo. È la grande conquista della scrittura come strumento per plasmare il pensiero individuale. La formulazione di ciò che si vuole esprimere, porta a una sorpresa. È impossibile in verità partire da qualcosa che già si conosce. La scrittura non traduce il pensiero, anzi rivela cose a cui la parola in sé non porterebbe. La parola forse possiede una qualità che fa sì che le idee si cerchino l’un l’altra, ma nel momento di esprimerle, esse, attraverso la scrittura, non possono che oggettivarsi: è questo in verità il meccanismo della scrittura. Ciò che dentro di noi non era espresso, immateriale, si converte in oggetto. Specchio che ci restituisce una nuova immagine, aprendo cammini. D - Credi che la poesia sia qualcosa che apre a una realtà che non si determina, non si chiude in se stessa, e sia in questo senso, come dicevamo, etimologicamente incerta, possedendo la capacità di disvelare verità provvisorie, che si danno solo in processo, in relazione? Per esempio fra noi e le cose, attraverso i sensi, o fra esseri umani? Parlavi di idee, e anche in questo senso potremmo pensare a una poetica della relazione, fra immagini, suoni, parole e idee. 66
R - Certo, ma non si tratta di qualcosa di arbitrario. Non dobbiamo dimenticare qualcosa di essenziale nella comunicazione, ossia ciò che ci muove dentro, che ci preoccupa, che ci pone interrogazioni, che ci spaventa o provoca paura. In fondo siamo tanto esseri umani che animali, coscienti della nostra biologia, che ci rimanda di nuovo all’incertezza. Viviamo in un mondo che dobbiamo costruire nel contesto in cui ci è toccato sopravvivere. Quello che scriviamo, ciò di cui vogliamo lasciare una testimonianza, ha un’origine emotiva. Qualcosa che è in te ma va oltre te stesso, non controllabile razionalmente. Ci vuole molto a imparare. Quando un poeta comincia a scrivere comprende subito questo stato. Per la mancanza di strumenti, per esempio, mancanza di letture, il primo passo della scrittura si muove quasi esclusivamente dall’emozione, sembrando in questo senso qualcosa di semplice quando si è giovani. Ma tuttavia la crescita creativa e la maturazione possono portare alla perdita di questo stato, alla sua scomparsa, mentre è ancora fondamentale, per un poeta, credere che la conoscenza, il primo motore della scrittura sono quelle cose che risiedono in noi ma ci trascendono. D - L’accumulazione di letture, esperienza e conoscenze può essere la causa di ciò di cui parli, di una relazione anomala con la scrittura? R - Assolutamente sì. Leggere e alimentarsi di altre voci è necessario e deve essere costante, ma allo stesso tempo bisogna vedere come leggiamo. In tutte le professioni esiste una deformazione, e anche il poeta può subire questa deformazione e convertirsi in un cacciatore di sensazioni, di mode, di effetti, di immagini. La poesia che mi interessa però è un’altra, anche se ciò molte volte comporta la necessità di retrocedere di molto rispetto alla scala di valori che abbiamo costruito negli anni, almeno apparentemente. Ritornare sui nostri propri passi a volte è duro, ma a partire da un determinato momento della vita, tanto nell’esperienza personale come nella scrittura, è fondamentale fermarsi e recuperare stadi precedenti che ci potranno essere più utili. Viviamo in un mondo estremamente rumoroso, arrogante. La conoscenza merita tutto il nosto rispetto, ma a volte mi spaventa. Forse il sapere, senza disconoscere la sua grande importanza, finisce per essere misero, sopravvalutato, quando ci fa abbandonare, dietro di noi, cose estremamente importanti. Questo sapere si è democratizzato in modo poco cosciente, mentre non dovrebbe mai trattarsi di una pura accumulazione. Viviamo in una società dell’informazione, di un sapere estremamente noioso. Poche epoche della storia sono così refrattarie al non voler sapere, al mettere in discussione quello che crediamo di essere. Per riuscire a lasciarci sorprendere dovremmo quasi retrocedere a uno stato di ignoranza. All’ignoranza, nel senso più positivo della parola. Abbiamo costruito una società in cui il 67
sapere è una merce, in cui siamo perché supponiamo di sapere. È qualcosa che mi angoscia. Ci relazioniamo sulla base di presupposti che nella maggior parte dei casi sono falsi, e alla fine non esiste una relazione reale. È una forma di conformismo. Ma rinunciare a questo magma di incertezza, significa anche rinunciare a intervenire nella società e, in definitiva, rinunciare all’esistenza. traduzione a cura di Manuele Masini
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LUISA CASTRO NOTE DI POETICA
La mia poesia è piuttosto affermativa fin dall’inizio. Spesso però partiva da un “no”, un punto di partenza molto semplice, negarsi, frenarsi difronte alle cose. Una delle reazioni più istintive e naturali dell’essere umano rispetto a ciò che è esterno. Il mio primo libro, Odisea definitiva. Libro póstumo (Odissea. Libro postumo, 1984), che ho scritto quando ero molto giovane, era guidato da questo filo conduttore e riprendeva il mito tante volte rivisitato di Ulisse (l’uomo che esiste) e Penelope (la donna che aspetta), una Penelope contemporanea che nega questi presupposti storici. Fino al terzo libro la mia poesia è stata molto barocca, colma di immagini e suggestioni surrealiste, di vitalismo. Una poesia discorsiva, dal verso lungo, che si svolgeva sempre intorno all’idea di una donna che non si identifica, che non si limita alle formule e ai concetti prestabiliti. Non nego l’importanza del femminismo e della letteratura esistenzialista in questi primi libri, e potrei ricordare almeno un libro molto presente come La Cerimonia degli Addii di Simone de Beauvoir. Di tutto ciò rimane ora ancora qualcosa come un aroma, un lemma. Potrei anche ricordare, per esempio, all’interno della letteratura gallega, Emilia Pardo Bazán, una voce che anticipa un tipo di scrittura che altri svilupperanno, e che è stata importante all’inizio della mia carriera. O Rosalía de Castro, poetessa di un’intensità e un senso della poesia che anticipa, da una prospettiva romantica, una poetica che più tardi, in pieno Novecento, un Antonio Machado porterà a conseguenze più estreme. Autori che fanno parte della mia formazione e di una formazione comune. Potrei ancora ricordare, più vicine a noi nel tempo, Olvido García Valdés e Chantal Maillard. Ho poi esplorato altri campi, forse più prossimi, più realistici, descrittivi, meno influenzati da una poesia di pensiero, campi che in alcuni libri successivi, come Baleas e baleas (Balene e balene, in gallego, 1988) e Los hábitos del artillero (Le abitudini dell’artigliere, 1989) si combinano con un certo panteismo, e con una poesia un po’ astratta, concettuale. In quest’ultimo libro figura una parte in cui riprendo linguaggi codificati (per esempio dei racconti per l’infanzia), a partire dai quali costruisco una poesia. O ancora i codici dei segnali marittimi. Si tratta di un gioco, ma a partire da questo gioco si sviluppa una poesia che potrei definire poesia metafisica: 69
ESTOY HACIENDO PRUEBAS DE VELOCIDAD Retrocede. No soy yo, que conozco la cinta del tiempo y navego a sabiendas de que en el mar las horas tienen otro arbitrio y otra medida las fuerzas. Es el mundo, que retrocede.1 Si tratta di appunti basati su di una leggenda, ma dei quali mi servo, in questo caso, per spiegare la percezione del tempo. Ripenso anche a Uxío Novoneyra, che era stato anche tradotto in italiano in un numero di Poesia e Spiritualità. Si tratta di un poeta che nel passato ho letto con meno attenzione e che ora invece mi pare si armonizzi perfettamente con i miei intenti. In Galizia esistono altri poeti che si interessano a una poesia del linguaggio, che ho scoperto con Antonio Gamoneda e a cui mi sento molto vicina, come per esempio Chus Pato. O, retrocedendo un poco, potrei citare Vicente Aleixandre. Ho riscoperto anche la lettura di Juan Ramón Jiménez con cui mi sento oggi in sintonia. Citando ancora fuori da cronologie, posso ricordare Claudio Rodríguez o José Ángel Valente. Ho cominciato a scrivere in gallego, la mia lingua materna. Circostanze editoriali hanno fatto sì che abbia scritto il mio primo libro in castigliano, e questo libro mi ha messo in comunicazione con altri poeti, di Madrid, e con una rete di contatti che mi hanno alimentato. Una volta a Madrid, la lingua materna non è diventata secondaria, ma è stata soprattutto il canale di comunicazione di cui mi sono servita per collaborare a giornali e periodici della Galizia. Ci sono poesie che casualmente sono nate in in gallego. Nonostante il castigliano sia una lingua che domino, una lingua letteraria, non è una lingua materna, esistono quindi alcune differenze e dettagli che mi sono stati utili: forse il gallego mi serve per un certo tipo di poesia colloquiale, mentre il castigliano mi ha consentito una maggiore varietà di registri. Mentre in gallego la distanza è ridotta, o comunque diversa, quando scrivo in castigliano il mio atteggiamento è più distaccato. Si tratta, in definitiva, di scrivere in una lingua non materna, non mia, in cui può agire anche una certa dose di contaminazione. Devo dire anche che la lingua letteraria non sempre ha a che vedere direttamente con la lingua materna o con la lingua di origine. La lingua letteraria è quella che coltiviamo soprattutto attraverso la scrittura e non c’è niente di meno “naturale”, 70
anche se può non sembrare, della lingua scritta. Spagnolo e gallego sono per me entrambe lingue letterarie, però una sola di esse per me è anche lingua materna. Scrivendo in spagnolo, ho imparato a contaminare la mia produzione letteraria con un substrato linguistico e antropologico, che non si vede, però è lì, e conferisce alla mia scrittura un elemento di differenziazione, e questo mi piace, mi permette di muovermi a diversi livelli, su due piani contemporaneamente. Ci sono molti casi, d’altra parte, nella letteratura spagnola, di scrittori galleghi, come Valle-Inclán, Cela, Torrente Ballester, Emilia Pardo Bazán, la stessa Rosalía de Castro, che scrisse anche in castigliano, la cui opera presenta questo apporto, questa differenza. O lo stesso Alvaro Cuqueiro, magnifico poeta e narratore in entrambe le lingue, e punto di riferimento per me. Per non parlare di Pessoa, il grande Pessoa, che ho letto appassionatamente durante la mia adolescenza, e che, benché sia portoghese, mi è vicino per evidenti ragioni culturali e linguistiche. Vicinissimo. Cosicché tra il gallego e lo spagnolo, nel mio caso, io parlerei piuttosto di assunzione di un’opzione letteraria come contaminazione produttiva. E anche, perché no, di un tipo di esilio, una piattaforma utile alla mia ricerca, da cui nascono, curiosamente, l’alieno, l’incerto, quello che non ci appartiene, quello che non è stato scelto. traduzione di Manuele Masini
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FACENDO PROVE DI VELOCITÀ: Retrocede. / Non sono io, che conosco il nastro del tempo /e che navigo / sapendo / che in mare le ore hanno altro arbitrio / e altra misura hanno le forze. / È il mondo / che retrocede. 71
Manuele Masini con Alessandra Natale, direttore associato della Fondazione
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DOSSIER
TESTO POETICO E
SICOANALISI
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ANTONIO TECHEL FRA POETRY THERAPY E POESIA PSICOANALITICA
Se in un primo tempo, dalla prima metà del ‘900, la psicoanalisi si è affacciata sulla scrivania dei narratori e dei poeti come soggetto di ispirazione o di interesse in un secondo tempo, cioè da almeno due decenni, sono state la letteratura, e la poesia in particolare, ad andare anche nella direzione opposta, entrando a loro volta nello studio dello psicoanalista, in veste di supporto metodologico aggiuntivo: si tratta di esperienze cliniche psicoanalitiche in cui si utilizzano anche testi di tipo letterario, o di sedute di vera e propria poetry therapy. Anche in un mio recente libro di psicoanalisi Non dormo… quasi quasi scarabocchio (Borla, 2015), incentrato sull’impiego dello “scarabocchio” come strumento clinico, si può vedere come ho utilizzato una poesia di Marisa Brecciaroli, proprio durante una seduta con un paziente. Un contributo per una risposta alla domanda “perché la poesia può essere uno strumento terapeutico?”, ci giunge dalle neuroscienze con la scoperta di vari tipi di memoria e, fra questi, l’esistenza di una “memoria implicita”. La psicoanalisi ha poi messo a fuoco il fatto che questo tipo di memoria si configura come una specie di deposito situato in un “inconscio non rimosso”, che non permette il ricordo, ovvero la memoria cosciente, di tutte le esperienze prenatali e della primissima infanzia (una specie di “immemoria”, come l’ha chiamata la Brecciaroli, in una poesia anticipatrice degli Anni ’80). Ma proprio questa “inconscietà” (e quindi incontrollabilità) permette a quel deposito di esperienze senso-motorie (acustiche, gustative, olfattive, e a volte anche traumatiche collegate alle prime relazioni del bambino con la madre e con l’ambiente) di condizionare la vita affettiva, emozionale, cognitiva e creativa anche da adulti. Nell’opera fondamentale di Mauro Mancia Sentire le parole (Boringhieri, 2004) si mette in evidenza il fatto che “la creatività umana appare come un ricreare collegato alla memoria implicita […] la quale non è passibile di ricordo, ma può essere rappresentata nell’attività creativa: una ri-creazione modellata sulle fantasie e difese inconsce […]. Su questa base e secondo il principio di Jakobson, sono analizzati alcuni aspetti del linguaggio poetico, musicale, artistico e transferale, nel presupposto che questi diversi linguaggi abbiano le loro comuni radici nell’inconscio non rimosso”. Nel mio lavoro di psicoterapeuta, alla ricerca di elementi che permettessero di mettere momentaneamente tra parentesi il pensiero logico, favorendo, con un tipo di pensiero analogico, un ponte verso la memoria implicita, ho sempre dato grande spazio alla pittura, alla poesia e all’arte in tutte le sue forme. Una forma d’arte è appunto lo scarabocchio: tracciato con la mano sinistra e a occhi chiusi, nella condizione bioniana di 74
assenza di memoria e di desiderio (“Scarta la tua memoria, scarta il tempo futuro del tuo desiderio; dimenticali entrambi in modo da lasciare spazio a una nuova idea. Forse sta fluttuando nella stanza in cerca di dimora un pensiero, un’idea che nessuno reclama”) lo scarabocchio può facilitare l’emergere di contenuti preverbali inconsci, portando con sé la possibilità di incontrare le proprie parti più autentiche. Un caleidoscopio di pittogrammi che creano sorpresa e stupore in chi li produce e in chi li osserva, e che diventano essi stessi possibili spunti di poesie. La poesia può essere uno strumento terapeutico perché la poesia può essere un canale per accedere a quell’ “inconscio non rimosso” in cui risiedono a volte le radici altrimenti non raggiungibili di certi disturbi psichici. Ma esiste un ulteriore aspetto del rapporto fra poesia e psicoanalisi, ed è il modo, per ciascuno differente, in cui alcuni poeti l’hanno “utilizzata” nella loro scrittura, di cui cercherò di passare brevemente in rassegna alcuni casi significativi. In Umberto Saba per esempio questo rapporto si è realizzato prevalentemente attraverso una narrazione lirica di scene traumatiche dell’infanzia, “a forte connotazione sentimentale”, come ha osservato Elio Gioanola che è stato fra gli iniziatori di una critica letteraria basata sulla psicoanalisi. Oltre all’ampia rivisitazione autobiografica in varie parti del suo Canzoniere, si veda in particolare, come esempio illuminante, ne Il piccolo Berto, scritto fra 1929 e il 1931, parallelamente ai due anni della sua terapia psiconalitica col dottor Weiss, lo strappo violento dalla sua balia, dopo i primi anni di vita passati con lei. Ne Il piccolo Berto Saba riesce a mettere in scena un tipico evento di regressione, reso stupendamente col tempo verbale del presente indicativo: Al seno / approdo di colei che Berto ancora / mi chiama, al primo, all’amoroso seno / ai verdi paradisi dell’infanzia. Se in Saba la dimensione psicoanalitica è di stampo freudiano e viene realizzata attraverso un autobiografismo esplicito, in Andrea Zanzotto invece è chiaramente improntata a Lacan. Così la sua dimensione psicoanalitica in relazione alla scrittura poetica si realizza interamente sul piano linguistico, tanto che la stessa esigenza di regressione all’infanzia (e mai questa parola, da infans, fu più adeguata) viene spostata, dal piano autobiografico di Saba, alla ricerca del linguaggio infantile, il petél (quella che Lacan chiama “la lingua”), col suo approdo alla matrità, in un percorso poetico-psicologico che parte dalla sfiducia sempre più decisa verso il significato e transita verso un’attrazione sempre più viva verso il significante. È un percorso, linguisticamente e stilisticamente, “a ritroso”, in una ricerca quasi spasmodica dell’origine. E continua poi con una “vertiginosa discesa alle Madri […] per un’esplorazione tutta mentale, entro i meandri stessi della nuda psiche, nel cui buio le uniche precarie guide possono essere i Fosfeni, le tracce pallidamente fosforiche del cervello” (Elio Gioanola). Anche in Cesare Viviani, non solo poeta ma psicoanalista egli stesso, la dimensione psicoanalitica sembra realizzarsi attraverso esplorazioni di tipo linguistico, oltre che sul piano tematico. Il periodo della “decostruzione linguistica” 75
degli Anni ’70 con L’ostrabismo o cara e Piumana, anche con forme di patologia verbale, come il balbettio e il lapsus, cede il passo al recupero di una maggiore presenza del “significato” nelle opere degli anni ’80, per approdare, negli Anni ’90, a una poesia trasfigurata nel poemetto L’opera lasciata sola, dove campeggia un afflato ritmico di ampio respiro, proteso forse a incarnare la resistenza al silenzio della morte, e nel successivo Una comunità degli animi, del 1997, in cui si ritrovano gli echi della ricerca psicoanalitica nella netta contrapposizione fra la mente, universale e immobile, e l’animo generatore di movimento e metamorfosi. E successivamente nel Silenzio dell’universo, del 2000, sorta di poema mistico, la parola si fa esperienza radicale di contemplazione, quasi a sfiorare la forma di un mantra interiore: Gli amanti dello stesso Amore / si riconoscono, nello stesso luogo / si trovano, sentono una somiglianza / che non conoscono”. L’approdo alla via maestra dell’”umiltà”, in Credere all’invisibile (2009), segna un punto d’incontro fra poesia e psicoanalisi nella loro comune esperienza del limite: “per ritrovarci poi alla fine /a mendicare vicini.” Tutt’altra atmosfera ci viene incontro in Vivian Lamarque che invece ha messo liricamente in scena l’esperienza del transfert durante e dopo le sedute di una terapia junghiana, in tre libri che la Lamarque stessa definisce “psicoanalisi in versi” (Il Signore d’oro, 1986; Poesie dando del lei, 1989; Il signore degli spaventati, 1992). E questo, con la grazia del suo inconfondibile stile che, forse, con i suoi toni fiabeschi alla Andersen o genuinamente infantili, può rappresentare esso stesso, se considerata sul piano psicoanalitico, una salutare regressione. Come ne Il signore mai: “Era un signore bello e meraviglioso. / Vicino a lui non si poteva stare sempre sempre, bensì mai. / Lui, il Lontano, viveva dispettoso con la sua famiglia, in un altro luogo.” La sua scrittura scaturisce dalla “memoria indelebile di un’infanzia impietosa”: “da un trauma non detto, trattenuto” che “le ha messo in mano per la prima volta la penna”; e questo trauma si è trasformato… “in un bellissimo principe”, direbbe forse la Lamarque, con il suo linguaggio fiabesco, e cioè nella poesia. Un trauma, quindi, ma anche la possibilità riparativa del soggetto, direbbe Chasseguet-Smirgel. In quest’ottica l’attività creativa costituirebbe un’esperienza fondamentale, fisicamente e psichicamente buona, legata all’armonia e al ritmo, vittoriosa sull’aggressività e sull’angoscia e quindi connotata da un’intrinseca potenzialità terapeutica. Perfino il modo di usare la rima, in lei, è funzionale al recupero di un’infanzia, che, così recuperata e cullata, viene anche riparata. E così si ritorna, per altra via, alla connotazione iniziale di poetry therapy. Fra questi vari modi di realizzare poeticamente un rapporto con la dimensione psicoanalitica, la poesia di Marisa Brecciaroli compie un passo nuovo, realizzando un connubio fra il linguaggio della teoria psicoanalitica e quello della poesia: infatti il significato di alcune sue poesie coincide con una teoria psicoanalitica. Ne La Memoria dell’Immemoria, (sottotitolo …è stata la cicogna, 1991) arriva a tradurre alcuni temi e teorie psicoanalitiche nel linguaggio poetico, e si potrebbe dire addirittura che la psicoanalisi ha, in questo caso, dato un contributo ispiratore con le sue stesse teorie. In Trasparenze (2000), in una “dimensione mitica”, la 76
sua poesia “genera un mondo dove visione e musica coincidono con la libertà del pensiero desiderante” (Tomaso Kemeny). In Trasparenze (2000), si approda a un significante in primo piano: “il dispositivo linguistico sonoro-musicale” fa “individuare il senso o il lato nascosto, di oggetti, situazioni… luoghi; senso che appare in penombra o in chiaroscuro eppure li permea fortemente” (Alberto Ghilardi). In questo trasparire di un senso nascosto (preconscio-inconscio) si attua un ulteriore tipo di poesia psicoanalitica. Fra il linguaggio della poesia e il linguaggio della psicoanalisi è in atto, dunque, da tempo, un fertile scambio reciproco, in mutua libertà.
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MARISA BRECCIAROLI TRASPORTARE LE TEORIE PSICOANALITICHE NELL’ALTROVE DELLA POESIA “Addio, immagine di luce/ grazie a te del colloquio / così lungo-così breve. / Precettore del tutto / simultaneo ministro / ti sveli - te ne vai” (Emily Dickinson): sono forse questi colloqui con l’ispirazione poetica, o “immagine di luce”, ad aver dato l’accesso anche a “conoscenze” psicoanalitiche (“precettore del tutto”) nei testi poetici qui presentati? Certamente alla base del momento poetico (“così lungo-così breve”) intervengono tante dimensioni, anche spirituali, che conducono a quell’oltranza che sconfina nell’Invisibile; ma qui si è scelto di trattare prevalentemente quella psichica, studiata dalla psicoanalisi e dalle neuroscienze (psiche e cervello); è così che le tre poesie qui proposte - La Memoria dell’Immemoria; Scollate scollature e Anaforicamente - come esemplificazione di un genere, hanno un tema particolare; infatti ognuna è stata ispirata e innervata da una teoria psicoanalitica. Si sa che non è il tema o “contenuto” di una poesia a farla diventare vera poesia: non a caso Quasimodo parlava di “contenuto formale” e Saba, in una lettera a Penna, scriveva: “Le tue poesie non mi sono piaciute per il loro contenuto, ma per la loro poesia”. E allora come si giustifica la messa in primo piano del tema di queste poesie, che rappresentano una fase trascorsa del mio lavoro, e per di più di un tema proveniente da teorie psicoanalitiche? Credo che ci possa soccorrere il pensiero di Josif Brodskij quando afferma che “ogni realtà aspira alla condizione di una poesia” e che la poesia è un “mezzo di trasporto” (la Dickinson parla addirittura di “destrieri”), per cui si potrebbe dire che perfino una realtà astratta come una teoria psicoanalitica possa aspirare alla condizione di poesia e a essere “trasportata” in un “altrove” e “la locomozione non riguarderebbe, né tanto né solo, il percorso verso la parola e il suo luogo sonoro, bensì la condizione, cioè lo statuto d’arte qual è quello della poesia” (Laura M. Lorenzetti). Allora forse la peculiarità, e anche la giustificazione, di queste poesie il cui tema è ispirato da una teoria psicoanalitica sta nell’essersi avventurate nella singolare esperienza di “trasportare” delle realtà teoriche astratte (legate tuttavia anche all’osservazione di concreti stati interiori) in un “altrove” da sé e soprattutto in quell’ “altrove” per eccellenza che è il linguaggio poetico. E, per di più, in un linguaggio di poesia visiva e, in alcuni casi, anche sonora. Mi è sembrato particolarmente appropriato presentare questo tipo di poesia, ricca di conoscenze psicoanalitiche, in una rivista che tratta del rapporto fra poesia e conoscenza. La prima poesia, La Memoria dell’Immemoria, scritta negli anni ’80 e 78
pubblicata nel ‘91 in un libro scritto parallelamente alla mia esperienza psicoanalitica, è l’evento di scrittura per me più sorprendente, perché vi sono “rappresentate” sia una scoperta delle neuroscienze, avvenuta negli Stati Uniti, sulla “memoria implicita” ovvero un inconscio non rimosso relativo alle esperienze prenatali e della primissima infanzia (e che nella poesia corrisponde alla “Immemoria”), sia i risultati della riflessione psicoanalitica sul nesso causale fra memoria implicita e creatività, ma questo fu scritto circa vent’anni prima che quella teoria fosse nota. Insomma questo testo sembra descrivere esattamente, ma poeticamente, le teorie scientifiche relative al legame e all’interdipendenza fra ispirazione e scrittura poetica, da un lato, ed esistenza di una “memoria implicita” giacente in un “inconscio non rimosso”, dall’altro. Da questo può derivare anche una poetica relativa all’ origine della poesia; infatti qui la poesia è intesa come una specie di sonda che riesce a scendere nell’”Immemoria”. Poesia che, grazie a questo magico trasporto, diventa una “Memoria dell’Immemoria”. Insomma la poesia riesce a scendere nel regno della “memoria infranta”, o “Immemoria”, “Dove stanno 79
in oscuro” i “lavacri germinanti / di sopite immemorie”, insieme ai contenuti rimossi dell’“eterno lutto d’infranti desideri” - quindi ‘lutti’ anche in senso psicoanalitico - e da lì, da quel fondo, riesce a trarre reperti mnestici di tipo sensoriale e a tradurli nelle immagini e nei suoni della poesia portandoli nella zona del conscio e trasformandoli così in “memoria”. Tutto questo dà luogo a una specie di “nascita” o “ri-nascita” (da cui l’immagine delle “cicogne misteriose”): rinascita dei contenuti psichici prima completamente inconsci e perciò inattingibili, ma non inattivi, anzi, proprio perché incontrollabili, molto condizionanti, spesso anche in forma autolesionistica. Così le “cicogne misteriose” sono la rappresentazione, simbolica, del “mistero” della cosiddetta “ispirazione artistica”, promossa dalla trasformazione della “cruda Immemoria” (“cruda” perché colma di confusioni e trappole dell’inconscio) in Memoria “eterea” (perché capace di dare forma artistica a quello che prima era solo cieca dipendenza). “E all’improvviso è / preludio di poesia”: l’ispirazione ha spesso questa caratteristica di “fulmineità” inattesa. Ed è così che, in quegli attimi, c’è un
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“preludio” di poesia, più che una realizzazione completa; quest’ultima infatti dipende anche da altri fattori, fra i quali la competenza linguistica. Dopo tutta questa disanima della dimensione psicoanalitica di questa poesia, è più intuibile la ragione dell’iniziale delle parole “Memoria” e “Immemoria” che nel testo da minuscole diventano maiuscole: entrambe infatti indicano una realtà ‘maiuscola’ nella nostra vita: una rappresenta la Poesia in quanto sonda dell’Immemoria, e l’altra incarna il sempre presente e dominante Inconscio. Nella poesia visiva Scollate scollature è stato invece tradotto il tema psicoanalitico della resistenza inconscia del paziente di un trattamento psicoanalitico. Se l’inconscio è ciò che si nega alla percezione cosciente, l’“affacciarsi” a esso nel corso di una terapia può provocare la resistenza che questo testo poetico vuole rappresentare: l’espressione “scollate scollature” è polisemica, sia nell’accezione visiva (una scollatura d’abito, quindi lo schiudersi e l’affacciarsi verso l’anima o inconscio, da un lato, oppure un incombente falco, rappresentato dalle due ali formate dalle parole stesse, che si getta pericolosamente sull’anima, dall’altro), sia sul piano lessicale: la “scollatura” è uno schiudersi dell’abito ma anche qualcosa che si scolla, si stacca (forse si stacca la copertura operata dalle difese psicologiche nei confronti delle emozioni dolorose rimosse). È così che qui il poetapaziente si accorge che le “grotte” dell’Es, o inconscio, sono percepite come un elemento verticale, come “liquide lacrime” che grondano dall’alto; e il timbro vibrante e drammatico delle consonanti allitteranti di “‘grotte” e di “grondano” sono il significante sonoro, che incarna il significato della paura, suscitata dal lavoro di scollatura operato sull’anima; ed evocano, anche, per consonanza, l’area semantica del “grido” che esprime spavento o dolore. Così, questa poesia realizza il connubio fra il concetto psicoanalitico di resistenza e una forma poetica visuale e sonora, che lo incarna. La poesia Anaforicamente è il frutto di una sintesi improvvisa, concretizzatasi in una forma sia visiva che concettuale, capace di rappresentare poeticamente il fenomeno noto in psicoanalisi come coazione a ripetere, o altrimenti detto, oggi, principio della sicurezza1. In che modo? L’anafora è la figura retorica della ripetizione di una o più parole all’inizio di frasi o di versi successivi (cfr “Per me si va nella città dolente/ per me si va nell’eterno dolore/ per me si va tra la perduta gente” in Dante, Inferno, III, 1-2). In questo testo però la parola “anafora” diventa anche metafora della coazione a ripetere. Così si rappresenta, anche visivamente, il dramma, messo in scena dall’inconscio, del trovarsi a ripetere più volte la stessa storia dolorosa nel corso della propria vita, e di accorgersene amaramente ogni volta solo dopo che si era creduto di aver “cambiato verso”: per esempio cambiato tipo di persona in una relazione affettiva, o cambiato tipo di rapporto di lavoro. E con questo cambiamento 81
si era creduto di essere andati “avanti” (cfr. la disposizione dei versi ripetitivi nel testo, tutta protesa in avanti verso destra) e si era sperato per esempio di aver migliorato la propria vita affettiva. Ma dopo tanti cambiamenti solo apparenti (perché il soggetto è condizionato a essere attratto inconsciamente dagli stessi problemi), alla fine di un lungo percorso di ripetizioni dolorose ci si accorge che “la musica è sempre la stessa” (cfr. i due brevi brani musicali uguali fra loro, uno all’inizio e uno alla fine). Quindi si deve prendere atto – grazie allo svelamento operato dal lavoro psicoanalitico – che non solo non si è andati avanti, ma in realtà si è sempre “restati indietro” (cfr. la disposizione dei versi “esistere / in un / lembo”, inclinata all’indietro verso sinistra), perché ancora vincolati a un’esperienza primaria condizionante, quella della memoria implicita in un inconscio non rimosso. La parola “esistere” si contrappone a “vivere”, così come la parola “lembo” subliminalmente evoca, per una evidente consonanza, anche il significato di “limbo”, e dunque una non-vita. Ecco che la poesia si rivela così la rappresentazione visiva e fonica, non solo concettuale, del dramma inconscio della coazione a ripetere, dolorosa realtà psichica. Queste poesie sono soltanto un piccolo esempio di questo genere particolare 82
di scrittura poetica, che si è realizzata più organicamente nel “disegno psicoanalitico” di un intero libro, (…è stata la cicogna - La Memoria dell’Immemoria, Milano 1991) in cui la poesia assume le teorie psicoanalitiche trasformandole attraverso il significante e trasportandole nel suo “magico altrove”.2
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J. Sandler, La ricerca in psicoanalisi, Boringhieri, 1980 Vedi: “Una spiegazione della teoria di base”, http://marisabrecciaroli.altervista.it/saggiEarticoli. htm#_Introduzione_al_tema e il video della poesia “Anaforicamente”, http://marisabrecciaroli. altervista.it/multi-media.htm.
2
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GIORGIO LINGUAGLOSSA LA BUIA DANZA DI SCORPIONE INDAGINE PSICOANALITICA SULLA POESIA DI ALFREDO DE PALCHI
[...] fuori di sé insiste a frenarsi squama alla luce – io fuori di senno persisto la buia danza di scorpione Brano di una poesia tratta da La buia danza di scorpione opera scritta nei carceri di Procida e di Civitavecchia (primavera 1947-primavera 1951). Mi scrive de Palchi: “Avevo inserito questa raccolta all’inizio del volume Sessioni con l’analista, ma prima di stampare il libro ritirai in fretta la raccolta, considerandola di stile diverso delle poesie contenute nel volume Sessioni. Forse, ancora oggi dico forse, feci un errore enorme, perché La buia danza di scorpione, messa nel cassetto, la pubblicai bilingue soltanto nel 1993 da Xenos Books negli Stati Uniti e mai uscita in originale in Italia. La buia danza di scorpione, uscì poi da Mondadori (1967) nella nuova collana Il Tornasole fondata da Sereni”. Sessioni con l’analista (1945-1966) fu pubblicata nel 1967 senza la significativa raccolta che la precede cronologicamente. Cominciamo con lo “scorpione”. Come mai questo animale nel titolo? Perché Alfredo de Palchi sceglie questa parola simbolo per incentrarvi la raccolta che scrive nelle prigioni di Procida e di Civitavecchia? Lo scorpione, apparso circa 350 milioni d’anni fa, sembra voler sfidare le leggi dell’evoluzione dato che la sua forma non ha subito alcun mutamento come se il suo corpo fosse, già dall’inizio, perfetto per il suo modo di vita. Per i moderni zoologi rappresenta un affascinante enigma: né rettile né insetto, è tuttavia caratterizzato da entrambe le nature. È insetto per la corazza che lo ricopre ma rettile per la vita sotterranea che conduce. Simbolo del mondo anfibio e anche simbolo sessuale per via della sua orrifica danza. È significativo che nelle antiche culture pagane si ritrovi lo scorpione. Ad esempio, in Egitto lo scorpione era onorato come dio sotto le sembianze femminili della dea Selkhet, divinità benevola, protettrice delle profondità della terra, che conferiva poteri taumaturgici ai suoi adepti. I sacerdoti di Selkhet erano abilissimi incantatori di scorpioni e grazie a tali incantesimi erano in grado di farli uscire dalle loro tane senza correre il pericolo di essere punti, e ancora oggi, in Oriente, vi sono persone che riescono a sopportare il continuo contatto con queste spaventose creature. Se presso i Maya lo scorpione era adorato come dio della caccia e simbolo della penitenza, nell’antica Grecia lo troviamo invece come strumento di vendetta 84
usato da Artemide. Narra infatti la leggenda che la dea, cacciatrice e protettrice della fauna, fu offesa da Orione, che voleva distruggere tutti gli animali del creato. Ella mandò come castigo un grande scorpione che punse mortalmente Orione al calcagno. Artemide, riconoscente, trasformò lo scorpione in una costellazione e poiché anche Orione aveva subito la stessa sorte, da allora e per sempre il complesso stellare d’Orione è costretto a sfuggire a quello dello Scorpione. Nel Vecchio e Nuovo Testamento lo scorpione raffigura il nemico, il demonio. Nel libro di Ezechiele vengono indicati con il nome di questo animale coloro che sono nemici del profeta e della parola divina. Il cristianesimo delle origini lo adottò come simbolo di eresia e della dialettica speciosa che mette in dubbio i dogmi dei Padri della Chiesa. Simbolo anfibio e negativo, in tale accezione il giovanissimo Alfredo de Palchi adotta l’immagine dello scorpione per veicolare una poesia del negativo, dell’effrazione, simbolo della ribellione e dell’eresia, del tradimento e della disfatta. Possiamo dirlo oggi, a distanza di tanto tempo: la cultura italiana degli anni Sessanta, quando il libro fu pubblicato da Sereni nello Specchio Mondadori, non era preparata a ricevere un tale messaggio simbolico, e infatti il libro venne dimenticato e l’autore rimosso in una sorta di limbo degli infetti, di coloro che avevano avuto nel loro passato il marchio d’infamia di una diversità non conciliabile, ingiustificabile e ingiustificata. L’adesione giovanile alla repubblica di Salò da parte del diciottenne de Palchi fu interpretata come un marchio d’infamia di cui la sua poesia innalzava l’emblema, sollevandone le insegne del negativo. Equivoco infausto e ingiustificato, perché Alfredo de Palchi fu, dopo sei anni di prigione preventiva, completamente prosciolto dall’accusa per non aver commesso alcun reato. Questo è il fatto, o meglio, l’antefatto. Il modo con cui il giovanissimo de Palchi si auto-processa è il ritorno alle “origini”, fanciullo nelle acque dell’Adige, alla ricerca di una purificazione in quelle stesse acque: Mi dicono di origini sgomente in queste acque: qui sono erede figlio limpido - ed amo il fiume inevitabile in cui l’intrigo del mio tempo si accomoda osservo nel fondo rotolare l’isola verso il nulla l’età muta calore il vespaio del gorgo e l’uno vuole il perché dell’altro: tu sempre uguale, io dissennato 85
È bene dire subito che la raccolta reca le tracce dell’inconscio di de Palchi, i suoi conflitti lancinanti di cui si troveranno tracce significative in tutta la sua futura poesia: l’acqua, le acque dell’Adige simbolo a un tempo di purificazione e di infezione; il “seme del girasole”, simbolo di rinascita e di consapevolezza embrionale, oltre che simbolo di fertilità e di potenza sessuale; il traditore e, infine, il “fuoco”. Sempre in questa prima raccolta troviamo l’espressione “l’albero di fuoco”. Significativo della cinghia di trasmissione metonimica che collega i vari simboli è il triangolo simbolico costituito da: acqua - sperma o seme - fuoco. Dalla psicoanalisi sappiamo che il fuoco è uno dei più comuni simboli libidici direttamente connesso al simbolo del pene: l’«albero» che emette una potenza incendiaria; la corrente libidica che ha per momento di trasmissione la madre, si condensa e si solidifica nel totem del padre, il padre collettivo: la patria che si è arresa oltraggiosamente all’amante, al nuovo padre che ha spodestato il primo. In poesia si verifica un chiaro fenomeno metonimico, uno spostamento delle figure simboliche. La ribellione del protagonista delle poesie coincide con la ribellione politica del giovanissimo Alfredo all’ordine costituito dal “tradimento del padre”. E la madre? La madre si limita a stare al di fuori di questo processo che riguarda soltanto gli uomini: il padre totem e il figlio eretico (“all’uscio batte le nocche la madre”). E il figlio eslege, il figlio eretico e ribelle non può che rispondere con una tipica regressione infantile, ricorre all’arma dello “sputo” su tutti i “traditori”, coloro che hanno abbandonato e tradito il vero padre per un nuovo falso padre: Al calpestio di crocifissi e crocifissi sputo secoli di vecchie pietre strade canicolari il pungente sterco di cavalli immusoniti in siepi di siccità (al gomito dell’Adige allora crescevo di indovinazioni rumori d’altre città) e sputo sui compagni che mi tradirono e in me chi forse mi ricorda Nel momento in cui l’investimento libidico nei confronti della figura «madre» diventa attivo, ecco che essa subisce l’atto della rimozione e non può realizzarsi la sua sostituzione simbolica e metonimica in espressioni letterarie. Il simbolo della madre rimane bloccato in quanto sottoposto a un fortissimo investimento libidico, e quindi, dal punto di vista letterario, inattivo. Il linguaggio dell’inconscio, come si sa, è figurativo, insieme metaforico e metonimico, si esprime attraverso la formulazione del simbolico. È un linguaggio di scarti, di spostamenti freudiani, di deviazioni metonimiche, di sostituzioni di nomi e di oggetti, di metafore abbaglianti 86
e incomprensibili, che rispondono alla logica simbolica dell’inconscio: In mano ho il seme nero di girasole so che la luce cala dietro l’inconscio / ma altre nebule avanzano e ho questo seme da trapiantare come unico dei sistemi sconosciuti Il fuoco è un fuoco di origine erotica, e l’incendio è un incendio d’amore, ma il fuoco è anche lo strumento principale che ha il figlio eretico per sopprimere e abbattere il padre-totem, ed è un fuoco distruttore. Il figlio eretico sa che deve conseguire l’autodistruzione totale dell’io per poter impiegare il fuoco contro i traditori e i vili. Ma il problema è che a questo punto interviene la censura e la conseguente rimozione per cui resta il divieto di nominare direttamente la pulsione ideativa che proviene dal profondo dell’inconscio. E allora subentra l’accettazione della incompiutezza e della codardia del figlio che non ha saputo giungere alle estreme conseguenze del proprio gesto inconscio: l’uccisione del totem. E sarà questa la “verità” tanto cercata dal giovane poeta: “nel giorno della disfatta trovo la verità”. Scrive Freud: “Il calore che il fuoco emana suscita la stessa sensazione che accompagna lo stato di eccitazione sessuale e la fiamma ricorda nella forma e nei movimenti il fallo in attività”1. Nel linguaggio dell’inconscio per Freud si tratta di una lotta ludus di “fallo contro altro fallo”. Prometeo, sottraendo il fuoco agli dei e portandolo agli uomini perché lo usassero, li costrinse a rinunciare al piacere che ricavavano da quella lotta. Ma “l’acquisizione del fuoco” (“scroscio d’oro del gallo”, con una evidente equivalenza a livello simbolico inconscio tra il “fuoco” e il “gallo”), segna una tappa fondamentale nel cammino della civiltà, da cui derivò “una sconfitta della vita pulsionale”. Alla luce della realizzazione simbolica, l’inconscio declama la sua vittoria: Mi condannate mi spaccate le ossa ma non riuscite a toccare quello che penso di voi: gelosi della intelligenza e del neutro coraggio aggredito dal cono infesto delle cimici - io, ricco pasto per voi insetti, oltre l’ispida luce vi crollo addosso il pugno 87
In un’altra poesia, alle “eiaculazioni” dell’io viene contrapposta “la puzza del bugliolo”, opera di un “cristo impostore”. Per Jung, la pelle è la pagina su cui scrive la psiche. Per il ventenne de Palchi che scrive queste poesie, le pagine bianche sono le superfici dove incidere le parole, e lo stile depalchiano ne rimarrà folgorato, ripercorrerà in tutta la sua produzione futura l’irregolarità metrica delle pulsioni libidiche inconsce. Il foglio bianco come analogo della pelle del corpo. La pelle e il foglio bianco sono infatti il recettore simbolico della comunicazione libidica, il primo binario dove l’energia invisibile della libido si manifesta nel mondo visibile. Per Jung sia il fuoco che il linguaggio “sono prodotti dell’energia psichica, della libido. Il linguaggio e la produzione del fuoco significarono un giorno il trionfo dell’uomo sull’incoscienza animale, e a partire da quel momento costituirono i rimedi magici più potenti per domare le potenze “demoniche” sempre minacciose dell’inconscio. Queste due attività della libido esigevano attenzione, cioè concentrazione e disciplina della libido stessa al fine di facilitare l’ulteriore sviluppo della coscienza”2. A prescindere dalla questione del linguaggio, senza dubbio esso è correlato alla produzione del fuoco. L’evoluzione della civiltà dipenderebbe da una “disciplina della libido”, teoria molto prossima a quella freudiana che attribuisce a “una sconfitta della vita pulsionale” l’acquisizione del fuoco e i benefici che ne derivarono alla società umana.
Cit. in e. Jones, Vita e opere di Freud, vol. III - L’ultima fase (1919-1939), Il Saggiatore, Milano 1962, p. 386. 2 Jung, Simboli della trasformazione pp. 167, 171. 1
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GIANCARLO STOCCORO BREVI CONSIDERAZIONI SULL’INCONSCIO E LA CREAZIONE POETICA I poeti danno alle parole una possibilità di vivere con i loro sogni. Edmond Jabès
Chi dispone di “parole”, la lingua gli si nega. Chi si dispone alla lingua, anche le parole... lo trovano. Paul Celan
Quando scrivo, cerco di non capire quello che scrivo. (…) Penso che una delle pecche della letteratura moderna sia quella di essere troppo consapevole di sé. Jorge Luis Borges
Le vite dei poeti sono gravate più di altre dalle circostanze, lo sguardo sull’abisso sostiene il loro canto: un Io lirico fragile, a rischio continuo di deragliamento, ma in dialogo con gli strati più profondi dell’inconscio. “Su noi profani ha sempre esercitato una straordinaria attrazione il problema di sapere donde quella personalità ben strana che è il poeta tragga la propria materia […] e come egli riesca con essa ad avvincerci, suscitando in noi commozioni di cui forse non ci saremmo mai creduti capaci. Il fatto che il poeta stesso, se lo interroghiamo in proposito, non sappia risponderci o ci risponda in modo inadeguato, non fa che aumentare il nostro interesse al problema”1 Il padre della psicoanalisi continua il suo mirabile saggio paragonando, come è noto, l’attività del poeta a quella del bambino, entrambi costruttori di mondi di fantasia, grazie alla capacità di sognare a occhi aperti. Se il poeta è un adulto bambino, che prosegue e sostituisce l’età dei giochi, la sua ars poetica è mossa da desideri insoddisfatti: “L’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa” (Freud, ib.). Con la scoperta dell’inconscio, all’inizio del Novecento, i poeti diventano così “sublimatori di professione”2, gli unici, forse, capaci di trasformare le fredde e ripugnanti fantasie di tutti in opere d’arte. Il modello utilizzato per spiegare il processo produttivo della creazione artistica è 89
lo stesso di quello elaborato per l’elaborazione onirica: “Una forte impressione attuale risveglia […] il ricordo di un’esperienza anteriore per lo più risalente all’infanzia, e da questo deriva ora il desiderio, che si crea il proprio appagamento nell’opera poetica; nella stessa opera poetica si rivelano elementi tanto del fatto recente che ha fornito lo spunto quanto l’antico ricordo” (Freud, ib.). Il compito degli psicoanalisti resterà a lungo quello di scoperchiare l’inconscio di chi si affiderà al loro trattamento, attraverso la “via regia” offerta dai sogni, gli atti mancati, i motti di spirito e le fantasie inconsce3; i poeti, viceversa, non smetteranno di entrare in contatto con gli strati più primitivi dell’inconscio, sostandovi anche a lungo e a costo di esserne travolti, per poter portare a termine la loro opera. L’inconscio freudiano, bonificato e restituito all’orizzonte limitato dell’Io, attraverso adeguate interpretazioni4, accontenta forse gli artigiani della parola, bisognosi di un terreno solido e protetto dove poggiare i loro attrezzi e cesellare con cura i singoli termini. In esso non si riconoscono però molti poeti, testimoni di una forza misteriosa che li trascende e s’apparenta piuttosto all’Es groddeckiano o all’Anima Mundi di J. Hillman. L’Es è un inconscio selvaggio, ubiquitario e totipotente, che non ammette espropriazioni di territorio e dirige tutto ciò che gli uomini fanno e tutto ciò che loro accade: “Non c’è affatto un Io, è una menzogna, una deformazione, quando si dice: io penso, io vivo. Dovrebbe essere: esso pensa, esso vive. Es, cioè il grande mistero del mondo”5. Se per Groddeck l’inconscio resta impenetrabile e indefinibile, perché di esso “non si può parlare ma solo balbettare qualcosa […] se non si vuole che dal profondo emerga con clamore selvaggio la genia infernale dell’universo sotterraneo”6, è lui stesso a riconoscere nei poeti “i soli portavoce di cui (l’Es) si serve” (ib.). Ed essi si mostrano messaggeri fedeli: la poesia come opera non appartiene loro. Essa, una volta creata, acquisisce un’autonomia tale da poter esercitare un’influenza sul suo creatore (come, per esempio, nel celebre caso di Pigmalione). Per citare solo alcuni poeti, Jean Cocteau affermava: “noi non scriviamo, siamo scritti”; Edoardo Sanguineti7: “si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere”; Edmond Jabès, forse il più dissacrante di tutti: “forse ho scritto un solo libro (…) ed era già scritto”8. Qualcosa che va e che viene, a volte imprendibile, altre palesandosi improvvisamente dietro un angolo, la poesia è sicuramente “più vicina al miracolo che al mestiere”9. L’arte del poeta non consiste infatti nell’utilizzare le parole più appropriate per descrivere un evento o un pensiero anche profondo: “L’arte accade”, scrive Borges10, ogni volta che leggiamo una poesia, che sorprende tanto il poeta quanto il lettore perché riporta il linguaggio alla sua fonte originaria. Per dirla con Franco Loi: Se nel parlare comune la parola è assunta in riferimento a un “valore convenuto”, nel dire poetico la parola è espressa a significare il rapporto tra l’uomo e la cosa, perciò a riscoprire la cosa”11. Potremmo affermare che, mentre la prima è “fossile, archivio della storia e tomba delle muse”12, la seconda è parola viva, indistinguibile dalle emozioni e da quanto la circonda, inseparabile dall’ “ombra” che l’accompagna, in sostanza psicosomatica. 90
Come si fa a restare leali alla propria immaginazione (al proprio Es, che nella poesia diventa messaggera dell’inconscio collettivo, voce dell’anima del mondo), a pazientare di fronte all’indicibile, a resistere alla tentazione di passare a lucide argomentazioni, a evitare cioè di trasformare “un dado di movimento in un dado di serraggio”13? Se è vero che “nei sogni siamo veri poeti” (Emerson, ib.) bisognerebbe allora “semplicemente comunicare qual è il sogno”, seppur confuso e offuscato, senza cercare di abbellirlo o di capirlo, come afferma Borges quando parla del suo personale rapporto con la scrittura? Non esiste forse una sola via per far risuonare l’inconscio, trasformando un’immagine mai vista e al contempo invisibile in un “simbolo felice” (Emerson, ib.). Per alcuni il poeta dev’essere una “persona molto forte”, capace di “imbrigliare le emozioni”, fare “quello che un cow- boy fa con i cavalli”14, in sostanza un domatore dell’inconscio. Questa immagine si apparenta forse al mito del puer, all’idea che l’età d’oro della poesia sia quella giovanile, piuttosto che al senex, più portato a un lavoro analitico e quindi al racconto, allo svolgimento di un’opera pedagogica invece che di rivelazione. Per altri “ogni scrittore è un pattinatore: deve andare in parte dove lo portano i pattini; o un marinaio, che può approdare solo dove le vele possono lasciarsi sospingere” (Emerson, ib.). L’immagine forse più pregnante è quella della poetessa Anne Sexton, secondo la quale “la poesia munge l’inconscio come fosse latte. L’inconscio è lì per nutrire la poesia con piccole immagini, piccoli simboli, risposte, intuizioni che neppure io conosco”15. Ciò che resta centrale per tutti è un accesso privilegiato all’inconscio, anche se questo può travolgere, aprire squarci di verità che non sempre salvano. Ci viene ancora in aiuto la lezione di Freud che parlava dell’opportunità di accecarsi artificialmente quando ci si trova di fronte a un tema oscuro: una posizione creativa ed elemento chiave per la capacità di essere disponibili alla scoperta, come più recentemente rilevato dallo psicoanalista Wilfred Bion16. Significativa per questo autore è la capacità negativa associata alla rêverie materna, strumenti che hanno rivoluzionato il lavoro psicoanalitico e concorso allo sviluppo di un nuovo approccio sulla funzione del pensiero e il sogno come il Social Dreaming di Gordon Lawrence. Per una sorta di circolarità virtuosa, entrambe le modalità sono intimamente legate alla “seconda natura” (Emerson, ib.) del poeta. La “Negative Capability” era già stata preconizzata da John Keats17 come la capacità “di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio, senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione”. Questo atteggiamento favorirebbe la vulnerabilità, la permeabilità e l’intuizione, tutti elementi fondamentali per chi ambisce a scrivere versi e, a parere del poeta romantico inglese, posseduta in sommo grado proprio da W. Shakespeare. Il concetto di rêverie, cioè la capacità materna di prestare la propria mente al bambino18, rimanda senz’altro a una dimensione antropologica universale ma anche a una forma specifica di esperienza strettamente connessa al fare poesia. Ogni pensiero inizia con essa, ogni parola nuova ci raggiunge prima dei concetti ai quali è associata. La poesia precede sempre la prosa, ricorda la storia dell’umanità che si rinnova nell’infanzia dell’uomo. Secondo Christopher Bollas (La mente orientale) la poesia ha una forma sintattica più semplice e vicina al linguaggio orientale, grazie alla “creazione di 91
strutture musicali di parole che catturano il sé con esperienze intense che coinvolgono tutto l’essere”. La prosa, viceversa, è occidentale, basata su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione. Non in contrapposizione, seppur non facilmente conciliabili, afferiscono l’una al codice materno e l’altra al codice paterno, a porzioni della mente che si attivano diversamente. Forse per questo alcuni poeti faticano a scrivere in prosa e viceversa. Iosif Brodskij, che vedeva nella composizione di una poesia uno “straordinario acceleratore mentale” che consente di creare connessioni e legami inaspettati, in una delle sue ultime interviste19 ricordava come “l’estetica che nasce dalla poesia è un’estetica della fusione” proprio tra approccio orientale e approccio occidentale. E per diverso prelievo, lo stesso poeta russo ammoniva: “Le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono”20. A noi non resta che metterci in ossequioso ascolto, senza fare ulteriori congetture.
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Freud, Il poeta e la fantasia. Saba, Lettere sulla psicoanalisi. 3 Con il termine “fantasie inconsce” Freud si riferiva alla rappresentazione psichica di “desideri originari” poi estesa anche alle difese innalzate contro di essi. 4 Nell’attualità lo scopo della terapia psicoanalitica non è più rendere conscio l’inconscio (se mai sia stato possibile farlo!) quanto analizzare la difesa e scomporre il conflitto inconscio nei suoi elementi o ancora giocare col sogno, sognare sul sogno e col sogno, rispettare l’illusione o per ampi tratti favorirla. 5 Groddeck, Satanarium. 6 Groddeck, Il libro dell’Es. 7 Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo. 8 Il libro dell’ospitalità. 9 Ana Blandiana, Poesia come arte dell’immagine. 10 L’invenzione della poesia. 11 La luce della poesia. 12 Ralph Waldo Emerson, Essere poeta. 13 E. Jabès, Desiderio di un inizio, angoscia di un’unica fine. 14 D. Bisutti, La poesia salva la vita. 15 La zavorra dell’eterno, in Poesia N. 311. 16 Bion si è occupato della funzione del pensiero nell’ambito del pensiero nascente e ha sviluppato una teoria relativa al processo che accompagna le trasformazioni delle nostre esperienze sensoriali ed emotive, un processo di simbolizzazione e di significazione affettiva. 17 In una lettera ai fratelli George e Thomas del 1817. 18 Per contenerne cioè le angosce, dare loro un significato e restituirle già digerite (e quindi più tollerabili) al bambino. Questo modello, individuato da Bion, concorre a una sorta di onirizzazione del lavoro analitico. 19 Un’intervista a Iosif Brodskij di Elizabeth Elam Roth, 1995. 20 Il suono della marea. 2
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MAURIZIO SPATOLA GIAN PIO TORRICELLI: UN CASO LETTERARIO E UMANO
La vicenda umana e letteraria del poeta e artista modenese Gian Pio Torricelli richiama alla memoria la storia, altrettanto drammatica, di due altri poeti del Novecento italiano, Dino Campana e Alda Merini: la prima conclusa tragicamente, nel 1932, nel manicomio di Scandicci quando lo scrittore toscano aveva solo 47 anni; la seconda, con esito più felice (si fa per dire), in quanto la Merini, dopo quarant’anni trascorsi in un alternarsi di ricoveri in istituti psichiatrici e di ritorni a casa, durante i quali non smise mai di scrivere poesie, ha raggiunto in tarda età un clamoroso successo, fino a ricevere alla morte, avvenuta nel novembre 2009 a 78 anni, i funerali di stato. Gian Pio Torricelli, che oggi ha 73 anni, internato agli inizi degli anni ’70 persino in un manicomio criminale, per una serie di equivoci, ha finito per rinchiudersi completamente in se stesso e vive ancora oggi sotto tutela, sia pure in condizioni più accettabili, ma la sua voce di poeta si è spenta definitivamente oltre quarant’anni fa. Un libro di Caterina Fantoni pubblicato recentemente a Modena da Artestampa, grazie alla caparbia volontà di un nipote di Torricelli, Carlo Bonacini (figlio della sorella Marisa, attuale tutrice di Gian Pio), ricostruisce tramite testimonianze di chi l’ha conosciuto e fotografie anche d’epoca, con prefazioni di Alberto Bertoni e del sottoscritto (qui ripresa in parte) e una nota critica di Mario Bertoni, il percorso inquietante e drammatico del promettente artista e poeta, che dagli esordi come pittore era passato con furioso entusiasmo, quasi verboclasta, a una scrittura poetica trasgressiva e provocatoria. Il libro è stato presentato il 16 gennaio scorso presso la Biblioteca Poletti di Modena, presenti anche gli amici pittori degli esordi fra i quali Carlo Cremaschi, Giuliano Della Casa, Franco Guerzoni e Franco Vaccari: verso la fine è comparso in sala, scortato da parenti, proprio lui, Torricelli, lo sguardo inquieto nel volto scavato, e il silenzio degli astanti si è sciolto in un applauso commosso al momento dell’abbraccio fra Gian Pio e gli amici con cui tornava a incontrarsi dopo quasi mezzo secolo. Il volume si intitola Dunque Torricelli, prendendo spunto dalla prima raccolta di poesie di Gian Pio Dunque cavallo (Sampietro, Bologna 1965), riproducendone l’intenzionale sconnessione, che rappresenta del resto il filo conduttore delle composizioni presenti nel libro: un magma di neologismi (o “neolalíe”) e di termini impossibili, di frasi caotiche e contorsioni verbali, nati non per scomposizione e ricostruzione, ma per fusione casuale o per contaminazione con un chiaro imprinting dal surrealismo anarchico 93
dell’ultimo Breton o di stampo parasurrealista come notava il prefatore, Adriano Spatola. Due esempi della scrittura di Torricelli, apparentemente inconciliabili: Epigramma Briosamente spillando la stoffa per bandiere / la pelle caprina per portafogli la / muffa profilattica perché / leggermente acciabattando con schidoni e gavitelli/ sarete finalmente sceriffi. Neolalia a requiem Ventisei olti sono prusi a delingendere gli stopli della pogruenta minacciosa / la miserva ulaticcia non cole i fossenti del potrio accidentale e da quando / fretuo è fretuo la fione d’alutrizia è ruguria missionaria / infine verrosi e neultomani bisogna / appariquando sechesti e elicettabbi gravi impedire lo sbomo dell’elie / gremma / erpla la cofutre e la gebbotta etlosa a inzo dai colpi di uillo in fronte / per cui bidemmerete / dretra ilustrosioni oliola incoffagando los Questo genere di poesie può apparire assurdo o puramente provocatorio, ma occorre riflettere sul periodo in cui mosse i suoi primi passi di pittore prima e poeta poi Gian Pio Torricelli: anni in cui non solo l’arte e la letteratura, ma la società stessa e la geopolitica globale erano agitate e sconvolte da sommovimenti epocali, certamente in grado di spingere un giovane artista che vi si sentiva coinvolto a scelte “antisistema”, alla ricerca, anche irrazionale o inconsapevole, di equilibri nuovi, individualmente o in accordo con coloro che condividevano la stessa ansia e irrequietezza. Personalmente ho incontrato poche volte Gian Pio Torricelli nella seconda metà degli anni ’60, fra Modena e Bologna, e gli scarsi ricordi (di cui solo uno molto vivido, relativo alle giornate di Parole sui muri, l’incontro internazionale di poesia svoltosi a Fiumalbo, sull’Appennino modenese, nell’agosto 1967), contribuiscono a infittire il mistero. Il rebus su cui tanti si interrogano, da quando il nome di Torricelli alcuni anni fa è riemerso dall’oblio, riguarda non solo le assurde ragioni che ne hanno sconvolto l’esistenza, ma anche l’interpretazione del suo fare poesia, sui pochi libri che pubblicò prima di essere trascinato nel gorgo della drammatica realtà manicomiale. I dubbi che mi assillano si rinfocolano rileggendo sia le già citate poesie linguisticamente “eversive” di Dunque cavallo e la sequenza ossessiva di numeri di Coazione a contare (Lerici, 1968), sia soprattutto le note critiche introduttive ai due libri, firmate rispettivamente da Adriano Spatola e Magdalo Mussio. Pur battendo sul suo tasto preferito della rigenerazione surrealista emergente dai versi “esageratamente grotteschi” di Torricelli, mio fratello non mancava di notarvi, mascherata dietro stralunati giochi linguistici, una sorta di “schizofrenia controllata”. Occorre ricordare che nell’autunno 1964 Gian Pio aveva fatto parte, con lo stesso Adriano, 94
Giorgio Celli, Corrado Costa, Claudio Parmiggiani ed Ennio Scolari, di quel gruppetto di inquieti giovanotti che aveva dato vita al Movimento parasurrealista, che si proponeva una rivisitazione “a freddo” dell’ultimo surrealismo bretoniano, quello basato sull’intreccio fra anarchismo letterario e “scrittura automatica”, leggibile psicanaliticamente più in chiave lacaniana che freudiana: le teorie parasurrealiste furono esposte per la prima volta sul secondo numero di Malebolge, la rivista modenese fondata poco prima dagli stessi, con Antonio Porta, Paolo Carta e i fratelli Alberto e Luigi Gozzi, nonché più compiutamente in un numero speciale pubblicato come inserto del periodico Il Marcatré nel 1965. In questo numero compare un intervento di Gian Pio Torricelli che testimonia sia la formazione di una base teorica al proprio fare poetico, sia la coscienza di alcuni precisi referenti letterari, appartenenti al Gruppo 63 (Giuliani, Porta, Sanguineti, Spatola), movimento cui il giovane modenese aveva immediatamente aderito. Intervento, intitolato Scheletro per un pretesto, che vale la pena riportare qui parzialmente: “La lettura è un fenomeno di proiezione. Si stabilisce sempre una sorta di associazione extracontestuale (automatico accostamento mnemonico, subcosciente tra le righe, all’equivalente stampato) tra ogni lessico, sintagma, immagine, argomento, parola in carattere diverso, parola in altra lingua: Questo lungo luogo ubi se fulicae ou plutôt quali apparizioni ‘la tentation’ / e voleva ‘la tentative’ dum lavant molto probabilmente polluunt quali / schemi scegliere quali ahimé voleva io vedo e qui Vallis disperate forme” (Sanguineti, Triperuno). Tram batte nella notte occhiuta lingua trappola che scatta / in isola fagocitata deimon parola che si strappa / e kerosene e fiato (distillazione) e assenza brevettata / incapsulando incolonnati e nudi col marchio sulla faccia (Spatola, Catalogopoema): immagini tra loro disparate che per la loro calcolata appercettività provocano per le suddette ragioni un costante shock ideativo: POESIA DI COAZIONE Ah il mio sonno; e ah? e involuzione? e ah e oh? devoluzione (e uh?) / e volizione! (Triperuno): iterazione, allitterazione e concitazione interrogativa come ipnosi. Psicopatologia del linguaggio come idea coatta e dissociazione schizoide. “Guardati da questo giugno velenoso” (Porta, Rapporti n. 3) correlativo oggettivo (“Aprile è il più crudele dei mesi”, Eliot). Invetticoglia di Giuliani: vuoto mentale causato dall’inflazione di possibili significati che dà la lettura di neologismi o di invenzioni neolalistiche...” Nel corso di diversi soggiorni romani Torricelli incontrò non solo i poeti del Gruppo 63 lì residenti, ma anche un altro personaggio che ha avuto su di lui una grande influenza: Emilio Villa. Frequentando la redazione de 95
Il Marcatré, conobbe Magdalo Mussio, che fu talmente colpito dal progetto del “romanzo in cifre” Coazione a contare di Torricelli (una sequenza ossessiva di numeri da uno a cinquemilacentotrentadue) da appoggiarne la pubblicazione nei Marcalibri di Lerici, scrivendone egli stesso la prefazione. Interpretando la narrazione “in cifre” torricelliana di Coazione a contare, Mussio vi intravede, accanto a una “apologia della simulazione artistica oculatamente esemplarizzata nella caricatura tautologica propria del procedimento dell’enumerazione”, il “cerimoniale ossessivo-coatto come nesso nevroticospecifico della freudiana coazione a ripetere”, giungendo a parlare di “romanzo come istituzione suicida” e di “eutanasia dell’arte”. Con queste citazioni non intendo affatto affermare che Torricelli nei suoi lavori letterari lanciasse segnali di un “male oscuro”, cioè di un qualche disagio psichico, ma piuttosto che esprimesse la sua reazione a quella “società malata” (anche nelle sue espressioni letterarie, artistiche e culturali in genere) contro la quale si battevano in quegli anni con varie forme di lotta milioni di giovani in tutto il mondo. Ed è paradossale che Gian Pio sia stato sconfitto non da quel mondo insano che combatteva con le armi dell’arte e della poesia ma dalla istituzione psichiatrica che avrebbe dovuto difenderlo, invece di distruggerlo come ha fatto. Per concludere torno al vivido ricordo di Torricelli impresso nella mia memoria una sera dell’agosto 1967 a Fiumalbo, quando lo scorbutico e laconico (salvo improvvise esplosioni in debordanti torrenti di parole) Gian Pio diede prova di una insospettata e reattiva forza di carattere. Sotto la grande tenda militare che ospitava, su improvvisati pagliericci, una trentina dei partecipanti alla kermesse poetica, compreso il sottoscritto, avevano fatto irruzione due robusti paesani manifestamente ubriachi, all’inseguimento della graziosa poetessa bolognese Patrizia Vicinelli, allora venticinquenne, preda disponibile ai loro occhi o rea di averli respinti a male parole. Gian Pio si lanciò in suo aiuto ingaggiando con i due una furiosa colluttazione dalla quale uscì vincitore, anche grazie al tardivo soccorso di altri. In seguito Torricelli si schernì, rifiutando complimenti e ringraziamenti. Gian Pio e Patrizia, protagonisti di questo movimentato siparietto fiumalbino, avevano contribuito giovanissimi alla nascita del Gruppo 63 e insieme avevano seguito a Roma, come già accennato, la lezione un po’ sconnessa ma coinvolgente di Emilio Villa. Gli episodi che mutarono drammaticamente le loro vite più o meno nello stesso periodo appaiono oggi insignificanti e inducono a pensare che la banalità del male si presenta sovente sotto le sembianze dell’Ordine costituito. Torricelli, raccontano, venne arrestato perché sorpreso a fumare uno spinello e, avendo reagito al fermo in modo scomposto, rinchiuso nel manicomio di Reggio Emilia: da lì o da analoghi istituti è uscito molti anni dopo, irrimediabilmente chiuso 96
in se stesso. La Vicinelli, per sfuggire all’arresto in circostanze analoghe, fuggì in Nord Africa e al suo rientro in Italia fu arrestata e scontò quasi due anni a Rebibbia per morire a soli 48 anni nel gennaio 1991. Gian Pio Torricelli fisicamente vive ancora assistito dai parenti: il suo spirito curioso e analitico è sempre vivace, ma il fiume tracimante delle sue parole si è inaridito per sempre.
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PSICOANALISI E CRITICA LETTERARIA INTERVISTA A ELIO GIOANOLA
D - Michel David, nel suo saggio La psicoanalisi nella cultura italiana uscito per Boringhieri nel 1966 e Letteratura e psicoanalisi del 1967, ha fatto notare il ritardo della critica italiana nell’accogliere la psicoanalisi. Alfredo de Palchi ha pubblicato Sessioni con l’analista nel 1967 e dice che allora nessuno parlava di psicoanalisi. A che cosa crede sia dovuto questo ritardo? R – La colpa di questo ritardo è da attribuire agli storicismi dominanti dal secondo dopoguerra in poi: da un lato quello materialistico-marxista e dall’altro quello idealista-crociano. Hanno ibernato qualsiasi altro tipo di critica. I miei primi studi sono comparsi a inizi anni ‘70, e fin dalla loro uscita sono stati accolti in maniera disastrosa: ingiurie e critiche da ogni dove, soprattutto dall’area marxista. Le acque hanno iniziato a muoversi proprio negli anni ‘60, con l’affiorare di nuove correnti di pensiero e di critica: lo strutturalismo e la semiotica innazitutto, ma anche il neonato interesse per la psicoanalisi giunto dalla Francia Eppure, nonostante gli elementi di novità, la cultura italiana non recepiva il discorso psicoanalitico, non era ancora pronta. Quasi nessuno parlava di psicoanalisi, figurarsi se applicata alla letteratura. D - Che cosa l’ha indotta a esercitare questo tipo di critica cioè a valersi degli strumenti della psicoanalisi per studiare la letteratura? R – Concepivo la psicoanalisi come una prospettiva di liberazione da storicismi e razionalismi, che andasse oltre le velleità di riduzioni razionalistiche Mi sono dunque avvicinato alla psicoanalisi in quanto giovane cattolico cui interessava fondamentalmente la straordinaria apertura di Freud nei confronti di tutto ciò che non è razionalmente dimostrabile. Il mio obiettivo di critico è sempre stato dire qualcosa di nuovo e di interessante sui grandi autori della nostra letteratura; penso di esserci riuscito, in parte. C’erano poi naturalmente anche ragioni personali, tra cui una compagna di “difficile costituzione psicologica” che mi interessava indagare; se non avessi fatto il letterato (sono laureato in lettere moderne), avrei sicuramente fatto lo psicoanalista. D – Lei è mai stato personalmente in analisi? R – No, mai, anche se qualche critico mi ha più volte suggerito di farmi analizzare, invece di perdere tempo io stesso a psicoanalizzare la grande letteratura. 98
D - Un altro critico italiano che ha usato il metodo psicoanalitico più o meno negli stessi anni è Mario Lavagetto, Il suo Freud la letteratura e altro è uscito nel 1985. Quali sono le similitudini e le differenze fra il suo metodo e quello di Lavagetto? R – Lavagetto (come anche Orlando, interessato però principalmente a aspetti linguistici) ha sempre avuto una certa diffidenza nell’utilizzare la psicoanalisi come una psicologia integrale, a sfruttarne sistematicamente gli strumenti: per me la psicoanalisi è un ramo, un aspetto della psicologia. Un’altra grande differenza tra il suo metodo e il mio è l’approccio nei confronti del testo come prodotto di un Io: “guai a parlare della psicanalisi dell’autore e non del personaggio”, afferma Lavagetto. Ma non è possibile, dico io, nella maniera più assoluta: è impossibile credere che non ci sia un trasferimento dall’uno all’altro. Il pensiero che prodotto e autore siano da trattare separatamente (anzi, che l’autore non sia proprio da trattare – e ciò si nota molto bene nello spazio stringatissimo che i manuali di letteratura concedono alle biografie –) è un’eredità sbagliata dell’idealismo crociano, che in sottofondo ha continuato a operare fino ad oggi: eppure il vissuto (non tanto la vita, il banale dato anagrafico) di un autore è importantissimo, si scrive anzi proprio perché si ha a che fare col proprio vissuto, con fantasmi, desideri, nostalgie, traumi, che poi ogni scrittore trasfigura a misura del proprio genio, partendo dalla fenomenologia delle sofferenze. Per dirla con Svevo: “io non sono colui che visse, ma colui che descrisse”. Sarebbe per esempio sciocco separare il vissuto leopardiano, i soprusi e le ingabbiature psicologiche da lui subite in ambito famigliare, dalla poesia “del vago e dell’indefinito”: i dati desunti dalla vita di Leopardi fanno pensare immediatamente a un soggetto malinconico (dove la malinconia è una categoria psicotica), così come, appunto, traspare da evidenti indizi contenuti nella sua opera. D – Per quanto riguarda il suo metodo critico, pensa che sia più efficace se usato da uno studioso di letteratura o da uno psicoanalista di professione? R – È indubbiamente meglio partire dalla letteratura per andare verso la psicoanalisi, non il contrario. Gli psicoanalisti hanno anzi combinato molti guai e pasticci quando si sono occupati di arte (qualsiasi, non solo letteratura). Ovviamente un critico letterario, se si accosta alla psicoanalisi, deve conoscerla molto bene, altrimenti è facile cadere nelle semplificazioni o addirittura sbagliare diagnosi. D - Applica in maniera precisa metodi della psicoanalisi oppure si limita a interpretare l’inconscio secondo la sua preparazione e la sua intuizione? R – Mi è stato relativamente semplice individuare, grazie alla psicoanalisi, delle vere categorie gnoseologiche, negli autori da me studiati: ad esempio è facile dimostrare che Svevo è preda di una nevrosi isterica, o che Pirandello è alle prese con una crisi psicotica di io debole e diviso, o ancora che Gadda è chiaramente 99
un nevrotico ossessivo. Ciò non deve naturalmente scadere nella riduzione dello scrittore alla sua malattia: dogma fondamentale della critica psicoanalitica è non si scrive se non si è malati. Si tratta allora di individuare cosa non funziona in questi personaggi. In questo senso un altro grande critico psicoanalista, Biasin, ha svolto un’operazione fondamentale con il suo volume Le malattie letterarie, che connette i modi dello star male psicologicamente con i risultati espressivi della scrittura. D - Crede che questo metodo di interpretazione possa essere esaustivo oppure debba o possa essere integrato con altri metodi critici? R - Tutti i metodi sono buoni, se arrivano a dire qualcosa di nuovo sull’autore, quindi perché non dovrei avvalermi di qualsiasi altro strumento che mi aiuti in questa operazione? Ad esempio in un saggio sul Gelsomino notturno di Pascoli ho sfruttato la linguistica per fare reagire la fonetica del testo (il ripetersi ossessivo del gruppo –la) con la sintomatologia psicologica dell’autore (là, il laggiù dove si svolge la notte di nozze da cui Pascoli è escluso e per cui soffre psicologicamente). D – A questo proposito, la poesia rispetto alla narrativa è più suscettibile di essere interpretata alla luce della psicoanalisi? In altre parole: la poesia ha un rapporto privilegiato con la psicoanalisi? R - Dipende molto dall’interprete. Io ad esempio mi trovo meglio con la prosa, perché è più esplicita, dettagliata, entra in maniera più chiara negli argomenti ed è più vicina alla confessione, all’autobiografismo. La poesia è più sintetica, simbolica, dunque è più difficile da affrontare. Ciò non significa comunque che un approccio psicoanalitico non sia possibile: Bàrberi Squarotti ad esempio (per non dimenticare i meravigliosi interventi di Contini) è stato uno dei primi ad applicare un tipo di analisi simbolica (in qualche modo affine a un approccio psicologico) a una delle poetiche che più si prestano a tale operazione, quella pascoliana. La poesia infatti è sì più rarefatta della prosa, ma sembra proprio per questo più affine ai modi della psicoanalisi, soprattutto da un punto di vista tecnico-formale: il metodo, per esempio, della libera associazione, anche illogica, è tipico della poesia come della seduta psicoanalitica. D - La sua interpretazione critica secondo questo metodo di indagine ha radicalmente cambiato l’interpretazione corrente di qualche poeta da lei studiato? R - Credo di avere sempre detto qualcosa d’altro e nuovo rispetto agli autori di cui mi sono occupato, ma tra tutti penso che lo scrittore cui maggiormente sono riuscito a conferire un taglio di novità, una vera luce nuova, sia Manzoni (ho per l’appunto appena pubblicato un libro su di lui: Manzoni. La prosa del mondo, Jaca Book 2015). Il grande scrittore milanese è sicuramente uno dei più complessi da affrontare con metodo psicoanalitico: è una sorta di montagna di cristallo, una 100
parete di vetro perfettamente liscia che non concede appigli, e per me rappresentava una sorta di scommessa. Credo di essere uscito vittorioso da questa sfida. Una delle sezioni meglio riuscite del libro è un confronto tra Leopardi e Manzoni, tra un’anima lirica e un’anima materialista (Manzoni è tremendamente razionalista e “coi piedi per terra”): da un’analisi parallela sul tema della siepe emerge da un lato, nuovamente, la psicosi malinconica di Leopardi, per cui oltrepassare la siepe è vagheggiare la Cosa lacaniana, la perdita originaria proiettata fuori dal sé che lacera l’Io e lo lascia scomposto in uno stato di sofferenza psicologica; dall’altro risulta chiaro che Manzoni soffriva di nevrosi fobica: era agorafobico, non riusciva a mettere piede fuori di casa, e anche quando vi riusciva aveva sempre bisogno di un appoggio, per vincere la paura di cadere. E dunque la siepe per Manzoni è il parapetto che lo ancora alla realtà, alla materialità del mondo: l’esatto contrario del vago leopardiano. D - Conosce poeti contemporanei italiani che usano consapevolmente figure, tecniche e linguaggi psicoanalitici in poesia, per esempio un poeta che è anche psicoanalista come Cesare Viviani? R – Ormai sono anziano, non mi preoccupo quasi più di aggiornarmi, ma tra i contemporanei stimo molto Recalcati. D’altro canto Viviani è mio grande amico da molto ormai, anche se non ne ho mai trattato: è vero, è psicoanalista, ma tiene separata la sua vocazione dalla poesia, che infatti non è molto aggredibile con un approccio psicoanalitico. Forse è dovuto soprattutto al fatto che è difficile individuare nuclei fermi nelle sue raccolte di poesia, che variano molto di raccolta in raccolta. D - Qualcuno afferma che la psicoanalisi oggi abbia perso parte della sua attrattiva, almeno per quanto riguarda l’ambito culturale. R – È verissimo, la psicoanalisi ha perso quasi completamente la sua attrattiva, ma (e credo sia questa la causa principale) se ne è anche abusato molto: gli psicoanalisti americani soprattutto hanno fatto disastri, dimenticandosi dell’inconscio e trasformando la seduta psicoanalitica in una banale chiacchierata. a cura di Andrea Peverelli
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ESTI A FRONTE
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PATRIZIA VALDUGA A BUON TITOLO
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“Un beau titre est le vrai proxénète du livre, ce qui en fait faire le plus prompt débit” (un bel titolo è il vero prosseneta – sensale, mediatore, mezzano, ruffiano – del libro, ciò che lo fa vendere subito), scrive Furetière nel suo Le Roman bourgeois. Proprio perché sono così importanti, vorrei segnalare alcuni titoli che, a mio parere, sono stati traditi dalla traduzione, e che “l’abitudine istupidente” (Proust) continua a farci accettare senza sospetto. Il Voyage au bout de la nuit di Céline è un viaggio attraverso tutti gli orrori di cui l’uomo è capace: è diventato Viaggio al termine della notte. A me pare che la forte connotazione temporale che “termine” porta con sé faccia più che altro pensare banalmente a un viaggio che si svolge verso l’alba. Penso che Viaggio al fondo della notte sarebbe migliore traduzione, conserverebbe lo stesso numero di sillabe e le stesse valenze metaforiche. Mort à crédit, è stato tradotto letteralmente Morte a credito. Sa Dio che cosa voglia dire. In Germania è diventato prima Tod auf Borg (Morte in prestito) e poi Tod auf Kredit (Morte a credito). Gli americani, in un delirio di scrupolosità, hanno deciso per Death on the instalment plan (Morte a sistema di pagamento rateale). Ora, secondo il Littré, “à crédit” significa anche “inutilmente, senza fondamento”: a me piacerebbe, ecco, un semplicissimo Morte a vanvera, più sensato e, forse, anche più céliniano. Féerie pour une autre fois è stato reso con Pantomima per un’altra volta: la leggerezza dell’arte delle fate - o di uno spettacolo dove appaiono le fate - viene distrutta dalla pesantezza tutta corporea di una “pantomima”. Non esiste in italiano un equivalente per “féerie”, c’è solo l’aggettivo “feerico” (“proprio delle fate e del loro mondo”, Battaglia); “fantasmagoria” si avvicina un poco, ma vi incombono troppo i fantasmi. Non resterebbe che tradurlo a metà: Féerie per un’altra volta. E sarebbe meglio lasciare tutto in francese il Partage de midi di Claudel, perché La crisi meridiana non ne possiede né il mistero né la grazia. Sempre di Claudel, Le soulier de satin è diventato La scarpina di raso. Sembra che gli italiani si siano messi in testa che parole come “scarpe” e “mutande” sono volgari, e pensano di nobilitarle col diminutivo: così scrivono “scarpine” e “mutandine”, che sono, questi sì, di una volgarità perfetta. Il titolo La cantatrice calva (La cantatrice chauve), della tanto famosa e assai poco letta “anticommedia” di Ionesco, mi ha sempre irritata: la “cantatrice”, versione femminile di “cantatore”, è la “cantante lirica” in francese, ma in italiano è parola disusata e letteraria; oggi diciamo semplicemente “cantante”. Par les champs et par les grèves - titolo di Maxime Du Camp, non di Flaubert - è stato tradotto Attraverso i campi e lungo i greti, forse perché ci insegnano dalle elementari che non bisogna fare ripetizioni. Non sarebbe più corretto Per i campi e per i greti? Si le grain ne meurt... di Gide è una citazione dal Vangelo e implora di essere tradotta non Se il grano non muore ma Se il seme non muore. Boul de suif di Maupassant rifiuta Palla di sego: in italiano una palla di sego è una palla di sego, e per dire “ciccione” si dice tutt’al più “palla di lardo”. Chi non si sente un poco sconcertato davanti al Divano occidentale-orientale? Pare un mobile che non si sa bene come orientare. Con il West-östlicher Divan, Goethe ha voluto rendere omaggio alla grande poesia persiana, e soprattutto 104
al poeta Hāfez, autore di un mirabile Dīwān (Canzoniere). Se si traducono con Canzonieri i vari Dīwān di Hāfez, di Bāqī, di al-Mutanabbī, si può ben rendere quello di Goethe con un affabile e invitante Canzoniere d’Oriente e Occidente. L’uomo senza qualità di Musil di qualità ne ha addirittura troppe; quello che non ha sono le “Eigenschaften”, le caratteristiche proprie, personali. L’uomo senza individualità potrebbe andare? È solo un’ipotesi. E se Kafka avesse voluto intitolare il suo racconto La metamorfosi, l’avrebbe intitolato Die Metamorphose; ma l’ha intitolato più modestamente Die verwandlung, La trasformazione. Die Dreigroschenoper di Brecht è un’opera da poco: “da quattro soldi”, si dice in italiano, non da tre. Con Shakespeare ci sono difficoltà ogni volta che il titolo non è un nome proprio. Love’s labour’s lost (così continuano a scriverlo gli inglesi) tradotto Pene d’amor perdute è da canzonetta, troppo metastasiano. Se significa “La pena d’amore è perduta”, e “L’amore è fatica sprecata”, e se pena è anche l’affaccendarsi del dio dell’amore e il lavorio sui versi d’amore, proporrei Pene perdute per l’amore, che qualcosa di più pare che dica. Much ado about nothing è voltato in Molto rumore per nulla o Molto strepito per nulla. Ma il dizionario di Alessio Altieri (1726-7) per “much ado” dà “a gran stento, a fatica, con difficoltà”, e quel “nulla” presuntuoso è poco scespiriano. Sono quasi sicura che a Shakespeare piacerebbe di più Tanta fatica per niente. As you like it che diventa Come vi piace, pare Pirandello; preferiamogli un semplicissimo A piacer vostro. Misura per misura (Measure for measure) cosa vuole dire in italiano? Niente. Santo cielo, non sarà certo bello il Dente per dente di un film anni ‘40, ma Occhio per occhio potrebbe andare, e perlomeno vorrebbe dire qualcosa. Perché The merry wives of Windsor è tradotto Le allegre comari? “Comare” è “madrina, donna del popolo, donnicciola chiacchierona e pettegola, e dappoco”; le donne che Falstaff vuole sedurre sono due ricche borghesi intelligenti. Guerra e pace mi pare troppo sbrigativo; forse andrebbe tradotto (il russo non ha articoli, lo sappiamo, ma l’italiano sì e deve usarli) con il più solenne La guerra e la pace (come hanno fatto i francesi). Le tre sorelle di Cechov, invece, dell’articolo non avrebbero alcun bisogno; si potrebbe tradurre semplicemente Tre sorelle (come non hanno fatto i francesi). Ci sono anche titoli traditi a fin di bene: il famossimo Incompreso di Montgomery al posto di un brutto Frainteso (Misunderstood), Furore al posto di L’uva di furore (The grapes of wrath) di Steinbeck, o La dolce ala della giovinezza di Williams, perché Uccello dolce della giovinezza (Sweet bird of youth) potrebbe assumere una connotazione sessuale. Infine, un film: I quattrocento colpi di Truffaut viene dall’espressione “faire les quatre cents coups”, che vuol dire “fare il diavolo a quattro”; non sarebbe più sensato tradurlo “Il diavolo a quattro”?
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PATRIZIA VALDUGA UN SONETTO DI CARLO PORTA
Mi sono stati chiesti dei versi inediti, e non ne ho. Allora ho pensato a una traduzione; e ho pensato di tradurre Carlo Porta, poeta dialettale, per tre ragioni. La prima è che il milanese è quasi come una lingua straniera, perché non si legge come si scrive, e forse è diventato difficile anche per i milanesi, se ce ne sono ancora. La seconda è che, a mio parere, le traduzioni di servizio non gli rendono un grande servizio. La terza è che Porta – come tutti sanno - è un poeta grandissimo, e che sarebbe finalmente ora di ripensare il canone dell’Ottocento, che è ancora quello stabilito da Carducci e De Sanctis. Foscolo, Manzoni e Leopardi: sono davvero loro i tre grandi poeti dell’Ottocento? Personalmente, sono convinta che siano invece Porta, Belli e Prati. Sissignor, sur Marches, lu l’è marches, marchesazz, marcheson, marchesonon, e mì sont el sur Carlo Milanes, e bott lì! senza nanch on strasc d’on Don. Lu el ven luster e bell e el cress de pes grattandes con sò comod i mincion, e mì, magher e biott, per famm sti spes boeugna che menna tutt el dì el fetton. Lu senza savè scriv né savè legg e senza, direv squas, savè descor el god salamelecch, carezz, cortegg; e mì (destinon porch!), col mè stà sù sui palpee tutt el dì, gh’hoo nanch l’onor d’on salud d’on asnon come l’è lu. Signorsì, signor Marchese, lei è marchese, marchesazzo, marchesone, marchesonone, e io sono il signor Carlo, milanese, ed alto lì!, senza neanche uno straccio di un Don. / Lei viene lustro e bello e cresce di peso grattandosi con suo comodo i minchioni, e io, magro e nudo, per farmi questa vita bisogna che meni il tafanario tutto il giorno. / Lei senza saper scrivere né saper leggere e senza, direi quasi, saper discorrere, si gode salamelecchi, carezze e corteggiamenti; / e io, destino porco!, col mi stare su tutto il giorno sulle carte, non ho neanche l’onore di un saluto da un asinaccio come lei. (Dante Isella) 106
Lei è marchese, sì, signor Marchese, marchese, marchesotto, marchesone; io sono il signor Carlo milanese, e basta, senza briciola di Don. Lei si fa lindo e bello e prende peso grattandosi con comodo i coglioni; io per campare, magro, in male arnese, mi faccio il culo in continuazione. Lei senza saper scrivere né leggere, senza, quasi direi, saper discorrere, si gode smancerie, vezzi, corteggi; io qui (porca la sorte!) su quei bei registri tutto il dì, neanche ho l’onore di un saluto dall’asino che è lei.
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ANTICIPAZIONE
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GIAMPIERO NERI da VIA PROVINCIALE in uscita da Garzanti
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1. Che la meraviglia sia il fine del poeta lo pensava il cavalier Marino, poeta emerito, con qualche ragione. “È del poeta il fin la meraviglia” è il verso testuale, non privo di verità, soprattutto pensando al suo contrario, la noia. Scrivendo la storia della rivoluzione francese, F. Richet così conclude: “Pochi hanno capito che la giornata del 18 Brumaio nasconde in realtà la fine della rivoluzione; è vero che ancora nessuno sa che Bonaparte è Napoleone”. La poesia, come il soffio del vento, va dove vuole e la si può trovare dove capita, anche in una stretta di mano, come è stato detto.
2. A giudicare dall’andatura aggraziata e malferma, non si darebbe molto credito all’oca e forse per questo ha il nome che porta. Ma in acqua, per via delle sue zampe palmate, fila con eleganza e in aria vola. Anche l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momento prende il volo. Lei sa dove va. E noi?
3. A testimoniare del poeta Benzoni rimanevano tracce su piccole edizioni, plaquettes e altri scritti, dispersi come la sua vita dissipata. Aveva cominciato presto a bere, un’abitudine diventata malattia che l’avrebbe portato precocemente alla morte. Benzoni abitava a Cesenatico, lungo il canale, in una grande casa. Per dividere con altri la sua passione, aveva fondato una rivista di poesia, “Sul porto”, che ebbe qualche notorietà. Aveva molti amici, un po’ dappertutto, ma non nella sua città. A un giovane poeta, suo amico, aveva detto: “La poesia è una passione totale. Tu daresti la vita?”.
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INERGIE
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POESIA E IMMAGINE
FRANCESCA MARIA CORRAO
L’ENERGIA DELLA ROCCIA
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FRANCESCA MARIA CORRAO CORRENDO A PERDIFIATO NEL WADI DI PETRA
sento violenta vertigine cruenta, l’eterno flusso delle acque mi sconvolge è impresso nella roccia trasmesso per secoli all’infinito. E ora lascia alla memoria, un filo d’aria il fumo dei fuochi nebbie d’albe scure levarsi di vapori ombre delineate dal sole, squarciate prima del levarsi di stelle. Lunghissimi minuti estenuanti silenzi e poi il galoppo che taglia alla gola, il nodo della paura nel silenzio, infine appare scura l’uscita insicura verso l’archivolto decorato all’infinito e sale l’angoscia per l’ardire e l’impavido arrancare tra rocce rosse e amare paiono lacrime di sabbia che piovono da un tetto 113
un ampio cielo aperto
e il cuore se la ride al fragore d’un sole esploso di bagliore. Dalla pietra ecco le forme di chi lascia le orme dell’infinita vita nella pietra erosa e mai corrosa dal tempo senza memoria si ricorda ora del lascito passato di vento sventurato di odori e suoni mai lontani. 114
La scala si avvinghia senza posa sui lembi di una pietra rosa e il ciglio si attorciglia come una conchiglia lambendo le maniglia della porta aperta sulla corte scoperta dove mani smorte al tempo han lasciato ogni colore forte. * * * * Stancato affaticato, sconnesso schiacciato, abbandonato senza fiato s’accascia sul selciato, smunto, consumato dal vuoto silenzio il mondo è esiliato.
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ORALITÀ E GESTUALITÀ GEORGE YAMAZAWA
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DEAR GRANDMA “The character for the number eight means ‘open.’ Upon turning eighty-eight, one will open up their lives and embark on a new journey.” According to my grandma, she’s been eighty-eight for the past three years, but now we all know she’s finally got one month left until her birthday and I just want to finish this for her while she’s young. Oba chan ni, kokoro kala. (Dear Grandma, from my heart.) You were at the hospital when I was born. There must have been something about three generations being in one room that made history seem so tangible, so easy to touch, so easy to hold. There must have been something about my baby cries that murmured the future, since every time I talk to you now there’s something about your whisper that screams my ancestry. My grandmother’s frail fingers casually carry eighty-seven years of her life and her arthritis tells stories. Her index finger crooked yet gracefully points me down memory lane to a time when I first saw her dance, first saw her hands painless, holding a traditional Japanese fan moving crowds like wind, a five-foot tsunami dressed in a kimono, face paint, and culture. How beautiful, to tell stories with no microphone, no literary devices, just a choreographed version of a love for the stage and a connection to the people, it is a love that runs through my blood, free as 1.000 paper cranes, free as a cherry blossom in the spring, free as her ring finger without rings, I’ve come to believe that a wrinkle is worth more than a diamond could ever be. Her three marriages have died but her pride still grows in her follicles, that’s why her hair waves like a Japanese flag on the side 118
CARA NONNA “Il carattere usato per il numero otto significa ‘aperto’. Una volta arrivati a 88 anni, la vita si spalanca e ci si imbarca per un nuovo viaggio.” A sentir lei, negli ultimi tre anni mia nonna aveva ottantotto anni, ma ormai noi tutti sappiamo che manca solo un mese al suo compleanno e voglio solo finire questo che sto facendo per lei finché è ancora giovane. Oba chan ni, kokoro kala. (Cara Nonna, dal profondo del cuore) Eri all’ospedale quando sono nato. Deve essere stato per via di quelle tre generazioni riunite in una stessa stanza se la storia sembra ora così definita, così facile da toccare, così facile da tenere fra le mani. Deve essere stato per via dei miei pianti di neonato che balbettavano il futuro, se ogni volta che ti parlo ora c’è qualcosa nel tuo sussurrare che mi grida la storia della mia stirpe. Le dita fragili di mia nonna portano con noncuranza gli ottantasette anni della sua vita e la sua artrite ha molte cose da raccontare. Il suo indice è diventato storto eppure con grazia mi guida giù lungo il viale della memoria fino là dove per la prima volta la vidi danzare, vidi le sue mani, che non dolevano ancora, agitare un tradizionale ventaglio giapponese come un vento sulla folla ondeggiante, lei, uno tsunami in kimono alto cinque piedi, la faccia bianca di cerone, e cultura. Com’è bello raccontare storie senza microfono, senza espedienti letterari, solo la coreografia di un amore su un palcoscenico e la sintonia con la gente, è un amore che mi scorre nel sangue, libero come 1000 gru di carta, libero come un fiore di ciliegio in primavera, libero come il suo anulare senza anelli. Sono arrivato a pensare che una ruga valga molto più di quanto un diamante possa mai valere. I suoi tre matrimoni sono defunti, ma l’orgoglio ancora alimenta i suoi follicoli, ed ecco perché i suoi capelli ondeggiano come una bandiera giapponese sulla fusoliera 119
of a kamikaze jet plummeting towards American soil. The other night she held me tight, cried, said she was ready to die, but something told me she’s not quite ready yet. But what can I possibly say about life to a person already familiar with the smirk on Death’s face? Her arthritis comes from his firm hand shake. Those knuckles are too weak to open a jar but still strong enough to carry her sanity in her palms. For the last eight years I’ve lived with her, I woke up to her prayers and fell asleep to her cooking. She would mend a rice ball like a broken heart and feed it to me in case I ever needed another one in my chest. Feet deformed from dancing on top of decades, I thought we took our shoes off to help keep the house clean but really, it’s to respect the land she walks on and to remind myself this ain’t no nursing home; my daily dialogue is her assisted living, now I know why she always wants to make me food— because watching me grow helps her feel more alive. She was at the hospital when I was born so count on me to be there for her when she dies. Oba-chan, you have choreographed my respect for elders, as long as I’m breathing I’ll be dancing behind your face paint. Forget “when you’re gone,” I will remember you now; I want to walk through your wrinkles, get drunk off the wine you sip out of hour-glasses every night, and bend my future arthritically, but beautifully so that my life will remind others of your ring finger. I asked my mother, What’s the one thing she would say about hers, and she said, She has experienced war. She has experienced lots and lots of struggles, y’know? But, she never, be defeated.
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di un aereo kamikaze che scende in picchiata sul suolo americano. L’altra notte mi strinse forte, pianse, disse che era pronta a morire, ma qualcosa mi disse che non lo era ancora davvero. Ma cosa potrei dire della vita a una persona che ha già familiarità con il sogghigno della Morte? La sua artrite deriva dalla sua salda stretta di mano. Le sue articolazioni sono troppo deboli per aprire un barattolo, ma ancora abbastanza forti per reggere la sua lucidità sul palmo delle mani. Per gli ultimi otto anni ho vissuto con lei, mi svegliavo alle sue preghiere e cadevo addormentato dopo che lei aveva fatto da mangiare. Accomodava una palla di riso come un cuore spezzato e con quello mi nutriva in caso me ne servisse un altro nel petto. I suoi piedi erano deformati per aver danzato in cima ai decenni, pensavo che ci togliessimo le scarpe per tenere la casa pulita, ma in realtà è per rispettare il suolo su cui lei cammina e ricordarmi che questa non è una casa di riposo; il mio dialogo quotidiano è aiutarla a vivere, ora so perché lei vuole sempre farmi da mangiare – perché guardarmi crescere l’aiuta a sentirsi più viva. Era all’ospedale quando sono nato, perciò state certi che sarò lì per lei quando morirà. Oba-chan, hai trasformato in coreografia il mio rispetto per gli antenati, finché avrò respiro danzerò dietro il tuo viso dipinto. Dimentica il “quando non ci sarai più”, ti ricorderò adesso; voglio camminare tra le tue rughe, ubriacarmi del vino che sorseggi ogni notte dal calice della clessidra, e curvare d’artrite il mio futuro, ma in bellezza, così la mia vita terrà vivido anche per gli altri il ricordo del tuo anulare. Ho chiesto a mia madre, Che cosa vorresti dire di lei, e lei ha risposto, Ha conosciuto la guerra. Ha dovuto lottare e lottare, lo sai? Ma non s’è mai arresa. traduzione di Donatella Bisutti
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POESIA E FIGURAZIONE WIND Libro d’arte in esemplare unico TESTO DI JOHN TAYLOR IMMAGINI DI CAROLINE FRANÇOIS-RUBINO
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WIND wind within this stillness only you can measure it * you’re wide awake within this day where the wind is edged with night * wind of winter boughs and cold flames only their hollow flickering motionless swaying as landmarks now * when everything bears down this up-shoot of wind sudden sprout from no seed amid the rocks so far below * the wind turns rushes against you 126
VENTO vento dentro questa quiete solo tu puoi misurarlo * tu sei bello sveglio in questo giorno dove il vento è costeggiato dalla notte * vento di rami invernali e fiamme fredde ora soltanto il loro fatuo tremolante fermo ondeggiare come riferimento * quando tutto piomba giÚ questo vento che si solleva spunta improvviso da nessun seme tra le rocce distanti in basso * il vento vira si avventa su di te 127
you are less divided less often over there and here more often even one and the same * gentle wind neither in your face nor behind you from the side a barrier a no-man’s land even this tenderness between you and something ahead that will drift away in the gentle wind coming from the side you think over there forever there only there never here * it might have been woman or bird wind swirling 128
tu sei meno diviso meno sovente laggiù e qui più sovente anche uno e lo stesso * vento lieve né in faccia né alle spalle di lato una barriera una terra di nessuno persino questa tenerezza tra te e qualcosa avanti che svanirà nel vento lieve che soffia di fianco tu pensi laggiù per sempre là solo là mai qua * poteva essere donna o uccello vento turbinante 129
mere shape something you cannot slow down sharpen with your geometry wind swirling from dust to dust figments of fancy you can always refute but not forget * puffs of wind on your mother’s cheek no longer here no longer there each puff on your cheek turns your cheek your eyes to where the wind bears everyone to where here is no longer there is no longer * after the elms traces in the air like branches like rungs
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mera forma qualcosa che non puoi attenuare accentuare con la tua geometria vento turbinante dalla polvere alla polvere capricci della fantasia che puoi sempre confutare ma non dimenticare * sbuffi di vento sulla guancia di tua madre non più qui non più là ogni sbuffo sulla tua guancia ti fa voltare la guancia i tuoi occhi a dove il vento trasporta tutti a dove non più qui non più là * dopo gli olmi tracce nell’aria come rami come pioli
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then nothing but wind a ladder leaned against the sycamore dwarfed till then the lowest branch as out of reach already in the same unreachable windy nothing * the next morning starker shadow because of the starker light outside the circle of darkness of dimness of soothing grayness the brightness is blinding bodiless windless now within is a path it passes by your shelter in the shade of the sycamore * for every path there is wind from the east from the west 132
poi nient’altro che vento una scala appoggiata contro il sicomoro tarpato fino allora il ramo più basso come fuori portata già nello stesso irraggiungibile ventoso nulla * il mattino dopo ombra più cruda per via della luce più cruda fuori dal cerchio del buio dell’oscurità del grigiore consolatorio la luminosità è accecante incorporea senza vento adesso dentro vi è un sentiero che passa vicino al tuo rifugio nell’ombra del sicomoro * per ogni sentiero c’è vento dall’est dall’ovest 133
from the north from the south columns of windladders wind-ropes wind-steps cut into stone or muddy trails leading away * geometries of wind that become blurs that show you lines filling out into surfaces shapes and often what is vague lineless blows across your life across your eyes clouds your sight you accept these night winds these day winds live within all the gray winds * imagine wind in your cupped palm holding it there for instants
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dal nord dal sud colonne di vento scale corde di vento gradini di vento intagliati nella pietra o piste fangose che conducono via * geometrie di vento che diventano macchie che ti mostrano linee che si allargano in superfici forme e spesso ciò che è vaga inconsistenza si gonfia attraverso la tua vita attraverso i tuoi occhi ti offusca la vista tu accetti questi venti notturni questi venti diurni vivi dentro tutti i venti grigi * immagina il vento nella coppa del tuo palmo tenendolo lÏ per istanti
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instants you seek to feel again winds remembered and none can be felt again every wind has blown away left you at best with this thought no breeze caresses the back of your hand no feather you can cradle in your half-open hand and watch trembling * an instant of wind and windlessness when you forget its feel on your lips when the wind is on the ridge the other ridge * this wind you sense as a burden on your face it casts sand in your eyes stings bites
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istanti cerchi di sentire ancora venti che ricordi e nessuno può essere sentito di nuovo ogni vento che ha soffiato ti ha lasciato al massimo con questo pensiero nessuna brezza carezza il dorso della tua mano nessuna piuma che puoi cullare nella tua mano socchiusa e guardarla tremare * un istante di vento e assenza di vento quando dimentichi il suo tocco sulle labbra quando il vento è sulla cresta l’altra cresta * questo vento che senti come un peso sul volto getta sabbia nei tuoi occhi punture morsi
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blinding you to what you wish to see you bear this wounded desire not what is
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rendendoti cieco a cosa desideri vedere tu porti questo desiderio ferito non cos’è traduzione di Marco Morello
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POETI
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ANNA MARIA CARPI INTERCETTAZIONI 1 E 2
I RIFUGIATI affamati, gelati, senza dove, l’inetta Europa che non sa cosa fare. Una vergogna? Un compito impossibile? La nostra fine? Ti ricordi? Le invasioni barbariche nell’Impero romano! Studiate a scuola. E poi venne il Benessere. Ma rifugiati siamo anche noi, rifugiati nel comodo, a tavola in cucina che ceniamo, c’è vino e carne, il dolce, anche la frutta, aranci kiwi noci, poi il whiskino, caloriferi accesi, poi sul divano mano nella mano, davanti alla TV, e non voler sapere che non sarà per molto.
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DALLA GAIA PIAZZETTA coi negozi che vendono di tutto alla rinfusa, moda smart e bijoux, scende in curva una strada che va al mare: all’angolo un cartello con la freccia traffico consentito ECCETTO AI BUS, AI CAMION, ALLE MOTO.
Ma le moto coi minorenni in sella curvano giù beate lampeggiando, o spariscono là in fondo con un urlo di gioia i trasgressori. Il vigile? E’ là al bar, che si fa un drink. Viva la vita, mai fu così bella. Anche qui per vicoli e stradine per vetrine e per muri i manifesti dell’eclatante: è il trionfo umano. Il contagio è arrivato all’innocente: vende frutta e verdura nel paese in un suo bugigattolo, e un suo cartello fuori del negozio in stampatello dice “here the Global primizia”.
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MARIASTELLA EISENBERG MIGRANZA
SOGNO Un sogno spezzato si aggiunge a un altro e a un altro ancora non riesce più a volare né a distinguere azzurri né a volteggiare leggero sui campanili a trovare un posto sopra le nuvole. Cade nell’acqua con brontolii di terra e sassi acqua che s’agita recitando vacua. E’ il momento allora di mettere strada sotto i piedi e cielo sopra. GAMBE Gambe a pezzi a furia d’inseguire un’utopia. Dove ci porteranno povere gambe stanche dietro fantasmi e chimere verso un futuro ormai dietro le spalle.
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FAME Gorgoglio dello stomaco non vuoto di sola fame gorgoglia anche nel petto non apnea d’infarto smanioso il sangue sturba l’andatura marionettano le braccia spezzati i fili bucati gli occhi. RECLUTA Ha imparato l’acqua della sete la piccola pellegrina del deserto Ha imparato l’acqua del mare la piccola migrante del barcone Ha imparato l’acqua delle lacrime la piccola orfana del naufragio Ha imparato l’acqua del bacile la piccola recluta del sesso.
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GIUSEPPE LANGELLA NAUFRAGI
Risaliva smemorata il fiume, ansimando, l’ultima balena, la groppa ingrommata di bitume, senza ascoltare la nostra pena, come sorda ai richiami del mare. Ma già incalza – peggio! – un’altra scena: invece di lasciarsi cullare, sfiniva invano l’ala di pece in una chiazza densa di greggio, a riva, un vinto gabbiano, mentre al largo immensa e nera saliva una nube dalla petroliera. Cerco aiuto, ma ondeggio, m’invischio anch’io nella morchia, non mi posso districare. Denuncio ugualmente il rischio, ma nessuno mi sente. Esplode, invece, il dileggio: un coro obbrobrioso di voci mi torchia, mi accusa sonoro di parcheggio colposo. Mi mulina la testa, piango senza ritegno. Con sforzo, in segno di debole protesta, levo in alto lo sguardo. In un cielo di malto, mi perdo nell’astrusa trama di una rondine confusa, lanciata fra i tetti in folle volo: faceva naufragio senza un grido, disegnando un labirinto al suolo; l’infallibile istinto del nido più non la guidava verso casa. Quel volo senza sbocco mi sfasa, sbarro gli occhi, barcollo, mi drizzo, un brivido mi scuote da mucca pazza. Scappa, ai miei crolli, ogni razza, si spaventa la pecora Dolly, il suo urlo belato mi strazia… 146
Mi sveglio, sudato. In lontananza la lagna in corsa di un’ambulanza: era soltanto un sogno. L’estate cittadina ristagna nell’afa. Sparsi rumori, voci. Mi affaccio. Serranda. Tregua. Passa feroce una musica a palla, veloce dilegua. Poche le stelle, e fioche oltre la cortina di vapori. «Che importa?» – mi dico – «Le più belle brillano giorno e sera incollate ai cartelloni e tutta la favola celeste dei segni zodiacali non vale una festa di fanali, né un castello di tarocchi in tavola». Passetti in arrivo a tamburello: il mio frugolino in lacrimoni sulla porta. «Cosa c’è, Giannino?» «Fatto butto sogno, papaino: vento cattivo cattivo ha spento tutte lucciole in giaddino». Resto di sale. «Ma no, le avrà sospinte sul viale. Ti riporto a letto». Nel prenderlo per mano rifletto che questo è un tradimento, un inganno da vigliacchi. Ma non me la sento di avvisarlo che per la magia delle notti su questo gingillo in agonia le sole lucciole rimaste son quelle tacchi a spillo.
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ANGELA PASSARELLO FRAMMENTI
CORPO Lo scatto lo ritraeva sulla spiaggia rannicchiato nel candore del corpo appariva intero nella sua posizione di fissità rivolta verso l’infinito dove appena visibile un segno separava il cielo dai detriti del mare FONDALI Sul letto del mare dormono corpi privi di branchie abbracciati alle madri come statue di ossa di carne spinti dall’onda nei sacri fondali
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INONDAZIONE Prede del fiume i due abitanti hanno salutato la loro casa sparito nel nulla il loro nome nella profondità delle acque li conduce un invisibile nocchiero ALBERO Fra i rami divorati dal contagio l’impronta lasciata dagli uccelli ha creato notturne sovrapposizioni oscillanti geometrie di paesaggi ombre nere sulla fronda spoglia
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OETI IN OMBRA
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VITO TROMBETTA LA SALA BIANCA
È una sorta di poesia automatica, quella di Vito Trombetta; o meglio, di poesia intermediaria, che non concepisce l’atto poetico come una creazione ex novo, ma lo colloca in un orizzonte profetico, di un uomo che parla per conto di un altro (pro-fateor), dell’Altro. Sembra essere proprio questa, infatti, la genesi de La Sala Bianca (e di altre opere, tra cui Pararess Marin), poema in fieri sull’esistenza umana come in cammino fu Israele insieme ai profeti: una voce in mezzo al nulla, chiara, dolce, ultraterrena, che tuttavia guida il poeta a un luogo terreno realmente esistente, ben conosciuto nel comasco, il Casino Sociale. All’ultimo piano (ma nell’invenzione poetica al piano terra) rumoreggia da anni una sala, luogo esclusivo di aggregazione borghese, dove si ascolta musica e si gioca a carte: è qui, in una continua alternanza fra spunti reali e invenzione, fra terrestrità e rilettura surreale, che si dispiega la metafora della vita, della società e della poesia stessa, che l’autore (o forse è stata la voce a suggerirglielo) ha immaginato come un incessante dialogo tra un Osservatore, il poeta e umile operaio Vito, e gli abitanti della Sala, gozzovigliatori e incatenati a una dimensione carceraria. Unica finestra di dialogo tra i due mondi, da un lato quello del profeta che vive tra la gente ma ne è anche distaccato per grazia divina e dall’altro l’incosciente e cieca Gerusalemme, è un misero vetro, attraverso cui non trapela nessun suono, né le note di musica dall’interno, né le parole, insieme aspre e disincantate, del poeta che sta al di fuori della Sala: trapelano solo sguardi, smorfie, emozioni di superficie, gesti. Superficie filtrante, sì, ma anche riflettente: e dunque il dettato poetico, dal forte sapore moralistico e sapienziale, si tramuta anche e soprattutto in un continuo monito a se stesso. Quando infatti, a domanda diretta, deve indicare cosa sia in ultimo la Sala Bianca e a chi sia rivolta, Vito si indica con un semplice gesto della mano il proprio stomaco: la Sala è il suo stesso corpo, proiettato all’esterno in immagine reale e poetica, è l’insieme dei suoi organi, il funzionamento vitale della sua esistenza terrena, con cui ogni uomo deve necessariamente ristabilire il dialogo che sta alla base dell’esistere - il difficile dialogo tra l’Osservatore e gli abitanti della Sala, la voce dolce e chiara che esorta tutti a guardare de dent / dent la sala bianca, dentro noi stessi.
Pur caricandosi di un tono sferzante e questorio, la poesia de La Sala Bianca, come in generale tutta la produzione di Trombetta, non è mai pesante, greve di facile moralismo dal sapore cattedratico: “ho sempre cercato di stare leggero”, in nome di un rapporto viscerale e interiore con la poesia, proiezione della realtà spirituale, liquida (come la divinità del lago che tanta ispirazione ha dato a Vito – stimolo, ad esempio, per la raccolta Aqualites). Non c’è alcuna manipolazione retorica della parola, anzi: essa si piega alla voce intima, diventa viva davanti agli occhi del lettore perché la poesia prima di tutto vive, è un’entità misteriosa e divina, che procede con l’aspetto che più desidera, “viene con la lingua che vuole”. Ecco spiegato il plurilinguismo della poesia trombettiana: dialetto comasco, italiano, latino, neologismi interlinguistici. Non si tratta di un’operazione ideata a tavolino, una filologia neoavanguardistica, 152
ma della più pura espressione di quel dettato interiore cui tutto si piega, della voce cui la volontà del poeta fa da tramite (come ha imparato dai suoi modelli visionari Campana e Rimbaud). E infine un’ultima dimensione fondamentale nella produzione trombettiana: il ricordo. La sua poesia sembra dirci a più riprese che “è tutto un ricordare”, e che in definitiva l’ingrediente principale della creazione artistica è proprio la memoria. Vito ha infatti assunto a motto personale e dichiarazione di poetica un suo verso: “regundaà ul regurdaà”, che ha in sé il doppio significato di “raccogliere il ricordo”, a sottolineare l’attività di scavo della memoria che fornisce materia prima alla poesia, ma anche di “accomodare, disporre il ricordo”, ad evidenziarne invece la fase creativa. Ma la poesia è soprattutto “gioco e necessità, cui attendere con ordine e pazienza”: necessità che urge dall’animo del poeta, necessità di fare gioco e poesia, e soprattutto necessità che a questo gioco diventino partecipi anche gli altri. a cura di Andrea Peverelli
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VITO TROMBETTA da LA SALA BIANCA
Che pudessuf murì de déent déent in la sala bianca m’è mai vegnüü in la méent pitost sparì ecu cume sparìss la müsica che dopu ’n poodesdégna ma se la vulùntà scanchigna restum chi ’ncamò per ann e ann a spartiss l’incumbenza de’ la cuscienza e de’ l’ingann. Che avreste potuto morire / dentro nella sala bianca /non mi è mai passato per la mente / piuttosto sparire ecco/come sparisce la musica /che dopo un po’ annoia / ma se la volontà traballa/restiamo qui ancora / per anni e anni / a dividerci l’incombenza/della coscienza e dell’inganno.
Ghe imbroien i passiunn de déent déent in la sala bianca e luur e ‘ncorgen gnanca “la müsica” ghe disen “l’è ’l suun d’un diu che ciama” i urecc per aria specien matin e sira un qüei riciamm e ghè nissünn che è bunn de léeng sü’l veder i mè bestèmm. Imbrogliano le passioni dentro / dentro nella sala bianca / e loro non si accorgono nemmeno / “la musica” dicono “è il suono / di un dio che chiama” / le orecchie per aria/ aspettano mattina e sera/ un qualche richiamo / e non c’è nessuno / che è capace di leggere sul vetro/ le mie bestemmie. 154
Meritarissen che déent déent in la sala bianca ul diu di sunn a’l saràss sü baraca cun quéla vöia gnèca de scancelà tüscoos ’me vün che ’l taas per minga fass cugnuss ma mi restaroo lì ne’l veder denaanz a’l mè spiàss.
Meriterebbero che dentro / dentro nella sala bianca / il dio dei suoni / chiudesse baracca / con quella voglia cupa / di cancellare tutto / come uno che tace / per non farsi conoscere / ma io rimarrò lì nel vetro / davanti al mio spiarmi.
Seguund a mi de déent déent in la sala bianca fann finta de cugnuss chi stuna e buna a luur ghe paar la vita scernì pruàss in vanità e inscatulàss de déent a chi nun sa.
Secondo me al di dentro / dentro nella sala bianca / fanno finta di conoscere / chi stona e chi bona / a loro sembra la vita / scegliere provarsi in vanità / e inscatolarsi dentro / a chi non sa. 155
Cume se vüun vurèss de déent déent in la sala bianca diriig l’urchestra i lüüs la géent ma nu’l la sa che déent gh’è ’l niéent e ’l niéent l’è déent de lüü cume ‘na falsa utaria che möövi brasc per inzübiss a l’aria. Come se uno volesse dentro / dentro nella sala bianca / dirigere l’orchestra le luci la gente / ma non sa che dentro c’è il niente / e il niente è dentro di sé / come una falsa otaria / che muove le braccia / per offrirsi all’aria.
Flicorni e giacch de déent déent in la sala bianca incuntràss e inzübiss un dòutdes che me scumbina i piani müsicisti sciansciuni e luur i sentisenti che gh’ànn semper a’drée i paroll medesìnn e mi che in ’sti muméent podi facch niéent ricüperi ul velenn. Flicorni e giacche al di dentro / dentro nella sala bianca / incontrarsi e offrirsi / una complicità / che scombina i miei piani / musicisti vanitosi / e i loro sentisenti / che si portano appresso / parole medicine / e io che in questi momenti / non posso farci niente / recupero il veleno.
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I müsicaant de déent déent in la sala bianca resten semper scundüü hoo mai savüü la pusiziunn che gh’ànn ’me se per mi füdessen dumà l’idea de’l sunn un’oltra scüsa un’oltru ingann. I musicanti di dentro/ dentro nella sala bianca/ restano sempre nascosti/ non ho mai capito la posizione che hanno/ come se per me fossero/ solo l’idea del suono/ un’altra scusa un altro inganno.
Caprizzi e géent de déent déent in la sala bianca fann paart urmai del mè cugnuss che se vuressi scriiv un quéi puema gh’è ’l tema i persunagg e anca ’l curagg de vèss sü’l veder la vita i so rifless.
Capricci e gente dentro / dentro nella sala bianca / fanno parte ormai del mio conoscere / che se volessi scrivere un poema / c’è il tema i personaggi / e anche il coraggio / di essere sul vetro / la vita i suoi riflessi.
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L’è ’nillüsiunn vardà de déent déent ne’ la sala bianca e un’ilüsiunn l’è créed de vèss ul ben che scorla ’l maa e restum chì ‘me ziiv de néev suta ‘stu cièel ‘péna s’ciupaa.
È un’illusione guardare dentro / dentro nella sala bianca / e un’illusione è credere /di essere il bene / che scuote il male / e restiamo qui come uccellini di neve / sotto questo cielo appena scoppiato.
Na parlen ancamò de déent déent in la sala bianca de quéla volta che hann vist ul mè suriis ’me se füdessi mi l’amiis che quata giù tüscoos ma nu’l la sann che l’era forsi un’atim de ripoos o ’l frècc che i müscui ’i archèta ’me d’un nièent che gabula la vita. Ne parlano ancora dentro / dentro nella sala bianca / di quella volta che hanno visto / il mio sorriso come se fossi / io l’amico che insabbia tutto / ma non lo sanno che era forse / un attimo di riposo o il freddo / che i muscoli tende / come un niente che imbroglia la vita.
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Quel lüssu che gh’è déent déent in la sala bianca l’è ’l lüssu dii paroll sbagliaa de qüii che sculten maa la vita e alter sauur ghe dànn per fam o per pagüra de ritruass in d’una stanza scüra ne’ l’ultima invenziunn d’un sunn. Quel lusso che c’è dentro / dentro nella sala bianca / è il lusso delle parole sbagliate / di quelli che ascoltano male la vita / e altro sapore lo danno per fame / o per paura di ritrovarsi / in una stanza scura / nell’ultima invenzione di un suono.
O umenasc che déent déent in la sala bianca battuf i mann ’me füssuf i padrunn de’ la tempesta sappiuf che l’aria che ve resta l’è quela de’l mè fiaa che sciüsciuf sura ’l veder cume ’n basàss de lader.
Omacci che dentro / dentro nella sala bianca / battete le mani come foste / i padroni della tempesta / sappiate che l’aria che vi resta / è quella del mio fiato / che succhiate sopra il vetro / come un baciarsi di ladri.
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Gh’è l’üsanza de déent déent in la sala bianca de fass omen e donn ’n’infinità de inchitt e tütt qüii schénn dubiàa a capìtt e qüii cupìtt cu’l zicch de biaanch che resta l’è l’ilüsiunn de’l muund che già in amuur se impresta.
C’è l’usanza dentro / dentro nella sala bianca / di farsi uomini e donne / un’infinità di inchini / e tutte quelle schiene curvate a uncino / e quelle collottole col pochino / di bianco che resta / è l’illusione del mondo/ che dà amore in prestito d’usura.
Nu’ ghè mercaa de déent déent in la sala bianca fra mi e luur nissünn po’ dàcch a l’olter qèll che nissünn prevèed né amuur né fèed e tantumeen ’legria ognünn stà fermu in de’l so siit e ’l se pèerd via. Non c’è mercato dentro / dentro nella sala bianca / fra me e loro / nessuno può dare all’altro / quello che nessuno prevede / né amore né fede / o tantomeno allegria / ognuno sta fermo / nel suo luogo / naufragando.
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Vött mètt ul vardà déent dèent in la sala bianca rispett a quaand mi uginavi in piazza la banda dii marocch ul lüssu che porta in giir la géent ii inchitt l’aria che fann cun qüii paroll legèer besugna tegnì a méent tüscoos che vün se ’l rivolta a’l gh’abbia de savèll ul bell la sua impurtanza. Vuoi mettere il guardare dentro / dentro nella sala bianca / rispetto a quando occhieggiavo / in piazza la banda di scalcinati / il lusso che porta in giro / la gente gli inchini l’aria / che fanno con quelle parole leggere / bisogna ricordarsi tutto / che se uno si ribella / deve conoscere / il bello la sua importanza.
Regordes che de dèent dèent in la sala bianca quéll che se èed l’è quéll che te pudevet vèss forsi anca ti ma ti te cataa fö ’l silenzi e mi a la cuscienza de’l duluur senza de luur. Ricordati che dentro / dentro nella sala bianca / quello che si vede / è quello che avresti potuto / essere tu / ma tu hai scelto il silenzio e me / e la coscienza del dolore / senza di loro.
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Chissà perchè l’amuur de dèent dèent in la sala bianca l’è amuur de crapa ciapa ’l nost de amuur che ’l végn sü da’i radiis suriis e müüs scutèent e frècc giuin e vècc ‘n’amuur che stà luntann d’ogni maison pansé che ’l dà perchè nu’l sa.
Chissà perché l’amore dentro / dentro nella sala bianca / è amore d’intelletto / prendi il nostro di amore / che sale dalle radici / sorriso e broncio / caldissimo e freddo / giovane e vecchio / amore che è lontano / da ogni casa / pensiero/ che dà/ perché non sa.
Né mi né luur de dèent dèent in la sala bianca podum cantà senza la triplum la terza vuus quèla che sa e che diis ul sunn preciis la meludia che crea l’armunia anca in del nun vurèss vuus cu’l so register d’ari breviari d’un olter rinuàss.
Né io né loro dentro / dentro la sala bianca / possiamo cantare senza la triplum / la terza voce / quella che sa e che dice / il suono perfetto la melodia / che crea l’armonia nei contrasti / voce col suo registro d’arie / breviario di un altro rinnovarci. 162
Vusen adrèe, de dèent dèent in la sala bianca se i müsicisti, queivün cürt de giaca e ’n queivün oltru cunt i culzuni senza piega e quii che ’n de’l sunà se möen tropp sü la cadrega. La gèent che sculta e varda l’è gèent unesta che la vöör vèss ne’l cöör de’ l’armunia e minga trada là ni sunn che resta. Sgridano, dentro / dentro nella sala bianca / se i musicisti, / qualcuno con la giacca corta / e qualcun altro / coi pantaloni senza piega / e quelli che nel suonare / si muovono troppo sulla sedia. / La gente che ascolta e guarda / è gente onesta / che vuole essere / nel cuore dell’armonia/ e non buttata là / nei suoni che restano.
Chi sà resist de dèent dèent in la sala bianca l’è quéll che cugnuss de’l müsicà tütt i resunn e nu’l se crüzia d’i sunn senza malizia o de’l vantass d’i sun baloss e quaand la müsica la taas l’è ’n di so oss che vibra tütt ul sunà che piass. Chi sa resistere dentro / dentro nella sala bianca / è colui che conosce / del musicare / tutte le ragioni / e non si cruccia / dei suoni senza malizia / o del vantarsi / dei suoni furbeschi / e quando la musica tace / è nelle ossa / che vibra / tutto il suonare che piace. 163
S’eri scià stüff de vardà déent déent in la sala bianca che a l’impruiis soo minga se per ingann o per beleza careza d’un suriis dona che amuur prumett dùe che l’amuur ghe paar che nu’l ghe sia.
Ero quasi stufo di guardare dentro / dentro nella sala bianca / che all’improvviso non so / se per inganno o per bellezza / carezza di un sorriso / donna che amore promette / dove le sembra/ che non ci sia.
Cume registraduur qüii che gh’è dèent dèent in la sala bianca che se cambia la müsica cambien memoria e stann giù bass per minga fass sentì per minga famm capì dùe gh’ann ul cöör che danza ’me se gh’avessen l’ilüsiunn d’una cuscienza.
Come registratori quelli che sono dentro / dentro nella sala bianca / che se cambia la musica / cambiano memoria e usano toni bassi / per non farsi sentire / per non farmi capire / dove hanno il cuore che danza / come avessero l’illusione di una coscienza.
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Qüii che dèent dèent in la sala bianca stann sepru cu’l cò bass ’me se a luur la müsica la vegnèss sü dumà da’l paviméent stacch ben atéent trà l’insèma un’anatema che qüii che varda bass hinn parentaa de’l cèert cu’l satanass. Quelli che dentro / dentro nella sala bianca / stanno sempre ricurvi / come se a loro la musica / arrivasse soltanto dal pavimento / stai ben attento / metti insieme un anatema / che quelli col capo chino / sono imparentati certamente / con satana.
Gh’è un quader de dèent dèent in la sala bianca che a mi ’l me mètt malincunìa pugiada su’n strümèent ’na musca che i so sciampitt se nèta paar de senti ’l so vèerz la rabbia de’l strüméent che taas e i mann che pudarissen dà una man vulen ne’ l’aria scüra me vègn la vista e vedi fusch che dèent adèss me paar ghe sia dumà musch. C’è un quadro dentro / dentro nella sala bianca / m’immalinconisce / appoggiata su uno strumento una mosca / che pulisce le sue zampine / mi sembra di sentire il ronzio / la rabbia dello strumento che tace / e le mani che potrebbero aiutare / volano nell’aria / mi si oscura la vista e vedo tutto nebuloso / come se adesso ci fossero dentro solo mosche.
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Propi un vespèe de dèent dèent in la sala bianca gh’è n’è mai stàa un qüei muiméent de cò luntann da’ la müsique suspiir e suspiraant a’l minim quasi niéent a mi che de’l rümuur me pesa cubuscenza me se impuiàni quasi cun quél so vèss de déent a’l déent adasi. Proprio un vespaio dentro / dentro nella sala bianca / non c’è mai stato / qualche movimento della testa / lontano dalla musica / sospiri e sospiranti / al minimo quasi niente / e io del rumore / mi pesa conoscenza / mi abbiocco quasi / con quel loro essere dentro / al dentro adagio.
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A VOCE NUOVA
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ANDREA LANFRANCHI IL PUNTO STABILE
IL PUNTO STABILE A me sgomenta il buio delle fondamenta, o i pozzi per le palificate trivellati dalla sonda in cerca della roccia – le eterne rotative del momento, di chi cerca un punto stabile in cui affondare le radici l’appoggio inamovibile che duri per la storia
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TEMPO D’AUTUNNO Certo sarebbe meglio camminare tra filari di vite o cercare, fra un po’, i ricci nei castagneti – non esiliare nessun pensiero, persino il più buio, tenerselo stretto e avvitarsi a quel po’ di decenza che resta Ma si aspetta la prossima neve sui solai di copertura – imbiancherà le cataste di tavole addossate allo spazio di manovra giù in basso, dove i rimorchi ci girano stretti e ogni giorno che passa di più è una bestemmia che gemma tra le labbra, che spezza il rumore di fondo, poi cade Sarebbe meglio essere attenti, non lasciare ore al sonno durare dove niente è mai uguale dove lo spazio è transizione per qualcosa che sarà e si costruisce quasi sempre per non rimanere Si verrà la neve, verrà E avremo fretta di andarcene al caldo per sopravvivere al prossimo inverno e al suo preludio che è questo autunno scosceso da non guardarsi indietro e salire più in alto per non sentire la colpa di resistere ancora qui, dove solo qualche volto rimane per dire domani avere mani più forti e cercare una presa in quel buio da cui ti senti guardare
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MURARE IL TEMPO Soffiare sulle livelle, cercare dietro ai vetrini ripuliti la bolla d’aria e tirare il piano col filo – sistemare una porzione d’orizzonte su cui murare appiombate pareti in laterizio, filari sfalsati di mattoni a legare per circoscrivere spazio di spazio da sempre esistito * – esecuzione dell’idea: creare il luogo guardarci dentro, fare tramezzi nell’aria – murare il tempo è un pensiero sghembo
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UN’ORA INCONTENIBILE Ci sono attimi di assoluta pace qui, attimi che si contano in raggi sospesi di obliqua solitudine e di calma stanchezza, quando il rumore degli strumenti s’arrende a un’ora virata in arancio e troppo vera appare la certezza che sia possibile rimanere così in alto, nel proprio nido di rapace, tra gli atomi della polvere sospesi in controluce e inafferrabili dalle mani che mordono il vuoto Ci sono attimi in cui gli occhi si serrano in un acuto felino per fissare nella mente il fenomeno della bellezza Non ha odore quella luce quando appare ma vorresti saperne di più, vorresti comprendere il vuoto trattenerne nelle mani le tracce – forse è per questo che siamo qui, ad espiare il salto di una possibile conoscenza Così, tieni i palmi aperti rivolti in alto: “Rimani!” (ti dici) “Rimani!” Ma tra non molto qualcuno soffierà il tuo nome sulle pupille appena un po’ impaurite – il capocantiere fa sempre un ultimo giro per chi come te resta impigliato nel vuoto, per riportarlo a terra, per ritornare a casa – per dirti che è tardi e che è stanco di lavorare
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FORSE DOVREMMO …forse dovremmo salire sugl’impalcati, guardarci sopravvivere nel vespaio dove siamo nel suo trambusto quotidiano dove neppure più si grida, e spegnere le betoniere i martelli a percussione che mitragliano la pace dei mattini, avere flusso nelle vene di sangue che tracima dalla storia e padri da non dimenticare – custodirne i nomi nel libro mastro del cantiere
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L’INTERPRETE Ho interrogato i muri, io, povero mentecatto – io che evito gli umani i vicini, i coinquilini, incompatibile ai discorsi, imbarazzato dai saluti io parlo ai muri muti scruto le superfici e cerco la bava essiccata della vita sulla crosta intonacata o il loro cuore pulsante aperto in breccia – e accarezzo i crepi, i sassi consumati i laterizi scagliati, i giunti ridotti a polvere, i chiodi e i ganci arrugginiti infissi tra le loro ossa – “le ossa dei muri” (se così si può dire) come di corpi rotti, sacrificati, senza dolore Muri come masse verbali – il fitto giungersi delle sillabe come mattoni, vuoti, pause, interruzioni, catenarie di possibili vettori – muri non armati muri stigmatizzati
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LA SPINA Là oltre la recinzione breccia che il tempo sopporta vena che attraversa il giorno è come una vecchia accusa impoverito e sfatto una rotta parete di spina – privazione – rapina e in una vuota attesa misura dell’offesa
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POI C’È L’ERBA SUI RUDERI …poi c’è l’erba sui ruderi abbandonati i licheni i rovi rampicanti c’è una calma occupazione del manufatto l’occultazione la sedimentazione di memorie l’insediarsi delle radici tra le vecchie fondamenta il cupo estinguersi della prima forma una – migrazione – lenta
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ALCHIMIA DELL’ARGILLA lascia che ti accarezzi fammi sentire le dita scrutano più a fondo dei secoli sanno ascoltare e tu voce inerte ignota con lingua sconosciuta racconti i giorni e gli anni e le mani che ti fecero alchimia dell’argilla – tu vecchio rudere disperso ruvido compatto vecchia angoscia – adesso ti fai ombra ti fai spettro ti fai culla
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IL SEGRETO la lucertola che sale s’insinua tra i mattoni, l’altra, più in basso, insidia la cornice i muri hanno perso le loro balze, i decori - si sono disgiunte le pietre più vecchie e sulla loro elemosina battono il becco gli uccelli non c’è rifugio dal caldo di agosto nemmeno per loro e qui, dove da ogni concio sibila la rovina trovo il centro del mastio, il suo segreto fecondo, una luce che tracima
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DOSSIER VICTOR HUGO E L’ISLAM – UNA RIPROPOSTA ATTUALE A CURA DI MANUELE MASINI
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ANTÓNIO BARAHONA (1939), fin da giovanissimo si legò alle istanze più innovatrici della poesia portoghese, cominciando a scrivere negli anni ‘60 sulla scia del surrealismo tardivo del gruppo del Café Gelo (dove sodalizzò con Mário Cesariny) e aderendo più tardi alla poesia sperimentale. Molto prossimo ai poeti di Poesia 61 o ad un Herberto Helder, eccellente traduttore (trans-creatore, come si definirebbe), si converte negli anni ‘70 al sufismo con il nome di Abdur Rashid Ashraf e comincia un percorso spirituale e parallelamente poetico di marcata tendenza mistica, nel tentativo di una poesia quasi ascetica (ma sempre attenta alla dimora provvisoria del corpo), in cui i migliori principi del cristianesimo, dell’islamismo e dell’induismo possono convergere. Lontano dagli ambienti letterari e dalle loro polemiche posticce, e in parte messo a tacere da una critica miope, non poche volte per l’attenzione che rivolge ai temi della spiritualità (frequentemente considerati fuori moda all’interno del dogma del laicismo che cerca troppo spesso di dominarci), la sua opera vive grazie a edizioni difficilmente reperibili, anche se è stata più volte riunita. Il volume antologico O Sentido da Vida é só Cantar, Assírio & Alvim, 2008 e il più recente O Som do Sôpro, uscito presso la libreria editrice Poesia Incompleta, hanno negli ultimi tempi riscattato uno dei maggiori poeti di lingua portoghese, outsider per scelta personale, restituendoci integra la sua voce singolare, il suo equilibrio formale e il suo impeto trascendente. Ha scritto opere d’eccellenza per la lingua portoghese: non le possiamo ricordare tutte, ma vogliamo almeno citare Livros da Índia (oggi nel volume antologico O Sentido da Vida é só Cantar), e Pátria Minha la cui nuova edizione è prevista per i tipi di Poesia Incompleta, work in progress che accompagna l’autore ormai da oltre trent’anni, sempre attento a ipotesti quali Os Lusíadas di Camões, Mensagem di Pessoa o i Cantos di Pound. Soprattutto quando si tratta di testi ispirati direttamente all’Islam, come è il caso del testo qui pubblicato, egli preferisce usare, invece del suo nome portoghese, quello che ha assunto in arabo dopo la sua conversione.
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MUHAMMAD ABDUR RASHID ASHRAF (conosciuto anche come ANTÓNIO BARAHONA) LA LEGGENDA DI MUHAMMAD Poema eroico in versi dodecasillabi portoghesi
Trans-creazione a partire da Victor Hugo da La Légende des Siècles – Première Série III L’Islam – L’an neuf de l’Hégire in Telhados de Vidro n.14, 2010
Traduzione di Manuele Masini
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Para meu Mestre Hazrat Shaikh-e-Tarikat Allama Syed Muhammad Jilani Ashraf Kachhouchhavi
(1)
Al mio Maestro Hazrat Shaikh-e-Tarikat Allama Syed Muhammad Jilani Ashraf Kachhouchhavi
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Como já pressentia a sua morte próxima, Grave, não dirigia a ninguém reprimenda: Cumprimentava os que passavam, e seguia. Viam-no cada vez mais velho, muito embora Apenas se notassem vinte pêlos brancos Na barba ainda vigorosa e côr de cobre; Parava a observar camelos junto aos poços, Triste por já não ser condutor de camelos. E recordava as caravanas plo deserto, Ciclones que moviam dunas e rochedos, Filas compactas d’animais, homens azuis, Em sólidas barreiras contra o ar em fúria: Mil agulhas, mui finas, espetavam-se na carne, Perfuravam a lã do espêsso manto verde; Havia insónia e sede, e sustos de serpente. Mas, também – ida a tempestade e o mau caminho Andado – oásis com bonanças e refrescos: Chá d’hortelã e frutos à sombra das palmeiras, Pernas cruzadas num divã d’ornatos persas, ‘Scrutando a voz de Deus no ciciar das águas. Noites havia em que as areias, tão cantantes, Compunham vastos sons, uivantes e monótonos, Tal como o vento tange as cordas duma cythara. E longas horas meditava a sós consigo; Com suas mãos em concha, orava até à alva; E contemplava a sua própria alma nua; E só dizia, unido a Deus pela palavra: – “Beleza sobre a Terra e no Céu claro dia”. Muhammad já vira o Éden d’oiro puro, A beleza de Deus na nudez de Khadija; E por muitas mulheres fora muito amado, E ele, tão amante delas, sedutor Mais belo do que luz cintil do sol-nascente.
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Poiché ormai presentiva la morte vicina Grave, a nessuno rivolgeva rimproveri: Salutava i passanti, e poi seguitava. Sembrava ogni giorno più vecchio, sebbene Si notassero solo venti peli bianchi Nella barba vigorosa color del bronzo; Indugiava a osservar cammelli presso i pozzi, Triste, perché ormai non conduceva cammelli. E ricordava carovane nel deserto, Cicloni che smuovono dune e massicci, File strette di animali, uomini azzurri, In solide barriere contro l’aria in furia: Mille aghi fini a infilzarsi nella carne, Foravan la lana di spesso manto verde; Insonnia e sete, paure di serpente. Ma anche – passata la tempesta e il cattivo Cammino – oasi con bonacce e bevande; Tè di mentuccia e frutti all’ombra delle palme, Gambe incrociate sopra il divano persiano, Scruta la voce di Dio nell’acqua frusciante. C’erano notti in cui la sabbia, cantando, Intonava suoni ululanti e monotoni, Come il vento suona le corde di una cythara. Per lunghe ore meditava con se stesso; Le mani in conchiglia, pregava fino all’alba; E contemplava la sua stessa anima nuda; Solo diceva, unito a Dio dalla parola: – “Bellezza sulla Terra, nel Cielo un chiaro giorno”. Muhammad già avea visto l’Eden d’oro puro, L’incanto di Dio nella nudezza di Khadija; E molte donne lo avevano molto amato, Ed egli fu il loro amante e il seduttore Più bello del brillare del sole che nasce.
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Khadija namorou-o na pobreza honesta E, seu esposo, o tornou em próspero mercante, Mais propenso a ouvir a voz de Deus Do que a voz do negócio; e, quando duvidou Da sua natureza de Profeta e Santo, Khadija acreditou: foi a primeira eleita: Cobriu-o com seu véu e seus cabelos negros. Ele vivera já mil milheiros de séculos:I Nessas épocas, em que não havia história E o sôpro de Deus pairava sobre a água, Muhammad já era, e esperava, sem corpo, Que cento e vinte e quatro mil profetas ígneos Passassem pelo mundo; e só então nasceu. Quando contava quatro anos e brincava Com seu irmão de leite, eis surgiram dois Anjos, De vestes a brilhar e mãos de polpas de seda, Que o deitaram por terra, com muito cuidado. Um deles, no seu peito, abriu uma fissura E retirou-lhe o coração, sem causar dor; Lavou-o, a seguir, com neve imaculada, E nele introduziu a sakína que salva,II E tirou, duma aurícula, um ponto côr de breu. E, feito isto, pôs de novo o coração No peito do menino, e reuniu as carnes Sem deixar marca, nem nenhuma cicatriz. O outro Anjo, então, ajudou Muhammad A levantar-se, e este emitia tanta luz Do rosto que ofuscava o luzeiro do sol. Os dois Anjos, por fim, entre as suas espáduas, Imprimiram um selo, o nó da profecia: Semente não maior do que um ovo de pomba. E, num ápice de vôo, invisíveis se foram; Só ficou para trás odor de gato branco. Cresceu Muhammad em força e formosura:
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Khadija lo amò nella povertà onesta E, suo sposo, ne fece un prospero mercante, Pronto a sentir la voce di Dio piuttosto Che voce degli affari; e, se dubitò Della sua natura di Profeta e Santo, Khadija credette: fu la prima eletta: Lo coprì con il velo e i suoi capelli neri. Aveva vissuto ormai migliaia di secoli: I In quelle epoche in cui non c’era storia E il soffio di Dio aleggiava sull’acqua, Muhammad già era, e aspettava, senza corpo Che centoventiquattromila profeti ignei Passassero sul mondo; e solo allora nacque. Quando aveva quattro anni e giocava Col fratello di latte, sorsero due Angeli, Con vesti brillanti e mani polpe di seta, Che lo stesero in terra, com molta cura. Uno gli aprì una fessura nel petto E prelevò il cuore, senza causar dolore; Poi lo lavò con della neve immacolata, E vi introdusse la sakina che salva,II E estrasse da un atrio un punto color pece. E, fatto questo, ricollocò il suo cuore Nel petto di bambino, riunì le sue carni Ma non lasciò traccia, né una cicatrice. L’altro Angelo, allora, aiutò Muhammad Ad alzarsi, e questi emanava tanta luce Dal volto che offuscava la luce del sole. I due Angeli, infine, fra le loro spade, Incisero un suggello, nodo di profezia: Seme non più grande di un uovo di colomba. In apice di volo partirono invisibili; Ne rimase una scia odor di gatto bianco. Crebbe Muhammad in forza ed in bellezza:
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Sua fronte era alta, a face soberana, O nariz aqüilino, o bigode talhado; De fogo do crepúsculo, a sua barba ruiva; Sobrancelhas unidas, olhos d’abismo e águia E o pescoço gargalo d’ânfora de prata. E no seu rosto havia a aura dum Noé Que sabe, do Díluvio, todos os segredos. Se homens vinham consultá-lo, este juiz Deixava um falar, outro rir, negar: Ouvia; ponderava; e falava por último. E mostrava indulgência e seu perdão vibrante, III Ou castigava con frieza, aceso de febre; Lia nos corações, como num livro aberto, Ele, que não sabia ler, Verbo do Livro Sagrado, que contém advertências de Deus, Luminosos sinais no Caminho Direito. Pesava os argumentos; mas pesavam muito Mais, na balança, os embaraços do silêncio; E, com toda a certeza, exarava a sentença. Havia sempre uma oração na sua boca; Cingia, às vezes, uma lájea sobre o ventre, Para comer, nesse dia, o menos que pudesse. Pão, tâmaras e leite: era o que mais gostava E do cristal do mel. Agradecendo a Deus, Punha primeiro sob a língua um grão de sal. Assentado no chão cosia a sua roupa; Ele próprio mungia as cabras e as ovelhas. Certeza e equilíbrio, afinal respirava, Depois de duvidar, ferindo-se com pedras; Já confirmara Deus sua missão profética: Uma noite, corria o mês do Ramadã, O vasto Anjo Gabriel aparecera, Infinito, de todas as direcções do espaço, E desdobrara um pano branco com palavras, Dizendo, ao mesmo tempo, numa voz imensa: – “Lê, em nome do teu Senhor, que te criou”. – “Não sei ler”, respondeu Muhammad, e calou-se.
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La fronte era alta, sovrano era il volto, Il naso aquilino, i baffi rifilati, Del fuoco del crepuscolo la barba rossa; Sopracciglia unite, occhi d’abisso ed aquila E il collo come di anfora d’argento. E nel suo volto era l’aura di un Noè Che conosce del Diluvio tutti i segreti. Se venivano a consultarlo, questo giudice Facea parlar l’uno, rider l’altro, negare: Ascoltava, ponderava, parlava in ultimo. Mostrava indulgenza e il suo vibrante perdono,III O puniva con freddezza, acceso di febbre; Leggeva nei cuori, come in un libro aperto, Egli, ch’era analfabeta, Verbo del Libro Sacro, che contiene avvertenze di Dio, Luminosi segnali nel Giusto Cammino. Pesava i loro argomenti sulla bilancia Ma soprattutto gli imbarazzi del silenzio; E, con grande sicurezza, deliberava. Nella sua bocca c’era sempre una preghiera; Cingeva, alcune volte, una lastra sul ventre, Per mangiare, in quel giorno, il meno possibile. Pane, datteri e latte: ciò che più gradiva Col cristallo del miele. Ringraziando Dio Metteva sotto la lingua un grano di sale. Seduto a terra cuciva i suoi abiti; Lui stesso mungeva le capre e le pecore. Certezza, equilibrio, alla fine respirava, Dopo i dubbi, ferendosi con delle pietre; Dio confermava la profetica missione: Una notte, era il mese del Ramadan, Gli apparve il grande Angelo Gabriele, Infinito, lungo tutte le direzioni Dello spazio, e apriva un drappo bianco iscritto, Dicendo al contempo con immensa voce: – “Leggi, nel nome del tuo Dio che ti creò” – “Non so leggere” disse Muhammad, e tacque.
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Mas, por três vezes, Gabriel tanto insistiu Que Muhammad, analfabeto, obedeceu: Leu, em voz alta, o que no pano estava escrito. IV
Passou, então, a jejuar muito mais dias: Além do Ramadã, segundas, quintas-feiras, E cumpria também os jejuns dos Judeus, ‘Inda que enfraquecesse e já não fosse jovem. Aos sessenta e três anos adoeceu febril. Relembrou o Alcorão que sua voz ditara; O estandarte, entregou-o ao filho de Sa’ïd E disse baixo: – “Chego à derradeira véspera. So há um Deus. Por Ele, luta até à morte; O Paraíso está à sombra das espadas”. E o seu olhar velava-se de mornas lágrimas Como falcão forçado a descer das alturas Pra arrastar, rente ao pó, suas asas em f ’rida. E, de repente, recordou-se da viagem, Noite fora, de Meca até Jerusalem, Montado num cavalo branco alado com Cabeça de mulher e cauda de pavão. E logo após rezar, na mesquita longínqua, Tendo ao lado um gomil florido d’araucária, Que se prendeu ao verde manto, e que tombou, Visita os sete céus com Gabriel e volta A tempo d’impedir o gomil d’entornar A água e a flor, na esteira do mihrab.V
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Ma, per tre volte, tanto insistette Gabriele Che Muhammad, analfabeta, obbedì: Lesse, a voce alta, quel che appariva nel drappo IV
Allora cominciò a digiunare più giorni: Oltre il Ramadan, di lunedì, giovedì, E compiva anche i digiuni dei Giudei, Sebbene infiacchisse ed ormai non fosse giovane. A sessantatre anni s’ammalò, febbrile. Pensò al Corano recitato dalla sua voce; Consegnò lo stendardo al figlio di Sa’id E disse piano: – “Giungo all’ultima vigilia. Esiste un solo Dio. Lotta fino a morire Per lui: delle spade è all’ombra il Paradiso”. Il suo sguardo si velava di calde lacrime Come falco forzato a scendere dai picchi Per trascinar nella polvere ali ferite. Improvvisamente ricordò il suo viaggio, Nella notte, dalla Mecca a Gerusalemme, Sopra a un cavallo bianco alato con La testa di donna e la coda di pavone. Dopo la preghiera, nella moschea remota, Accanto a una brocca d’araucaria fiorita, Che al verde manto s’avvinse, e che cadde, Visita i sette celi con Gabriele e torna In tempo da evitar che la brocca rovesci L’acqua e il fiore sulla stuoia del mihrab.V
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Nesta recordação, imerso e distraído, Dirigiu-se à mesquita, à hora de salah,VI Apoiando em ‘Ali, seguido pelo povo. No pátio, o estandarte ondulava n’aragem. E ele, pálido, gritou pra multidão: “Povo, eis o fim do dia, o homem passa e esvai-se; Somos noite e poeira, só Allah é grande. Povo, eis que sou cego e também não sei nada: Não fosse Deus, seria mais vil do que um verme”. Um shaikh disse – “Ó chefe dos fiéis de Deus, Quando prègaste, o mundo acreditou em ti; Uma estrêla luziu no dia em que nasceste; E, nas salas do paço de Khosroés, ruiram Três marmóreas colunas com enorme estrondo”. Mas, ele prosseguiu: – “E sobre a minha morte, Conforme Deus mandou, já decidiu o Anjo. A hora chega. Escutai. Se falei mal D’alguém, que se levante, ó povo, e, já aqui, Que me insulte e me ultrage antes que eu morra; Se bati em alguém, que esse alguém me bata”. E, sereno, estendia a todos o cajado. A tosquiar a lã dum carneiro, uma velha, Sentada num degrau, gritou: – “Deus te abençôe!” Talvez que contemplasse alguma visão triste, E sonhava; porém, articulou, mui trémulo: “E, do Verbo de Deus, não passo duma sílaba; Meu único milagre é som que vem de Deus. Homem: sou cinza; e, profeta, sou de fogo. Já completei, de Cristo, a imperfeita luz. Sou a força, meus filhos; E Jesus a doçura. O sol tem sempre a alva como precursor: Antes de mim prègou Jesus de Nazareth,
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Distratto ed immerso fra le sue memorie Si diresse alla moschea, all’ora di salah,VI Reggendosi ad ’Ali, seguito dal popolo. Nel patio ondeggiava lo stendardo al vento. Ed egli, pallido, gridò alla moltitudine: – “L’uomo passa ed esala. È la fine del giorno, Siamo notte e polvere. Solo Allah è grande. Sono cieco e neanch’io so niente, oh popolo: Se non fosse Dio, sarei più vile d’un verme”. Uno shaikh disse: – “Capo dei fedeli in Dio, Quando hai pregato, il mondo ha creduto in te; Una stella ha brillato il giorno in cui nascesti; E, nelle sale del palazzo di Khosrau, Tre colonne di marmo caddero assordanti”. Ma egli continuò: – “E sulla mia morte, Come Dio ha comandato, ha già deciso l’Angelo. Giunge l’ora. Ascoltate. Se ho parlato male Di qualcuno, si alzi, popolo, e m’insulti Qua davanti e mi oltraggi prima che muoia; Se ho percosso qualcuno, che egli mi percuota.” E, sereno, stendeva a tutti il vincastro. Tosando la lana di un montone, una vecchia, Dalle scale gridò: – “Che Dio ti benedica!.” Forse contemplava qualche triste visione, E sognava; ma tremolante, articolò: – “E, del Verbo di Dio, non sono che una sillaba; Suono che vien da Dio, unico mio miracolo. Uomo: sono cenere; e, profeta, fuoco. Di Cristo già completai la luce imperfetta. Sono forza, miei figli; e Gesù dolcezza. L’alba è sempre precorritrice del sole; Prima di me profetizzò il Nazareno,
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Que nasceu duma Virgem, aspirando uma rosa. Ouvi, agora, com paciência, o que vos digo: Eu, sou feito de lama roxa de pecado; Não houve tentação que eu não sentisse já: Tem muito, muito mais vergonha a minha mente Do que um caminho largo pode ter de lama, Mas o meu corpo só pelo bem foi tocado. E não tarda, eu serei devorado, ó vós todos, Se no escuro da gruta, escavada no sepulcro,VII Cada pecado d’homem fabricar um verme. Eu sou o campo vil das batalhas sublimes: O fel, na minha boca, alterna com o mel, Tal como no deserto, areias e cisternas. Tenho a ciência da Escritura na memória: Só preciso de Deus pra me lembrar do som. E nunca, nunca nada me impediu, ó crentes, De, na sombra, enfrentar esses Anjos terríveis, Que queriam meu ser soturno imerso em trevas: Com minhas próprias mãos torci seus braços fúnebres; Como Jacob, às vezes, eu lutei, noite adiante, Contra alguém que não tinha rosto e que eu não via; Mas foram sobretudo os homens que fizeram Minha vida sangrar, com sua inveja e ódio. Deus, porém, nunca me deixou, como no dia Em que foram atrás de mim para me matar. Na companhia d’Abu Bakr, numa gruta Me escondi; e, enquanto eu rezava, meu sogro Tremia e vigiava, e pingava suor. Vozes vinham naquela direcção, trazidas Pela brisa d’ar morno, envolta no crepúsculo. Ouvia-se o sacar d’espadas da bainha E passos abafados na surdez d’areia. Toquei, de leve, então, no ombro d’Abu Bakr E segredei: – ‘Não tenhas medo, Deus protege-nos.’ Logo, da fenda duma rocha, uma acácia
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Nato da una Vergine, che odora una rosa. Ascoltate pazientemente ciò che dico: Io, son fatto di fango viola di peccato; Non c’è tentazione che non abbia provato: Molta più vergogna possiede la mia mente Che il fango che s.’incontra in un largo cammino, Ma il mio corpo è toccato solo dal bene. E in breve io sarò divorato, oh voi tutti, Se nel buio della grotta, cavata nel tumulo,VII Ogni peccato d’uomo fabbrica un verme. Sono il campo vile di battaglie sublimi: Il fiele ed il miele alterni nella mia bocca Proprio come nel deserto, sabbie e cisterne. Nella memoria ho la scienza della Scrittura: Ma ho bisogno di Dio per ricordarne il suono. E mai, mai niente m’ha impedito, fedeli, D’affrontar nell’ombra gli Angeli che terribili Il mio essere triste volean fra le tenebre: Con le mani torsi le loro braccia funebri; Qual Giacobbe lottai a volte nella notte, Contro qualcuno il cui volto io non vedevo; Ma soprattutto alcuni uomini tinsero Di sangue la mia vita, con invidia e odio. Ma Dio mai mi ha abbandonato, come il giorno In cui mi inseguirono per uccidermi. In compagnia di Abu Bakr, in una grotta Mi nascosi; e, mentre pregavo, mio suocero Tremava e vigilava, e grondava sudore. Giungevano voci da quella direzione, recate Dalla brezza d’aria tiepida, nel crepuscolo. Si sentivano sguainare le spade E passi soffocati nella sabbia sorda. Toccai, dunque, lieve, la spalla di Abu Bakr E sussurrai: – “Non temere, Dio ci protegge”. Poi, un’acacia, dalla fessura di una roccia,
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Brotou e, num minuto, fez-se mui frondosa: A entrada da gruta ficou quase oculta. Depois, veio uma aranha que teceu a teia, Meticulosamente, com perícia árdua, E uma pomba que pôs seus ovos na soleira. Assim os meus perseguidores acreditaram Vazia a gruta, e nós fugimos pra Yathrib, Inaugurando, à pressa, o ano um da Hégira. E porque, em mim, sentia a verdade vibrar, A todos combati, mas sem perder a calma; Na batalha, gritava: ‘Homens, saiam daqui! Eis-me só, nu, ferido, a sangrar mais do peito Do que grão maremoto a inundar o mundo! Que caiam todos sobre mim!, deixem passar!, Pois, se os meus inimigos atacar-me quiserem, Hão-de ser obrigados a lutar nesta via, Que é mais estreita do que o fundo duma agulha, Tendo à direita a lua e o sol à sua esquerda. Eu nem sequer um palmo hei-de ceder.’ E hoje, Após quarenta anos de refrega, eis-me Chegado à beira da caverna do meu túmulo: Atrás de mim o mundo, à minha frente Deus. Quanto a vós, que me haveis seguido na carência, Como os Hebreus Levi e como os Gregos Hermes, Sofrestes muito, sim, mas vós vereis a aurora: Passada a noite, vós vereis a luz do dia. Ó povo, não há dúvida: Aquele que já deu Os leões às ravinas de Jabal-Kronnega, Os luzeiros ao céu e as pérolas ao mar, Pode dar alegria ao homem pesaroso”. E acrescentou, exausto, amparado ao cajado: – “Meus filhos, tende fé, velai; curvai a fronte. Os que não são nem bons nem maus hão-de ficar No muro que separa inferno e paraíso, Nem muito pecadores, ou pouco virtuosos;VIII Não há ninguém tão puro, isento de pecados, Que não tenha castigo; assim, quando rezardes,
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Germogliò e in un minuto si fece frondosa: L’entrata della grotta fu quasi occultata. Dopo, venne un ragno a tessere la sua tela, Meticolosamente, con ardua perizia, E una colomba che depose le uova sulla soglia. Fu così che i persecutori credettero Vuota la grotta, e fuggimmo a Yathrib, Inaugurando, in fretta, il primo anno dell’Egira. Poiché sentivo in me la verità vibrare, Lottai contro tutti senza perder la calma; Gridavo, in battaglia: “Uomini, via di qua! Sono solo, nudo, ferito, con più sangue dal petto D’un maremoto ch’inondasse il mondo! Che cadan tutti su me!, lasciate passare!, Perché se i miei nemici vogliono attaccarmi, Saranno obbligati a lottare in questa via, Che è ancor più stretta della cruna d’un ago, Con a destra la luna e il sole a sinistra. Io non cederò neanche di un palmo”. E oggi, Passati quarant’anni di battaglia, presso La caverna del mio tumulo sono giunto: Dietro di me il mondo, davanti a me, Dio. Quanto a voi, che mi seguiste nella carenza, Come gli Ebrei Levi e come i Greci Hermes, Soffriste molto, però vedrete l’aurora: Passata la notte, vedrete la luce del giorno. Popolo, non c’è dubbio, Colui che ha già dato I leoni alle fosse di Jabal-Kronnega, E gli astri al cielo e le perle al mare, Può dare l’allegria all’uomo rattristato”. E aggiunse, esausto, appoggiato al vincastro: – “Figli, vegliate, con fede chinate la fronte. Coloro che non sono buoni né cattivi Saranno nel muro tra inferno e paradiso, Non troppo peccatori, o poco virtuosi;VIII Nessuno è così puro e privo di peccati, Che non sia castigato: quando pregherete,
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Deveis tocar o solo com a fronte orante: O fogo do inferno, em seu fatal mistério, O que a terra tocou não poderá queimar; E Deus, a quem a terra beija, abre o céu. Sede justos e santos; e sede hospitaleiros; Eis, lá no alto, os frutos raros do Jardim, Corcéis selados d’oiro; e, pra ascender a Deus, Carros, que têm mil relâmpagos nas rodas. Cada Huri, tão maviosa, esvelta, sempre virgem, Morena d’olhos áureos e tranças côr de sombra, Habita num palácio feito só de pérolas. Mas a Geena espera os réprobos; desgraça! Hão-de calçar babuchas em brasa, e o calor, Suas cabeças vãs, reduzirá a cinzas. Será resplandecente a face dos eleitos”. Calou-se, atento ao som do coração. Depois, Clamou a muito custo, a passos muito lentos; – “Ó viventes, a todos digo: eis a hora Em que vou penetrar numa outra morada; Appressai-vos, portanto. É chegado o momento: Digam se cometi alguma má acção; Se sim, não hesiteis. E cuspam-me na cara”. A multidão, silente, a flutuar em lágrimas, Abria alas à passagem do Profeta. Este fez a ablução no poço d’Abulfayad Que lhe pediu três dracmas; ele deu-lhe o dinheiro E disse, com sorriso irónico: – “É melhor Eu pagar quanto antes do que depois de morto”. Era tão doce o olhar do povo, como pomba Que fitasse a oirada luz deste homem nobre. Todos choravam; e, no seu regresso a casa, Muitos ficaram lá, sem ter onde dormir, Toda a noite encostados juntos, sobre a lájea. De madrugada, vendo a alva anunciar-se: – “Abu Bakr”, gritou, “não posso levantar-me, – Tens que ser tu a dirigir a oração”. E a mulher-criança, a esposa preferida, A caprichosa ‘Aïcha, à sua cabeceira,
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Toccherete il suolo con la fronte orante: Il fatal mistero del fuoco dell’inferno, Non può ardere ciò che la terra ha toccato; E Dio, a chi la terra bacia, apre il cielo. Siate giusti, e siate santi, e siate ospitali; Ecco, lassù, i frutti rari del Giardino, Destrieri sellati d’oro. Per salire a Dio Carri che hanno mille lampi nelle ruote. Ogni Huri, soave, snella, sempre vergine Bruna dagli occhi aurei e trecce color d’ombra, Abita un palazzo fatto solo di perle. Gehenna attende chi fu reprobo; disgrazia! Calzeranno babbucce ardenti e il calore, Le loro teste vuote ridurrà a cenere. Sarà splendente il volto degli eletti”. Tacque, attento al suono del cuore. Poi, Con sforzo proclamò, a passi molto lenti: – “Oh viventi, a tutti dico: l’ora è giunta In cui m’inoltrerò in un’altra dimora; Affrettatevi, dunque. È arrivato il momento: Dite se ho commesso una cattiva azione; Se sì, non esitate, e sputatemi in faccia”. La moltitudine, muta, fluttuante e in lacrime, Faceva spazio al passaggio del Profeta. Fece l’abluzione nel pozzo di Abulfayad Che gli chiese tre dracme; gli dette il denaro E disse, con sorriso ironico: – “È meglio Ch’io paghi prima, che dopo essere morto”. Dolce era lo sguardo del popolo: colomba Che fissa la luce d’oro di un uomo nobile. Tutti piangevano; e, quando tornò a casa, Molti rimasero, senza aver da dormire, L’intera notte assieme sul lastricato. Al mattino, vedendo l’alba annunciarsi: – “Abu Bakr”, gridò, “non riesco ad alzarmi, Sarai tu a dirigere la preghiera”. E la donna-bambina, sposa prediletta, La capricciosa ’Aïcha, al suo capezzale;
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Enquanto Abu Bakr, o Alcorão recitava, Às vezes, em voz baixa, acabava o versículo. E o deslizar das lágrimas ouvia-se no som. Ao pôr-do-sol, à porta, um Anjo apareceu: Era o Anjo da morte, e pediu para entrar. – “Que entre”. E viu-se, então, seu olhar despedir A mesma luz, como no dia em que nascera; E o Anjo disse: – “Allah quer a tua presença”. – “Amin”, respondeu ele. Um tremor percorreu As suas têmporas; um sôpro entreabriu-lhe Os lábios, e expirou o último Profeta. 16, Jamadil-Akhir, 1430
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Mentre Abu Bakr recitava il Corano, A volte, a bassa voce, terminava il verso. Lacrime s’udivano cadere nel suono. Al tramonto un Angelo apparve alla porta: L’Angelo della morte, che chiese d’entrare. – “Che entri”. Si vide, allora, il suo sguardo Emanare luce, come il giorno in cui nacque; E l’Angelo disse: – “Allah chiede la tua presenza”. – “Amin”, rispose; e un tremore gli percorse Le tempie; un soffio gli fece socchiudere Le labbra, così spirò l’ultimo Profeta. 16, Jamadil-Akhir, 1430
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I
“I profeti furono, nel mondo della creazione, i suoi sostituti, mentre Muhammad (che la pace e le benedizioni di Dio siano su di lui) era puro spirito, cosciente della sua realtà, anteriormente all.’apparizione del suo corpo di carne. Perciò, al domandargli: – ‘In che tempo fosti tu profeta?’, egli rispose: – ‘Quando Adamo si trovava fra acqua e fango, io ero già profeta.’, il che significa che Adamo ancora non esisteva. E così continuò fino al momento in cui apparve il suo corpo molto puro.” – Ibn Arabí, Futúhát al-Makkíyya, I, p. 243, citato da Michel Chodkiewicz, in Le Sceau des Saints, Prophétie et Sainteté dans la doctrine d’Ibn Arabî, p. 79. II Gli lavò il cuore e chiamò la sakina .“che è simile al muso di un gatto bianco.” – Ibn Sa’d Tabaqát, Biographien Muhammeds, seiner Gefährten... I, I, 96; Tabarî, Annales, I, 154; Ya’qûbî, 2, 8; Hastings, Encyclopaedia of religious and ethics, 33; citato da Maurice Gaudefroy-Demombynes, in Mahomet, p.63. Sakina significa pace, riposo, serenità. La metafora misteriosa che la compara al muso di un gatto bianco, proviene dalla reminescenza di una forma pre-islamica, con la quale gli antichi arabi figuravano alcuni djins (esseri incorporei fatti di fuoco) benefattori. III
Eco di un verso di Hart Crame in The Bridge: “Vibrant reprieve and pardon thou dost show.”
IV
Traduzione dei cinque primi versetti, rivelati a Muhammad (che la pace e la benedizioni di Dio siano su di lui), del Corano: Em nome de Allah, o Beneficiente, o Misericordioso. In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso. 1. Lê, em nome do teu Senhor, que criou, 1.Leggi nel nome del Signore tuo, che ha creato, 2. Criou o homem de um coágulo. 2.Ha creato l.’uomo da un suo coagulo. 3. Lê, porque o teu Senhor é o mais generoso 3.Leggi, perché il tuo Signore è il più generoso 4. Aquele que ensinou com o cálamo, 4.Colui che ha insegnato con il calamo, 5. Ensinou ao homem o que este não sabia. 5.Ha insegnato all.’uomo quel che non sapeva (2) V
Mirhab – Cavità, o superficie dipinta, con prospettiva, che simula una porta, in direzione alla Mecca, che esiste in quasi tutte le moschee, per orientare i musulmani nelle loro preghiere.
VI Salah – Preghiera canonica, lunga, obbligatoria, cinque volte al giorno: prima dell’alba, dopo il mezzogiorno, a metà pomeriggio, al tramonto e, per ultimo, all’inizio della notte.
Secondo i precetti della legge religiosa islamica, nella fossa del sepolcro viene aperta, in uno dei lati, una rientranza, dove si colloca il cadavere avvolto nel sudario, steso sul lato destro e in direzione alla Mecca.
VII
VIII
Fra l’inferno e il paradiso esiste un intervallo, dove non si subisce nessun castigo, sebbene mai si possa raggiungere la serena ed eterna felicità che caratterizza i piaceri celestiali. Una specie di limbo: si sente solo tristezza, frammista a melanconia, suidá, parola araba da cui deriva saüdade.(3)
(1)
Si tratta dell’apertura di ciascuna delle Sure del Corano: “In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso” (2)
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Si tratta di una traduzione basata nella traduzione portoghese dello stesso Barahona.
Offriamo di seguito il testo italiano di una delle versioni più accreditate del Corano, pur non potendoci addentrare nella questione di alcune piccole oscillazioni interpretative indubbiamente significative. (Sura XCVI, traduzione a cura di Hamza Roberto Piccardo con la revisione e controllo dottrinale dell.’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia. Imperia: Al Hikma, 1994):
In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso. 1. Leggi! In nome del tuo Signore che ha creato, 2. ha creato l’uomo da un’aderenza 3. Leggi, ché il tuo Signore è il Generosissimo, 4. Colui che ha insegnato mediante il calamo, 5. che ha insegnato all’uomo quello che non sapeva, […]
(3)
In omaggio alla cultura islamica Barahona accoglie la discussa etimologia araba della parola portoghese saüdade, che generalmente si considera derivata dal latino solitate(m), con caduta di l intervocalica, sonorizzazione delle t intervocaliche e trasformazione del dittongo oi in au.
(Le note in caratteri romani sono dell’autore, quelle in caratteri arabi sono del traduttore ndr)
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VICTOR HUGO da La Légende des Siècles – Première Série
III. L’ISLAM
L’AN NEUF DE L’HÉGIRE Traduzione di Manuele Masini
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Comme s’il pressentait que son heure était proche, Grave, il ne faisait plus à personne un reproche ; Il marchait en rendant aux passants leur salut ; On le voyait vieillir chaque jour, quoiqu’il eût À peine vingt poils blancs à sa barbe encor noire ; Il s’arrêtait parfois pour voir les chameaux boire, Se souvenant du temps qu’il était chamelier. Il songeait longuement devant le saint pilier ; Par moments, il faisait mettre une femme nue Et la regardait, puis il contemplait la nue, Et disait : « La beauté sur terre, au ciel le jour. » Il semblait avoir vu l’Éden, l’âge d’amour, Les temps antérieurs, l’ère immémoriale. Il avait le front haut, la joue impériale, Le sourcil chauve, l’œil profond et diligent, Le cou pareil au col d’une amphore d’argent, L’air d’un Noé qui sait le secret du déluge. Si des hommes venaient le consulter, ce juge Laissant l’un affirmer, l’autre rire et nier, Écoutait en silence et parlait le dernier. Sa bouche était toujours en train d’une prière ; Il mangeait peu, serrant sur son ventre une pierre ; Il s’occupait lui-même à traire ses brebis ; Il s’asseyait à terre et cousait ses habits. Il jeûnait plus longtemps qu’autrui les jours de jeûne, Quoiqu’il perdît sa force et qu’il ne fût plus jeune.
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Come se presentisse la sua ora vicina, Grave, non rimproverava più nessuno; Camminava e rendeva il saluto ai passanti; Lo si vedeva invecchiar ogni giorno, anche se non aveva Che venti peli bianchi nella barba ancora nera; A volte si fermava a veder bere i cammelli, E ricordava di quando anche lui era cammelliere. Meditava a lungo davanti alla colonna santa; A volte faceva portare una donna nuda E la guardava, poi contemplava la nudità E diceva: «La bellezza in terra, in cielo il giorno.» Sembrava aver visto l’Eden, l’età dell’amore, I tempi anteriori, l’era immemoriale. Aveva la fronte alta, la guancia imperiale Il sopracciglio calvo, l’occhio profondo e diligente, Il collo come di un’anfora d’argento, L’aria di un Noè che sa il segreto del diluvio. Se degli uomini venivano a consultarlo, quel giudice Lasciando che uno affermasse, e l’altro ridesse e negasse, Ascoltava in silenzio e parlava per ultimo. Era sempre sul punto di dire una preghiera; Mangiava poco, mettendo sul ventre una pietra; Lui stesso s’occupava di condurre le pecore; Si sedeva a terra e cuciva le sue vesti. Nei giorni di digiuno, digiunava più a lungo di ogni altro, Pur perdendo forza e non essendo più giovane.
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À soixante-trois ans, une fièvre le prit. Il relut le Koran de sa main même écrit, Puis il remit au fils de Séid la bannière, En lui disant : « Je touche à mon aube dernière, Il n’est pas d’autre Dieu que Dieu. Combats pour lui. » Et son œil, voilé d’ombre, avait ce morne ennui D’un vieux aigle forcé d’abandonner son aire. Il vint à la mosquée à son heure ordinaire, Appuyé sur Ali, le peuple le suivant ; Et l’étendard sacré se déployait au vent. Là, pâle, il s’écria, se tournant vers la foule : « Peuple, le jour s’éteint, l’homme passe et s’écoule ; La poussière et la nuit, c’est nous. Dieu seul est grand. Peuple, je suis l’aveugle et je suis l’ignorant. Sans Dieu je serais vil plus que la bête immonde. » Un scheik lui dit :« Ô chef des vrais croyants ! le monde, Sitôt qu’il t’entendit, en ta parole crut ; Le jour où tu naquis une étoile apparut, Et trois tours du palais de Chosroès tombèrent. » Lui, reprit : « Sur ma mort les anges délibèrent ; L’heure arrive. Écoutez. Si j’ai de l’un de vous Mal parlé, qu’il se lève, ô peuple, et devant tous Qu’il m’insulte et m’outrage avant que je m’échappe ; Si j’ai frappé quelqu’un, que celui-là me frappe. » Et, tranquille, il tendit aux passants son bâton. Une vieille, tondant la laine d’un mouton, Assise sur un seuil, lui cria : « Dieu t’assiste ! » Il semblait regarder quelque vision triste, Et songeait ; tout à coup, pensif, il dit : « Voilà, Vous tous : je suis un mot dans la bouche d’Allah ; Je suis cendre comme homme et feu comme prophète.
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A sessantatré anni, una febbre lo colse. Rilesse il Corano scritto di suo pugno, Poi rimise al figlio di Seid il drappo, Dicendo a lui: «Sono giunto all’ultima delle mie albe, Non c’è altro Dio all’infuori di Dio. Combatti per lui.» Il suo occhio era velato d’ombra e cupo di noia, come Di una vecchia aquila che deve abbandonare il cielo. Andò in moschea all’ora abituale, Appoggiandosi ad Alì. Il popolo lo seguiva; E lo stendardo sacro si spiegava al vento. Là, pallido, gridò, e si rivolse alla folla: «Popolo, il giorno si spegne, l’uomo passa e scorre; Noi siamo la polvere e la notte. Dio solo è grande. Popolo, io sono il cieco e sono l’ignorante. Senza Dio sarei vile, più della bestia immonda.» Uno sceicco gli disse: «Capo dei veri credenti, tutti, Non appena ti ascoltarono, hanno creduto alla tua parola! Il giorno in cui sei nato spuntò una stella, E tre torri del palazzo di Cosroe caddero.» Lui riprese: «Sono gli angeli a deliberare sulla mia morte; L’ora sopraggiunge. Ascoltate. Se ho parlato male Di uno di voi, si alzi in piedi, oh popolo, e davanti a tutti Mi insulti e mi oltraggi prima che io mi sottragga; Se ho colpito qualcuno, anche lui mi colpisca.» E, tranquillo, tese ai passanti il suo bastone. Una vecchia, che tosava la lana d’un montone, Seduta su una soglia, gli gridò: «Dio ti assista!» Lui sembrava guardare una qualche visione triste, E meditava; d’improvviso, pensoso, disse: «Ecco, Voi tutti: sono una parola nella bocca di Allah; Sono cenere come uomo e come profeta, fuoco.
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J’ai complété d’Issa la lumière imparfaite. Je suis la force, enfants ; Jésus fut la douceur. Le soleil a toujours l’aube pour précurseur. Jésus m’a précédé, mais il n’est pas la Cause. Il est né d’une vierge aspirant une rose. Moi, comme être vivant, retenez bien ceci, Je ne suis qu’un limon par les vices noirci ; J’ai de tous les péchés subi l’approche étrange ; Ma chair a plus d’affront qu’un chemin n’a de fange, Et mon corps par le mal est tout déshonoré ; Ô vous tous, je serai bien vite dévoré Si dans l’obscurité du cercueil solitaire Chaque faute de l’homme engendre un ver de terre. Fils, le damné renaît au fond du froid caveau, Pour être par les vers dévoré de nouveau ; Toujours sa chair revit, jusqu’à ce que la peine, Finie, ouvre à son vol l’immensité sereine. Fils, je suis le champ vil des sublimes combats, Tantôt l’homme d’en haut, tantôt l’homme d’en bas, Et le mal dans ma bouche avec le bien alterne Comme dans le désert le sable et la citerne ; Ce qui n’empêche pas que je n’aie, ô croyants ! Tenu tête dans l’ombre aux anges effrayants Qui voudraient replonger l’homme dans les ténèbres ; J’ai parfois dans mes poings tordu leurs bras funèbres ; Souvent, comme Jacob, j’ai la nuit, pas à pas, Lutté contre quelqu’un que je ne voyais pas ; Mais les hommes surtout ont fait saigner ma vie ; Ils ont jeté sur moi leur haine et leur envie, Et, comme je sentais en moi la vérité, Je les ai combattus, mais sans être irrité ; Et, pendant le combat, je criais : « Laissez faire !
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Ho completato la luce imperfetta d’Issa. Sono la forza, fanciulli; Gesù fu la dolcezza. Il sole ha sempre un’alba che lo precede. Gesù mi ha preceduto, ma non è la Causa. E’ nato da una vergine che odorava una rosa. Ricordatelo: come essere vivente Non son che un limone annerito dai vizi; Ho subito lo strano approccio di ogni peccato; La mia carne ha più oltraggi che un cammino fango, E il mio corpo è tutto disonorato dal male; Oh voi tutti, sarò ben presto divorato Se nell’oscurità della bara solitaria Ogni colpa dell’uomo genera un verme di terra. Figliuoli, infondo alla fredda fossa il dannato rinasce, Per esser di nuovo divorato dai vermi; La carne rivive sempre, finché la pena, Finita, apre al suo volo l’immensità serena. Figliuoli, sono il vile campo di sublimi combattimenti Uomo tanto d’altezze, che di bassezze, E nella mia bocca il male si alterna con il bene Come nel deserto la sabbia e la cisterna; Ma ciò non impedisce, oh credenti, che io abbia Tenuto testa nell’ombra agli spaventosi angeli Che vorrebbero ripiombare l’uomo nelle tenebre! A volte ho ritorto nei miei pugni le loro braccia funeree; Spesso, come Giacobbe, di notte ho lottato, Passo a passo, contro qualcuno che non vedevo affatto; Ma soprattutto gli uomini hanno fatto sanguinar la mia vita; Su di me gettarono il loro odio e la loro invidia, Ed io, che sentivo in me la verità, Li ho combattuti, ma senza essere irato; E, durante lotta, gridavo: «Lasciate fare!
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Je suis seul, nu, sanglant, blessé ; je le préfère. Qu’ils frappent sur moi tous ! que tout leur soit permis ! Quand même, se ruant sur moi, mes ennemis Auraient, pour m’attaquer dans cette voie étroite, Le soleil à leur gauche et la lune à leur droite, Ils ne me feraient point reculer ! » C’est ainsi Qu’après avoir lutté quarante ans, me voici Arrivé sur le bord de la tombe profonde, Et j’ai devant moi Dieu, derrière moi le monde. Quant à vous qui m’avez dans l’épreuve suivi, Comme les Grecs Hermès et les Hébreux Lévi, Vous avez bien souffert, mais vous verrez l’aurore. Après la froide nuit, vous verrez l’aube éclore ; Peuple, n’en doutez pas : celui qui prodigua Les lions aux ravins du Jebel Kronnega, Les perles à la mer et les astres à l’ombre, Peut bien donner un peu de joie à l’homme sombre. » Il ajouta : « Croyez, veillez ; courbez le front. Ceux qui ne sont ni bons ni mauvais resteront Sur le mur qui sépare Éden d’avec l’abîme, Étant trop noirs pour Dieu, mais trop blancs pour le crime ; Presque personne n’est assez pur de péchés Pour ne pas mériter un châtiment ; tâchez, En priant, que vos corps touchent partout la terre ; L’enfer ne brûlera dans son fatal mystère Que ce qui n’aura point touché la cendre, et Dieu À qui baise la terre obscure, ouvre un ciel bleu ; Soyez hospitaliers ; soyez saints ; soyez justes ; Là-haut sont les fruits purs dans les arbres augustes ; Les chevaux sellés d’or, et, pour fuir aux sept cieux, Les chars vivants ayant des foudres pour essieux ;
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Sono solo, nudo, sanguinante, ferito; così preferisco. Che tutti mi colpiscano! che tutto gli sia permesso! Anche se, precipitandosi su di me, i miei nemici Avessero, per attaccarmi in quella stretta via, Il sole alla loro sinistra e la luna a destra, Non per questo mi faranno indietreggiare!» Ed è così Che dopo aver lottato quarant’anni, eccomi giunto Sul bordo della tomba profonda: Ho Dio di fronte a me, e dietro di me il mondo. Quanto a voi che mi avete seguito in questa prova, Come i Greci Ermes e gli Ebrei Levi, Avete sì sofferto, ma vedrete l’aurora. Dopo la fredda notte, vedrete schiudersi l’alba; Popolo, non ne dubitate: colui che ha elargito I leoni ai dirupi di Jebel Kronnega, Le perle al mare e gli astri all’ombra, Può ben dare un po’ di gioia all’uomo cupo.» E aggiunse: «Credete, vegliate; chinate la fronte. Coloro che non sono né buoni né cattivi resteranno Sul muro che separa l’Eden dall’abisso, Sono troppo neri per Dio, ma troppo bianchi per il crimine; Non c’è nessuno così libero dai peccati Da non meritare un castigo; cercate, Pregando, di toccare la terra con tutto il vostro corpo; L’inferno brucerà nel suo mistero fatale Solo colui che non ha toccato mai la cenere, e Dio A chi bacia la terra oscura, apre un cielo azzurro; Siate ospitali; siate santi; siate giusti; Lassù stanno i frutti puri negli alberi augusti; I cavalli dalle selle d’oro, e, per fuggire ai sette cieli, I carri viventi con fulmini per assali;
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Chaque Houri, sereine, incorruptible, heureuse, Habite un pavillon fait d’une perle creuse; Le gehennam attend les réprouvés; malheur! Ils auront des souliers de feu dont la chaleur Fera bouillir leur tête ainsi qu’une chaudière. La face des élus sera charmante et fière. » Il s’arrêta, donnant audience à l’esprit. Puis, poursuivant sa marche à pas lents, il reprit : « Ô vivants ! je répète à tous que voici l’heure Où je vais me cacher dans une autre demeure ; Donc, hâtez-vous. Il faut, le moment est venu, Que je sois dénoncé par ceux qui m’ont connu, Et que, si j’ai des torts, on me crache au visage. » La foule s’écartait muette à son passage. Il se lava la barbe au puits d’Aboulféia. Un homme réclama trois drachmes, qu’il paya, Disant : « Mieux vaut payer ici que dans la tombe. » L’œil du peuple était doux comme un œil de colombe En regardant cet homme auguste, son appui ; Tous pleuraient ; quand, plus tard, il fut rentré chez lui, Beaucoup restèrent là sans fermer la paupière, Et passèrent la nuit couchés sur une pierre. Le lendemain matin, voyant l’aube arriver : « Aboubèkre, dit-il, je ne puis me lever, Tu vas prendre le livre et faire la prière. » Et sa femme Aïscha se tenait en arrière ; Il écoutait pendant qu’Aboubèkre lisait, Et souvent à voix basse achevait le verset ; Et l’on pleurait pendant qu’il priait de la sorte. Et l’ange de la mort vers le soir à la porte Apparut, demandant qu’on lui permît d’entrer. – Qu’il entre. – On vit alors son regard s’éclairer De la même clarté qu’au jour de sa naissance; Et l’ange lui dit: – Dieu désire ta présence. – Bien, dit-il. Un frisson sur ses tempes courut, Un souffle ouvrit sa lèvre, et Mahomet morurut. 1858
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Ogni Huri, serena, incorruttibile, felice, Abita un antro fatto di una perla cava. La gehenna attende i reprobi. Oh sventura! Avranno scarpe di fuoco il cui calore Farà ribollire le loro teste come una caldaia. Ma gli eletti saranno affascinanti e fieri.» Si fermò e ascoltò il suo spirito. Poi, continuando il cammino a passi lenti, riprese: «Oh viventi, ripeto a tutti ch’è giunta l’ora In cui mi occulterò in altra dimora! Sbrigatevi dunque. Il momento è giunto, bisogna Che io sia denunciato da chi mi ha conosciuto: Se ho dei torti, che mi si sputi in faccia.» La folla si faceva da parte al suo passaggio, muta. Si lavò la barba ai pozzi d’Abulfeia. Un uomo reclamò tre dracme, che egli pagò Dicendo: «Meglio pagar qui che nella tomba.» L’occhio del popolo era dolce come un occhio di colomba Mentre guardava quell’uomo augusto, suo sostegno; Tutti piangevano; quando, più tardi, fece ritorno a casa, Molti si trattennero lì vicino, senza chiudere occhio; E passarono la notte sdraiati su una pietra. L’indomani mattina, vedendo l’alba arrivare: «Abubekre, disse, non mi posso alzare, Va’, prendi il libro e recita la preghiera.» E sua moglie Aischa se ne stava in disparte; Lui ascoltava mentre Abubekre leggeva, E spesso, a basa voce, concludeva il versetto; Tutti piangevano, mentre pregava a quel modo. L’angelo della morte apparve verso sera Alla porta, chiedendo che lo si facesse entrare. «Che entri.» Si vide allora che lo sguardo gli si illuminava Di quella stessa luce del giorno in cui nacque; E l’angelo gli disse: Dio desidera la tua presenza. – Va bene, rispose. Un brivido gli percorse le tempie E un soffio gli aprì le labbra. Morì Maometto. 1858
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MANUELE MASINI PER-VERSIONI D’AUTORE
Que Deus nos dê uma morte serena sem mêdo do inferno, nem ânsia do paraíso, mas apenas com vontade de fechar os olhos e d’escutar Ya-Sin, Amin. Che Dio ci dia una morte serena senza timore dell’inferno, né ansia del paradiso, col semplice desiderio di chiudere gli occhi e di ascoltare Ya-Sin, Amin. citato da António Barahona, Setenta Anos-O Som do Sôpro Et moi qui n’ai pas d’autre arme, dans le monde de César, que la parole, moi qui n’ai d’autre monnaie, dans le monde de César, que des mots, parlerai-je? René Daumal, La Guerre Sainte
Il silenzio che si tesse o che alcuni hanno intessuto attorno a figure come quella di António Barahona (alias Muhammad Abdur Rashid Ashraf) è forse la più significativa testimonianza dello statuto trasgressivo (e per questo, etimologicamente, “trascendente”), della poesia. In un testo ironico-amaro l’autore, autentico “cercatore d’oro” nelle librerie antiquarie e d’occasione, ci ricorda il “valore di mercato” della poesia, dopo aver comprato per un euro alcuni volumi introvabili. E con più forza già rievocava nel suo poema Patria Mia il canto XLV di Pound (With Usura). Il suo “essere fuori” (forse involontario) da ogni legge di mercato (più di qualsiasi altro prodotto artistico) rende la poesia luogo geometrico della libertà (come destino), dell’indipendenza, di una paradossia costante, vuoto attraverso il quale ancora si rende possibile un gesto rigoroso che consente “il passo al di là”, l’emozione dell’aurora, l’accettazione della morte, la compresenza di corpo e spirito, in sostanza, la gravità della grazia (Simone Weil) che completamente svincolata dalle circostanze affronta quei temi tabù che sono quelli che veramente raccontano l’essere umano (e raccontano il divino, la precarietà e il dubbio), la voce necessaria e imprevista di tutto ciò che veramente conta, in un “paese” (in un pianeta) in cui, pare, “non si può dire ciò che veramente interessa” (Mário Cesariny). Questa l’idiosincrasia (sempre in senso etimologico) di António Barahona, 217
evidente nella mobilità costante della sua poesia, nelle edizioni (rare, spesso d’autore), che hanno accolto i suoi primi passi perversi (“Il poeta è perverso, / cioè, etimologicamente: / cammina per il verso”). Ricorda, nel recente volume, O Som do Sôpro. Ancora più impalpabile la poesia che rimane inedita, viva nella lettura, e che solo si deciderà a pubblicare nel rifiuto di qualsiasi compromesso. Viva e luminosa la poesia che si respira nei silenzi dell’autore, nello sguardo, nell’amicizia con cui apre la porta della sua casa. La poetica, la pratica della poesia, e la preoccupazione umana, carnale e spirituale, di Barahona (in un tutto unico) si proiettano nelle varie modalità con cui, pur in un’irregolarità dichiarata, ci ha offerto preziosi regali, capaci di rompere il frastuono non poche volte ridicolo dei “poeti da rotocalco”. Poeta della sua poesia, poeta nelle sue “trans-creazioni” e nella poetica del tradurre che da sempre difende (ricordiamo la traduzione della Fedra di Racine, o de La Guerra Santa di René Daumal, entrambe seguite da attente riflessioni; o l’impresa umile e piena di dedizione che la “trans-creazione” della Bhagavad Gita ha significato per la lingua portoghese, e per la quale l’autore ha per anni studiato sanscrito), poeta, infine, come editore di poeti, che riesce, specialmente nei casi memorabili delle edizioni di Camilo Pessanha e Cesário Verde, a usare il rigore senza scadere in uno snaturante filologismo da quattro soldi. Poeta, per concludere, nel recupero dell’autentica poesia portoghese in un dialogo elettivo di “voci comunicanti” (come voleva Herberto Helder), la cui difficile e sofferta esistenza “perversa” è non poche volte relegata a edizioni introvabili e, se vive di vita propria nella “poesia della poesia”, marcisce suo malgrado per la miopia e smemoratezza di molti, l’oblio dei dipartimenti universitari, il mercantilismo prevalente degli editori. Raúl Leal, Gomes Leal, Ângelo de Lima, per non citare altri autori, sono non meno penalizzati per ragioni varie, stazionano ancora nell’“anticamera” della sedicente critica, vittime di un micidiale equivoco capace di devitalizzarne ogni istanza. António Barahona vive e scrive la poesia fin dalla fine degli anni ’50, è stato segnato dagli ultimi guizzi ancora autentici del surrealismo portoghese, esperienza certamente fondamentale, anche perché in certa misura già distante dal Breton più ortodosso. E del resto ricorda Barahona: Il surrealismo mi ha insegnato, quando avevo diciotto anni, che l’obiettivo dell’attività poetica consiste nella conoscenza del destino eterno dell’uomo. Ma paradossalmente, allo stesso tempo, mi ha impedito il cammino della trascendenza. […] Colui che ricerca la conoscenza attraverso la scrittura e la Scrittura, potrà raggiungere il suo obiettivo solo transitando dal piano poetico al piano spirituale. (prefazione alla sua “trans-creazione” da La Guerra Santa di Daumal, Lisbona, Assírio & Alvim, 2002).
Ha successivamente praticato un moderato sperimentalismo, è stato vicino a quel nodo significativo della poesia portoghese che sul finire degli anni ’50 e verso l’inizio degli anni ’60 ne ha letteralmente cambiate le sorti (Helder, Poesia 61 – soprattutto Luiza Neto Jorge e Fiama Hasse Pais Brandão – e, nella loro posizione distante, un Ruy Belo, un Carlos de Oliveira). Ma è soprattutto dopo la conversione al sufismo che comincia un percorso poetico e spirituale che lo colloca fra i poeti più intensi del Novecento lusofono. L’esteso componimento qui pubblicato (apparso per la prima volta in un’edizione d’autore e successivamente nella rivista portoghese Telhados de Vidro, n. 14, 2010) s’inserisce in 218
una poetica certo non estranea ad autori e tempi prossimi a Barahona, in cui la traduzione, la rilettura, l’intertestualità, il commento critico, la riscrittura, l’omaggio, l’antologia come l’edizione confluiscono tutti in un gesto poetico analogo, in quell’“amore per il testo” di cui parla Fiama Hasse Pais Brandão. Il “ciclopico atto” che è la traduzione del Bhagavad Gita, ha del resto scavato percorsi sempre più in profondità nella poetica (e poetica della “trans-creazione”) di Barahona, unendo il piano prettamente strutturale e formale (linguistico, grammaticale, metrico, ritmico e fonosimbolico), a un non dissociabile piano metafisico e inducendolo ad affermazioni luminose come questa: La presenza del Mistero si rivela una constante: gli attori, parlando gli uni con gli altri, e gli uni dentro gli altri, si rivolgono, in verità, non al pubblico, né a nessun altro, nemmeno a se stessi, ma all’Infinito, all’unico Dio. (postfazione alla sua traduzione della Fedra, Porto Editora, 2003).
Nella scrittura della Leggenda di Muhammad confluiscono da un lato una lunga esperienza nell’ambito della “trans-creazione” dal francese e l’incontro con un testo poco conosciuto di Victor Hugo, che Barahona scopre, significativamente, in una libreria antiquaria, dall’altro la profonda cultura dell’Autore riguardo a temi di natura teologica, religiosa e spirituale, specialmente nell’ambito dell’islamismo. In questo senso il rifacimento del testo, in cui tuttavia si riconosce e si rincontra vivo il poema di Hugo, è pressoché integrale ma l’amplificatio della narrativa, ovvero la riformulazione di alcune parti secondo una più profonda conoscenza della tradizione islamica, la correzione dei nomi propri nel rispetto della tradizione e dell’originale arabo, alcuni momenti di sintesi, e, quel che più conta, il ripensamento d’immagini, forme poetiche, soluzioni stilistiche conferiscono al poema un respiro ancora più intenso, delicato e più sentito dall’interno rispetto all’originale. Barahona traduttore incarna quella terza voce, quel “terzo testo” e quella “terza lingua” che si costruisce dall’originale, per diventare un originale suis generis, di cui alcuni teorici ci parlano, sulla scorta delle riflessioni di Benjamin sulla “pura lingua” (e “pura poesia”), cui si accede al di là dei codici. Peraltro La Leggenda di Muhammad dialoga da vicino con le preoccupazioni spirituali e poetiche di Barahona, e soprattutto con il suo ultimo libro, O Som do Sôpro, come evidenzia l’epigrafe a questa breve nota. Voglio infine ricordare che, nei limiti del possibile, e nel rispetto dell’attenzione formale, prosodica e ritmica dell’Autore, ho voluto rispettare la scelta del dodecasillabo sciolto, dichiarata fin dal sottotitolo dell’opera, e che costituisce, come sottolinea Barahona nell’introduzione alla sua Fedra rifacendosi a una vasta bibliografia sulla versificazione, quello che, in portoghese come in italiano, più si avvicina alla sostanza dell’alessandrino francese.
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HANNO COLLABORATO
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MASSIMO BACIGALUPO, nato a Rapallo (dove vive tuttora) nel 1947, insegna Letteratura angloamericana presso il Dipartimento di lingue dell’Università di Genova. È autore di L’ultimo Pound (Storia e letteratura, 1981), Grotta Byron (Campanotto, 2000) e di molti studi e traduzioni, tra cui: Emily Dickinson, Poesie (Mondadori); Wallace Stevens, Il mondo come meditazione (Guanda, 2010) e recentemente in Tutte le poesie (Meridiani Mondadori, 2015); Ezra Pound, Canti postumi (Mondadori, 2002) e XXX Cantos (Guanda, 2012); Henri Cole, Autoritratto con gatti (Guanda, 2010); Hilda Doolittle, Fine al tormento (Archinto, 2013). Ha curato le edizioni italiane delle opere di T. S. Eliot, Robert Frost, Seamus Heaney e altri. Ha ottenuto il Premio Monselice per la traduzione letteraria con la sua versione del Preludio di William Wordsworth, il Premio Marazza con Beowulf di Seamus Heaney e il Premio Nazionale di Traduzione. Suoi testi critici sono inclusi nei volumi Letture montaliane. In memoria di Franco Croce (2010), T. S. Eliot in Context (2011), Per Edoardo Sanguineti: lavori in corso (2012).
DONATELLA BISUTTI di poesia ha pubblicato Inganno Ottico (Guanda, 1985, premio Montale Inedito, tradotto da Bernard Noël in Francia 1989); Penetrali (Boetti & C., 1989); Violenza (Dialogolibri, 1999); La nuit (Éditions Unes, 2000); Bestiario Fantastico (Viennepierre, 2002); La Vibración de las Cosas (SIAL, Madrid, 2002); Colui che viene (Interlinea, 2005, premio Camposampiero e Davide Turoldo); The Game (New York, Gradiva, 2007). Sulla poesia: L’Albero delle Parole (Feltrinelli, 2002); Le Parole Magiche (Feltrinelli, 2008); La Poesia salva la vita (Mondadori, 1992, Feltrinelli Tascabili, 2009); La poesia è un orecchio (Feltrinelli, 2012). Il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri è uscito da Bompiani (1997). Nel 2011 è uscito Rosa Alchemica, Crocetti, Premio Lerici Pea, Premio Camaiore, Premio Laudomia Bonanni Città de L’Aquila, nel 2013 Un amore con due braccia (Lietocolle, Premio Alda Merini,) e nel 2015 ha pubblicato con Empiria Dal buio della terra. Ha fondato nel 2008 la rivista Poesia e Spiritualità e attualmente dirige la rivista Poesia e Conoscenza. E’ Fellow della Bogliasco Foundation e fa parte del direttivo dell’Unione Lettori Italiani. Redige La poesia italiana all’estero su Poesia.
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MARISA BRECCIAROLI, nata a Senigallia, vive a Bergamo dove, dopo anni di docenza in Lettere, conduce Laboratori di poesia e musica, avvalendosi della sua formazione in Musicoterapia. Oltre alle raccolte di poesia Psyche. Le anime della Parola (Quaderni del gruppo Fara, 1988, finalista al Montale1988), …è stata la cicogna. La Memoria dell’Immemoria, (Nuove scritture 1991), Geografie d’Anima, (El Bagatt, 1995), Trasparenze (Campanotto, 2000), Una poesia (Pulcinoelefante, 2008), Il viaggio dall’assenza all’Assenza (Lavorodopo, 2009), ha pubblicato poesie in riviste letterarie e in antologie di poesia, e filastrocche poetiche nel libro Giocayoga, di Lorena Pajalunga (Il Punto d’incontro, 2007). È fra gli autori del Dizionario italiano-francese (RobertSignorelli, 1981). Oltre a un contributo nel volume Paul Claudel en Italie di Henri Giordan (Klincksieck, 1975), ha tradotto poeti francesi per l’Antologia Europea a cura di Fabio Doplicher (Centro Internzionale di Fano 1991) e figura in un saggio di Christian Gaillard sulla psicoanalisi dell’arte, Donne in mutazione (Moretti e Vitale, 2000). Ha composto e pubblicato poesia visiva e sonora, presente anche nella rassegna storica Oltre i confini della parole del 1993. È stata membro di giuria nei premi Narrativa Bergamo, San Pellegrino e Pontedilegnopoesia. Porta avanti da anni una sua ricerca nel campo della Poetry therapy. A Ponte di Legno, uno dei totem che contrassegnano il “Paese della Poesia”, è dedicato alla sua poesia Le verità della montagna. ANNA MARIA CARPI è nata e vive a Milano. Ha insegnato letteratura tedesca nelle Università di Macerata e di Venezia. È autrice di saggi (su Celan, Benn, Mann, Handke), di racconti e di quattro romanzi, due dei quali apparsi anche in tedesco (E sarai per sempre giovane, Forever young, Rowohlt, 1997, e Kleist, ein Leben, Insel 2011). Nel 2014 ha vinto il premio Carducci. È traduttrice della lirica tedesca (Nietzsche, Rilke, Benn, Enzensberger, Gruenbein, Krueger e altri) e ha vinto il Premio ministeriale per la traduzione 2011 e il Premio S. Elpidio 2014. Ha esordito in poesia con A morte Talleyrand (Campanotto, 1993, prefazione di Niva Lorenzini), cui seguono per Scheiwiller Compagni corpi (Collana Raboni, 2004), E tu fra i due chi sei (2007, terna Viareggio 2008), per Transeuropa L’asso nella neve (2011, Premio Minturniae, terna Viareggio 2011) e Quando avrò tempo (2013), poi per La Vita Felice L’animato porto (2015). Sue poesie sono apparse sull’Almanacco dello Specchio 2009, su Nuovi Argomenti, Le parole e le cose, Italian Poetry (6, 2013), Oktjabr (Mosca 6, 1998), e sulla monacense Akzente (5, 2001 e 3, 2011). Dalle raccolte è stato tratto il volume Entweder bin ich unsterblich, Hanser, Monaco 2015, testo a fronte, trad. di P. Salabé, postfazione di Durs Grünbein, e contiene una poesia e una scheda biografica dell’autrice. L’edizione Hanser è stata presentata a Roma alla Casa di Goethe, a Darmstadt (Stadtkirche), a Graz (Literaturhaus), all’Istituto di cultura italiana di Monaco e a Berlino. Nell’aprile scorso è uscita da MarcosyMarcos un’antologia tratta dall’opera completa, E io che intanto parlo, con prefazione di Fabio Pusterla. (www..annamariacarpi.org). 223
FRANCESCA MARIA CORRAO, ordinario di Lingua e Cultura Araba presso la Luiss University di Roma, ha insegnato all’Università di Napoli “L’Orientale”. Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Orestiadi di Gibellina. Membro delle Associazioni UEAI (Union of European Arabist and Islamist), EMTAR (European professor of Modern Arabic Literature), e IOP (Institute of Oriental Philosophy) della Soka University di Tokyo. Visiting professor alle Università del Cairo, Beirut, Tunisi, Damasco, Parigi e Cambridge. I campi di interesse sono: Letteratura Araba, Comparatistica, Antropologia, Cultural Studies, Storia del Mondo Arabo e Studi Mediterranei. Tra le pubblicazioni e curatele: Poeti Arabi di Sicilia (Mesogea, 2002); Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio (Mondadori, 1991); Il riso, il comico e la festa al Cairo nel XIII secolo. Il teatro delle ombre di Ibn Dâniyâl,, (Istituto per l’Oriente 1996); Adonis. Nella pietra e nel vento (Mesogea 1999); Le opinioni e l’informazione nei Paesi arabo-islamici dopo l’11 settembre (in Giano n. 40, 2002); Antologia della Poesia Araba, (La Biblioteca di Repubblica, 2004); In un mondo senza cielo. Antologia di poesia palestinese (Giunti, 2007); Le rivoluzioni Arabe. La transizione Mediterranea (Mondadori, 2011); Islam, religione e politica (Luiss University Press, 2015); L’approdo di Ulisse. Il Mediterraneo dei poeti. XXX anni di poesia alla Fondazione Orestiadi di Gibellina (Ernesto di Lorenzo editore in stampa). Ha tradotto: Adonis, In onore del chiaro e dello scuro (Archivi del ‘900, 2005) e Ecco il mio nome (Donzelli, 2009); Mahmud Darwish, La mia ferita è una lampada ad olio (De Angelis, 2006); Muhammad Bannìs, Il mediterraneo e la parola (Donzelli, 2009). MARIASTELLA EISENBERG, nata a Napoli vive a Caserta; docente nell’Istruzione classica e poi Dirigente negli Istituti superiori. Di concerto con la Fondazione Premio Napoli, ha organizzato un gruppo di lettura presso il carcere di Lauro; ha avuto incarichi direttivi nell’Associazione Neuro Fibromatosi e nel Comitato per l’abbattimento delle barriere architettoniche; ha redatto rubriche settimanali sulla diversabilità per il periodico Il Caffè; con l’associazione casertana Spazio donna, è intervenuta a favore delle donne vittime di violenza; ha fatto parte per un triennio della Commissione per le Pari Opportunità della Provincia di Caserta. Membro del direttivo della rinnovata rivista Sud, ha pubblicato: Perché ancora i Promessi Sposi (Marimar, 1989); Sara (Guida, 2005); Carovita (Lettere arti scienze, 2009); Chiedi alle mani (Sovera, 2009); Alfabetando (L’Aperia, 2011, con pref. di Luigi Trucillo); Cantico nella parola svelata (Compagnia dei Trovatori, 2013, con pref. di Silvio Perrella e nota di Bruno Galluccio); Madri vestite di sole (Interlinea 2013, con pref. di Giampiero Neri e nota di Andrea Renzi); Viaggi al fondo della notte - La migranza L’erranza La viandanza, (Oèdipus 2015, con pref. di Ugo Piscopo e nota di Maram al-Masri).
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CAROLINE FRANÇOIS-RUBINO nasce nel 1960. È un’artista francese che lavora spesso a progetti di collaborazione con poeti, tra cui Salah Stétié, François Rannou, Sabine Huynh, Roselyne Sibille, Luigia Sorrentino, Michaël Glück e Sanda Voïca. Ha collaborato alla stesura di due libri con John Taylor, Boire à la source / Drink from the Source (Éditions Voix d’Encres, 2016) e Hublots / Portholes (Éditions L’Oeil Ébloui, di prossima pubblicazione). Vive vicino a Pau, in Francia. Il suo sito è http:// www.caroline-francois-rubino.com/.
PATRIZIA GIOIA, poetessa e designer, scrive e opera affinché il dialogo inter/intra-religioso e culturale possa divenire stile di vita. Membro della Fondazione svizzera Arbor, che ha avuto come primo presidente Raimon Panikkar, ne cura la parte culturale creando momenti di riflessione, con una particolare attenzione al pensiero simbolico nell’esperienza mistico-religiosa al crocevia tra Occidente e Oriente. Come co-direttrice artistica di PoesiaPresente ha sperimentato azioni di poetry therapy negli ospedali. Il suo ultimo libro di poesia Tita, su una gamba sola (Mille Gru, 2012) è il primo volume della collana TITA, dove è il bambino a creare cultura per l’adulto. Una sua antologia di poesie compare anche nel secondo volume della collana TITA, Scacciapensieri (2015). Autrice di libri e articoli, fonda nel 2000 SpazioStudio13, luogo di incontro e di confronto esperienziale.
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ANDREA LANFRANCHI è nato a Civitanova Marche, attualmente vive e lavora a Fermo; di poesia ha pubblicato: vociverse (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2009, Premio Autori per l’Europa); Corpo di reato (Fara Editore, 2009); A14 (Wizarts Editore, 2010, silloge finalista alla XII edizione del Premio Poesia di Strada); la plaquette La Pesa (La Luna, 2010); Cantiere in luce (CFR editore, 2014, Premio Fortini). Sue poesie sono contenute nelle seguenti antologie: Dire la Vita (Anterem, 2008, Premio Montano); Retroguardie (Limina Mentis, 2009); Tutti tranne te (Limina Mentis, 2010); Le parole disabitate (Le voci della Luna, 2010, Premio Mezzago Arte); La torre dell’Orologio (Pro Loco di Porto Sant’Elpidio, 2011, Premio Città di Porto Sant’Elpidio). È inoltre presente nelle seguenti riviste letterarie, cartacee e on-line: Le voci della Luna, Argo, Arcipelago Itaca, La dimora del tempo sospeso. Collabora con l’associazione culturale “La Luna”.
GIUSEPPE LANGELLA è nato a Loreto (Ancona) nel 1952 e vive a Milano, dove insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università Cattolica e dirige il Centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”. Inoltre, tiene corsi di Didattica della letteratura, svolge attività di formazione e aggiornamento degli insegnanti, è coordinatore nazionale della “Mod per la Scuola” e autore di un apprezzato manuale ad uso dei licei (Letteratura.it), per Bruno Mondadori. Studioso di Manzoni e di Svevo, della letteratura risorgimentale e dell’ermetismo, si è occupato anche di riviste militanti, di scrittori cattolici e di prosa d’arte. Come poeta ha esordito con Giorno e notte. Piccolo cantico d’amore (San Marco dei Giustiniani, 2003). Con Il moto perpetuo (Aragno, 2008) ha vinto il Premio Metauro. Nel 2013 ha dato alle stampe, nella “Lyra” di Interlinea, La bottega dei cammei. 39 profili di donna dalla A alla Z, Premio Casentino. Nel 2015, sempre per Interlinea, nella collana “Passio”, ha pubblicato il Reliquiario della grande tribolazione, ispirato al calvario della Grande Guerra. Suoi testi compaiono in diverse antologie tematiche. A Ponte di Legno, “paese della poesia”, gli è stato dedicato un totem con incisa una sua lirica. Con Guido Oldani è tra i fondatori del “Realismo terminale”. 226
GIORGIO LINGUAGLOSSA è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi tra cui Nelly Sachs e alcune poesie di Georg Trakl. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura Poiesis che dal 1997 ha diretto fino al 2005. Nel 1995 firma, con Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher, il Manifesto della Nuova Poesia Metafisica, pubblicato sul n. 7 di Poiesis. È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto. Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia negli Atti del convegno È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo (Passigli, Firenze). Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (19802010) (EdiLet, Roma) e il romanzo Ponzio Pilato (Mimesis, Milano). Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945-2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori) (Passigli, Firenze), e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000-2013) (Società Editrice Fiorentina, Firenze). Nel 2015 escono La filosofia del tè (Istruzioni sull’uso dell’autenticità) (Ensemble, Roma), e Three Stills in the Frame. Selected poems (1986-2014) (Chelsea Editions, New York). Nel 2016 esce il romanzo 248 giorni (Achille e la Tartaruga). Ha fondato la rivista telematica: lombradelleparole.wordpress.com. FULVIO CESARE MANARA è ricercatore e professore aggregato presso l’Università di Bergamo, dove si occupa di educazione al pensare e di pratiche della comunità di ricerca filosofica, di educazione alla nonviolenza e alla trasformazione nonviolenta dei conflitti. È infatti referente (e fondatore) dentro l’Ateneo bergamasco di due “Comunità di Ricerca”: una, la CdR³, dedicata alle pratiche della stessa comunità di ricerca filosofica, e l’altra, ispirata all’opera di Raimon Panikkar, dedicata a “Culture, religioni, diritti, nonviolenza”.
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MANUELE MASINI è nato a Massa Marittima nel 1978. Laureato in Filologia Romanza con Valeria Bertolucci e dottorato in Studi Portoghesi e Critica Testuale a Lisbona, con Fernando Cabral Martins, si interessa di culture e letterature iberiche in tutte le loro proiezioni linguistiche e geografiche. Più volte borsista di importanti istituzioni in Portogallo, Spagna, Francia e Brasile, ha svolto progetti di ricerca e di traduzione soprattutto nell’ambito della poesia e del cinema, ed è autore di monografie, articoli e di numerose traduzioni (in volume o in rivista) dal portoghese, castigliano, gallego, catalano e francese. È ricercatore della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia (Portogallo), presso l’Istituto di Studi di Letteratura e Tradizione dell’Università Nova di Lisbona, dove gli assi della sua ricerca interessano soprattutto la poesia medievale e la sua relazione con la poesia contemporanea, la poesia iberica contemporanea, la critica del testo, lo studio di ricorsi poetici nella prosa contemporanea, la poetica della traduzione e la relazione fra cinema e poesia.
GIAMPIERO NERI è nato a Erba nel 1927. Ha pubblicato le seguenti opere di poesia: L’aspetto occidentale del vestito (Guanda, 1976), Liceo (Guanda, 1986), Dallo stesso luogo (Coliseum, 1992), tutte confluite nella raccolta Teatro naturale (Mondadori, 1998). Nel 2004 ha pubblicato Armi e mestieri (Mondadori), nel 2009 Paesaggi inospiti (Mondadori) e nel 2012 Il professor Fumagalli e altre figure (Mondadori). Un’edizione Oscar Mondadori delle sue poesie è uscita nel 2007.
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ANGELA PASSARELLO, agrigentina, vive e lavora a Milano. È stata redattrice della rivista Il Monte Analogo. Ha collaborato con La Mosca di Milano. Ha pubblicato la raccolta di racconti Asina Pazza (Greco e Greco, 1997); la raccolta di poesie La carne dell’Angelo (ed. Joker, 2002); le prose poetiche Ananta delle voci bianche (Quaderni di Correnti, 2008); Piano Argento (Edizioni del Verri 2014); Pani Scrittu (Edizioni del Pulcino Elefante, 2015). Dipinge narrazioni su tela e ceramica.
DARIO FRANCESCO PERICOLOSI è nato a Milano nel 1958, dove vive e lavora. Designer, blogger, storyteller, autore ed editore, ha pubblicato in proprio: Via Plinio (poesie, 1986); Parole d’acquerello (coproduzione con Maria Luca poesie, 1999); e-iliade (poesie, 2000); Poetica-mente (poesie, 2002); Lambro (poesie, 2005); Terra forzata (poesie, 2008); Poesie e racconti (antologia multimediale, 2011); Le stelle mi guardano benevole (racconto per azienda, 2011); Il profumo dei colori (racconto per azienda, 2011). Ha pubblicato con la piattaforma Narcissus gli ebook: Il rivenditore di stelle zuccherate (racconto, 2014); Il Natale del Signor Bonefeste (racconto, 2014); Viaggio nella storia della poesia italiana (racconti, 2015). Nel 2006 ha vinto il primo premio del concorso milanese “Poeti in galleria” organizzato da Alba Libri editore. Nel 2011 ha messo online il blog “Calcio alla Poesia”. Dal 2013 è blogger director del giornale web “Odissea” diretto da Angelo Gaccione. Fa parte del gruppo “I Poeti dell’Ariete”.
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ANDREA PEVERELLI è nato nel 1994 a Milano, dove vive. Laureando in Lettere moderne all’Università Cattolica di Milano, si interessa, oltre alla ricerca poetica, al cinema e agli audiovisivi. Sue poesie sono state pubblicate nel numero 104, Giugno 2016, della rivista Il Segnale. Insieme a Lorenzo Vercesi, conduce un blog sulla poesia contemporanea (I peoti del pasgravio), e organizza eventi e letture di poesia. È redattore della rivista Poesia e Conoscenza.
LUCIANO RAGOZZINO è nato e vive a Milano, dove ha conseguito il diploma alla Scuola superiore degli artefici di Brera. Ha collaborato, fra gli altri, con gli editori Pulcinoelefante, La Vita Felice, Interlinea, Fabrizio Mugnaini, Edizioni dell’Ombra, Lietocollelibri, Quaderni di Orfeo, illustrandone i testi con incisioni per le quali utilizza principalmente la tecnica dell’acquaforte. Vincitore di premi internazionali e del premio delle Arti e della Cultura a Milano per il settore della grafica (2005), pubblica in proprio le edizioni de Il ragazzo innocuo (anagramma del suo nome), in tiratura limitata.
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STEFANIA SCARNATI, scultrice, pittrice, incisore è nata a Milano, città in cui vive e lavora. Ultimati gli studi artistici, ha allestito, a partire dal 1975, innumerevoli personali di pittura, scultura ed incisione in Italia e all’estero. Numerose le rassegne d’arte a cui ha preso parte in Europa e negli Stati Uniti, conseguendo premi e riconoscimenti. Nel 2001 una sua personale con più di 80 opere viene presentata al Parlamento Europeo di Bruxelles. Nel 2002 presenta sculture e dipinti nella personale “Talismani di Luce” al Palazzo delle Stelline a Milano. Nel 2004 è inserita nel volume 40 e più donne per Milano edito da F. Motta Editore. Dal 2005 alle mostre di pittura, scultura e incisione si affiancano quelle di “sculture da indossare”: creazioni di arte orafa. Nel 2012, usando vini pregiati come pigmenti, presenta con l’Associazione Italiana Sommelier la personale dal titolo “Vino su Tela”. Nel marzo 2014, invitata dalla Provincia di Milano, è presente a Palazzo Isimbardi con la personale “Respiro” con più di 20 incisioni in acquaforte pubblicate nel libro omonimo. Nel maggio 2015 più di 70 grafiche monotipo, realizzate con tecniche sperimentali, vengono presentate nella personale allestita da Miroglio Piazza della Scala a Milano, patrocinata dal Club Zonta di cui l’artista fa parte dal 1999. Innumerevoli i Volumi e i Libri d’Artista con opere di Stefania Scarnati, corredati dai suoi testi o da composizioni poetiche di artisti contemporanei. Tutta la produzione di Stefania Scarnati è denominata Artépore® dal greco “pore, porèia”, ossia cammino, percorso. Il suo sito è www.stefaniascarnati.net CARLO SEVERGNINI, nasce a Milano nel 1952. Oltre all’attività di commercialista ha diversi altri interessi e partecipa attivamente a vari enti e associazioni non profit e di volontariato, tra cui la Raccolta Bertarelli del Castello Sforzesco di Milano, l’UVI -Unione Volontari per l’Infanzia, il Touring Club Italiano e i 100 Amici del Libro. Storico dell’equitazione ha pubblicato: A cavallo nel milanese (Fucina Editori, 2000) e I cavalli, i cani, e… la volpe? (Società Milanese per la Caccia a Cavallo, 2001). Appassionato di viaggi alla ricerca de “l’altro rispetto a noi” ha pubblicato: Confini di sabbia (Edizioni Nuove Scritture, 2005), La strada del Sempione e i Visconti in Milano verso il Sempione, raccolta di saggi a cura di Roberta Cordani (CELIP 2006) e A cavallo nel Bel Paese e altrove in Viaggiar Lento, raccolta di saggi a cura di Roberto Lavarini (Hoepli, 2008). Ha pubblicato la raccolta di poesie Per un Tempo più Lento (Bolzani, 2013).
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MAURIZIO SPATOLA è nato nel 1946 a Stradella (Pavia) e vive attualmente a Sestri Levante. Ha studiato al liceo classico Galvani di Bologna, a due passi dalla Osteria di via dei Poeti, frequentata dai futuri protagonisti dell’avanguardia letteraria bolognese. Interrotti gli studi universitari di filosofia e intrapresa a Torino la carriera giornalistica, ha lavorato a lungo per l’Editrice La Stampa e in seguito come free lance per diversi periodici. Ha fondato con il fratello Adriano, nel 1968, le edizioni Geiger, di cui ha curato le note antologie sperimentali. Le edizioni Geiger, attive fra l’Emilia e il capoluogo piemontese nel campo della sperimentazione artistica e letteraria, hanno pubblicato, artigianalmente e in tirature limitate negli anni ’70/’80, libri e riviste, la più nota delle quali è il periodico di poesia Tam Tam, diretto da Adriano Spatola e Giulia Niccolai. Poesie concrete e visuali di Maurizio Spatola sono state pubblicate fra il 1967 e il 1972 nell’antologia integrante il libro di Ezio Gribaudo Il peso del concreto (Torino 1968), nell’antologia Il gesto poetico a cura di Luciano Caruso e Corrado Piancastelli (Uomini e idee n.18, 1968) e sulle riviste Chicago Review (USA), Ovum 10 (Uruguay), La Battana e Signal (Yugoslavia), Approches e Doc(k)s (Francia), Mec, Pianeta, Quindici e Tool (Italia). Suoi scritti sulla poesia d’avanguardia sono apparsi su alcuni quotidiani e varie riviste letterarie, come Avanguardia, Fermenti, Il Verri, Steve, Testuale. Nel 2001 ha perso l’uso della vista. Nonostante ciò, convinto che la realtà e l’esistenza stessa siano il prodotto di un paradosso patafisico, continua ad occuparsi di poesia visuale e arti visive, e nel 2009 ha fondato il sito www. archiviomauriziospatola.com.
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GIANCARLO STOCCORO è nato a Milano nel 1963 e vive a Spino d’Adda (CR). È psichiatra, psicoterapeuta, saggista e poeta. Studioso di Georg Groddeck, ha curato l’edizione italiana della biografia (Georg Groddeck Una vita, di W. Martynkewicz, Il Saggiatore, 2005) e il saggio Pierino Porcospino e l’analista selvaggio, con scritti inediti di Groddeck e di Ingeborg Bachmann e il contributo di autori vari per ADV Publishing House di Lugano. Oltre all’attività clinica, si occupa di formazione e conduce incontri sulla relazione medico-paziente secondo la metodica dei Gruppi Balint e ha pubblicato diversi lavori su riviste scientifiche. Suo è il primo saggio che esplora il cinema associato al Social Dreaming (sognare sociale/sognare assieme): Occhi del sogno. Cinema e Social Dreaming (Giovanni Fioriti editore, 2012). Nel settembre 2015 è uscito il saggio I registi della mente (Falsopiano editore), curato da Ignazio Senatore, contenente il lavoro Ciak. Si sogna! L’esperienza di Kiev. Ha partecipato al premio Lerici Pea 1988, vincendo la medaglia per i nati dopo il 1958, con la poesia L’ombra dell’aquilone premiata da Giorgio Caproni. Sono state segnalate sue poesie sullo Specchio della Stampa (2/12/06) nella rubrica Scuola di Poesia e in Dialoghi in versi (17/08/2007) da Maurizio Cucchi. Per le edizioni Gattomerlino/Superstripes è uscita nel giugno 2014 la silloge Il negozio degli affetti e in ebook presso Morellini Note di sguardo, tra le opere vincitrici del concorso internazionale Lago Gerundo 2014 12° edizione. È dell’aprile 2015 la raccolta breve Benché non si sappia entrambi che vivere, edita da Alla chiara fonte di Lugano. Nel novembre 2015 è arrivato tra i finalisti del 29 ° Premio internazionale Lorenzo Montano con la poesia inedita Non hanno scuse. Nel marzo 2016 si è classificato al secondo posto al Premio Torresano 2016 con la raccolta inedita La dimora dello sguardo.
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JOHN TAYLOR nasce nel 1952 a Des Moines (Stati Uniti) e vive in Francia dal 1977. È autore di sei raccolte di racconti, di prose brevi e di poesie: The Presence of Things Past (1992); Mysteries of the Body and the Mind (1988); The World As It Is (1998); Some Sort of Joy (2000); The Apocalypse Tapestries (2004) e If Night is Falling (2012). La sua raccolta di poesie The Apocalypse Tapestries è stata pubblicata in italiano con il titolo di Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon) e la sua raccolta di prose brevi, If Night is Falling, con il titolo di Se cade la notte (Joker), entrambi nella traduzione di Marco Morello. John Taylor è anche noto come specialista di letteratura francese contemporanea, di cui scrive regolarmente rassegne sul Times Literary Supplement di Londra. Si occupa anche di poesia internazionale nella rivista Antioch Review, dove appare in ogni numero la sua rubrica “Poetry Today”. Un’ampia selezione dei suoi saggi su poesia e prosa francese è apparsa in tre volumi con il titolo Paths to Contemporary French Literature (Transaction Publishers, 2004, 2007, 2012), mentre i suoi saggi sulla poesia europea sono contenuti nelle raccolte Into the Heart of European Poetry (Transaction Publishers, 2008) e A Little Tour through European Poetry (Transation Publishers, 2015). Queste raccolte comprendono numerosi saggi su poeti italiani: Montale, Saba, Pavese, Caproni, Ungaretti, Sbarbaro, Sereni, Zanzotto, Erba, Cattafi, Mariani, de Palchi, Luzi, De Angelis, Penna, Cavalli e altri. Come traduttore, John Taylor ha tradotto recentemente le poesie di Philippe Jaccottet, di Pierre-Albert Jourdan, di Jacques Dupin, di Louis Calaferte, di Georges Perros, di Pierre Chappuis e di José-Flore Tappy. È editor e co-traduttore d’una ampia raccolta dei testi del poeta italiano Alfredo de Palchi, Paradigm: New and Selected Poems (Chelsea Editions, 2013). Ha ottenuto nel 2013 una borsa dell’Academy of American Poets per il suo progetto di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero, pubblicate in An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions).
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ANTONIO TECHEL, nato il 22 novembre 1948, vive e lavora a Bergamo come psicoanalista e psicoterapeuta. Di formazione umanistica, ha lavorato con psicoanalisti che hanno lasciato tracce importanti nella storia della psicoanalisi: Fornari, Meltzer, Resnik, Spira, Mancia. Al trentennale lavoro clinico con adulti e bambini ha affiancato attività di formazione, consulenza e supervisione, fondando con alcuni colleghi il “Centro Nuovo Copernico, centro per la ricerca psicoanalitica individuale e di gruppo” di cui è stato vicepresidente. Grazie alla sua passione per l’arte ha avviato una personale ricerca artistica nel solco dell’arte concettuale, anche frequentando corsi di pittura della Sommerakademie a Salisburgo, dove è entrato in contatto con artisti di fama internazionale, quali i cino-americani Zhou Brothers, Giulio Paolini, Ilja Kabakov, maestri dell’arte concettuale riconosciuti in tutto il mondo. Fautore dell’incontro tra l’inconscio e ogni forma di espressività artistica che porti alla costruzione del processo dell’identità personale, all’interno di questo percorso tra arte e psicoanalisi è nata l’idea di un nuovo modo di utilizzare lo scarabocchio, in ambito psicoterapeutico, come forma d’arte che può mettere il soggetto in contatto con parti primitive del Sé, favorendo processi di scoperta e costruzione di possibilità. Da alcuni anni ha costituito un gruppo di lavoro e ricerca che utilizza, approfondisce e sviluppa la tecnica dello scarabocchio. Ha pubblicato: La farfalla insegna. La funzione delle emozioni nel processo di apprendimento (ed. Armando, 1996); Non dormo... quasi quasi scarabocchio (ed. Borla, 2015), oltre a numerosi articoli su riviste di psicoanalisi e arte. Ha esposto le sue opere di arte concettuale in mostre a Bergamo e altre città.
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VITO TROMBETTA è nato a Torno (dove vive), in provincia di Como, nel 1944. A lungo impiegato nell’industria tessile, molto attiva nel comasco, ha percorso due pellegrinaggi integrali a Santiago di Compostela (1998) e da Canterbury a Roma, lungo la via Francigena (2000). Ha pubblicato le raccolte di poesie Nauta (Edizioni Ikona, 2001) e Pararess Marin (LietoColle, 2001); sue poesie sono comparse, insieme ad altri poeti e scrittori comaschi, nella plaquette LagoDaLago (Carlo Pozzoni Fotoeditore, 2014), completata dalle pitture di Alberto Colombo. Continua a lavorare al poema La sala bianca, di cui è stata pubblicata una parte in Nuovi poeti italiani-5 a cura di Franco Loi (Einaudi, 2004).
GIANNI VACCHELLI è professore di lettere nella scuola pubblica e collabora a livello universitario con ricerche e contributi. È membro della Comunità di Ricerca “Culture Religioni Diritti Nonviolenza”, ispirata al pensiero di Raimon Panikkar, e attiva presso l’Università degli Studi di Bergamo. La sua lettura della Bibbia e di Dante, attenta al dialogo interculturale, è al crocevia delle tradizioni d’oriente e di occidente. I suoi ultimi libri: Dagli abissi oscuri alla mirabile visione. Letture bibliche al crocevia: simbolo, poesia e vita (con prefaz. di Raimon Panikkar); Per un’alleanza delle religioni. La Bibbia tra Panikkar e la radice ebraica, Servitium, 2010; Viaggio, EMI, 2010.
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PATRIZIA VALDUGA nasce a Castefranco Veneto nel 1953. Ha raccolto i suoi versi in Medicamenta (1982), Donna di dolori (1991), Requiem (1994), Corsia degli incurabili (1996), Cento quartine e altre storie d’amore (1997), Quartine. Seconda centuria (2001), Lezione d’amore (2004), Libro delle laudi (2012); ha scritto una Postfazione a Ultimi versi di Giovanni Raboni (2006). Ha tradotto: Canzoni e sonetti di Donne, Poesie di Mallarmé, Il Cimitero marino di Valéry, e gli Ultimi versi di Ronsard; per il teatro Il Misantropo, Il Malato immaginario, L’Avaro e Tartuffe di Molière, Riccardo III e Macbeth di Shakespeare, Féerie di Céline, Aspettando Godot, Non io, Compagnia e Monologo di Beckett e una riduzione di Salambò di Flaubert. Nel 1988 ha fondato il mensile Poesia, che ha diretto per un anno. Ha pubblicato Italiani, imparate l’italiano! (Edizioni d’If, 2010), Poeti innamorati (Interlinea, 2011) e Breviario proustiano (Einaudi 2011).
SILVIA VENUTI, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Milano. Nei suoi lavori, la parola s’inserisce nel tessuto pittorico che assume una connotazione letteraria volta al trascendente. Per la qualità spirituale del suo lavoro, ha tenuto numerose personali in spazi sacri, tra i quali la Sagrestia di Santa Maria delle Grazie e la Chiesa di S. Angelo a Milano, il Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco ad Assisi, San Zenone a Brescia, San Bernardino a Vercelli, Sala Veratti, Musei Civici a Varese. Il suo percorso artistico è stato presentato da Rossana Bossaglia in I giardini dell’anima, Mondadori, 2007 e in La sacralità naturale, 2008. Ha pubblicato con le Ed. Del Leone le raccolte poetiche Allieva della vita, 1999, introdotta da Silvio Raffo; Le parole necessarie, 2002, da Paolo Ruffilli; Nelle ragioni della vita, 2005, da Giorgio Bàrberi Squarotti. Più recentemente ha pubblicato Oltre il quotidiano, Moretti&Vitali, 2009, (premio Mirella Cultura Ponte di Legno), introdotta da Giancarlo Pontiggia e La visione assorta, Interlinea, 2012, (Premio Camposampiero), presentata da Tomaso Kemeny. Vive e lavora in provincia di Varese dove è nata.
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GEORGE YAMAZAWA è nato e cresciuto negli Stati Uniti, a Durham, North Carolina, figlio di genitori giapponesi emigrati. È uno slammer famoso, laureato con il prestigioso National Poetry Slam nel 2014 ed è membro di Kundiman, un’organizzazione a livello nazionale con sede a New York, il cui scopo è la promozione della scrittura creativa degli asioamericani. Ha fatto performances in più di 150 università americane e straniere, compreso Princeton, University of Guam, and NYU-Abu Dhabi. Suoi testi sono stati pubblicati in Asian Fortune Magazine, Beltway Quarterly, e in 27 Views of Durham. Yamazawa esplora nei suoi testi le problematiche dell’integrazione, parlando del razzismo antiasiatico, con cui ha dovuto più volte confrontarsi, e il suo conflitto esistenziale, in quanto si sente lacerato fra le sue origini e il suo retaggio culturale giapponese, che è molto forte, e la sua educazione e la sua vita americana. Da notare che Yamazawa non sa parlare il giapponese, come dichiara spesso egli stesso pubblicamente nel corso delle sue performances.
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Patrizia Valduga: Testi a fronte
George Yamazawa: Oralità e gestualità
Giampiero Neri: L’Anticipazione
Luisa Castro: Una poetessa gallega