Poesia e Conoscenza Numero 3 - Anno 2018

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Poesia e Conoscenza Numero 3 - Anno 2018


POESIA E CONOSCENZA Rivista di testimonianza e di ricerca Numero 3 – 2018 DIRETTORE Donatella Bisutti REDAZIONE Silvio Aman COLLABORAZIONE ARTISTICA Stefania Scarnati, Luciano Ragozzino, Silvia Venuti PROGETTO GRAFICO Dario Francesco Pericolosi

ISBN 978-88-3356-026-7 Stampata da PressUP S.r.l. - Viterbo per conto di Edizioni Progetto Cultura 2003 S.r.l. - Roma nel mese di giugno 2018 www.progettocultura.it info@progettocultura.it

In copertina “Poesia e Conoscenza” (china e foglio d’oro su carta) di Stefania Scarnati. Pubblicato su gentile concessione dell’artista. I capolettera e i disegni sono di Luciano Ragozzino. Le foto degli eventi sono di Silvia Venuti.


Poesia e Conoscenza Rivista di testimonianza e di ricerca per i valori spirituali e civili


DIRETTORE RESPONSABILE Donatella Bisutti PERIODICITÀ Annuale REDAZIONE via Anelli 8, 20122 Milano e-mail: rivista@poesiaeconoscenza.it REDAZIONI ESTERE Grecia: Polyxene Kasda polykasda@hotmail.com La rivista è in sinergia con Sphinx Thebes Festival e le Edizioni Sphinx Olanda: Gandolfo Cascio gandolfo74@hotmail.com Portogallo: Manuele Masini perodeguimaraes@hotmail.com REGISTRAZIONE Tribunale di Milano n.406 del 19 dicembre 2014 ESERCENTE L’IMPRESA GIORNALISTICA Associazione Culturale La Poesia salva la vita via Luigi Anelli 8 - 20122 Milano RIVISTA ONLINE Sito internet: www.poesiaeconoscenza.it Facebook: www.facebook.com/rivistapoesiaeconoscenza La rivista è sfogliabile on line dal sito e acquistabile in ebook

Si collabora alla rivista solo su invito. I manoscritti non si restituiscono. Non si ricevono libri per recensioni. Ci scusiamo se per cause del tutto indipendenti dalla nostra volontà avessimo omesso o citato erroneamente alcune fonti. Per i testi di cui non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto l’Editore si dichiara disposto ad assolvere i propri doveri.


SOMMARIO

Editoriale

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DOSSIER – Lo scioglimento dei poli Saggi e poesie a cura di Silvio Aman e Donatella Bisutti

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Introduzione di Silvio Aman Marzio G. Mian – Quando si rompe il ghiaccio Antonio Riccardi – da Il polo antartico Gabriele Salari – Artico, il termometro del Pianeta Anna Maria Carpi – Parlano: Francesco Solitario – La perdita simbolica del Polo nord Patrizia Villani – Poesia ecologia del futuro Maria Rosa Panté – Il rumore del polo che si scioglie Silvio Aman – Islandlied Enzo Rega – (Im)poeticamente abita l’uomo: tra Heidegger e Latouche Andrea Lanfranchi – Alcune considerazioni Matteo Meschiari – Geografie senza ghiacci Angela Passarello – Nomadalen Silvia Venuti – Flashback metafisico Massimo Maggiari – Sui miti dell’abisso Massimo Maggiari – Sulla banchisa Francesco Benozzo – Glaciale imperituro DOSSIER – Bogliasco Foundation a cura di Donatella Bisutti

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Donatella Bisutti – I poeti della Fondazione Bogliasco Che cos’è la Fondazione Bogliasco? – a cura della Fondazione Peter De Ville – I Bogliasco Fellows e il Festival di Genova

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Donatella Bisutti – Poesie da Duet of Life Traduzione di Taeko Uemura

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Neil Curry – Poesie da Other rooms e Versi inediti Traduzione di Alessandra Natale

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Peter De Ville – Poesie da Taking the PH e Versi inediti Traduzione di Alessandra Natale

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Angela Pradelli – Testi da El sol detrás del limonero Traduzione di Chiara Tana

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Eva Taylor – Poesie da Schneebuch – Il libro della neve e Versi inediti Traduzione dell’Autrice

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Sinergie Poesia e Letteratura Luigi Caracciolo – La poesia del “giallo” Poesia e crimine – Antologia a cura di Luigi Caracciolo: Charles Baudelaire – Il vino dell’assassino Emily Dickinson – J670 (1862) Giovanni Pascoli – La cavalla storna Dino Campana – O Poesia Poesia Poesia Jorge Luis Borges – Milonga di Calandria Giorgio Caproni – I coltelli Giovanni Raboni – Testimoni Valerio Magrelli – Diffamazioni Donatella Bisutti – Estetista (Un caso di cronaca) Musica Antonella Bini – Sofia Gubajdulina: Vivere nella verità e non nell’errore Valentina Colonna – Prosodie poetiche – Uno studio fonetico sulla lettura della poesia di Giorgio Caproni Teatro Piccolo Dossier Shakespeare: Giuseppe Provenzale – Shakespeare chi? 6

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Francesco Scarrone – Shakespeare e le stelle Testo teatrale Testo a Fronte Gëzim Hajdari – I chiodi dell’esilio Hans Raimund – Sognare il lutto Arte

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Gwen Hardie – Un progetto Il Poeta

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Nino de Vita – ’U Rrialu Scopriamo un Poeta Gandolfo Cascio – Poesie con ironia Wolfango Testoni – 11 poesie senza titolo Vivaio

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Lorenzo Babini Valentina Colonna DOSSIER – Samotracia e Il Fanciullo Divino Tavole di Luciano Ragozzino Parte Prima – Samotracia Polyxene Kasda – Pais (Il Bambino) Il gioco culturale della Caccia al Tesoro Gouletas PanaYiotis-Elena Petridou – Il Pais nella topologia della coscienza

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Vasile Avram – Spazio primordiale Dores Sacquegna – Viaggio a Samotracia

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Artisti a Samotracia Eozen Agopian – Time between space Eva Vevere – Dawn manuscripts George Syrakis – Enigma Pam Longobardi – Warrior child

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Parte Seconda – Il Fanciullo Divino Carla Stroppa – Giocare per vivere Gianluca Capuano – Interpretazioni a partire da un frammento di Eraclito Maurizio Marota – Il fanciullino pascoliano Michaël Glück – L’Annunciazione Francesco Benozzo – Archeologia della parola poetica Gianni Vacchelli – Il simbolismo del bambino interiore Vincenzo Ampolo – Il fanciullo e l’anziano Silvia Venuti – L’archetipo Nuno Miguel Afonso – Erotica e spiritualità Manuele Masini – Il Bambino imperatore Vincenzo Guarracino – Puerilia Leopardi Hanno collaborato

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DITORIALE

Poesia e Conoscenza è una rivista on line fondata e diretta da Donatella Bisutti, poetessa, saggista, critico letterario, già fondatrice della rivista cartacea Poesia e Spiritualità. Non è una rivista di poesia come comunemente si intende, cioè una vetrina di testi poetici e non persegue una particolare “poetica”. Non vuole neppure essere una rivista di critica letteraria. Non apre spazi alle recensioni. Allora perché la parola Poesia appare in tutta evidenza nel titolo? Perché la poesia è considerata come fondamentale punto di riferimento, una sorta di stella polare a segnare il cammino: perché la voce della poesia è l’unica che rimane prima del silenzio, quando le parole comuni non riescono più a dare espressione al senso profondo del nostro essere e al nostro tentativo di confrontarci con il mondo. La poesia è qui considerata nella sua accezione più alta, come massima portatrice di significato, strumento di conoscenza, radar che può metterci in rapporto con il “divino” in noi. Ma non per questo si tratta di una dimensione forzatamente religiosa, piuttosto di una spiritualità laica. L’altro termine che appare nel titolo è Conoscenza, e questo allude non solo alla poesia ma allo spazio immenso che si apre davanti all’esplorazione umana attraverso le varie arti, attraverso le più diverse discipline scientifiche e umanistiche. Grande parte della rivista è quindi dedicata al confronto di studiosi e artisti sui grandi temi che assillano l’uomo di ogni tempo e più specialmente l’uomo di oggi. Vogliamo fare nostro l’atteggiamento euristico del grande poeta filosofo Edmond Jabès, tradotto e introdotto per la prima volta in Italia proprio da Donatella Bisutti nell’Almanacco dello Specchio di Mondadori: quello della question, della domanda come punto focale della conoscenza, più importante della possibile o impossibile risposta. Con questa rivista si vuole anche affermare, riunendo numerosi collaboratori in Italia e all’estero, la convergenza , in modi diversi, in una ricerca di valori che si contrappone a una cultura materialista, nichilista, minimalista, riannodando fili che ci vengono da un passato di diverse culture e civiltà e proiettandole verso un possibile futuro, e al tempo stesso scommettendo sulla possibile dignità e grandezza dell’uomo in un’epoca che sempre più sembra svilirlo e mercificarlo, e su una possibile “umanità” di Dio. 9


Riproduciamo a parte un messaggio di Donatella Bisutti in occasione della Giornata della Poesia pubblicato il 21 marzo 2014 sulla Provincia di Como.

LA POESIA PUÒ ANCORA SALVARCI LA VITA? Questa domanda fa eco al titolo di un mio libro fortunato, uscito anni fa ma sempre attuale, dal titolo appunto La poesia salva la vita. Titolo che naturalmente voleva essere una provocazione, anche se può essere anche inteso come un semplice auspicio. Ma che vuole anche affermare una verità in cui io credo fermamente: e cioè il carattere taumaturgico della poesia. A patto però di avere ben presente che la poesia, intesa in questo senso, non è qualcosa al di fuori di noi bensì qualcosa che è dentro di noi, che fa già in certo modo parte di noi in quanto possibilità innata di un approccio alla realtà profondamente diverso da quello che ci viene appreso nel corso di una spesso fuorviante educazione (da e-ducere, trarre fuori, e quindi anche “fuori strada”). E’ una parte “magica”di noi da scoprire, o anche da riscoprire. Oggi con particolare urgenza, in quanto sembra per lo più giacere sepolta sotto cumuli di detriti. E così il più delle volte non emana nemmeno un debolissimo raggio della sua luce e noi le viviamo accanto del tutto inconsapevoli. Sì, il mondo sembra aver perso la sua chiave magica, scambiandola con una card che apre centri commerciali, negozi di lusso, centri di fitness, realtà virtuali, su su fino alle stanze dei bottoni: la card del benessere, del lusso, del potere. Ma bisogna fare attenzione: la poesia non è una panacea per spiriti afflitti, né un tranquillante. E nemmeno una droga. La poesia non acquieta. La poesia è qualcosa che ci stimola, che dice: non è questo, non è quello. Non è questa, non è quella la felicità. Non è questo, non è quello ciò che conta. Non è questo, non è quello l’essere umano. Su poche parole si è esercitata da sempre una vuota retorica come sulla parola “poesia”. Da anni vado ripetendo – per quanto mi è possibile – che la poesia è un linguaggio del corpo prima di essere un linguaggio dell’anima, che non è un luogo di pii sentimenti, ma che si può scrivere poesia anche su un calzino bucato. Che la vera poesia, al di là e al di fuori di qualsiasi retorica, ci mette davanti al significato profondo della realtà, e cioè al continuo intrecciarsi incomprensibile della vita e della morte. Ci mette semplicemente davanti all’esistenza di quel mistero di cui ha tanto scritto il filosofo rumeno Lucian Blaga. Ma non per tentare di risolverlo, a differenza di quanto si sforza di fare la filosofia e oggi soprattutto la scienza, ma per affermarne l’ineluttabilità e ancor più l’intrinseca necessità. Perché ne diventiamo consapevoli. La poesia vuole fare di noi persone consapevoli della contraddizione, della compresenza in noi e nel mondo del bello e del brutto, della bellezza del brutto e in qualche modo anche della bruttezza, o dell’imperfezione del bello. 10


Non vuole creare per noi un virtuale mondo abitato dalle fate. Non sposa la causa del bello assoluto, ma quella dell’impossibilità di separare i segni della morte da quelli della vita, il non senso dal senso, gli istinti più bassi dalle aspirazioni più alte, il nostro essere microcosmo centro di una realtà inesplorata dall’essere nello stesso tempo situati ai margini di un universo senza confini. Vuole fare di noi persone capaci di vivere la nostra solitudine senza rifugiarci dietro fragili barriere protettive che sono solo autoinganni suscettibili di renderci ancora più deboli e più soli. Vuole fare di noi esseri capaci di assumerci la nostra sofferenza e anche la nostra disperazione, e soprattutto la nostra dolorosa ma anche esaltante unicità senza pretendere balsami e surrogati. Insomma: la poesia ci vuole pienamente umani, quando spesso noi invece viviamo solo a metà, e anche meno che a metà, sfuggendo all’ombra del nostro sopravvissuto cervello rettile, che a volte, risvegliandosi, ci inghiotte. La poesia ci salva dal vuoto perché ci costringe ad affrontarlo dentro di noi, a non ritrarci. Ma non è una terapia psichica, è un cammino spirituale. Oggi quanto si vive di surrogati di una felicità irraggiungibile? di palliativi? quanto ci impediamo di ascoltare i rumori inquietanti della realtà, bombardandoci nelle orecchie musica ossessiva attraverso gli auricolari? parlando ossessivamente con qualcuno che non c’è anche quando camminiamo per strada, senza guardarci intorno, rifiutando la realtà vera per una inesistente? Siamo pericolosamente disarmonici, dissociati dalle nostre necessità primarie, da quelle per cui siamo stati costruiti. E anche per questo siamo tutti spaventati. Soprattutto perché la vita e il mondo si rivelano così diversi da quanto ci avevano fatto credere e ancora oggi ci vogliono fare credere. Fuori dal nostro controllo. Senza un centro. La poesia ci riporta verso un centro, perché questo centro non può essere che dentro di noi. La poesia ci ricorda che dobbiamo vivere appieno tutte le nostre umane potenzialità e così diventare persone. Non è un’evasione, un sogno. Per questo possiamo scegliere fra mille proposte diverse, suscettibili di ingannare la vita e il tempo. L’esistenza di un centro interiore, in cui il piccolissimo si può coniugare con l’immenso, è quella per cui Omero definiva Eumeo, umile porcaro, “divino”. Quella in cui anche noi possiamo ritrovarci “divini”. Credo che è di questa perduta divinità che abbiamo soprattutto sete. Siamo invece sempre più prigionieri, nella nostra cultura, nella nostra società, di un pensiero castrante, utilitaristico, teso all’unico scopo di capire per dominare la nostra realtà intima e quella esterna. Oppure, per compensazione, ci vediamo proiettati in dimensioni dove l’assurdo, l’aggressività, l’eversione, la sregolatezza, la ribellione, e in definitiva la distruzione appaiono come una pericolosa valvola di scarico, a somiglianza del mondo fittizio ed esaltante creato dalla droga. Costruzione e distruzione si fronteggiano, non si sa mai quale dei due contendenti avrà la meglio. In mezzo a queste due macine dal moto opposto la persona umana viene 11


stritolata ogni giorno. Ma l’opposizione è un’illusione della mente raziocinante che definisce e separa. La poesia, attingendo alle qualità originarie e ancestrali di un linguaggio fatto di parole che sono insieme significato ed emozione, non definisce, rendendo così quella frattura permanente e insuperabile, ma ci ricompone come una totalità psichica ed esistenziale, colma i pericolosi crepacci ricordandoci che cos’è l’uomo: creatura insieme di gioia e di dolore, di pensiero e di emozione, che vive in misteriose corrispondenze con l’universo, che dobbiamo rifare nostre. Questa è l’indicazione preziosa e insostituibile che il suo linguaggio “magico”, a cui nessun altro assomiglia, e che è l’unico capace di coniugare la nostra mente raziocinante con il nostro inquieto inconscio profondo, ci trasmette. In questo senso penso che oggi può aiutarci a salvare la nostra vita riappacificandoci con noi stessi, arrestando il cieco e disperato istinto di fuga che nasce dalla separazione e dall’estraniamento, dal non riconoscere più le radici che tanto attraverso il nostro corpo quanto attraverso la nostra anima ci connettono al mondo, dal non saperle annodare insieme. Per questo, nel nostro attuale smarrimento, credo che la poesia, che è insieme ascolto e sguardo, ci possa indicare un approccio diverso alla nostra realtà e a quella che ci circonda. Un approccio capace di riscoprire nell’uomo – sia pure nel limite e nel dolore – una dimensione di grandezza, della cui mancanza soprattutto soffriamo: quella che apparteneva all’antico mondo greco, e che il Rinascimento aveva rinnovato, ma che la nostra contemporaneità ha minimizzato e svilito in ogni modo, con esiti disastrosi che sono ogni giorno di più sotto i nostri occhi. Donatella Bisutti

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DOSSIER LO SCIOGLIMENTO DEI POLI SAGGI E POESIE A CURA DI SILVIO AMAN E DONATELLA BISUTTI

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Questo numero di Poesia e conoscenza dedica un dossier proprio allo scioglimento dei ghiacci sul polo artico – chiamato il “termometro del pianeta” – dando spazio a varie testimonianze di ordine informativo, filosofico, mitologico, ecologico, antropologico e – con altro logos – poetiche. Lo scopo è di favorire la consapevolezza di un problema grave, che poteri politici ed economici tendono a passare sotto silenzio: lo scioglimento dei ghiacci polari minaccia la sopravvivenza del pianeta e la nostra. Riteniamo, perciò, che la consapevolezza e la possibilità di sensibilizzare i lettori tramite la ricerca, la poesia e l’arte, costituisca un primo passo per opporsi a quanto sta accadendo. Lo spunto per questo dossier ci è stato offerto dall’appassionata relazione tenuta nel 2015 dal noto giornalista Marzio Mian al convegno inaugurale del progetto voluto e presieduto dalla giurista Livia Pomodoro, ex presidente del Tribunale di Milano, denominato Milan Center for Food Law and Policy. Relazione che qui riproduciamo. Per parte sua anche Gabriele Salari, che cura l’ufficio stampa di Greenpeace Italia, famosa associazione ambientalista fondata a Vancouver nel 1971, mette in luce i catastrofici effetti dell’aumento della temperatura, dovuti verosimilmente a emissioni incontrollate, e il relativo ridursi dei ghiacci visto con favore da chi spera di poter così avviare pericolose trivellazioni. Lo studioso cita anche le lotte condotte da Greenpeace, onde spingere i governi a promuovere la difesa dei poli, delle popolazioni e della fauna che li abitano. Il lettore si chiederà cosa c’entrino dunque gli altri saggi dedicati alle mitologie nordiche (Massimo Maggiari), all’immaginario poetico legato al contrasto ghiaccio/fuoco (Matteo Meschiari) alla funzione dei poeti (Francesco Benozzo) e ai poli come luogo simbolico e “ideale punto di collegamento tra cielo e terra” (Francesco Solitario). Una risposta all’eventuale domanda è già presente negli scritti: le nostre civiltà hanno perso di vista l’aspetto simbolico della nostra vita sulla terra, cioè il fatto che, rovesciando il detto di Hölderlin, oggi “(im)poeticamente abita l’uomo” (Enzo Rega) il quale intende la tecnica come pratica scissa dalla poesia e dal pensiero di prendersi cura delle cose (Heidegger). Da qui l’indiscriminata libertà di sfruttare le risorse del pianeta. Matteo Meschiari, riferendosi all’epistemologia di Gaston Bachelard e all’immaginario poetico per una “ecologia della mente”, pone in risalto il contrasto tra il fuoco come metafora delle passioni (ma anche del calore non sempre benefico della produzione industriale con tutto ciò che scaldando scioglie) e il ghiaccio, sua antitesi, non tuttavia solo in termini negativi, perché lo studioso, articolando le polarità anziché irrigidirle, mostra che il gelo, nemico della vita, può “scottarci” ma anche – con l’immagine della neve e della brina – suggerire idee di purezza secondo l’espressione “immacolato come la neve”. Massimo Maggiari, si avvale del suo viaggio verso i villaggi inuit per parlarci di Sedna, “regina dell’abisso blu dove 14


figliano le creature marine”, preferendo il racconto sciamanico e favoloso dei fenomeni alle fredde indagini, come del resto ha fatto Snorri Sturluson, nell’Edda, per la mitologia norrena. Lo sciamano non scinde, al contrario trova “una coniunctio tra fisico e spirituale accoppiando il cosmo alla corporalità”. Da qui il pensiero che l’oceano sia “il signore della conoscenza”. Queste ricerche sono ulteriormente illuminate da Francesco Solitario, che con una ricca costellazione di riferimenti (nell’esoterismo islamico, nell’Y Ching, nel pensiero di Chuang-tzu, nel mondo cristiano con la “la sfera del mondo sormontato dalla croce”, nell’immagine dell’omphalos per il popolo giudeo o di Ming-t’ang per quello cinese.) trova una “forte concordanza, e quasi un’assimilazione tra Polo e Centro del mondo o Centro mistico”. Ciò con l’intento di precisare che alla perdita fisica del Polo si deve aggiungere quella non meno grave e simbolica “del senso dell’‘Origine’: la perdita del Principio, immobile, che dà ordine e mette ordine all’infinito mutare degli accadimenti”. I disastri ambientali iniziano, infatti, con la dimenticanza del rapporto fra la terra e il cielo. Nel considerare la situazione sotto vari profili, non poteva mancare il riferimento di Enzo Rega a Heidegger (dal cui saggio La questione della tecnica “possiamo trarre richiami ‘ecologisti’”), alle teorie di Vincenzo Russo su ciò che questi “considera legittimo possedere”, alle ricerche antropologiche di diverso orientamento (differenziando “l’antropologia per lo sviluppo” da quella “dello sviluppo”) e a Serge Latouche a proposito “di una decrescita serena” cioè della “rinuncia a uno sviluppo indiscriminato non perseguibile per la limitatezza delle risorse”. Provocatoria la posizione di Francesco Benozzo che riguardo alla situazione in cui versa il poeta si chiede: “Se lo sguardo del poeta è incondiviso, se la sua voce è sempre e solo solitaria, come potrà, lui, essere voce del disastro?” Benozzo aggiunge: “Solo il peggiore dei poeti di sempre potrà provare nostalgia per i ghiacci. Il poeta epico degli elementi dirà soltanto che essi furono possenti”. I contributi poetici aprono, per gentile concessione dell’editore, con un testo di Antonio Riccardi, tratto dal volume Il profitto domestico, pubblicato da Il Saggiatore. Il testo, che prende lo spunto da una tragica spedizione francese nell’Antartide avvenuta nel 1881, ci è parso particolarmente suggestivo e meritevole di essere ricordato. Un altro contributo particolare è il segnalibro che l’editore e artista Luciano Ragozzino, collaboratore della nostra rivista cui si devono anche i disegni che figurano nel dossier, ha realizzato anagrammando il nome del poeta Valerio Magrelli, il quale ci ha concesso di riprodurlo, data la sua attinenza al tema dei ghiacci. Figurano poi testi poetici scritti per l’occasione da Silvio Aman, Anna Maria Carpi, Andrea Lanfranchi, Massimo Maggiari, Maria Rosa Panté, Angela Passarello, Silvia Venuti e Patrizia Villani. Silvio Aman 15


MARZIO G. MIAN QUANDO SI ROMPE IL GHIACCIO

“Quando si rompe il ghiaccio” dice un proverbio inuit “scopri chi ti è amico e chi ti è nemico”. L’Artico – rimasto fuori dai riflettori della Grande Storia dell’Umanità – è improvvisamente diventato centrale e cruciale. A causa del cambiamento climatico è entrato potentemente nella Grande Storia. In quella regione del mondo si gioca una partita dagli esiti imprevedibili che, nell’era della comunicazione globale, è poco raccontata, quasi ignorata dall’informazione mainstream, e analizzata per lo più da cerchie ristrette di addetti ai lavori. Mancanza di trasparenza e disinformazione, opacità nella comunicazione e ignoranza delle emergenze politiche, economiche, ambientali e sociali che rischiano di penalizzare soprattutto le popolazioni indigene che nell’artico ci vivono da almeno mille anni. Il Milan Center for Food Law and Policy intende invece inserire l’Artico nella sua agenda e contribuire concretamente alla sensibilizzazione internazionale con un intervento mirato. Ma prima di presentarlo, quest’oggi è necessario inquadrare la “questione artica” per capire il contesto entro cui ci muoviamo. In dieci anni nella regione polare si è perso il 70 per cento della superficie ghiacciata, un’area grande due volte la California. Un processo irreversibile, “una spirale di morte sicura” l’ha definita il professor Peter Wadham del Centro Scientifico Polare dell’Università di Washington. Difatti non esiste più una spaccatura tra catastrofisti e negazionisti, e ciò che divide gli scienziati oggi sono le previsioni su quando l’Artico sarà completamente icefree: vent’anni, trenta, cinquanta? Le politiche di mitigazione del riscaldamente globale potranno avere il loro effetto di contenimento, ma la questione principale è quella di gestire le conseguenze del cambiamento nella regione più fragile del Pianeta dove si è scatenata la corsa alla conquista del bottino, quella che viene chiamata la Polar Rush, evocando la ben più romantica corsa all’oro nella California d’inizio Ottocento, il Klondike di Jack London. Qui la posta in gioco è invece brutale ed epocale. Nella regione polare giace un quarto del combustibile fossile della Terra, ora sempre più accessibile con lo scioglimento dei ghiacci. Chi ci metterà le mani farà saltare il banco del Grande Gioco del ventunesimo secolo che stavolta si svolge non sulle sabbie mesopotamiche ma tra gli iceberg. Un risiko innescato da una domanda che aleggia minacciosa sugli equilibri mondiali: di chi è 16


l’Artico? Stiamo parlando di un valore di petrolio e gas stimato dall’United States Geological Survey in 18 trilioni di dollari, l’equivalente dell’intera economia americana. Il calo vertiginoso del prezzo del greggio sta bloccando momentaneamente molte operazioni, ma le multinazionali dell’estrazione ne approfittano per investire nella ricerca di nuovi giacimenti, nuove infrastrutture, nuove tecnologie, e tenersi così pronti appena il barile tornerà a raggiungere gli ottanta dollari. Di chi è l’Artico? Secondo la convenzione Onu sulla legge del mare del 1982, per poter estendere il proprio controllo sui fondali marini oltre il confine previsto di 200 miglia marine, il Paese che rivendica la sovranità sul Polo Nord deve dimostrare che la propria piattaforma continentale si estende oltre quel limite. Tutte le potenze artiche, tranne gli Stati Uniti, hanno avviato la pratica all’Onu. Ma la domanda, sempre meno giuridica e accademica, rimane piuttosto sullo sfondo della crescente attività militare e dell’Intelligence che secondo il ministro degli esteri norvegese supera di dieci volte quella dei tempi della Guerra Fredda. La Russia ha da secoli una trazione a Nord e nonostante le sanzioni occidentali per la crisi ucraina ha appena annunciato investimenti per venti miliardi di euro per i prossimi dieci anni sulle attività di sicurezza e di estrazione: Mosca ha riaperto dodici basi militari dell’era sovietica, ha già piantato per sfida la bandiera di titanio sotto la calotta polare e calcola un potenziale estrattivo di ottanta miliardi di tonnellate di petrolio. Il Canada non è più, secondo la battuta di Reagan, “un’America decaffeinata” ma vuole affermarsi come “potenza artica” stabilendo nuove basi sopra il Circolo Polare, così come la Norvegia mette in acqua sottomarini e navi spia per controllare l’Artico orientale siberiano. La Nato ha già registrato un centinaio di voli spia russi nella regione artica rispetto ai 22 del 2014 (ma circa le stesse cifre sono quelle denunciate da Mosca contro gli sconfinamenti dei caccia e degli aerei atlantici). Con il suo recente viaggio in Alaska Barack Obama, il primo di un presidente americano oltre il Circolo polare, ha voluto comunicare l’impegno della Casa Bianca sul fronte della lotta al riscaldamento globale; soprattutto è stato il segnale di un radicale cambiamento di rotta degli Stati Uniti sullo scacchiere artico. Benché quattromila scienziati lavorino sul fronte ambientale, nei passati 14 mesi a tutte le 16 agenzie di sicurezza è stato dato il mandato di lavorare full time sull’Artico e di riferire a un apposito nucleo strategico. La decisione sarebbe stata presa nel settembre 2014, quando il Pentagono ha scoperto la presenza di cinque navi da guerra cinesi nel mare di Bering, al largo delle isole Auletine. Di chi è dunque l’Artico? Oltre all’accesso alle immense risorse e alla contesa giuridico-scientifica sulle mire polari di Russia, Stati Uniti, Canada, Norvegia e Danimarca (per via della Groenlandia) la scomparsa dei ghiacci per periodi di 17


ogni anno sempre più ampi apre nuove vie d’acqua artiche che accorciano della metà il tragitto delle navi mercantili, i bulk porta container dall’Asia all’Occidente, rispetto alle rotte tradizionali e sempre meno sicure via Suez; e qui la Cina intende governare i traffici marittimi dei prossimi decenni anche a costo di mostrare i muscoli, perché, se il 90 per cento del commercio mondiale avviene via mare, quasi il 50 per cento del PIL cinese deriva dal trasporto di merci attraverso gli oceani. Passando dalla calotta il tragitto si accorcia di oltre 4000 miglia e il risparmio per Pechino in tempo, carburante ed emissioni equivale a 120 miliardi di euro l’anno. Così la Cina sta pianificando quella che ha definito la “via dorata”: in Islanda ha costruito una mega ambasciata per 500 funzionari, la più grande del mondo. E miliardari vicini al regime come il tycoon Huang Nubo acquistano fiordi dalla Norvegia all’Islanda per costruirvi porti commerciali e mega infrastrutture con la chiara intenzione di servire la patria nell’operazione chiamata “Dragone di neve”. La Cina recentemente si è autodefinita una nazione artica per ragioni “ambientali e geopolitiche”. Giustificati allarmi, dunque, ma anche enormi e irresistibili opportunità per i popoli indigeni, per le nazioni che confinano con l’Oceano artico, così come per quelle che hanno la forza di pretendere un ruolo da protagonista. Succede ad esempio che l’Arctic Council, il Consiglio delle otto nazioni geograficamente artiche, fino a qualche anno fa una specie di circolo degli scacchi per diplomatici scandinavi in pensione, è diventato un organismo ambitissimo e gestito a livello di ministri degli Esteri. Il Consiglio Artico è così decisivo che per essere ammessi come Paese osservatore i governi fanno a spintoni: ce l’hanno fatta la Cina e la Corea del Sud, non l’Unione Europea, bensì l’Italia grazie alla tradizione pionieristica nelle esplorazioni artiche, alla ricerca scientifica d’avanguardia sul campo (in particolare alle isole Svalbard con la storica presenza del Cnr), al ruolo di aziende italiane nella regione, prime fra tutte Eni e Fincantieri, e a un convincente dossier presentato dalla Farnesina riguardante in particolare la questione della pesca nell’Oceano artico. Questione strategica e parzialmente destabilizzante: si aprono nuovi giganteschi spazi marini ice-free, s’allargano quindi le acque internazionali, mentre molte specie con l’innalzamento delle temperature marine – e l’alto Atlantico in dieci anni ha aumentato la temperatura di due gradi – si spostano sempre più a Nord in cerca di acque più fredde e ricche di nutrimenti procurati, paradossalmente, anche dallo scioglimento del permafrost che genera biomassa e plancton. L’Italia ha appoggiato la moratoria delle nazioni artiche che vorrebbero impedire l’ingresso nello stretto di Bering alle flotte internazionali per poter studiare la situazione. Nel mirino le navi-fabbrica asiatiche. Ma Pechino nei mesi scorsi ha avvertito che l’Artico “sarà il frigorifero e la banca delle proteine della Cina”. 18


Di chi è dunque il pesce artico? La domanda di pescato nel mondo, soprattutto in Cina e in India, supera di gran lunga la quantità di pescato a disposizione, mentre i prodotti ittici rimangono il bene più commerciato a livello internazionale e insieme quello più colpito dalle dinamiche messe in moto dal cambiamento climatico. Un recente documento dell’Onu sostiene che “il riscaldamento globale sta minacciando più di ogni altro settore quello della pesca e di conseguenza le comunità che da esso dipendono”. Il riferimento riguarda soprattutto l’Artico, la regione che provvede al 15 per cento del pescato nel mondo: oltre un terzo del consumo di pesce in Europa deriva dagli stock artici per un valore di 36 miliardi di euro. Ma l’Artico è anche la regione ora costretta ad affrontare una situazione di anarchia giuridica, perché le leggi internazionali del mare e le convenzioni regionali marittime in vigore risultano improvvisamente anacronistiche nel momento in cui ampie aree marine diventano accessibili alle grandi flotte pescherecce internazionali a causa dello scioglimento del ghiaccio: solo nel 2015 si è liberata un’area grande quanto la Polonia, tanto che oggi solo l’8 per cento dell’Oceano artico è regolato da accordi internazionali sulla pesca. Inoltre il pesce ha la cattiva abitudine di non rispettare confini e trattati, si sposta dove ritiene di potersi cibare e riprodurre meglio. Come dargli torto? Nella Storia è il pesce che ha guidato gli spostamenti dei pescatori, non viceversa. E ciò ha prodotto crisi se non conflitti. Nell’Artico è infatti scoppiata la “guerra dello sgombro”, una guerra ovviamente diplomatica, ma cruenta tanto da avvelenare i rapporti tra nazioni storicamente amiche, come la Norvegia e l’Islanda, la Scozia e la Danimarca… Lo sgombro negli ultimi cinque anni ha cambiato habitat, si è spostato gradualmente a Nord Ovest, attratto da acque meno calde e più nutrienti. Comunità norvegesi e scozzesi, che da secoli basavano la loro economia sullo sgombro, sono ridotte in miseria. Mentre le isole Faroe, l’Islanda e ora la Groenlandia hanno raddoppiato le loro attività. Se le isole Faroe hanno raggiunto un accordo con l’Unione Europea e la Norvegia sulle quote, Islanda e Groenlandia si rifiutano invece di scendere a patti. Anche perché con l’apertura di altri mercati – Russia, Cina, Corea del Sud, India, Giappone – l’Unione Europea ha sempre meno forza contrattuale. Stiamo parlando di un settore primario, cruciale per la sopravvivenza di molte comunità. La pesca rappresenta il 30 per cento del PIL islandese, il 93 per cento dell’esportazione della Groenlandia. Ma se l’Islanda, il paese che più beneficia del cambiamento climatico, attira investimenti internazionali per le infrastrutture in vista dell’apertura di nuove rotte artiche, pianifica uno sviluppo edilizio e addirittura politiche agricole in previsione di condizioni climatiche 19


sempre più favorevoli – la Groenlandia è invece il cuore di tenebra della questione artica. Di chi è la Groenlandia? Sulla carta è un’entità sempre più autonoma sotto la Corona danese, ma in realtà è il simbolo della Polar Rush, la corsa al bottino artico. C’è chi la chiama la prossima Australia, ma più efficace e diretto è stato il presidente islandese Ólafur Ragnar Grímsson) che ha definito la Goenlandia la “nuova Africa”. Infatti la terra che, intorno all’anno mille, Erik il Rosso chiamò Verde per attirare i riluttanti vichinghi con una spregiudicata operazione di marketing, attira oggi interessi internazionali di tipo neocoloniale. È la location perfetta: un’isola grande quanto l’Europa occidentale, abitata da cinquantaseimila persone, circa la popolazione di una città come Rovigo, sotto il pack e il permafrost in disgelo custodisce un forziere di oro, rubini, diamanti, uranio, ferro e naturalmente gas e petrolio. Pur di emanciparsi definitivamente dalla Danimarca – senza la quale attualmente non riuscirebbero a finanziare nemmeno i servizi essenziali – gli inuit hanno fretta di sfruttare le opportunità. Attraverso compagnie minerarie che battono bandiera inglese o neozelandese, la Cina, l’unica che ha accettato senza problemi di importare le pelli di foca, ha già messo radici in Groenlandia, obbiettivo l’uranio e soprattutto le terre rare, quel gruppo di elementi essenziali per la produzione di alta tecnologia civile e militare di cui l’isola detiene il 90% per cento delle riserve estraibili mondiali. Si capisce perché la Danimarca non ha nessuna fretta di sciogliere l’ormeggio, anche perché la Groenlandia è geograficamente e giuridicamente la più titolata a rivendicare diritti sul Polo Nord. In questo contesto di contraddizioni e appetiti, l’unica risorsa che potrebbe emancipare le depresse comunità costiere, e cioè la pesca, nonostante conosca un’abbondanza mai vista grazie al cambiamento climatico, è invece penalizzata da un sistema incrociato di monopoli e di regolamentazioni anacronistici i quali alienano di fatto gli inuit dal circuito economico principale del loro Paese. Di chi è infine il pesce groenlandese? Il dato emblematico che emerge dalla condizione economica della Groenlandia è l’irrilevante ritorno delle esportazioni di pesce. A fronte di un ruolo di assoluta egemonia della pesca nel settore delle esportazioni, il beneficio per i groenlandesi è minimo: se circa il 93 per cento del totale dell’export è rappresentato da prodotti dell’industria ittica, settore che impiega un quarto della popolazione, il ritorno fiscale per lo Stato è solo del 10 per cento sul totale del gettito. La governance dei diritti storici e la regolamentazione delle quote, distribuite per unità navali, sono superati e non tengono conto del cambiamento climatico, delle migrazioni che rendono impossibile prevedere gli stock delle varie specie che invece determinano i prezzi del mercato. Così ad esempio l’Unione Europea che importa tremila tonnellate di gamberi groenlandesi li paga meno del prezzo corrente nelle pescherie di 20


Nuuk, la capitale groenlandese. Inoltre, a causa del regime di quasi monopolio di una compagnia a capitale danese, per questioni di accesso ai mercati e di prezzi, la lavorazione del pesce lungo le coste occidentali della Groenlandia, le più pescose, è simbolica, mentre il fish processing avviene per lo più all’estero: Canada, Germania, Polonia, Danimarca. Il risultato è che una comunità che basa la propria economia sul pesce, proprio mentre vi sarebbe la possibilità di sviluppo gestendo in modo sostenibile ed equo l’abbondanza di stock, si trova ad affrontare livelli allarmanti di disoccupazione, degrado sociale, alcolismo e numeri impressionanti di suicidi tra i giovani, come documenta lo straordinario lavoro fotografico di Piergiorgio Casotti1. È in questo quadro, mentre la questione Artica s’impone sui destini del mondo, che il Milan Center for Food Law and Policy intende intervenire concretamente con un progetto Groenlandia, operando con alcuni suoi partner principalmente su tre fronti. Producendo un assessement giuridico e normativo che tenga conto dei nuovi scenari causati dal riscaldamento globale. Mettendo in atto relazioni sinergetiche con i vari attori politici ed economici interessati ad un equo e sostenibile sviluppo dell’isola. Individuando una comunità sulla costa occidentale, la più colpita dagli effetti collaterali della globalizzazione, del cambiamento climatico e dalla Polar Rush, per contribuire a creare una nuova attività di lavorazione del pesce. L’obiettivo è certamente quello di creare posti di lavoro, ma soprattutto quello di restituire ai giovani groenlandesi la consapevolezza di appartenere di diritto al futuro della propria terra.

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Autore del documentario Arctic Spleen, 2014.

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ANTONIO RICCARDI da il POLO ANTARTICO1 Spedizione polare dello steamer Jeannette ottobre 1881 Lunedì 10 Abbiamo preso l’ultima razione di alcool. Ho mangiato la pelle di renna che legavo ai piedi. Ci trasciniamo in una spaccatura della riva e accendiamo un po’ di fuoco. Cena, un cucchiaio di glicerina. Siamo deboli. Pietà di noi. Martedì 11 Tormenta di neve da sud. Per nutrimento acqua calda e un cucchiaio di glicerina. Non abbiamo più legna. Mercoledì 12 Abbiamo preso la glicerina per l’ultima volta. Con poca forza cerchiamo legna. Per cena, scorza di salice artico e acqua. 22


Giovedì 13 Infusione di salice artico. Nessuna notizia di Nindermann. Rimanere qui è morire di fame. Andiamo avanti, un miglio. Venerdì 14 Infusione di salice e mezzo cucchiaio di olio dolce. Sabato 15 Infusione di salice. Dividiamo una stringa di renna. Domenica 16 Alexis è sfinito. Lunedì 17 Il signor Collins ha oggi quarant’anni. Alexis è morto questa sera. Martedì 18 Abbiamo coperto il corpo con lastre di ghiaccio. Mercoledì 19 Tagliamo la tenda per legarci i piedi. Ci accampiamo altrove. Giovedì 20 Lee e Knack stanno morendo. Venerdì 21 Abbiamo letto le preghiere dei morti, di notte e verso mezzogiorno. Sabato 22 Siamo troppo deboli per portare i corpi sul ghiaccio. Li portiamo dall’altro lato della punta. Domenica 23 Allo stremo. Letta una parte del servizio divino. Lunedì 24 Notte al peggio e crudele. 23


Martedì 25 Nulla. Mercoledì 26 Nulla. Giovedì 27 Ivorsen è sfinito. Venerdì 28 Ivorsen è morto questa mattina. Sabato 29 Dressler è morto questa notte. Domenica 30 Boyd e Gortz sono morti questa notte. Collins è morente. Da qui tutto è più verde, l’erba e la macchia del sambuco sotto le vie aeree delle poiane.

1 Il profitto domestico, Il Saggiatore “Le Silerchie”, Milano 2015, pgg. 72-74.

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GABRIELE SALARI ARTICO, IL TERMOMETRO DEL PIANETA

L’Artico è un ecosistema unico, ricco di diversità biologica e d’importanza fondamentale per la regolazione del clima del pianeta. Nell’Artico vivono oltre 20.000 specie di animali e i ghiacci artici, riflettendo i raggi solari, mitigano gli effetti del riscaldamento globale. In parole semplici, l’Artico funziona come un qualsiasi termostato casalingo. Se il termostato si guasta o non funziona bene, avremo una casa con una temperatura incontrollabile e di conseguenza ne soffriranno gli alimenti negli scaffali, le piante in salone, la nostra salute e anche il nostro portafoglio! Se l’Artico “smette di funzionare” (sappiamo che si sta scaldando due volte più in fretta di qualsiasi altra regione del mondo), ne subiranno le conseguenze tutti gli ecosistemi globali, l’intero comparto agricolo mondiale e la nostra stessa salute. Uno degli impatti più significativi del riscaldamento globale che l’Artico subisce è il rapido declino nello spessore e nell’estensione dei ghiacci. I ghiacci sorreggono l’intero ecosistema marino dell’Artico e più si ritirano e si assottigliano, maggiori sono le ripercussioni prima per le popolazioni locali e le specie animali e poi per il clima globale. Molte popolazioni indigene infatti subiscono e subiranno ancora impatti negativi, perché la diminuzione dei ghiacci fa sì che gli animali dai quali dipendono per il cibo siano sempre più rari. Alcune specie sono già da tempo a serio rischio di estinzione. Le comunità costiere sono inoltre costrette a emigrare, a causa dell’erosione del suolo, delle onde sempre più alte causate dall’innalzamento dei livelli dell’acqua e dalle tempeste che si abbattono sempre più frequentemente sulle coste. Gli orsi polari sono completamente dipendenti dai ghiacci per il loro intero ciclo vitale: dalla caccia alle foche, la loro preda principale, all’accudimento dei cuccioli. I ricercatori stanno registrando un crescente numero di orsi polari che annegano perché devono nuotare per distanze più lunghe fra un banco di ghiaccio all’altro. Anche molte altre specie come foche, balene e trichechi dipendono dai ghiacci. Le foche sono particolarmente vulnerabili alla diminuzio26


ne dei ghiacci artici, dato che partoriscono e nutrono i cuccioli sul ghiaccio o lo usano come piattaforma per riposarsi. È davvero improbabile che queste specie possano adattarsi alla vita sulla terraferma in assenza di ghiaccio durante la stagione estiva. Ma se gli effetti dello scioglimento dei ghiacciai sulla vita delle popolazioni e della fauna artica sono immediatamente tangibili, gli effetti sul clima globale sono invece lenti ma inesorabilmente catastrofici. Il ghiaccio artico riflette la luce, mentre l’oscuro oceano artico la assorbe. Se il ghiaccio si fonde, una superficie più ampia di oceano artico è esposta e quindi una maggior quantità di luce solare viene assorbita. Questo contribuisce ad aumentare il riscaldamento globale, che a sua volta causa la fusione dei ghiacci. Un circolo vizioso, una situazione in cui le conseguenze del riscaldamento ne diventano anche le cause.

Un altro circolo vizioso nell’Artico è costituito dallo scioglimento del permafrost. Il permafrost è lo strato ghiacciato che ricopre le regioni artiche. La sua fusione causa il rilascio di metano, un gas serra molto potente; questo fenomeno amplifica gli effetti del riscaldamento globale con gravi danni agli ecosistemi, all’agricoltura, alle infrastrutture e all’intero settore economico mondiale. Con il ritrarsi dei ghiacci avanzano anche le pretese delle compagnie petrolifere e dell’industria della pesca che puntano sfacciatamente ad accedere finalmente 27


alle aree prima precluse. Fortunatamente l’impegno decennale di Greenpeace e di milioni di volontari ha contribuito alla scelta di Obama e Trudeau, Presidenti di Stati Uniti e Canada, di impegnarsi finalmente per la protezione dell’Artico. In gran parte di questi territori saranno ora vietate le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi. Obama è andato anche oltre, escludendo air-gun e trivelle da un importante tratto della costa atlantica statunitense: il divieto permanente di trivellazione interessa il 98 per cento delle acque federali dell’Artico, ben oltre 465 mila chilometri quadrati. Salvare il pianeta vuol dire necessariamente salvare l’Artico. Per questo motivo, Geenpeace chiede una transizione globale verso un sistema energetico completamente rinnovabile entro il 2020, così da contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2° C.

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ANNA MARIA CARPI

PARLANO: “Pensa, è soltanto un mese. È stato il 29 di gennaio”. “Non il 28?”. “Credo di ricordare: mi hanno telefonato, verso sera, pioveva, era già buio”. “Io non c’ero, ero all’estero”. “Per me è una grave perdita”. “Anche per me”. “Credeva in Dio?” “Sì, no, non so, ma poco anche negli altri. Era un po’ disumana.” Credeva, era. Ero io. Hanno ragione, nulla da ultimo mi ha più tormentato dei ghiacci che si sciolgono nell’Artide, dell’orso bianco che non ha dove andare, nuota allo stremo e annega. Non ci posso pensare. Il mio empio amore per il bello, amore disumano, lo so bene. Orso, fratello, essere insieme a te, creatura grande bianca innocente che se ne va in bellezza, giù nel gorgo giù in Dio giù nel silenzio.

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FRANCESCO SOLITARIO LA PERDITA SIMBOLICA DEL POLO NORD

Da più parti, e sempre più frequentemente, si odono grida di allarme sul destino del Polo Nord. Il ghiaccio del Polo Nord è in pericolo. Il riscaldamento globale lo minaccia in modo irreparabile, e potrebbe toccarsi il punto di non ritorno. Gli stessi animali del Polo Nord sono in pericolo, il delicatissimo ecosistema costruito nel gelo perenne del Polo comincia a mutare, a incrinarsi. Gli effetti di una crisi del Polo Nord potrebbero avere influenza notevole sulla vita della terra intera. Questo, e altro ancora, per quanto riguarda la fine del Polo Nord geografico. Ma c’è anche un’altra valenza del Polo Nord, quella simbolica, che forse merita di essere presa in considerazione. Per tutti i popoli tradizionali il Polo Nord non è stato solo un luogo fisico ma anche un luogo fortemente simbolico, come ideale punto di collegamento tra terra e cielo. Una sorta di “porta del cielo”, ossia di un punto in cui il cielo è così vicino alla terra da costituire un tramite privilegiato tra uomini e divinità. Il Polo è tradizionalmente, dunque, un simbolo assiale, l’Albero che unisce il polo terrestre al polo celeste, ossia al centro del mondo della costellazione boreale. Per questo ogni tradizione raffigura simbolicamente il suo Polo come una montagna: così per gli indiani il Monte Mêru, la sacra montagna sede delle forze divine, e così ovunque emerga questa aspirazione alla montagna assiale del Polo, come ad esempio nelle torri dei templi indù, nelle guglie delle chiese cristiane, nelle pagode cinesi o giapponesi. Secondo l’esoterismo islamico al Polo, Quth, si trova anche la montagna Qâf, il monte della rivelazione coranica. Henry Corbin ci ricorda che i teosofi persiani situavano il loro Oriente non ad Est né a Sud, dove si rivolgevano durante le preghiere, ma: “L’Oriente cercato dai mistici, l’Oriente che non può essere rintracciato nelle nostre mappe, è in direzione del Nord, al di là del Nord”1. Questo Polo è descritto simbolicamente occupante proprio una posizione fra cielo e terra, in un punto che si trova esattamente al di sopra della Kaaba, la cui forma cubica è una rappresentazione del centro del mondo. Ne discende una forte concordanza, e quasi un’assimilazione, tra Polo e Centro del mondo o Centro mistico. Così per tutte le tradizioni il Polo diventa 30


il punto fisso, il “medio invariabile”, il polo effettivo intorno al quale si verifica la rotazione del mondo. Invariabile ma al modo del motore immobile aristotelico che tutto muove, rappresentando la stabilità intorno al quale si svolge il movimento ordinato delle forze che da lui dipendono. Nell’Y Ching, il Libro delle mutazioni cinese, è detto che tutte le mutazioni o metamorfosi sono generate dal “grande polo”, unità ferma e fissa al di là di ogni dualità yin e yang e di ogni accadimento. Come bene attesta anche Chuangtzu: “Colui che domina per mezzo della virtù celeste, rassomiglia alla stella polare: essa sta ferma al suo posto, mentre tutte le stelle volgono intorno a lei”. A dire che se la rotazione indica il continuo incessante mutamento a cui è destinato tutto ciò che si manifesta, pure rimane un punto fisso e immutabile, il Centro, immagine dell’eternità, dove tutto è presente simultaneamente. La circonferenza può ruotare, ma ha bisogno di un punto fisso per farlo; ovvero il mutamento presuppone necessariamente un principio che stia fuori dal mutamento stesso. Un principio immutabile che non solo fornisca l’impulso primigenio al movimento, ma che poi lo diriga e lo governi, in modo che la conservazione del mondo possa essere un prolungamento di quell’impulso originario, o atto creatore. Questi è definito dagli indù col termine antaryâmî, “ordinatore interno”, in quanto guida, coordina, sovrintende e governa dall’intimo del cuore del movimento, che è il suo centro immobile. Non dissimile dalle parole di Chuang-tzu è il significato classico e tradizionale dell’iconografia cristiana rappresentante la sfera del mondo sormontato dalla croce (polare, assiale), da leggere e interpretare secondo il motto dei certosini: Stat crux, dum volvitur orbis, ossia la croce rimane ferma, stabile (come un polo, appunto), mentre tutto ruota intorno ad essa. Nell’antica Cina il Polo celeste, stella o costellazione polare, è l’apogeo celeste detto Suprema vetta (T’ai-chi), ed era rappresentato dal foro centrale posto nel disco di giada chiamato Pi. È il simbolismo dell’omphalos, ombelico del mondo, alla maniera di Gerusalemme, per il polo giudeo-cristiano, o di Mingt’ang per quello cinese o, per l’antica tradizione dorico-apollinea, di Delfo; ma anche di Cuzco, centro dell’impero degli Incas, o ancora di Miðgarðr (più noto come Midgard) della mitologia norrena, letteralmente “terra del centro” e dunque polare. Polare era anche Thule (Plutarco afferma che in essa le notti avevano una durata quanto oggi è quella dei paesi boreali!), nome dato dagli Elleni alla terra, o isola, posta all’estremo Nord, da cui sarebbe venuto Apollo, dio solare e olimpico. E Tlapallan o Tullan, ma anche Tulla, veniva chiamata dai messicani 31


la loro patria d’origine. Significativo che Thule era associata al dio solare Apollo e la Tulla americana alla “Casa del Sole”. Luminosa è anche la terra originaria dei Maya che essi chiamavano Aztlan, ossia luogo dell’alba, luogo del biancore. L’Aurora borealis delle regioni artiche significa letteralmente “alba del Nord”. Ancora una volta luce e solarità “polare” alle origini dei popoli tradizionali. Le relazioni di cui abbiamo parlato sopra sono essenzialmente quelle tra l’esterno, il visibile, l’essoterico (in arabo zhair), e l’interno, l’invisibile, l’esoterico (in arabo batin), ovvero tra mondo fenomenico e mondo spirituale. L’invito era ad abbandonare l’apparenza esterna o fenomenica che racchiude le realtà interiori o nascoste, come la mandorla è nascosta nel guscio. Discorso simbolico, dove per simbolo si intende un modo di conoscenza non discorsivo che ha per oggetto la realtà metafisica, realtà più intimamente vera e reale delle cose celate sotto il manto accecante ora degli accadimenti naturali, ora degli accadimenti storici. Perché, come afferma Henry Corbin, il simbolo annuncia un piano di conoscenza diverso dall’evidenza razionale; è la cifra di un mistero, il solo mezzo per dire ciò che non può essere comunicato. La realtà metafisica la intendiamo come il livello degli archetipi (forme formanti) delle cose sensibili, contro il riflesso agnostico dell’uomo occidentale, che ha permesso il divorzio tra pensiero ed essere. Le relazioni simboliche, dunque, non sono affatto arbitrarie ma fondate: “su relazioni oggettive che una Tradizione perenne comune a tutta l’umanità – eclissatosi in Occidente a favore di una civiltà della critica – conserverebbe al di là del variare delle civiltà e delle culture. Gli archetipi costituiscono così i ritmi fondamentali ai quali le cose sensibili sono intonate e che la conoscenza simbolica si propone di rivelare”2, sebbene secondo la formula di Georges Gurvitch: “i simboli rivelano celando e celano rivelando”. E dunque, a saper leggere bene, tutto quanto detto concorre a confermare il ruolo fortemente simbolico del Polo Nord come luogo d’elezione intermediario fra la Terra e il Cielo. E un legame forte, fortissimo e antico tra Civiltà e Polo Nord, con un archetipo ben radicato nelle più varie tradizioni sparse per il mondo. Alla perdita, grave, del Polo Nord geografico se ne aggiungerebbe un’altra, simbolica, altrettanto grave, se non di più: la perdita del senso dell’Origine; la perdita del Principio, immobile, che dà ordine e mette ordine all’infinito mutare degli accadimenti e delle trasformazioni storiche del mondo! La perdita del “Centro”! La morte della Luce! 32


Pure c’è chi trarrebbe giovamento dall’eventuale scioglimento dei ghiacci del Polo e della sua perdita. Sono quelli che si apprestano, con la complicità di politici e faccendieri, a trivellare e a estrarre petrolio proprio, paradossalmente, da quei luoghi, una volta difesi dai ghiacci, che il petrolio stesso, consumato altrove in eccedenza, ha contribuito a sciogliere. E così il luogo che un tempo era considerato intermediario tra la terra e il cielo cristallino, luogo per eccellenza luminoso e solare, potrebbe diventare il luogo intermediario, all’inverso, tra la terra e il sottosuolo più buio, dalle cui viscere sotterranee cavare il nero cupo del petrolio. Una Teofania alla rovescia: invece della manifestazione della divinità, un suo nascondimento. E una contro-Ierofania: non manifestazione del sacro, ma sua eclisse. Una perdita irreparabile.

1 Henry Corbin, The Man of Light in Iran Sufism, Shambhala, Boulder, 1978, p. 2. 2 S. Biancu-A. Grillo, Il simbolo, Cinisello Balsamo, 2013, p. 50.

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PATRIZIA VILLANI

POESIA ECOLOGICA DEL FUTURO Un antiquato regesto di semi, DNA, cortecce e rizomi, visioni e profumi d’altri tempi, d’un altro universo (visitato dagli esploratori poco prima della fine) è quanto resta oggi del grande, stupefacente pianeta Terra, bianco di nubi e ghiacci alti come montagne, celesti caverne trasparenti che reggevano due poli in un fragile equilibrio di correnti e fredde acque, continenti legati in un mondo splendido d’erbe e di creature, smeraldo e cobalto e ultramarino di foreste e oceani, ocra e rosso di altipiani rocciosi e mandrie, poi colonizzato da quella specie letale d’animale che l’ha presto mutato in un arido deserto, sciolti e spezzati i ghiacci, inondati i continenti e le città costiere, il pianeta invaso da rimpianti e urla, un agglomerato di placche frantumate una torcia fumosa e ardente di veleni, infine – un’esplosione di gas, un nulla, un buco nero.

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MARIA ROSA PANTÉ

IL RUMORE DEL POLO CHE SI SCIOGLIE Il rumore del Polo che si scioglie, del ghiaccio che si stilla, goccia a goccia, confina col silenzio. Finché frana, tagliato di netto, un pezzo di ghiacciaio e grida con un urlo che forse non sappiamo: un singhiozzo feroce non di nascita, ma di morte. L’isola di ghiaccio va alla deriva e un silenzio, vuoto, si diffonde. Perché la vita si scioglie goccia a goccia inesorabile. Ci sciogliamo io e il Polo, perché siamo Uno.

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SILVIO AMAN

ISLANDLIED ad Arvo Päert

Piccoli iceberg folli di luce su specchi di antracite e d’idrargirio, riflesso incantamento di narcisi – un luogo di figure defalcate che Clivia osserva e adora per la foggia: dei cigni d’ora in ora più sottili scavati con gli strigili del sole – ma penso con sgomento anime e corpi assorbiti dal mare. Riflessi in quel sepolcro perdono volto e solfeggiano piano Spiegel im spiegel… ghiacciata e desinente sinfonia.

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ENZO REGA (IM)POETICAMENTE ABITA L’UOMO: TRA HEIDEGGER E LATOUCHE

Molti scienziati sociali mettono in discussione l’attuale modello di sviluppo, per il quale la “crescita” è un obbligo; e non solo la “decrescita”, ma anche la conservazione dei livelli già raggiunti appare di segno negativo. L’imperativo è lo sviluppo continuo, quello che Pasolini considerava sviluppo senza progresso. Un modello additato perfino ai Paesi del Terzo mondo: ma se anche questi imboccassero la stessa crescita, aspirando legittimamente al tenore di vita dei Paesi occidentali, il pianeta presto esaurirebbe le sue risorse. Una delle conseguenze immediatamente evidenti è lo scioglimento dei Poli: un evento catastrofico per la vita della/sulla terra. Sulla legittimità del modello occidentale, e sulla sua esportabilità, si sono interrogati molti antropologi. Alexander M. Ervin1 osserva che bisogna essere in grado di integrare la policy, ovvero la mera prassi politica, con la advocacy anthropology, cioè il “supporto antropologico”. Questo sembra aprire già la strada a nuove modalità di sviluppo. Nonostante ciò, gli studiosi si sono divisi su due fronti: il primo, fautore di una development anthropology, ovvero di una “antropologia per lo sviluppo”, continua a sostenere la cooperazione tra antropologi e istituzioni; il secondo fronte, che prende il nome di anthropology of development, “antropologia dello sviluppo”, critica non solo l’attuale sistema di aiuti per lo sviluppo, ma lo stesso concetto di sviluppo e la decisione di imporre il modello occidentale agli altri Paesi. In questo secondo ambito possiamo dunque considerare le riflessioni dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, che alla prospettiva della crescita a ogni costo contrappone quella di una decrescita serena 2 nello stesso mondo occidentale. Le riflessioni di Latouche, come quelle dell’antropologia contemporanea, si situano a valle del problema. È interessante incrociare queste considerazioni con quelle di un pensatore e rivoluzionario, Vincenzio Russo,3 vissuto nel Settecento, e quindi agli albori della rivoluzione industriale: egli mette già in guardia dagli esiti di uno sviluppo teso all’accumulazione di beni. I suoi attacchi al “lusso” sono una presa di posizione ante litteram contro il consumismo e le sue derive. Certo, la sua visione spartana appare severa, e il suo rifiuto dell’industria e del commercio a favore di una sobria pratica dell’agricoltura in qualche modo anacronistico rispetto ai suoi stessi tempi, ma non gli si può negare una straor37


dinaria capacità di preveggenza rispetto agli esiti di un certo sviluppo, oggi che si riscoprono pratiche alternative nell’agricoltura con un ritorno alla campagna e ai valori della natura. Queste riflessioni sono consegnate all’unica sua opera, i Pensieri politici pubblicati a Roma, al tempo della effimera Repubblica del 1798.4 Russo non esclude che le nazioni si scambino ciò di cui hanno bisogno. Quando serve a soddisfare bisogni fondamentali, il commercio è necessario per procurarsi altrove ciò che manca nel proprio Paese. Ciò nella prospettiva di una società universale, composta dall’armonizzarsi delle singole piccole entità statali, e nella quale, l’umano, l’antropologico, hanno il predominio sull’economico. Ma che cosa Russo considera legittimo possedere? “L’uomo ha bisogno dei prodotti della terra come essere fisico e sensibile, e non quale essere calcolatore. Quindi conviene cercare ne’ suoi bisogni, e non già nel suo intendimento la ragione ed i limiti della sua proprietà, delle cose necessarie alla sua vita ed alla sua perfezione”. 5 Attaccando commercio e industria, nel momento in cui nasce l’industria moderna, è come se Russo si ponesse la questione originaria della “crescita serena” (non è ancora questione di “decrescita”), che comporta un rispetto della natura, nel cui grembo invita a tornare. E il filosofo napoletano pone già la questione di ciò che, oggi, Serge Latouche chiama “abbondanza frugale” come corollario di una serena decrescita. In un’ottica diversa da quella “comunista” di Vincenzio Russo si collocano le riflessioni di Martin Heidegger (1889-1976) sulla violenza della tecnica e su un più responsabile vivere sulla terra, prendendosene cura. Da La questione della tecnica, che apre il volume Saggi e discorsi del 1954,6 possiamo trarre richiami “ecologisti”: “Il disvelamento che vige nella tecnica è una provocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata… La terra si disvela ora come un bacino carbonifero, il suolo come riserva di materiali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. L’opera del contadino non pro-voca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo”. Oggi – continua Heidegger – la natura viene invece provocata, chiamata a dare tutto ciò che serve al minimo costo: l’agricoltura viene meccanizzata e la centrale elettrica installata nelle acque del Reno. A noi constatare come accaparramento, conservazione e consumo di energia conducono a quel surriscaldamento del pianeta che mette a repentaglio le riserve di ghiaccio custodite nei Poli. La tecnica ha così negato la propria origine etimologica, se una volta i greci con téchne intendevano anche la produzione del vero nel bello, quasi sinoni38


mo di poíesis, alla poesia, al poetico bisogna allora rivolgersi per abitare in modo diverso la terra. Infatti: “Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte”. Ed è ciò che avviene nel saggio intitolato “… poeticamente abita l’uomo…”,7 che consiste in un’esegesi di una tarda poesia di Friedrich Hӧlderlin (1770-1843). L’abitare poeticamente non è semplicemente adornare con la poesia il proprio stare sulla terra. Il poeticamente indica invece un coltivare-costruire che però avviene sulla base di una misura che si costituisce mettendo in relazione terra e cielo, sede del divino, un divino che riappare negli effetti di questo poetico abitare: “Il poetare, quindi, non può intendersi neppure come un coltivare-costruire nel senso dell’edificare e apprestare edifici. È il poetare che anzitutto fa accedere l’abitare dell’uomo nella sua essenza. Il poetare è l’originario far-abitare”. Un’originarietà perduta: l’uomo dovrebbe per essenza abitare poeticamente il mondo, ma l’abitare è diventato impoetico e va riscoperta l’originaria e autentica modalità: “Un tal coltivare-costruire è possibile all’uomo solo se egli già costruisce nel senso del poetante prender-misure”. E non si tratta del misurare in senso matematico, non si tratta di quella che i diversissimi Horkheimer e Adorno chiamerebbero “ragione strumentale”. E non un’utilità in termini di contabilità matematica ha in mente Latouche. Di Serge Latouche consideriamo il più recente Per un’abbondanza frugale uscito in Francia nel 2011,8 con il quale il filosofo ed economista francese risponde alle critiche rivolte al suo concetto di decrescita – considerato retrogrado, patriarcale, utopico, tecnofobo, pauperista – e ripropone un concetto di abbondanza virtuosa come unica possibilità di uscita dalla crisi globale che stiamo vivendo, adottando logiche anti-economiche e compatibili con una società solidale. In sostanza Latouche propone la decrescita serena come rinuncia a uno sviluppo indiscriminato non perseguibile per la limitatezza delle risorse; tale sviluppo, come per Russo, si compie a scapito di altri: “Il sovraconsumo materiale lascia una parte sempre più crescente della popolazione nella penuria e non assicura un vero benessere agli altri. La ridefinizione della felicità come ‘abbondanza frugale in una società solidale’: questa è la rottura proposta dal progetto della decrescita”. 9 Anche qui, dunque, la dimensione antropologica s’impone su quella economica. Latouche osserva che la prospettiva consumistica dell’abbondanza pretende di realizzare la felicità riuscendo a soddisfare i desideri di ciascuno, ma con una contraddizione di fondo: l’estrema disuguaglianza della distribuzione 39


dei redditi rende impossibile a molti soddisfare non solo i desideri superflui, ma spesso quelli essenziali. La prospettiva della decrescita non può non provocare resistenze e l’espressione “abbondanza frugale” appare ossimorica, una contraddizione simile allo “sviluppo durevole”. Sembra magari più accettabile una “prosperità senza crescita”: “Come qualsiasi società umana, una società della decrescita dovrà necessariamente organizzare la produzione indispensabile alla propria sussistenza e al proprio modo di vita, e cioè utilizzare ragionevolmente le risorse del proprio ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi”. Quale soggetto potrà operare un cambiamento, una vera rivoluzione? E la trasformazione avverrà dall’alto, a opera di élite politiche o culturali consapevoli delle vere necessità, o dal basso, a opera di iniziative popolari? La scommessa della decrescita è, per Latouche, una scommessa sulla maturità dei contemporanei, “sulla loro capacità di scoprire che c’è un altro mondo dentro quello in cui viviamo: è una scommessa arrischiata ma necessaria, e che vale la pena di essere accettata”.10

La questione etico-politica non è disgiunta da quella ambientalista. Possiamo aggiungere che il rispetto degli altri e della terra che ci ospita è frutto di una scelta consapevole. Solo così si potrà salvare il pianeta con i suoi abitanti. Come sostengono gli studiosi del settore, i Poli rappresentano un vero termostato per il pianeta: il cattivo funzionamento di questo termostato non ha solo un effetto locale, compromettendo la sopravvivenza di specie animali e di esseri umani lì insediati, ma avrebbe un effetto globale. Per di più il ritiro dei ghiacci 40


lascerebbe altro spazio per nuove trivellazioni, e quindi nuovo inquinamento. La “decrescita” dei nostri consumi – e dei nostri consumi di petrolio – la “decrescita” degli interessi economici dei petrolieri – i cui affari sono alla base di un perverso sviluppo che non è reale progresso – sono necessari per la “ricrescita” dei poli. E i Poli sono indispensabili per una “crescita felice” per l’umanità e il pianeta. L’uomo potrà tornare (o iniziare) ad abitare poeticamente il mondo?

1 Alexander M. Ervin, Applied Anthropology. Tools and Perspectives for Contemporary Practice, Pearson / Allyn and Bacon, Boston, 2004². 2 Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2007 e Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008. 3 Vincenzio (o Vincenzo) Russo, nasce a Palma Campania nel 1770 e muore a Napoli nel 1799, giustiziato in seguito alla repressione borbonica della Repubblica napoletana. Cfr. Enzo Rega, La coscienza dell’utopia. Vincenzio Russo, giacobino napoletano, l’arcael’arco, Nola, 2011. 4 Vincenzio Russo, Pensieri politici, Poggioli, Roma, 1798. 5 Ibid., pp. 45-46 (cap. XVIII, Proprietà). 6 Martin Heidegger, Saggi e discorsi trad di Gianni Vattimo, Mursia, Milano, 1976, pp. 5-27, poi pag. 11 e pag. 27. 7 Ibid., pp. 125-138, poi pag. 136. 8 Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2012. 9 Ibid., pag. 13. 10 Ibid., pag. 138.

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ANDREA LANFRANCHI

ALCUNE CONSIDERAZIONI Dicono che la banchisa polare si stia sciogliendo. C’è chi minimizza, ma tutti lo sanno, tra non molto il dissolvimento sarà completo. possiamo ignorarlo o meno, sarà così diverso il mondo? – Chi può dirlo?... Intanto, le multinazionali pensano a come spartirsi le acque lasciate libere dai ghiacci – altri si preparano a convalidare una complessa teoria della catastrofe. Ascolta me, è sintomatico, la totale dedizione all’annullamento è il male del secolo – e questo è un fatto. È qualcosa che conosciamo bene, eppure, ogni giorno la nostra piccola insonnia il nostro piccolo rumore di fondo ci prende per mano e ci dice dove andare – e non è mai teatro questo sfogliarsi questo continuo mutare e rivestirsi tra uno stato e l’altro, questo inarrestabile finire tra un polo e l’altro polo.

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MATTEO MESCHIARI GEOGRAFIE SENZA GHIACCI

L’immaginario del freddo è poverissimo G. Bachelard

0. Si sciolgono. Stiamo perdendo ghiacciai alpini, banchise polari, scudi glaciali. Ma che cosa stiamo perdendo con il ghiaccio? Certamente paesaggi, ecosistemi, specie, ma anche un immaginario complesso, un’ecologia della mente in cui i ghiacci della terra hanno svolto per l’uomo, dal Paleolitico a oggi, una funzione cognitiva e poetica fondamentale. Fondamentale, ma non troppo evidente. Quando si parla, tra estetica e storia delle idee, d’invenzione del Monte Bianco, dei Poli, del Nord, non si parla di declinazioni gelate di un qualche lontano ignoto, di un esotismo che ha sostituito a palme e cammelli i trichechi e gli iglù. È qualcosa di più profondo, qualcosa di primario, che ha a che fare con la possibilità stessa di pensare il mondo. Proverò a spiegarlo in poche note. 1. L’immaginario poetico legato al fuoco, alla fiamma, all’incendio è entrato stabilmente nel linguaggio comune: “infiammarsi”, “fiamma della passione”, “incendio dell’anima”, “fuoco interiore”, “fuoco sacro” sono solo alcune espressioni tra le innumerevoli che le nostre rêveries del fuoco hanno inventato per connotare emozioni, stati d’animo, condizioni mentali. Il fuoco ha accompagnato per decine di migliaia di anni le introspezioni umane, dal focolare paleolitico alla fiamma della candela sul tavolo dello scrittore. Non così il ghiaccio. C’è qualcosa nel ghiaccio che resiste all’immaginario, che frena la rêverie. Pensiamo alle parole più comuni: ghiaccio, ghiacciaio, glaciazione, glaciale, ghiacciato, agghiacciante; neve, nevoso, innevato; gelo, gelato, gelido; brina, brinato. Quante di queste parole vengono usate comunemente in un registro metaforico? Solitamente solo “ghiaccio” e i suoi derivati “glaciale” e “agghiacciante”, e ovviamente “gelido”. Quello che stupisce è che l’uso traslato di queste parole ha un’incredibile monotonia di significato: mentre il fuoco serve a indicare passioni diverse, talora opposte, dall’ira all’amore, il ghiaccio ha una connotazione quasi solo negativa, al limite neutra: il suo valore metaforico non si stacca dalla semantica dell’assenza di sentimenti e passioni, della freddezza interiore, del vuoto. Ma forse è proprio questa sua resi43


stenza alla metaforizzazione, questa monotonia, che ci aiuta a caratterizzarlo meglio. Si tratta insomma di un terreno che resiste, che frena la metafora, che letteralmente raffredda la rêverie. Il ghiaccio, per così dire, fa una doccia fredda al fuoco dell’immaginario, e soffoca nella sua imperturbabilità l’incendio dell’eccesso immaginativo. 2. Se restiamo nei limiti angusti della lingua parlata rischiamo il banale. Dobbiamo invece chiederci: qual è il poetico del ghiaccio? C’è qualcosa che spinge la mente del poeta a cercarlo? Siamo di fronte a una rêverie primaria, fondante, o è solo il riflesso, lo speculare, l’antifrasi di una ben più ricca e originaria rêverie del fuoco? Anzitutto possiamo osservare che se la fiamma dilata, il ghiaccio coagula, se la fiamma è volo verticale il ghiaccio è un ritorno alla terra, e cioè, alla verticalità dell’eccesso, oppone, aprendola, un’orizzontalità dei grandi spazi: Gaston Bachelard ha detto che “la fiamma è un mondo per l’uomo solo”, qui potremmo definire il ghiaccio una solitudine per l’uomo nel mondo. Se per la lingua ordinaria “ghiaccio”, “glaciale”, “gelido” sono condizioni negative dell’anima, per alcuni poeti il ghiaccio può farsi spazio, può diventare un altrove in cui raggelare un eccesso di passione, una passione individuale, o la passione condivisa da un’epoca. Solitudine come solitudines, deserto, wilderness, suolo assoluto per raffreddare nello spazio le fiamme del tempo e dei tempi, per mettere a tacere sotto una coltre di neve la fretta del quotidiano o la distruttività di una storia che divora gli spiriti come un incendio. Il ghiaccio è morte, certo, inutile girarci attorno, ma morire al secolo, seppellirsi nell’anonimato di terre come l’Islanda, la Groenlandia o la Patagonia, è un sogno che probabilmente ha sfiorato chiunque. 3. Chi ha pratica diretta di luoghi glaciali sa bene che il gelo arde, ma senza fiamma, asciuga, erode, ma non incenerisce, un po’ come i grandi ghiacciai che asportano parti morbide del terreno e lasciano alle montagne la loro ossatura più solida. C’è differenza se diciamo “ghiaccio” oppure “ghiacci”: il primo è acqua rappresa, i secondi sono tutte le acque ghiacciate in ogni forma, dalle lastre scivolose delle pozzanghere alle placche di fiumi rappresi in scioglimento, dai grandi scudi glaciali del Paleolitico ai Poli delle spedizioni artiche. Se diciamo “ghiacci” diciamo immediatamente spazi, i grandi spazi bianchi, non scritti, dove l’eccesso è eroso, portato via, dove resta solo l’essenza di ciò che si cerca. Perché, lo sappiamo, esistono poeti che pensano il ghiaccio come derivato dell’acqua, come sottoprodotto di un archetipo, ma ci sono anche poeti che pensano il ghiaccio come un minerale, riportandolo così alla sua materialità terrestre. L’acqua che si ghiaccia è tempo che si ferma, invece i grandi ghiacci della terra sono il tempo trasformato in spazio. Brina e neve sono legate a quella che Ba44


chelard chiamava la miniatura intima, la dimensione del dettaglio, il microcosmo in cui assopirsi e trovare dimora, forse pace. Ghiacciai e banchise rimandano invece all’immensità, al fuori, all’aperto inabitabile, ma sono anch’essi un rifugio, largo, che oscilla tra utopia e ucronia. Non più una piccola fuga dal mondo, insomma, ma un’esplorazione condotta da balenieri, alpinisti e cacciatori artici. 4. Bachelard, in La terre et les rêveries de la volonté, dedica un capitolo alla brina. La sua analisi lo porta a concludere che per molti poeti la brina è una sorta di “spirito di finezza cosmica” che penetra ogni cosa, che può purificare tutto. Un mondo impuro si copre di brina, ed eccolo sanato. Ma la purezza immaginata, dice Bachelard, nasconde in definitiva una “volontà di purificazione”. Immacolato come la neve, si dice, e l’eco mariano è nell’orecchio di tutti. Come in Neiges di Saint-John Perse, un testo composto nel 1944 a New York, dedicato alla madre del poeta, e dai chiari ipotesti cristiani. La Neve, la Madre, la Vergine, e una città sporca, un mondo contaminato che attende purificazione: E poi vennero le nevi, le prime nevi dell’assenza, sui grandi teli tessuti del sogno e del reale; e rimessa ogni pena agli uomini memori, ci fu freschezza di lini alle nostre tempie. E fu al mattino, sotto il sale grigio dell’alba, un po’ prima dell’ora sesta, come in un porto di fortuna, un luogo di grazia e pietà in cui licenziare lo sciame delle grandi odi del silenzio. Per Saint-John Perse la neve raffredda gli altoforni della modernità, si stende sulla febbre dell’uomo, tesse bende per le bruciature dei viventi e, come un nuovo Eden, ci assolve, ci grazia nella nostra condizione di esuli. Il suo è insomma un ghiaccio che lenisce. 5. Per il ghiaccio come minerale, può servire un’altra riflessione di Bachelard. Sempre in La terre et les rêveries de la volonté, osserva che “il metallo è la sostanza stessa della freddezza e questa freddezza si presta a tutte le metafore. Se Hermann Keyserling scrive: “La freddezza è il calore specifico del metallo” è per ritrovare la vita fredda della terra, la vita di ogni esistenza a sangue freddo, quella che egli stima essere la vita di base di tutto il continente. L’ostilità del metallo è anche il suo primo valore immaginario. Duro, freddo, pesante, angoloso, ha tutto ciò che serve per ferire, per ferire psicologicamente”. Se nella brina, nella neve il passaggio dall’acqua al cristallo si gioca nell’ordine della miniatura, e per così dire non turba i sentimenti, il passaggio di scala dal fiocco di neve al ghiacciaio chiede all’emozione un salto, una giustificazione. Solo una grande 45


collera può aver rappreso l’acqua in ghiaccio. Così in Mont Blanc di Shelley, del 1816: […] I ghiacciai strisciano come serpenti in attesa di preda, dalle loro lontane scaturigini, lentamente dondolandosi. Là, il Sole e il Gelo a dispetto di ogni mortale potere hanno ammassato duomi, piramidi, pinnacoli una città di morte, adorna di molte torri e mura imprendibili di ghiaccio irradiante. Eppure non una città, ma una marea di rovine è quella, che dai confini del cielo rotola in perpetua corrente; vasti pini sono sparsi sul suo destinato sentiero, o sul suolo maciullato stanno senza rami e stenti; le rocce, spinte giù da quella remota rovina lassù hanno sconvolto i limiti del mondo dei vivi e dei morti, che non potrà mai essere redento. La peculiare “geognostica” di Shelley ci dice qui che le montagne insegnano un’ostilità assoluta del ghiacciaio, metafora di una condizione universale di caducità e impermanenza. Un luogo senza redenzione, l’esatto contrario della neve di Saint-John Perse. Il suo è quindi un ghiaccio che ferisce. 6. Qual è allora l’intimità inconscia nascosta nei sogni del ghiaccio? In Saint-John Perse un desiderio di purificazione, in Shelley una specie di complesso di Medusa, la volontà di pietrificare, di proiettare ostilità, una rabbia rappresa, bloccata nel suo eccesso, un’istantanea d’ira. La collera del fiume tumultuoso si fossilizza in un’esplosione sorda, glaciale, una tensione permanente, ipnotica. Mentre la neve si stende morbida sulle ustioni interiori. Ecco, bastano due esempi per dire che il ghiaccio ha una doppia anima. Finché è miniatura, candore, l’animo riesce a raccogliersi in esso, fa nido e trova sollievo dall’aperto, dal mondo degli incendi. Quando invece il ghiaccio è immenso e opaco, la sua ostilità preme l’animo nel fuori, e lo costringe a farsi nomade, a seguire le grandi piste della selvaggina artica. È probabilmente un miscuglio di entrambe le cose che ha spinto certi uomini ai Poli: sonno, silenzio, anestesia, ma anche solitudine, esposizione, collera. E ora che si stanno sciogliendo, che cosa mancherà al nostro immaginario? Quali terre mentali avremo perso per sempre? 46


ANGELA PASSARELLO NOMEDALEN Nel bianco privo d’ombre gli orsi sembrano non temere insidie sovrani nella neve lasciano orme sull’iceberg rivolti con lo sguardo verso Nomedalen1

1 Nomedalen in lingua norvegese è nome. Il norvegese Jafet Lindeberg, cofondatore di Nome,

città dell’Alaska, l’aveva chiamata Nomedalen.

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SILVIA VENUTI

FLASHBACK METAFISICO Frammenti minuti di specchi sulla neve gelata. La bellezza non ha da giustificare se stessa. Ogni impronta una nicchia d’ombra, i rami proiettati percorsi, simboli, astrazioni d’un Universo bianco. Passata la nube, com’è nitido il profilo del ghiacciaio! Il gelo non ha tacitato l’acqua, la neve parla ancora da vene nascoste.

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MASSIMO MAGGIARI SUI MITI ARTICI DELL’ABISSO

La balena è un alleato per gli inuit. Dentro e fuori la caccia. Essa conosce la storia dell’antica terra madre attraverso tutte le sue epoche fornendo sia saggezza sia nutrimento al corpo. Ma tutti sanno anche che la balena è protetta dalla potente Sedna, dea degli abissi blu. Era stato lungo e ricco d’incontri, come pure d’imprevisti, quel viaggio così esplorativo nel cuore del passaggio a nord-ovest. I successivi voli dalla costa est degli Stati Uniti, come quelli al ritorno da Gjoa Haven, mi avevano obbligato a fare tappa in una piccola ma importante cittadina del Canada settentrionale, Yellowknife, la capitale dei territori del nord-ovest, All’arrivo in aeroporto avevo notato da subito delle differenze rispetto agli altri scali visitati. Senz’altro erano state delle impressioni superficiali, generate da macroscopici dettagli che suggerivano ai viaggiatori in transito la prossimità del mondo antico. Ad esempio, un paio d’orsi polari da diorama disneyano erano stati posti a fianco dei tapirulan in attesa dei bagagli in arrivo. L’approdo avveniva di solito da due direzioni opposte. Vale a dire, dalla trafficata Edmonton a sud, e dal remoto nord di Pelly Bay, Resolute, Cambridge Bay, Gjoa Haven ed altre microcosmiche destinazioni disperse nell’immenso territorio di Nunavut. Gironzolando nei corridoi m’imbattevo in molti qallunaat (bianchi) come me che andavo su e giù, e di fretta, lungo le lise passatoie. Erano gli ingegneri, i dottori, i tecnici, i minatori, i camionisti, i giovani avventurosi che offrivano mano d’opera all’economia locale. Li aspettavano tre mesi di massacranti turni di lavoro nei giacimenti d’oro e diamanti. Forse soldi a palate, a settentrione del perimetro urbano, in terre frigide e desolate, raggiungibili solo grazie alle iceroads (le strade di ghiaccio) e ai suoi convogli. Nelle salette d’attesa laterali, l’atmosfera era invece diversa. Si aspettava l’imbarco per i villaggi inuit. C’erano intere famiglie in quei budelli di prefabbricato, per lo più col sorriso stampato sul volto. In rare occasioni, qualche sguardo sembrava leggermente distratto dai messaggi diffusi dall’altoparlante. Nonostante l’artificiosità della voce, anche in quel frangente rimaneva il sole radioso spalmato sugli occhi mentre il volto brillava rosso. C’è da stentare a crederlo eppure sono tante le destinazioni disperse in quel labirinto di 36.563 isole collocate tra Groenlandia e il mare di Beaufort, e poi l’Alaska. Solo una stirpe di cacciatori è potuta sopravvivere lassù lungo la verti49


gine polare dei secoli. Solo i cacciatori di foche, di trichechi e di caribou. Solo loro, quella gente così antica. Così ostinata da aggrapparsi a uno scoglio di vita, perfino nel vasto biancore del Grande Nord. Gente sifatta per forza di cose deve essere tutelata e ispirata da un daimon particolare. Uno spirito che rivela allo stesso tempo un carattere severo e generoso, a tratti materno, seppur tenacemente cosmico. Beh, è proprio lassù sul tetto del mondo che sopravvive ancora oggi il regno di Sedna. La regina dell’abisso blu dove figliano le creature marine. La misteriosa protettrice del popolo inuit è Lei. Dagli inizi del mondo. Sapete, tutto comincia dall’acqua. Ci sono tanti tipi diversi d’acqua, quella dei fiumi, delle piogge, delle cascate, delle fontane che zampillano, degli umori acquei dentro l’essere umano. Ma è solo dall’acqua marina che sono state generate tutte le creature. Molto tempo fa. Nel tempo in cui gli alberi crescevano sul fondo del mare e i bambini nascevano dal suo magma viscoso, avvolti in un’oscurità spessa come la nebbia. È precisamente in quest’elemento che vive Sedna col suo profilo mitico. Dalla notte dei tempi, o giù di lì. Dall’Alaska alla Groenlandia, i suoi nomi cambiano, è la Signora delle balene, delle foche, dei trichechi e delle anime dei morti. Lei è imam-shua (lo spirito del mare) per i Chugach, Nuliayok (la Madre del mare) per gli iglulik, Nerrivik (il piatto dove si mangia) per il gruppo inghuit di Qanaaq. Come pure Takanakapsaluk (la terribile Signora degli abissi) per gli iglulingmiut (altro gruppo iglulik) che la temono con velato disprezzo. Nonostante le varianti regionali, la sua personalità perdura immutata e rimane solo Lei come Signora dei mari, dei suoi fondali, e delle sue mille creature. Sull’isola Baffin è Sedna, o Sanaq nonché Sana, altrove Qavna, semplicemente “colei che si trova laggiù” nelle profondità oceaniche. Ma chi è Sedna? Il suo mito nasce da una storia antica e misteriosa. Per capirne il senso, non ci resta che narrarla. Molto tempo fa vivevano su una deserta spiaggia un padre e una figlia. L’uomo era vedovo e quella sua vita tranquilla con la piccola gli bastava. Gli anni passarono e Sedna diventò una giovane donna bella e molto orgogliosa, al punto da non accettare le galanterie dei molti ammiratori. Il tempo si sa vola e la sua bellezza fiorì sempre più. Un giorno un uccello grande e nero si fermò a corteggiare quel suo bel volto usando il canto. Era una procellaria artica che veniva da lontano, una terra oltre la cortina degli iceberg. Nel vocalizzo rapì lo sguardo della fanciulla carpendo il sogno dell’innamoramento. L’invito alla partenza non si fece attendere. Una a una, le parole dell’animale avvolsero la giovane in un manto di aggraziata dolcezza: “Vieni via con me nelle terre dei miei fratelli… una terra distante dove non conosciamo la fame… laggiù in quel mondo… giorno e notte godiamo di un calore e una luce viva… mentre intorno tutto è adorno di pelli e piume morbidissime”. Il canto furtivo s’insediò nel cuore e il commiato fu improvviso. Insieme si lanciarono 50


per il vasto oceano intraprendendo un lungo viaggio. Arrivati a destinazione, Sedna si rese subito conto che era stata ingannata. Il cibo era misero, sempre dello stesso pesce, e il fragile rifugio aperto a venti e tempeste. La giovane capì allora che era stata poco saggia a rifiutare le attenzioni dei giovani inuit che l’avevano cercata e ammirata. Afflitta cominciò a intonare un canto: “Aja. Oh padre, se sapessi quanto infelice sono prenderesti la tua barca per venirmi a prendere e riportarmi a casa. Qui io sono straniera, e gli altri uccelli mi guardano con cattivo auspicio mentre il mio letto è sempre algido la sera e la pancia languisce spesso semivuota. Aja. Aja.” A un anno dalla partenza, con la stagione dei venti caldi, il padre s’imbarcò per andare a visitare Sedna. Alla vista dell’uomo, la figlia pianse di gioia. E il padre capì che Sedna era stata maltrattata e senza indugi agì. Lo sposo-procellaria fu ucciso all’istante esaudendo il desiderio di vendetta e la figlia accompagnata alla barca per il viaggio di ritorno. Siamo a un passo cruciale della storia, anche se in realtà sin dal suo incipit le varianti si moltiplicano a macchia d’olio nell’immenso arcipelago artico. Scelta la versione raccolta da Franz Boas, la seguiremo a piccoli passi. riflettendo. A questo punto padre e figlia imbarcati spariscono in un batter d’occhio dall’orizzonte. Ma l’imbarcazione a breve viene inseguita dai compagni dello sposo che non trovando nel rifugio né lui né Sedna, hanno intuito la terribile verità. I loro cuori sono affranti dal dolore e gridano a loro volta vendetta. Avvistati i due fuggitivi, evocano magicamente una tempesta e il mare risponde con enormi onde e sferzate di vento. Vedendosi vicino alla morte, il padre decide di restituire Sedna allo sciame di uccelli incolleriti. Gettata in mare, la povera Sedna si aggrappa ai bordi dello scafo disperata implorando il salvataggio. Il padre però non ha esitazioni: preso il coltello, le taglia un primo dito. Il pollice caduto in mare rapidamente si trasforma in una balena, mentre l’unghia dello stesso dito si trasfigura nelle ossa del cetaceo. Ancora più terrorizzata Sedna non lascia andare la presa e incattivito l’uomo le taglia le altre dita da cui si generano nuove creature quali le foche, le narwhal e i trichechi. Come se non fosse bastata quell’amputazione, la ragazza viene addirittura accecata di un occhio. In quel preciso istante Sedna s’inabissa nel blu plumbeo di un mare ancora agitato. E di lei perdiamo vista e tracce. Abbandonando parimenti la narrazione. Non è facile comprendere una storia così apparentemente cruenta. Gli stessi inuit, come è stato osservato dallo stesso Knud Rasmussen, hanno avuto una posizione ambigua rispetto a Sedna attraverso i tempi, ossia contemporaneamente rispetto, timore e rabbia. Ai giorni nostri gli anziani considerano Sedna una delle tante divinità presenti nel mondo naturale. Ma i giovani inuit hanno 51


preso uno speciale interesse di quella figura e tendono a rappresentarla artisticamente. Durante il mio breve soggiorno a Yellowknife sono incappato in una sacra rappresentazione intitolata per l’appunto “Sedna”. Si trattava di una resa creativa e teatrale del mito della Signora del mare con una multimedialità ben costruita intorno a delle enormi tele dove la storia veniva prima raccontata e poi disegnata, pitturata e musicata. Debbo dire che l’effetto di quella messa in scena era stato convincente e gradevole. Le giovani donne sul palco sembravano sentitamente impersonare quegli aspetti che nel nostro mondo ci ricordano tanto Diana/Artemide. Vale a dire, la forte indipendenza, la vocazione al sacrificio e il mistero della metamorfosi che le pone in stretta simbiosi col mondo naturale, e non solo. Uscito dal teatro a notte fonda, dopo lo show, un altro spettacolo mi attendeva in quel magico aprile. Le luci boreali danzavano tutto intorno al centro abitato in una costante caduta lungo le vorticose spirali. Fatiscenti si spegnevano planando appena sopra i tetti delle case. Aggiungevano al cielo una prospettiva di profondità che rendeva il paesaggio notturno immensamente sublime e misterioso. Per quell’inaspettata bellezza, Sedna aveva forse realmente propiziato la serata. Non mi restava che chiedere agli sciamani di Sedna e dei suoi significati nascosti, per capire di più. Eppure ci vorranno ancora anni di studio, viaggi orientati sempre più a nord e conseguenti avventure immaginali. Intuivo che il potere di Sedna era in quello smembramento di dita e nei gesti che accompagnavano il naufragio. Dovevo però scoprire un’altra storia antichissima per entrare più all’interno di quel mito. Essa raccontava che ai primi cacciatori bastava semplicemente puntare l’indice verso una preda per catturarla. Ma solo dopo che un leggero umidore di saliva aveva reso quel dito luminoso. Si creava così una coniunctio tra fisico e spirituale accoppiando il cosmo alla corporalità. Semplicemente di questo si tratta. La nostra individualità è meno separata dal resto dell’universo di quello che pensiamo. Il potere segreto è nel relazionarsi con infinità umiltà. Le molteplici forze di cui siamo agenti e destino implicano connessione. Paziente gestazione. Ricettivo silenzio. Nell’oceano risiede il mistero delle origini e di tutte quelle creature che potenzialmente sono state sprigionate nei secoli. Laggiù, per accumulo, dimora un immenso bacino di conoscenza. Lo sciamano groenlandese Angaangaq Angakkorsuaq sostiene che l’oceano è il Signore della conoscenza. Tuttavia risulta tale in quanto sempre affamato di conoscenza. Per questa ovvia ragione le sue onde, le sue maree, le sue correnti, all’occasione catturano una persona e la portano via. Per sempre. In un immenso acquario di sapere enigmatico.

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MASSIMO MAGGIARI

SULLA BANCHISA Sai… il ghiaccio che circonda il vascello è intenerito Dal silenzio di questo tempo così dilatato. Sarà forse laggiù la breccia? L’improvviso crepaccio d’apertura verso il mare aperto. In attesa, non conta il pulsare di un comando Bensì la speranza impreziosita Da un gesto d’arresa. Senza mappa o rotta Assecondarsi a un flusso del vento Delle maree, degli imprevisti, ancora conta. Quanto pure non più spaurirsi della parola fine Ma fecondarsi in orizzonti labili e gentili Aspersi di luce, fino alla cruna del mondo.

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FRANCESCO BENOZZO GLACIALE IMPERITURO

Immaginate pure le dimensioni delle terre emerse ridotte ai frammenti che ora – 2017 – abitiamo. Ascoltate pure la scienza e l’ecologia, le loro cerimonie dialettali e macabre, le loro celebrazioni delle colonie di un tempo. Perdetevi pure nelle loro nostalgie, nei rivoli allarmati, nei moniti planetari, nei gemiti applauditi o contestati. Fatene parte, in branco o come individui consapevoli. Tutto oramai celebra la decadenza: prendete posto, nelle piazze o negli appartamenti, perché, in fondo, “che la festa abbia inizio!”. E siano dunque liberati e propagati: i pianti di ammirazione, le finte resistenze, gli sforzi individuali, salvifici, incontestabili. Viva la libertà! – certo – che viva! Ma guardate il poeta – quattro del pomeriggio di un giorno qualunque. Appartato e lontano. Sempre lontano, ancora più lontano. Preso per necessità dal proprio inutile destino. Guardate anche il poeta, di tanto in tanto. Decadde l’impero e restarono i poeti. Decadde l’antica alleanza e restarono i poeti. Decadde ogni illusione di trascendenza e chi restò, a parte i poeti? Glaciazioni, desertificazioni, annientamenti. Poiché il poeta ne è parte, egli non potrà mai commemorarne l’assenza. Bene, i ghiacci si sciolgono, i grandi draghi di un tempo sono estinti. Le civiltà scompaiono – artiche, subartiche. Chiedete a me di celebrarne la grandezza? Lo chiedete a un poeta scampato al nubifragio? Al naufrago, lo chiedete, di lamentarne la perdita? Tutte le perdite ci seducono, tutte le sconfitte ci coinvolgono. Ma se lo sguardo del poeta è incondiviso, se la sua voce è sempre e solo solitaria, come potrà, lui, essere voce del disastro? Che si sciolgano i poli, i grandi ecosistemi. Che il mondo vada a estinguersi, dopotutto. Ma che il poeta sia là, a parlare di batteri, di organismi scampati, di vertigine. Del perdurare di striature e sortilegi. Nel suo disgusto della folla e del mondo, egli non potrà mai condividere una nostalgia. Solo il peggiore dei poeti di sempre potrà provare nostalgia per i ghiacciai. Il poeta epico degli elementi dirà soltanto che essi furono possenti. 54


DOSSIER I POETI DELLA FONDAZIONE BOGLIASCO AL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA DI GENOVA “PAROLE SPALANCATE”

Donatella Bisutti Neil Curry Peter De Ville Angela Pradelli Eva Taylor

Con la collaborazione della Fondazione Bogliasco e del Festival Internazionale di Poesia di Genova.

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Fondazione Bogliasco – La Villa dei Pini

Fondazione Bogliasco – La Biblioteca

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I POETI DELLA FONDAZIONE BOGLIASCO UNA SINERGIA IMPORTANTE Nel novembre 2015 ho avuto il privilegio di diventare Fellow della Fondazione Bogliasco, una fondazione americana che ha sede a New York ma opera da vent’anni a Bogliasco, vicino a Genova, offrendo a scrittori, poeti, artisti e studiosi di discipline umanistiche l’opportunità di una borsa di studio che permetta loro di essere ospiti per un mese in un luogo di grande fascino dove è possibile lavorare con tranquillità e nello stesso tempo scambiare informazioni ed esperienze con gli altri Fellows residenti, arricchendo le proprie conoscenze e il proprio lavoro. Durante questo mio soggiorno è nato in me un sentimento di stima e di amicizia nei confronti dello Staff della Fondazione e con questo il desiderio di poter tenere vivo questo rapporto. Ogni anno, in giugno, in sinergia con il Festival di Genova, fondato e diretto anch’esso da più di vent’anni da Claudio Pozzani, cui anche mi legano sentimenti di stima e di amicizia, la Fondazione seleziona alcuni dei poeti che in precedenza sono stati ospiti, e che ne facciano domanda, per partecipare a un evento di poesia che si svolge sia a Genova, sia a Bogliasco nella sede della Fondazione, e che rientra nel programma del Festival stesso. Così ho pensato di dare a questo evento, la forma di un Dossier nell’ambito della Rivista Poesia e Conoscenza da me diretta, in quanto ho avuto il piacere di poter partecipare e rendermi conto di persona dell’interesse di questo avvenimento che vede confluire, com’è nello spirito della Fondazione, ogni anno poeti di diversi Paesi le cui letture permettono di mettere a confronto diverse culture e diversi “climi” poetici. Mi è parso così anche di poter contribuire a far conoscere la meritoria attività di questa Fondazione, forse ancora non abbastanza nota in Italia. Donatella Bisutti

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CHE COS’È LA FONDAZIONE BOGLIASCO? La Fondazione Bogliasco è una fondazione non profit americana, con sede nello stato di New York e sede operativa a Bogliasco, in provincia di Genova. Le Borse Bogliasco vengono assegnate a persone qualificate impegnate in tutte le arti e le discipline umanistiche senza alcuna restrizione di nazionalità, età, razza, religione o sesso. In seguito ad un complesso processo di selezione delle domande pervenute, ogni anno vengono ospitate 50 persone, per un periodo di tempo di circa 33 giorni. La Fondazione Bogliasco ha iniziato la sua collaborazione con il Festival di Genova nel 2009: ci è parso naturale a un certo punto della vita del Centro Studi Bogliasco condividere con il pubblico bogliaschino e genovese almeno una piccola parte di quello che i nostri Borsisti (Fellows) creano o producono durante la loro residenza presso la nostra struttura, spesso cogliendo ispirazioni dal luogo e dalla particolare atmosfera di scambio e di condivisione. Iniziammo questa nuova filosofia di apertura e dialogo partecipando al Festival della Scienza nell’autunno 2008, rendendoci conto che persone e istituzioni erano veramente interessati a vedere, capire che cosa volesse dire in pratica organizzare Borse di Studio residenziali (Fellowships) per umanisti e creativi e quale potesse essere il risultato. Se è vero che gli italiani sono un popolo di poeti – questo molti stranieri pensano di noi forse riferendosi alla musicalità della nostra lingua e ai natali dati a personaggi epici come Dante, Petrarca e Montale – la poesia è apparsa il mezzo naturale per comunicare con il pubblico. Il contesto ideale era offerto da Claudio Pozzani, che stava affermando sempre più il suo festival a livello internazionale e locale, maturando una coscienza poetica nel pubblico genovese molto rara e preziosa. Le prime edizioni, dal 2009 al 2013, si sono svolte alla Sala Bozzo di Bogliasco, sala multifunzionale del Comune di Bogliasco che è da subito diventato nostro partner in questa avventura, e tuttora lo è. Dal 2014 le letture poetiche si sono spostate nel giardino di Villa dei Pini, nostra sede a Bogliasco: questo ha consentito la realizzazione di eventi ancor più articolati e accoglienti per il pubblico soprattutto grazie al nostro bellissimo giardino, al contributo di musiche, video, foto di altri borsisti e di creativi genovesi nostri sostenitori. In questi anni abbiamo stimolato i nostri Borsisti Poeti a presentare una candidatura che viene vagliata dal Direttore artistico del Festival, Claudio Pozzani. Sono 38 i poeti che sono ritornati da tutto il mondo a Bogliasco e a Genova per leggere i loro versi nei luoghi che molto spesso li hanno anche ispirati: la nostra città, il nostro mare e la nostra natura, l’esperienza vissuta al Centro Studi. Nel mese di giugno il Centro Studi, pur avendo terminato a fine maggio il programma residenziale, riapre per quei fatidici 5 giorni che consentono l’accoglienza dei poeti invitati a fare alcune letture sia a Bogliasco sia a Genova sul palco di Palazzo Ducale o in altre sedi dedicate al Festival. 58


Il bilancio di questa collaborazione è di certo positivo per noi, sia per la partecipazione e il consenso del pubblico che per l’interesse dei Borsisti che sempre più numerosi scrivono per candidarsi al Festival. Anche lo staff del Centro Studi, diretto da Ivana Folle coadiuvata da Alessandra Natale e Valeria Soave, è cresciuto in questi anni nella sua capacità di organizzare momenti emozionanti e serate di scambio culturale aperte al pubblico nell’intenzione di proporre un ulteriore valore aggiunto al territorio e ai suoi abitanti. Ringraziamo dunque Donatella Bisutti, Neil Curry, Peter De Ville, Angela Pradelli e Eva Taylor per la partecipazione all’edizione 2016 e per le belle emozioni vissute grazie alle loro parole. Un grazie a Claudio Pozzani per aver rinnovato con entusiasmo la collaborazione con la Fondazione e ancora una volta a Donatella Bisutti in veste di Direttore della rivista letteraria Poesia e Conoscenza che gentilmente ospita questa pubblicazione. Testo a cura della Fondazione Bogliasco www.bfny.org

Il giardino di Villa dei Pini

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I BOGLIASCO FELLOWS E IL FESTIVAL DI GENOVA (10-19 GIUGNO 2016) Il Festival Internazionale di Poesia di Genova è diretto con entusiasmo da Claudio Pozzani e merita ampio riconoscimento. Include più di 100 eventi tra letture, performance, mostre, conferenze, visite a luoghi poetici, concerti e proiezioni, tutto all’insegna di ampliare il più possibile il significato del termine “poesia”. Si tratta di una settimana di celebrazione della poesia senza limiti stilistici o barriere linguistiche, che avviene grazie ai finanziamenti di enti locali e dell’Europe Creative Program, alla collaborazione di 30 persone, di 40 volontari e partners, che condividono la filosofia della gratuità degli eventi del programma. All’inizio si è trattato di una risposta alla situazione troppo formalizzata della poesia italiana prima degli anni ’90 e dei suoi Festival, successivamente ulteriore stimolo è arrivato con la trasformazione di Genova e del suo centro storico in metropoli moderna. Questo è avvenuto grazie alle celebrazioni della scoperta dell’America di Cristoforo Colombo tenutesi nel 1992. La coraggiosa decisione fu quella di organizzare l’Esposizione Internazionale nell’area del porto antico che fu ridisegnato completamente dall’architetto genovese Renzo Piano. I giovani poeti italiani erano ansiosi di espandere i propri orizzonti letterari. Pozzani, già coinvolto nel Circolo dei Viaggiatori del Tempo, organizza il suo primo Festival nel 1995, intitolato Genovantacinque. Nel 2000 il nome del Festival cambia in Parole Spalancate, sfruttando il gioco di parole con il termine genovese palanche – soldi – nel contesto della situazione economica disastrosa del settore poesia, motivato dal fatto di non essere più considerato uno “spettacolo dal vivo” da parte del Ministero della Cultura e, pertanto, non finanziato. Il Festival afferma la sua intenzione di fare la “Ricostruzione Poetica dell’Universo”, desiderio ambizioso che si è concretizzato dal 2002 con la pubblicazione del manifesto di Lawrence Ferlinghetti, Alejandro Jodorowsky e Claudio Pozzani tra gli altri. Fu distribuito lanciandolo dal tetto del Palazzo Ducale di Genova. L’obiettivo era quello di risvegliare i pensieri e l’immaginazione del pubblico dall’apatia derivata dal considerare la poesia un gioco inutile e insensato di sognatori, il che si rispecchiava nella scarsa considerazione in termini di fondi, e rinforzare il concetto che la poesia è una forza dinamica, visionaria e creativa per il mondo. Si tratta di un chiaro rimando alla vivacità del manifesto della poesia della Beat Generation americana e a quello del Futurismo di Marinetti, però senza contenuti politici di nessun genere. Il Festival comporta sessioni di Readings Internazionali che fanno convergere a Genova moltissimi poeti da tutto il mondo, rappresentativi di culture molto diverse tra loro, in cui talvolta l’oralità diventa importante come il testo, se addirittura non lo rimpiazza utilizzando significanti tipici della tradizione dei bardi, più che sole parole. Gli stili e le atmosfere sono stati svariatissimi. I cinque poeti Bogliasco Fellows, oltre a me 60


stesso Donatella Bisutti, Neil Curry, Angela Pradelli ed Eva Taylor, sono stati invitati a dar il loro contributo in questo panorama. Nessun’altro festival italiano ha questa energia e capacità innovativa. Persino il Direttore del Festival della Scienza di Genova ha voluto partecipare, spiegando la”danza dello spazio-tempo” e le onde gravitazionali, e come la poetica della teoria dei Quanti influenzi la nostra visione del mondo. Questo ha avvicinato poesia e scienza nell’intento perseguito di una “Ricostruzione Poetica dell’Universo”. Il festival dura una decina di giorni, ma i suoi effetti vanno ben oltre. Peter De Ville

Il Direttore del Festival Internazionale di Poesia di Genova Claudio Pozzani www.festivalpoesia.org

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DONATELLA BISUTTI, milanese di origine friulana, si è laureata all’Università di Lovanio in Belgio. Oltre che di poesia, scrive di narrativa, critica e saggistica e ha dedicato diversi libri ai bambini e ai ragazzi. Ha vissuto molto all’estero e ha partecipato a numerose residenze in diversi Paesi, a letture e a festival italiani e stranieri. Il suo libro più noto è un saggio sulla poesia dal titolo La poesia salva la vita, che condensa anni di riflessione sull’attività poetica e sul senso della poesia. A partire da questo libro ha elaborato un metodo di approccio al linguaggio poetico sviluppato poi in corsi di scrittura creativa, laboratori per le scuole, corsi di aggiornamento per insegnanti e master universitari. Ha avuto numerosi premi e riconoscimenti ed è sempre stata molto attiva anche come operatrice culturale. In particolare ha fondato prima la rivista Poesia e Spiritualità e successivamente l’attuale rivista Poesia e Conoscenza. Fra le sue raccolte di versi ricorderemo Inganno Ottico (Premio Montale per l’Inedito), Rosa Alchemica (Premio Camaiore, Premio Lerici Pea e Premio Laudomia Bonanni), Colui che viene, oratorio sacro (Premio Davide Turoldo), Un amore con due braccia (Premio Alda Merini) e l’ultimo Dal buio della terra. A New York ha pubblicato la raccolta bilingue The Game. NOTA DELL’AUTRICE Sono poesie tratte sia da Inganno Ottico sia da Rosa Alchemica sia Dal buio della terra, ispirate alla natura e alla pratica zen, da me seguita per diversi anni e che ha profondamente influenzato sia la mia vita sia la mia scrittura. Ritengo che siano assai vicine nello spirito agli Haiku giapponesi, anche se non hanno nessuna intenzione di imitarli e ancor meno di seguirne le rigide regole metriche. Tuttavia credo che proprio questa consonanza abbia indotto la poetessa giapponese Taeko Uemura, che questo giugno 2016 ha partecipato al festival di Genova, a tradurle in giapponese componendole insieme ad altre poesie sue in un piccolo libro delicatamente illustrato da lei stessa con motivi di fiori, dal titolo Duet of life (Junpa Books, Kyoto 2015).

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DONATELLA BISUTTI POESIE DA DUET OF LIFE

Traduzione di Taeko Uemura

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DIVAGAZIONI SULLA LUNA

CIELO 1 Quel fiore bianco sull’acqua era già appassito nei sogni. CIELO 2 Nell’acqua riflessa una luce al di là. NEL CIELO La luna si fa interrogativo. CANZONETTA Per te voglio essere notturna. Nell’oscurità offrirti la mia luna. PENETRALIA La luna era dietro, pallida come volto di bambina, smorta come fiore abbandonato ad acqua oscura – Attraverso lo squarcio delle nuvole in quel punto il cielo può essere colpito.

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月に漂う詩想

空1 水のうえの白い花 もはや 夢に薄れて

空2 水面に映る 遥か よりの光

空に 月が自身の問いを体 現する

カンツオネッタ あなたのため 夜の女とな りたい 闇のなか わたしの月を 差し出したい

ペネトラリア 月は後ろにでている 少女の顔 つき 蒼ざめて どす 黒い水へ 捨てられた花のよう に萎れて― 雲のなか 涙を くぐりぬけ 天が打たれる

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TENTAZIONE Per il tronco la pianta di convolvolo amorosa con i suoi bianchi fiori molli le bianche labbra molli sale come una serpe.

SEME GEMMA BOCCIOLO Seme gemme bocciolo fiore frutto seme: esplosioni successive lungo un percorso.

ASSOTTIGLIAMENTO DEL CORPO Sasso terra radice rami una griglia l’aria attraversa dall’oscurità al cielo.

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誘惑 幹のまわりに やさし い白花をつけた 感傷 的な雑草 柔らかい白 い唇が 蛇のように 登って行く

種と蕾と花 種 蕾 花 実 種 連綿とか けた鎖が その小径で弾 ける

からだを蒸留しながら 石 地球 根 えだ ひとつの段位 空気が闇から 空へと運ぶ

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PIOGGIA La pioggia che cade sulle foglie colpisce alternativamente ora l’una ora l’altra, oppure la stessa più volte di seguito, come i tasti di un pianoforte. Dopo ogni tocco, il tasto si rialza. Non è possibile cogliere la nota battuta su ogni singola foglia. Tuttavia la somma di tante note inudibili forma lo scroscio. La musica del silenzio, quando può essere percepita, è solo rumore.

APOCALISSE Allora sarà chiaro il disegno da tempo tracciato e potremo ultimarlo – non più abitanti della casa, ma viaggiatori infreddoliti.

Lettura di Donatella Bisutti 68


ひとつまたひとつ 葉っぱに雨が降る 代わりに、また同じに、 と繰り返す、ピアノの打鍵にも似て。 どのタッチにも鍵は持ち上 がる。もはや聞こえないほどの音が - ひとつひとつの葉を叩い ている。そしてまだ夥しい 聞き取れない音の総和がどしゃ ぶりとなる。 沈黙の音楽、知覚するのは、ただの音。

黙示録 さても長きに描いた画は瞭然となり、われらそれを 完成するを得 る– もはや住人でなく凍えた旅人として

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NEIL CURRY vive nel Regno Unito, nel Lake district. Ha iniziato a scrivere traducendo liberamente alcune tragedie di Euripide per il Festival di Edimburgo e la BBC. La sua prima sostanziosa raccolta di poesie Ships in Bottles (Enitharmon Press, 1988) ha ricevuto la menzione della Poetry Book Society. Successivamente è stato pubblicato Walking to Santiago (Enitharmon Press, 1992), contenente una silloge di poesie scritte lungo il cammino di 500 km del pellegrinaggio fino a Santiago di Compostela, nel nord della Spagna, seguendo l’antico tracciato del Medioevo. Nel 2009, sempre per Enitharmon Press, è uscita una nuova raccolta di poesie e testi selezionati, Other Rooms, mentre nel 2014 è uscito Some Letters Never Sent (Enitharmon Press) in cui l’Autore ha raccolto un una serie di lettere in stile oratorio scritte a persone a vario titolo importanti per lui, alcune viventi, altre no, altre di pura fantasia, spaziando da Angela Carter al dio Mercurio. L’artista americano Jim Dine ha illustrato la sua versione degli ultimi libri dell’Odissea di Omero, The Bending of the Bow. Negli ultini dieci anni Curry si è dedicato alla critica letteraria, pubblicando testi su Christopher Smart, Alexander Pope, George Herbert (in collaborazione con la figlia Natasha) e un libro intitolato Six Eighteenth Century Poems. Nel 2015 ha pubblicato un saggio su William Cowper. Attualmente è incaricato di un corso di Storia dei Giardini presso i Royal Botanical Gardens di Edimburgo, e questo lo ha indotto a visitare alcuni dei meravigliosi giardini rinascimentali italiani. Per lo stesso motivo gli è stato commissionato un libro su William Shenstone, un poeta minore del diciottesimo secolo, ma pioniere nella progettazione di giardini panoramici. NOTA DELL’AUTORE I quattro poemi scelti rappresentano le tematiche dominanti nel mio lavoro e rappresentano anche ciò che consciamente cerco di evitare. Oggi troppi versi vengono scritti in prima persona, il che dimostra a mio parere una certa ossessione egoica. Mi piace la narrativa e ho imparato molto dal desueto Robert Browning. Nella poesia An Invitation (Un invito) la voce narrante è femminile e, nonostante la precisione del suo racconto, il luogo e le circostanze del suo discorso sono volontariamente (e, spero, anche in modo intrigante) mantenute sul vago. Tutto è chiaramente frutto di fantasia: non esiste la catena del San Telmo. Amo le sillogi tematiche. Il mio libro parla dei miei 500 km a piedi nel nord della Spagna; la poesia The Last Pat from the Potter (L’ultimo tocco del ceramista), tratta dalla raccolta Walking to Santiago, fa parte di una sequenza di testi scritti sui giorni della creazione. Attualmente sto lavorando a una silloge dal titolo Keeping Company with Mrs Wolf (In compagnia di Mrs Wolf), nella quale Virginia Wolf e io discutiamo nelle rispettive epoche. La poesia To virginia Wolf – On my not managing to read The Waves (A Virginia Wolf – Sulla mia impossibilità di leggere Le Onde) è stata scritta durante il mio breve soggiorno alla Fondazione Bogliasco nel giugno 2016, in occasione delle letture del Festival Internazionale di Poesia. In questo testo scrivo in prima persona, non per parlare di me stesso, ma per discutere con lei: anche questa forma stilistica è tipica della mia scrittura poetica, influenzata in questo caso dai monologhi drammatici di Browning. 70


NEIL CURRY POESIE DA OTHER ROOMS E VERSI INEDITI

Traduzione di Alessandra Natale

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THE WELL Though he leant right out over the rim, the water was too far down for him to see. “Time, you realise,” someone remarked inside his head, “is only the rate at which the past decays.” And so he let slip slowly through his fingers the one or two choice memories he chanced to have about him, then stood listening attentively for their depleted echo.

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IL POZZO Nonostante si sporgesse sulla riva l’acqua era troppo lontana perché la vedesse. “Il tempo, capisci”, qualcuno dentro la sua testa gli faceva osservare, “è solo il ritmo al quale il passato scompare.” Al che si lasciò lentamente scivolare fra le dita uno o due particolari ricordi che per caso aveva di sé poi si fermò ad ascoltare attentamente la loro eco svanire.

Neil Curry e Alessandra Natale

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THE LAST PAT FROM THE POTTER “I have said enough,” said God. “I want there to be other tongues to tell me about the taste of the honey and the salt; about the feel of linen to their finger pads; about the forest’s variations on my theme of green; and about onions and soot; I want to know what someone thinks about the way the thunder sounds, the way the waves speak.” “I have left a little of myself in this,” said God. “When it comes to its senses, I want to hear from it.” It was the last pat from the potter.

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L’ULTIMO TOCCO DEL CERAMISTA “Ho detto abbastanza,” disse il Signore. “Vorrei che ci fossero altre lingue per raccontarmi il gusto del miele e del sale; come si sente il lino tra i polpastrelli; le declinazioni che fa la foresta sul mio tema di verde; le cipolle e la fuliggine; voglio sapere che cosa si pensa del rumore del tuono, di come le onde parlano.” “Ho lasciato un po’ di me stesso in questo,” disse il Signore. “Quando acquisterà i sensi voglio sentire un po’.” Era l’ultimo tocco del ceramista.

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AN INVITATION “Should you ever change your mind and decide to visit me,” she had written, “by far the wisest way would be to come by water. Of course, when the hibiscus is in flower, the paths that lead up from the lower foothills would be delightful, but after that one’s faced full-on by the whole San Telmo range, which simply has to be climbed. There is no way round it. Added to which, the rock face, being shale, can, so I’m told, be quite unstable when it rains. And it does rain too. No, I’d rather far you came by water. The packet-boat will bring you to the first of the shallows, where the village people, forewarned, will have a raft already built for you. Few, it would seem, having ever travelled as far up as the rapids. Thank them, but somehow buy or borrow a canoe. I should so envy you. Late evenings spent along the river, when quiet mouths come down to drink, are, as you’ll find, among the gentlest life can offer. But you must travel light. No books. No, and please, do not bother your brains by trying to think what gifts to bring me. I want for nothing here, save for the sound of your voice talking to me – or better still – singing.

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UN INVITO “Dovessi mai cambiare idea e decidere di farmi visita,” lei aveva scritto, “il miglior modo in assoluto è raggiungermi via acqua. Naturalmente, quando l’ibisco è in fiore, i sentieri che salgono sulle pendici della collina sono incantevoli, ma dopo bisogna vedersela con l’intera catena del San Telmo, che dev’essere per forza scalata. Non si può girarci intorno. Inoltre la parete di roccia, essendo argillite, può essere, dicono, abbastanza instabile quando piove. E pioverà anche. No, è di gran lunga meglio venire via acqua. Il postale ti porterà alla prima secca dove la gente del villaggio, preavvisata, avrà già preparato una zattera per te. Pochi sembra siano mai arrivati fino alle rapide. Ringraziali, ma vedi di comprare o noleggiare una canoa. Ti invidierei. Le lunghe sere passate sul fiume, quando bocche tranquille scendono a bere, scoprirai che sono tra le cose più belle che la vita può offrire. Ma devi viaggiare leggero. Nessun libro. No, e per favore, non arrovellarti il cervello a pensare che regalo portarmi. Non ho bisogno di nulla qui, a parte il suono della tua voce che mi parla, o ancor meglio, che canta.”

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TO VIRGINIA WOOLF – ON MY NOT MANAGING TO READ THE WAVES Down on the very lowest level of the cliff-face gardens of the Villa dei Pini (it’s at Bogliasco on the Ligurian coast) I don’t know how to tell you this, Virginia, but I’ll risk it nonetheless – as I say, on the very lowest level – you get there down a steep and narrow twisty path between sabre-toothed cacti and dark pines to where three great trees lean out so far they’ve had to be tied back to the land to stop them rushing out to paddle their aged roots in the sea. Then at the very lowest level of all there’s this sudden little patch of lawn in bright sunlight and a bench waiting for you in the shade of an olive tree. I’d taken a copy of The Waves to read there, but never got round to so much as opening it. Even your words, Virginia, could not compete with the actuality of the way they came pounding their fists against the rocks, then chuckling to themselves (“We didn’t really mean it.”) as they went meekly sidling out again.

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A VIRGINIA WOOLF – SULLA MIA IMPOSSIBILITA’ DI LEGGERE LE ONDE Giù all’ultimo limitare del giardino a picco sul mare di Villa dei Pini (è a Bogliasco sulla costa ligure) non so come raccontartelo, Virginia, ma proverò lo stesso – dicevo, all’ultimo limitare – vi arrivi scendendo lungo uno stretto e ripido sentiero che serpeggia tra cactus dai denti affilati e pini scuri fin dove tre grandi alberi si sporgono talmente da dover essere legati al terreno per fermare il loro precipitarsi a immergere le loro vecchie radici nel mare. Più giù di tutto il resto c’è questo pezzo di prato inaspettato in pieno sole e una panchina che ti aspetta all’ombra di un ulivo. Avevo con me una copia de Le Onde per leggerla lì, ma non sono mai riuscito ad aprirla. Anche le tue parole, Virginia, non possono competere con la concretezza del loro presentarsi sbattendo i pugni contro le rocce, per poi sogghignare tra sé (“Non facevamo sul serio.”) ritirandosi docili di soppiatto. Inedito

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PETER DE VILLE ha studiato letteratura inglese e americana e la sua carriera accademica si è svolta nelle Università del Galles, di Oxford e Londra. Ha insegnato lingua e letteratura anche in Italia, vivendo diversi anni a Genova. È sia poeta che scrittore in prosa, suoi testi sono stati pubblicati in una settantina di riviste inglesi, europee ed americane tra cui The Rialto, Chapman, Poetry Salzburg Review, Critical Survey, Poetry and Audience, Orbis, The Wolf, Seam, Staple, Smiths Knoll, The New Writer, Poetry Greece, Decanto, Il Maltese, Semicerchio, Resine, etc. Figurano anche in antologie quali Genova per noi: testimonianza di scrittori contemporanei e Genova in versi e l’entroterra ligure: Poesie del Novecento a cura di Stefano Verdino ( Philobiblon, Ventimiglia). Sono poi apparsi su riviste online come Il Babau di Genova. Scrive critiche letterarie e ha al suo attivo due raccolte di poesia Open Eye e Taking the PH (Tuba Press, UK) e una silloge di 25 poesie intitolata Ciao Marco Martial (Shoestring Press, UK) inspirata alla lettura del poeta latino. È borsista, oltre che della Fondazione Bogliasco, anche della Hawthornden Foundation (Scozia/Stati Uniti). Traduce dall’italiano all’inglese sia poesia che prosa, tra gli altri il libro di fantascienza di Roberto Quaglia Pane, Burro e Paradoxine (Paradoxine: The Adventures of James Vagabond, Immanion Press, UK) e diversi testi di Edoardo Sanguineti e di Giorgio Caproni per la rivista Modern Poetry in Translation.

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PETER DE VILLE POESIE DA TAKING THE PH E VERSI INEDITI

Traduzione di Alessandra Natale

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SCHOOL GOING Windows are the eyes of the soul. Stunned to a grey they stare as the covering of a wing is torn aloft the body gnawed and ripped, a limb thumps the ground. My kids, too cool for school and memories love it, every shudder, twang, as nosing raptors snip the steel, crackle the blinds, jangle railings on the stairs, twist the knotted arteries, plunge a beak into the heart, swells their glee. The sports-field trees, matchsticks once like me snub the matter and the boys turn away satiate with monsters, and can only be: they’re ignorant. But look, try, can’t you see my snapped arms, yanked knees, splintering legs and that blood-fest of my torso, headless?

Peter De Ville e Alessandra Natale

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L’ANDARE A SCUOLA Le finestre sono occhi dell’anima. Grigie dallo stupore guardano mentre il rivestimento di un’ala viene strappato, il corpo rosicchiato e squarciato, un arto sbatte a terra. I miei ragazzini, troppo disinvolti per scuola e ricordi, lo adorano, ogni tremito, vibrazione, come rapaci predatori tagliano acciaio, fanno sbattere le persiane, battono le ringhiere delle scale, torcono le arterie nodose, infilano il becco nel cuore, questo li riempie di gioia. Gli alberi del campo sportivo, una volta fiammiferi come me, snobbano la cosa e i ragazzini se ne vanno, sazi di mostri, solo questo può essere: sono ignoranti. Ma guardate! Provate! Non vedete le mie braccia spezzate, le ginocchia strattonate, le gambe frantumate e quella festa di sangue del mio torso senza testa? Inedito

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BONFIRE This New Year’s Eve we’d built a bonfire at the wood. A piercing jet of orange roared and sucked the core, the sparks twirled in baroque arcs, figures squeezed from our eyes. We all gathered at the flame as it winds the wind to itself and the darkness grows living forms that didn’t bide investigation. We’re heavier than moths and not so foolish, but wouldn’t we like to dance and thrust with the flames, wash in them, leap our bare bums, yipe and yalloo, splashing into sparks and kicking all dull cinders into light! The turbine whines and whistles, blackness presses back, heat clamps our fire-drugged faces – and we step towards the holocaust, but we are so sad really. We are gathered glowing by the flame humans of diverse types, ducks, dogs, hens.

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FALÒ Quest’ultimo dell’anno avevamo costruito un falò nel bosco, uno zampillo penetrante di color arancio ruggiva e succhiava il centro, le scintille piroettavano in archi barocchi, forme che venivano spremute dai nostri occhi. Ci radunammo tutti intorno alla fiamma, che avvolge il vento verso di sé e la tenebra crea forme viventi che non si possono indagare. Siamo più pesanti delle falene e non così sciocchi, ma non vorremmo essere noi a danzare, buttarci nelle fiamme, lavarcisi dentro, saltarci sopra coi nostri culi nudi, urlare come ragazzini sguazzando tra le scintille e dando dei calci alla brace per riaccendere le cenere! La turbina geme e fischia. L’oscurità ripiega, il caldo assedia le nostre facce drogate dal fuoco – e andiamo verso l’olocausto. Ma siamo così tristi in verità. Siamo qui radunati davanti al fuoco, esseri umani di diversi tipi, anatre, cani, galline. Inedito

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FERMATA (Genoa bus 34 – from Stazione Principe to Staglieno, via Piazza Corvetto)

The signora has her ticket so she’s safe as houses, but even they seem to be falling softly today. The bus hums on, and there’s Corvetto, where the king silently raises his hat. She holds her bag straps tighter still. The hem must cover the knees. “Signora, signora.” But it’s not the Ecuadoriani’s scrambling kids nor the moon-faced gypsy nor the squinting controllore. Mario thumps in her heart: come to meet her then, like ’34. The lights seem waxy yellow now, the torrent a silver scimitar. Cypresses spike the sky. The doors crash open. The engine titters and stops. From the cemetery, a sweat of earth and mould, a cicada perhaps.

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FERMATA (L’autobus 34 dalla Stazione Principe al Cimitero di Staglieno, passando per Piazza Corvetto) La signora ha il suo biglietto e così è assolutamente sicura come le case ma persino loro sembrano dover crollare dolcemente oggi. Il bus ronza, ed ecco Corvetto, dove il re in silenzio si leva il cappello. Lei tiene le maniglie della borsa ancora più strette. L’orlo della gonna deve coprire le ginocchia. “Signora, signora,” – ma non sono gli inquieti ragazzini ecuadoriani né lo zingaro dalla faccia tonda né il controllore strabico. Mario batte dentro il suo cuore: è venuto ad incontrarla adesso, come nel ’34. Le luci ora sembrano color giallo cereo, il torrente una scimitarra d’argento. I cipressi pungono il cielo. Le porte si aprono con fracasso. Il motore ridacchia e si ferma. Dal cimitero, un sudore di terra e muffa, forse una cicala.

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ANGELA PRADELLI, argentina di origini italiane, oltre a svolgere l’attività di scrittrice insegna Letteratura. La sua opera poetica e in prosa ha ricevuto premi nazionali ed internazionali e borse di studio residenziali presso diverse istituzioni all’estero. Alcune tra le se sue opere – poesia, romanzi e saggistica – sono state tradotte in tedesco, francese, inglese e italiano. Anche la sua attività di insegnante ha varcato i confini della sua terra natia, e l’ha fatta partecipare a programmi di scrittura creativa in importanti università svizzere, statunitensi e di altri Paesi latinoamericani. Al Festival di Poesia di Genova ha presentato due pubblicazioni En mi nombre. Historias de identidades restituidas (Paidos, 2014) – brevi storie tratte dalla vita di alcuni dei figli dei desaparecidos argentini e El sol detrás del Limonero (El Bien del Sauce Edita, 2016), da cui sono tratti i testi qui presentati. Il periodo di residenza al Centro Studi della Fondazione Bogliasco ha rappresentato un elemento fondamentale nella scrittura di questo libro, centrato sul dramma dei desaparecidos e delle loro famiglie. Così ne ha scritto il critico Camilo Sanchez: “Romanzo in versi liberi o prosa poetica? Racconto di un viaggio iniziatico o poema di largo respiro che racconta traversie e meraviglie di una storia familiare? I generi letterari poco importano qui. Pradelli cammina sulle montagne di Peli, il piccolo paese dell’Emilia Romagna da dove suo nonno è emigrato dopo la guerra, ritrova le lettere che lui aveva scritto a suo fratello minore da Burzaco, a sud di Gran Buenos Aires. Mentre ripercorre il paesaggio e il cielo dimenticato di questo paesino di montagna, la nipote scrive “salvate le immagini, i legami ed i sapori sbiaditi dalla lontananza”. Pradelli viaggia come qualcuno che sta saldando un debito. In questo viaggio di ritorno, la scrittrice osserva soprattutto il filo che intesse la trama tra terra e parole e rivela gli elementi nascosti che sostengono tutta la narrazione. Nella sua storia personale, la poetessa, saggista e narratrice, acquista una voce che ne esprime altre che sembravano essere perdute, attingendo così a una dimensione universale. In questo consiste l’intuizione della letteratura più vera: captare voci diverse che riescono ad avanzare nel chiaroscuro di un futuro incerto.”

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ANGELA PRADELLI TESTI DA EL SOL DETRÁS DEL LIMONERO

Traduzione di Chiara Tana

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EL SOL DETRÁS DEL LIMONERO A veces, cuando se cierra el sol de los días, el sonido del agua llega desde una respiración de la infancia y nos salva; ¿es ahí donde quedaron las palabras?, ¿encerradas en la luz de los frutales? voy hacia ese sol que vive detrás del limonero

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IL SOLE DIETRO L’ALBERO DI LIMONI A volte, quando si spegne il sole dei giorni, il suono dell’acqua arriva da un respiro dell’infanzia e ci salva; è là che son rimaste le parole?, rinchiuse nella luce dei frutteti? vado verso quel sole che vive dietro l’albero di limoni.

Angela Pradelli con Alessandra Natale durante la presentazione del libro En mi nombre. Historias de identidades restituidas (Paidos, Buenos Aires), alla Libreria Coop di Genova

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DESPEDIDA EN FARANETO Antes de fin de año, yo subiría a un barco en el puerto de Génova y me iría a la Argen- tina a probar suerte, o tal vez a torcer el destino. Una mañana de este diciembre 1923 mi madre dijo que bajáramos juntos al bosque de Fareneto para recolectar las últimas castañas de la temporada. Hacía frio. Aquella mañana, mi madre y yo fuimos al bosque después del mediodía. Ella se abrigó con un saco tejido de lana azul, después puso un canasto más chico dentro de uno más grande y me los dio para que los llevara. Yo cerré los botones de mi abrigo, y partimos. La noche anterior había caído una fuerte nevada y esa mañana habíamos sentido mucho frío dentro la casa, pero ahora, mientras avanzábamos hacia el bosque, la racha de sol que nos iluminaba nos entibiaba los rostros. Las montañas habían amanecido con los picos blancos y sobre el camino de tierra encontrábamos cada tanto pequeñas mancas de nieve fresca. Después de media hora, pasamos por el castillo de Faraneto y enseguida llegamos al bosque de castaños. Teníamos que apurarnos para no volver a casa demasiado tarde porque cuando bajara ese sol débil, empezaría a sentirse el frío otra vez. Pero mientras tanto, ahí, en el bosque, estaríamos bien. Siempre hace bastante calor en los bosques de castaños. Un calor húmedo y un poco sofocante aun en invierno. Dejamos los canastos sobre una piedra y nos sacamos los abrigos. Esa tarde, el trabajo nos llevó bastante mas tiempo que otra veces. Cuando vi que el canasto estaba casi lleno, busqué a mi madre para volvernos. Yo tenía la cara húmeda de transpiración. Me sequé la frente con un pañuelo. Ella también tenía calor y estaba cansada. Pero no bien abandonamos el bosque, sentimos otra vez el aire helado de la montaña. Entonces nos pusimos otra vez los abrigos y cuando ella terminó de abrocharse su saco de lana, me agarró de los brazos. Sus manos estaban rojas por las espinas de las castañas. Te salvaste de la guerra, me dijo, regresaste a casa, pero de esta America a la que vas ahora, ya no regresarás. Sus dedos abiertos presionaron suavemente mis brazos. ¿entiendes lo que pasará?, preguntó. No nos veremos nunca más, hijo. Hubiera querido decirle algo pero no hice porque no pude, porque no encontré las palabras. Entonces volvimos. Caminamos a la par hasta el castillo. La atmósfera estaba calma, quizás nevara otra vez por la madrugada porque todo estaba muy quieto, menos nosotros dos que seguimos caminando así, uno detrás del otro, el resto del camino.

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DIRSI ADDIO A FARANETO Prima della fine dell’anno, mi sarei imbarcato a Genova per andare in Argentina a tentare la fortuna, ovvero dare una svolta al mio destino. Una mattina di quel dicembre del 1923, mia madre mi disse di scendere insieme al bosco di Faraneto per raccogliere le ultime castagne della stagione. Faceva freddo. Lei si coprì con una casacca di lana blu che aveva tessuto a mano, poi mise un canestro più piccolo dentro uno più grande e li diede a me perché li portassi. Chiusi i bottoni del mio giaccone, e partimmo. La notte precedente era caduta la prima neve e quella mattina avevamo sentito molto freddo dentro la casa, ma adesso, avanzando verso il bosco, lo sprazzo di sole che ci illuminava riscaldava i nostri volti. Le montagne si erano svegliate con le cime imbiancate e lungo il sentiero terroso trovavamo ogni tanto piccole macchie di neve fresca. Dopo mezz’ora, passammo davanti al castello di Faraneto e, qualche minuto dopo, arrivammo al bosco di castagni. Dovevamo affrettarci per non tornare a casa troppo tardi perché quando fosse calato quel debole sole, il freddo avrebbe di nuovo cominciato a farsi sentire. Nel frattempo però, là, nel bosco, saremmo stati bene. Fa sempre abbastanza caldo nei boschi di castagni, un caldo umido e un po’ soffocante anche in inverno. Deponemmo i canestri su un sasso e ci togliemmo le giacche. Quel pomeriggio il lavoro ci richiese molto più tempo di altre volte. Quando vidi che il canestro era quasi pieno, cercai mia madre per tornare. Avevo il viso umido di sudore. Mi asciugai la fronte con un fazzoletto. Anche lei aveva caldo ed era stanca. Non appena però abbandonammo il bosco, sentimmo di nuovo l’aria gelata della montagna ferirci il viso. Allora ci coprimmo di nuovo, e quando lei ebbe finito di infilarsi la casacca, mi afferrò per le braccia. Le sue mani erano rosse per via dei ricci delle castagne. Ti sei salvato dalla guerra, mi disse, sei tornato a casa, ma da questa America dove stai andando adesso, non tornerai più. Le sue dita aperte fecero una leggera pressione sulle mie braccia. Capisci che cosa succederà?, mi domandò. Non ci vedremo mai più, figlio mio. Avrei voluto dirle qualcosa ma non lo feci perché non ci riuscii, perché non trovai le parole. Allora tornammo. Camminammo uno accanto all’altra fino al castello. L’atmosfera era calma, forse all’alba avrebbe nevicato di nuovo perché tutto era molto tranquillo, tranne noi due, che continuammo a camminare così, uno dietro l’altro per il resto del sentiero.

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DEBAJO LA MESA Están todos sentados alrededor de la mesa de la cocina y me meto debajo sin que me vean para escucharlos. Las voces llegan un poco desinfladas desde arriba y tal vez más suaves. Desde acá abajo se ven muy de cerca los movimientos que hacen todos antes de decir algo. Siempre así, antes de hablar, se mueven. Se rascan la rodilla, juntas las manos entre las piernas apretadas, se rozan un tobillo. Primero el cuerpo, después las palabras. Mi abuelo usa unas zapatillas de felpa para estar adentro. Antes de decir lo suyo, empuja con la punta de un pie el talón del otro hasta dejarlo afuera y recién entonces dice lo que tiene de decir. La felpa de la zapatilla es gruesa, rústica y tiene unos pelos cortos, un poco duros. Mientras él habla, yo paso mi mano sobre el empeine enfundado y siento en la pal- ma la suavidad algo pinchuda del paño. Cuando ternima de hablar, mi abuelo descuelga su brazo debajo de la mesa y hunde su mano nel vacío porque sabe que ahí estoy. Sus dedos buscan los míos hasta engancharlos y así nos quedamos. Es un instante en el que alcanzo a oír mi respiración como un soplido caliente. Y aunque todos sigan alrededor, nosotros dos estamos solos ahí, cómo están solos siempre los que se comprenden y saben cómo encontrarse aún en la penumbra.

UN AIRE JELADO Todo amaneció blanco, sólo ese pájaro pequeño se mueve en la nieve y atraviesa tam- bién los ojos quietos de los que contemplan detrás de los vidrios la vida fría de la mon- taña. Es un punto oscuro que va de un árbol a otro. Ese pájaro. Lento, porque tal vez tenga un gramo de nieve sobre el ala, ahí afuera es el único que corta la blancura y empuja el aire helado con su cuerpo.

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NASCOSTA SOTTO IL TAVOLO Sono tutti seduti attorno al tavolo della cucina e mi infilo sotto per ascoltare senza essere vista. Le voci arrivano un po’ affievolite da sopra e forse più morbide. Da qui sotto si vedono molto da vicino i movimenti che fanno tutti prima di dire qualcosa. È sempre così, prima di parlare, si muovono. Si grattano il ginocchio, uniscono le mani tra le gambe strette, si sfiorano una caviglia. Prima il corpo, poi le parole. Mio nonno per stare dentro usa un paio di pantofole di felpa. Prima di dire la sua, spinge con la punta di un piede il tallone dell’altro finché non rimane fuori e solo allora dice quello che ha da dire. La felpa della pantofola è spessa, ruvida e ha dei peli corti, un po’ duri. Mentre lui parla, io passo la mia mano sul collo del piede fasciato e sento sul palmo la morbidezza un po’ pungente del tessuto. Quando finisce di parlare, mio nonno lascia cadere il braccio sotto il tavolo e immerge la sua mano nel vuoto perché sa che sono lì. Le sue dita cercano le mie fino ad agganciarle e rimaniamo così. È un istante nel quale riesco a sentire il mio respiro come un soffio caldo. E anche se tutti sono ancora attorno, noi due siamo da soli lì, come sono sempre da soli coloro che si capiscono e sanno come trovarsi anche nella penombra.

UN’ARIA GELATA Tutto si è svegliato imbiancato, solo quel piccolo uccellino si muove nella neve e attraversa anche gli occhi quieti di coloro che contemplano dietro i vetri la fredda vita della montagna. È un punto scuro che va da un albero all’altro. Quell’uccellino. Lento, perché forse ha un grammo di neve sopra l’ala, lì fuori è l’unico che spezza il bianco e che spinge l’aria gelata con il suo corpo.

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EVA TAYLOR , nata in Germania, insegna lingua tedesca in Italia dal 1986. Con il romanzo Carta da zucchero (pubblicato nel 2015 nelle edizioni Fernandel) ha vinto nel 2014 il Premio InediTo – Colline di Torino e nel 2016 il Premio speciale della giuria del Premio Francesco Gelmi di Caporiacco. Una sua prima raccolta di poesie in tedesco, Aus dem Schneebuch, è stata pubblicata per le edizioni d’arte Eric van der Wal nel 2008, l’anno in cui Eva è stata Poetry Fellow della Bogliasco Foundation. Del 2006 il suo primo volume in italiano, L’igiene della bocca (Edizioni l’Obliquo). Nel 2010 sono uscite due sue raccolte di poesia, una in tedesco, Gartenarbeit (San Marco Handpresse) e una in italiano, Volti di parole (Edizioni l’Obliquo). All’attività di scrittrice affianca quella di traduttrice, cui si devono la traduzione di prose autobiografiche della scrittrice e pittrice tedesca Unica Zürn (per le Edizioni l’Obliquo), di una scelta di poesie di Elisa Biagini, Anna Maria Carpi e Enrico Fraccacreta (dall’italiano in tedesco), di Uljana Wolf, e dei poeti turco-tedeschi Yüksel Pazarkaya, Zehra Çırak e Hasan Özdemir (dal tedesco in italiano). Fa parte della Compagnia delle Poete. NOTA DELL’AUTRICE Ho conosciuto il compositore Andrew Waggoner nel 2008 – come me in quella bellissima primavera era Fellow della Bogliasco Foundation. Forse perché con me c’era Peter, mio marito, appassionatissimo di musica, forse perché il concertino di Andy e della moglie, la violoncellista Christine Stinson, nella hall della Villa dei Pini ci incantò – tra di noi la musica era una costante, circolava in suoni e parole. Tornavamo spesso sul compositore italiano Luigi Dallapiccola e poi sui Lieder di Brahms, Schubert, Schumann e Richard Strauss. Un giorno Andy mi disse che gli sarebbe piaciuto conoscere meglio le mie poesie per comporci eventualmente della musica. In un ventoso pomeriggio lessi alcune poesie italiane e tedesche nel giardino della Villa Orbiana della Fondazione. Andy prendeva qualche appunto, poi optò per alcune poesie della mia plaquette tedesca Schneebuch. Nel marzo 2009 Andy scrisse Aus dem Schneebuch, Trois mélodies pour soprano, clarinette, violon et violoncelle sur poèmes d’Eva Taylor à Françoise Kubler, et Accroche Note. La prima assoluta ebbe luogo il 30 giugno 2010 durante i Rencontres d’Eté de Musique de Chambre, a Strasburgo nella chiesa riformata del Bouclier con l’ensemble Accroche Note e la soprano Françoise Kubler.

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EVA TAYLOR POESIE DA SCHNEEBUCH – IL LIBRO DELLA NEVE E VERSI INEDITI

Traduzione dell’Autrice

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MAN SAGT es sei die Stimme des Meers, wenn Wellen brechen. Was sagen sie so ununterbrochen ab- und ausschweifend? Und wenn der Wellenschaum zischt, wie Blicke über Wörtern, lacht das Meer dann über uns, weil Wörter sich in Stimmen auflösen?

IN ABSENTIA taste ich Wortlinien nach, zeichne sie ab, wo Sand sich ausbreitet. (Atlanten aus früh’rem Leben haben mich vom Weg abgebracht.) Schnee liegt nun auf den Dächern – Stille und Licht – in deiner Abwesenheit finde ich ein Schneebuch. Dünne Seiten wie Wellen aus der Tiefe der Haut sprechen von dir in absentia.

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SI DICE sarà la voce del mare quando le onde si frangono. Cosa dicono inarcandosi, allungandosi incessanti? E quando la schiuma sibila come sguardi sulle parole sarà il mare che ride di noi perché le parole si sciolgono in voci?

IN ABSENTIA le mie dita lungo le linee delle parole le copio nella sabbia che si estende. (atlanti di vita passata mi hanno distolta dal cammino). Neve sui tetti ora – silenzio e luce – in tua assenza trovo un libro di neve. Pagine sottili come onde dal profondo della pelle parlano di te in absentia.

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ABSCHIED In der Stille streichen Finger über Papier. Wolltest du etwas sagen? Zeit fließt ins Glas, die letzten Sandkörner rieseln hinab. Vor meinen Augen ein Buch. Da schaue ich dich an. Aber du hast den Blick gewechselt.

Lettura di Eva Taylor

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ADDIO Nel silenzio dita accarezzano la carta. Volevi dirmi qualcosa? Tempo che scorre in un bicchiere, gli ultimi granelli scivolano giù. Davanti ai miei occhi un libro. Di colpo ti guardo. Ma il tuo sguardo ha cambiato direzione.

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GENEALOGIA DEL GREMBIULE DI CASA 1 il grembiule di mia nonna non era grembiule era vestito, pelle sua verde-blu il grembiule di mia nonna nascondeva la donna che mia nonna era e non voleva vedere e far vedere, le ore cucite dentro col filo di sudore, sottile febbre nel preparare montagne di neve chiara, laghi di composte, fiumi di succhi, interi paesaggi del palato, e nelle tasche nascondeva foto e parole accanto a chiavi, monete e fazzoletti nuvole grattate con lo sguardo languido da cucina il grembiule di mia nonna era il mondo a quadretti era ritmo, verità e casa quel corpo grembiule verde-blu 2 mia madre portava grembiuli bianchi inamidati come ghiacciai davanti ai forni non si scioglieva era sibilla bianca cera creava dolci di ubbidienza nel forno che bruciavano con dolore l’ubbidienza appare sempre bianca e mia madre rimane se stessa ma il grembiule s’infuoca la notte si consuma sotto la luce nuda di luna

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3 vedo un grembiule appeso alla porta quando lo muove il vento si apre come un libro spiegato ci sono chiazze al posto del nero delle lettere, ci sono occhi e mani e ogni lavaggio conferma il passato: i colori sbiaditi le macchie che non si tolgono ogni giorno me lo metto per nuotare contro corrente risalire ad un’origine quel grembiule è una pelle chi lo porta indossa la mia storia Inedito (Questa poesia è stata scritta direttamente in italiano ndr)

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IMMAGINI DEL FESTIVAL

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A sinistra: Letture a Genova, Palazzo Ducale Sopra: Letture a Bogliasco, Villa dei Pini

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INERGIE

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POESIA E LETTERATURA LUIGI CARACCIOLO LA POETICA DEL “GIALLO”

La Poesia è Poesia quando porta in sé un segreto Giuseppe Ungaretti La lettura dei romanzi polizieschi è una occupazione poetica del più alto interesse Guillaume Apollinaire Non senza imbarazzo e con qualche fondata preoccupazione, proverò a capire se ed eventualmente quale relazione può stabilirsi tra la poesia e il romanzo poliziesco. Va da sé che, in questa sede, è del tutto fuori luogo analizzare questi due “generi” (ammesso che abbia ancora senso parlare di “genere”, ma su questo si tornerà più avanti) considerandone le rispettive evoluzioni storiche e le tante diversificazioni, anche qualitative, all’interno degli stessi. Una prima questione da risolvere è proprio relativa all’individuazione di un genere, a tale proposito Tzvetan Todorov (“La letteratura fantastica”) sembra confutare che: “(…) solo la letteratura di massa (romanzi gialli, d’appendice, di fantascienza ecc.) dovrebbe evocare la nozione di genere che invece sarebbe inapplicabile ai testi propriamente letterari (romanzi, poesie, ecc.)”, il superamento della nozione di genere già nel 1959 veniva evocato da Maurice Blanchot (Il libro a venire) che così scriveva: “Il libro solo importa, cosi com’è, fuori dai generi, dalle rubriche – prosa, poesia, romanzo giallo, testimonianza – in cui rifiuta di incasellarsi, negandogli il potere di fissare quale sia il suo posto e di determinare la sua forma. Un libro non appartiene più a un genere, ciascun libro dipende dalla sola letteratura, come se in essa giacessero anticipati nella loro generalità i segreti e le formule che permettono di dare realtà di libro a quanto si scrive”. Condividendo, quindi, il superamento del “genere”, credo sia più utile, al fine di ricercare affinità tra poesia e giallo, individuare un modello che consenta la scomposizione di un racconto o di una poesia in una sequenza di unità minime che costituiscono le unità elementari mediante le quali il giallista o il poeta compongono la loro opera. In altri termini ciò che interessa è l’analisi della struttura del prodotto narrativo e non il suo oggetto. Prima, comunque, 107


di esaminare i punti di contatto strutturali tra poliziesco e poesia, vale la pena ricordare una singolare coincidenza: la quasi totalità dei critici letterari fa risalire l’origine del moderno poliziesco (libero da incrostazioni gotiche) al 1841, anno in cui negli Stati Uniti d’America sulla rivista The Graham’s Lady’s and Gentleman’s Magazine, viene pubblicata la raccolta di racconti I Delitti della Rue Morgue il cui autore è Edgar Allan Poe, universalmente riconosciuto tra i maggiori protagonisti della letteratura moderna; “inventore” della “poesia pura”, di lui Charles Baudelaire – che ne curò la traduzione in francese contribuendo in modo decisivo alla diffusione dell’opera in tutta Europa – scrisse: “Nessun uomo ha raccontato con più magia le eccezioni della vita umana e della natura”. Ma torniamo all’interrogativo di partenza: è lecito comparare due modelli letterari apparentemente così lontani come la poesia e il romanzo poliziesco? Ebbene, se – come detto – se ne esaminano le strutture narrative, un importante punto di partenza non può non essere quanto indicato da Aristotele nella sua Poetica. Il filosofo di Stagira, nell’esaminare gli elementi costitutivi della tragedia (e quindi della poesia) aveva individuato (sia qui detto in estrema sintesi) uno schema che può essere così riassunto: - L’esordio o situazione iniziale - La complicazione, ovvero la novità inattesa che mette in moto la vicenda, introducendo nella narrazione un improvviso cambiamento della situazione - La peripezia, ovvero il nuovo incidente, o la serie di incidenti, in grado di provocare un rovesciamento della situazione - La catastrofe o scioglimento della vicenda. L’intuizione delle similitudini strutturali tra gli elementi aristotelici e la letteratura poliziesca la si deve alla scrittrice e traduttrice britannica (tradusse, tra l’altro, in inglese la Divina Commedia) Dorothy L. Sayers (Oxford 13 giugno 1893 – Londra 17 dicembre 1957) la quale nel saggio, Aristotele e la detective story, rilegge la Poetica come fosse un manuale per la stesura di un poliziesco. Ora, se si tiene conto delle “fasi” della poetica aristotelica e le si confronta con gli standardizzati schemi narrativi del poliziesco, sarà del tutto evidente la loro pressoché totale sovrapposizione. Infatti, nelle detective stories il prologo (o esordio) è quasi sempre lineare e privo di elementi perturbanti, tuttavia la narrazione si arricchisce di uno o più accadimenti (complicazioni) che modificano sostanzialmente lo scenario; segue un primo tentativo di interpretare i fatti che, tuttavia, vengono sconvolti da nuovi episodi (peripezie) che determinano un nuovo quadro. Soltanto al termine della narrazione si giungerà alla risoluzione dell’enigma (scioglimento della vicenda). 108


D’altra parte, Franco Montanari, nella sua introduzione alla Poetica di Aristotele (edizione Oscar Mondadori), offre ulteriori spunti di riflessione che rendono meno bizzarra la nostra ipotesi di partenza, soprattutto in considerazione di quanto si dirà più avanti: “(…) per Aristotele l’arte poetica è imitazione della realtà sensibile o, se si preferisce, della natura (…) la poesia imita la natura e in questo modo esprime non il particolare individuale e accidentale dell’agire umano bensì l’universale, realizzando un atto di vera conoscenza perché non c’è vera conoscenza se non dell’universale (…). La funzione dell’arte poetica e il piacere che ne deriva toccano sia la sfera razionale che quella emotiva, a causa della coesistenza di una funzione conoscitiva e di una emozionale (…)”. Se per Montanari (che interpreta Aristotele) la poesia è imitazione della realtà, per Renato Cristin (Nota introduttiva a Il romanzo Poliziesco di Siegfried Kracauer): “(…) la posizione di partenza del detective è quella dell’osservatore, di colui che guarda la realtà (…)” cercando di interpretare i fatti ponendoli su un piano di natura, “detergendo” ogni elemento che non sia in sintonia con la natura stessa. Anche rispetto alla funzione poetica come definita da Montanari, sembra poter cogliere un’evidente, ulteriore, analogia tra l’arte poetica e il poliziesco: nel saggio già citato, Kracauer, nel definire le situazioni tipiche del poliziesco, evidenzia quanto esse diventino un filtro raffinatissimo per penetrare nella sfera delle “idee” e nel campo delle “immagini” del mondo e per rientrare, dopo l’esperienza “trascendentale”, nel mondo delle cose, dove sono attese sul terreno del “vissuto e del vivente”. Anche il poliziesco, quindi, come la poesia, altro non è se non un pre-testo, un’ispirazione, un punto d’appoggio “qualcosa che sta prima del testo e che ne costituisce il piano di riferimento”. Come in poesia anche per il romanzo poliziesco si pone il problema della voce narrante, Diomede, sulla scia di Platone, divide tutte le opere in tre categorie: quelle in cui parla il solo narratore, quelle in cui parlano i soli personaggi, e quelle in cui parlano entrambi, come è ovvio la questione non è soltanto relativa ad una scelta stilistica, essa indica una diversa modalità di comunicare con il lettore, di determinare una più o meno intimità, modificando, sostanzialmente, in base alla scelta operata, anche il livello di complicità tra chi scrive e chi legge. Ma c’è un ulteriore punto di contatto, tanto forte quanto inaspettato, tra poesia e romanzo poliziesco: la psicoanalisi. Nella presentazione del saggio L’infinito nella voce. Su poesia e Psicoanalisi di Franco Lolli e Lucilio Santoni (ed. Franco Angeli 2004), si legge: … il poeta crea una struttura di finzione che ha a che fare con la verità, lo psicoanalista risponde con un silenzio che pure ha a che fare con la verità; anche se la prima è la verità del mondo che si rivela come realtà delle cose e la seconda è la stessa verità disseminata nelle infinite verità soggettive. La lettura del testo poetico non dice granché al lettore di ciò che dell’autore è più proprio; la cura analitica, dal canto suo, a volte si infrange su un impossibile a dire che rappresenta la roccia insuperabile di cui già Freud aveva parlato. 109


Se è vero che esiste una stretta relazione tra poesia e psicoanalisi, è altrettanto vero che notevoli punti di contatto si possono riscontrare tra psicoanalisi e romanzo poliziesco. Non a caso, Michael Shepherd, in Sherlock Holmes e il caso del dottor Freud (Avverbi edizioni 2002), ci riferisce come in realtà molti abbiano paragonato la psicoanalisi all’indagine investigativa. Lo stesso Freud (Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri 1978), così si esprime: “E se, in qualità di agenti investigativi, partecipate alle indagini su un assassinio, vi aspettate davvero di trovare che l’assassino abbia lasciato sul luogo del delitto la sua fotografia con tanto di indirizzo accluso, oppure non vi accontentate necessariamente di tracce relativamente lievi e non molto perspicue della persona ricercata?”. È da credere che Freud intendesse sottolineare quanto la metodologia delle indagini investigative proprie dei romanzi gialli a lui contemporanei potesse essere utile anche nel campo della ricerca psicoanalitica. D’altra parte è nota l’ammirazione che Freud aveva nei confronti di Sherlock Holmes, al punto che in una delle sue lettere inviate a Jung, (Lettere tra Freud e Jung, Boringhieri 1974) ne fa esplicito riferimento: “È come se il più tenue degli indizi avesse permesso a me, come a Sherlock Holmes, di indovinare la verità”. Anche Matteo Rampin in La psicoterapia come un Romanzo Giallo (Ponte alle Grazie, 2004), si occupa delle strette relazioni che intercorrono tra psicoanalisi e romanzo poliziesco, anche lo psicoterapeuta Cloe Madanes, in Storie di psicoterapia, afferma: “Ogni terapeuta è un investigatore. Ogni terapia riuscita è un’indagine condotta con esito positivo”. Ora, se così forte è la relazione tra poesia e psicoanalisi e tra questa e il romanzo poliziesco, parafrasando il Timeo di Platone, sembra di poter dire che è impossibile che due cose si congiungano senza una terza, ci deve essere un legame che le collega. Questa funzione di terzo è affidata all’indagine di tipo investigativo. Questo assunto, non di immediata lettura, merita un approfondimento: l’etimo di “investigare”, “in-vestigia”, può essere agevolmente tradotto in “cercare le tracce”, sicuramente attività tipica di qualsiasi protagonista dei romanzi polizieschi, ma, a ben vedere, anche la poesia svolge, tra le altre, questa funzione; certo in questo caso si tratta di ricercare tracce assai particolari: quelle dell’anima, in primo luogo. Il giallista di razza, al pari del poeta, utilizzando, quindi, lo strumento dell’indagine, squarcia il velo che nasconde al lettore la verità, disvelando, dopo averlo scandagliato, il nostro lato oscuro, ciò che non vogliamo o non possiamo vedere. Da questo punto di vista il giallo e la poesia assumono un valore catartico perché entrambi (sia pure con diversa forza espressiva e differenti modalità stilistiche) ci aiutano a decodificare una realtà senza dover ad essa sfuggire. Il poeta si muove tra i versi come Philip Marlowe tra le strade di Los Angeles: a entrambi non è consentito fermarsi all’apparenza delle cose, al contrario 110


devono affondare le mani nello sterco e tirar fuori il diamante in esso celato. Ecco svelata la funzione salvifica della poesia e del giallo. Infatti, vale la pena sottolineare un ulteriore fortissimo elemento comune: il perturbante, vero ingrediente senza il quale, con ogni probabilità, non esisterebbero (almeno delle forme più alte) né la poesia, né la psicoanalisi, né il racconto poliziesco. Ma questa è un’altra storia.

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POESIA E CRIMINE

Questa è una selezione (per nulla esaustiva) di testi poetici, assai diversi l’uno dall’altro che contengono elementi comuni con il tema dell’indagine poliziesca. Alcuni contengono gli archetipi del romanzo poliziesco (aggressioni, armi, omicidi, ecc.), altri rinviano ad atmosfere e ambientazioni dell’hard boiled statunitense. In tutti si percepisce il dramma. Ai lettori il piacere di investigare. l.c.

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CHARLES BAUDELAIRE

IL VINO DELL’ASSASSINO È morta la mia donna: sono libero! Posso bere, sicché, quando mi pare. Se rincasavo privo di danaro gli urli suoi mi squassavano le fibre. Mi sento come un re, sono beato. L’aria è purissima, il cielo una festa. Era proprio un’estate come questa quando di lei mi sono innamorato. La sete orribile che mi divora la spegne il vino, ma dev’esser tanto quanto ne può contenere soltanto la sua tomba: e non è poco davvero. Ho gettato il suo corpo in fondo a un pozzo e gli ho scagliato sopra, per sottrarlo a ogni vista, le pietre dell’orlo. – Ora voglio scordarmela, se posso. Per tutti i giuramenti di dolcezza, che non si estinguono davvero mai, per poterci riconciliare ormai, come ai bei tempi della nostra ebbrezza, la pregai che mi desse appuntamento, la sera, in una stretta strada scura. E lei ci venne, folle creatura. Chi più chi meno, siamo tutti dementi. 114


Lei era ancora, pure se sfinita, assai graziosa, ed io l’amavo, certo, l’amavo troppo, e per questo le ho detto: “Cara, devi lasciare questa vita”. Nessuno mi capisce: c’è uno solo, tra questi ubriachi deficienti, che ha pensato, nelle notti silenti, di far del vino un funebre lenzuolo? Crapuloni che nulla mai scompone, simili a fredde macchine di ferro, proprio mai, né d’estate né d’inverno, han conosciuto davvero l’amore, con tutti i lugubri suoi incantamenti, e la sequenza di allarmi infernali, le lagrime, le velenose fiale, le ossa e le catene strepitanti. Eccomi libero, solo, deciso a bere, fradicio, l’ultimo sorso. Ora, senza paura né rimorso, mi sdraierò per terra, e, così steso, cadrò nel sonno come fossi un cane! Il carro, con le sue pesanti ruote, carico di pietrame e di rifiuti, o l’infuriato vagone potranno schiacciare questo mio corpo colpevole, oppur tagliare a metà questo mio tronco: per me, me ne infischio di Dio, della Santa Eucarestia e del Diavolo. da I fiori del male, Feltrinelli

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EMILY DICKINSON

J670 (1862) Non c’è bisogno di essere una camera – per essere stregati – non c’è bisogno di essere una casa – la mente ha corridoi – più numerosi che luogo materiale – Ben più sicuro, un incontro a mezzanotte di fantasma esterno che affrontare interiormente quell’ospite più freddo. Ben più sicuro, in un galoppo di abbazia le pietre che ti inseguono – che disarmati incontrare se stessi in luogo solitario – Il nostro io, dietro il nostro io nascosto – più dovrebbe spaventare – l’assassino acquattato nel nostro appartamento orrore trascurabile. Il corpo – si arma di un revolver – spranga la porta – squadrando uno spettro superiore – o altro ancora –

da Poesie, Mondadori

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GIOVANNI PASCOLI

LA CAVALLA STORNA Nella Torre il silenzio era già alto. Sussurravano i pioppi del Rio Salto. I cavalli normanni alle lor poste frangean la biada con rumor di croste. Là in fondo la cavalla era, selvaggia, nata tra i pini su la salsa spiaggia; che nelle froge avea del mar gli spruzzi ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi. Con su la greppia un gomito, da essa era mia madre; e le dicea sommessa: “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna; tu capivi il suo cenno ed il suo detto! Egli ha lasciato un figlio giovinetto; il primo d’otto tra miei figli e figlie; e la sua mano non toccò mai briglie. Tu che ti senti ai fianchi l’uragano, tu dài retta alla sua piccola mano. Tu ch’hai nel cuore la marina brulla, tu dài retta alla sua voce fanciulla”. La cavalla volgea la scarna testa verso mia madre, che dicea più mesta: “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna; lo so, lo so, che tu l’amavi forte! Con lui c’eri tu sola e la sua morte. O nata in selve tra l’ondate e il vento, tu tenesti nel cuore il tuo spavento; sentendo lasso nella bocca il morso, nel cuor veloce tu premesti il corso: adagio seguitasti la tua via, 117


perché facesse in pace l’agonia...” La scarna lunga testa era daccanto al dolce viso di mia madre in pianto. “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna; oh! due parole egli dové pur dire! E tu capisci, ma non sai ridire. Tu con le briglie sciolte tra le zampe, con dentro gli occhi il fuoco delle vampe, con negli orecchi l’eco degli scoppi, seguitasti la via tra gli alti pioppi: lo riportavi tra il morir del sole, perché udissimo noi le sue parole”. Stava attenta la lunga testa fiera. Mia madre l’abbracciò su la criniera “O cavallina, cavallina storna, portavi a casa sua chi non ritorna! A me, chi non ritornerà più mai! Tu fosti buona... Ma parlar non sai! Tu non sai, poverina; altri non osa. Oh! ma tu devi dirmi una una cosa! Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise: esso t’è qui nelle pupille fise. Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome. E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”. Ora, i cavalli non frangean la biada: dormian sognando il bianco della strada. La paglia non battean con l’unghie vuote: dormian sognando il rullo delle ruote. Mia madre alzò nel gran silenzio un dito: disse un nome... Sonò alto un nitrito.

da Canti di Castelvecchio, BUR

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DINO CAMPANA

O POESIA POESIA POESIA

O poesia poesia poesia sorgi, sorgi, sorgi su dalla febbre elettrica del selciato notturno. Sfrenati dalle elastiche silhouettes equivoche guizza nello scatto e nell’urlo improvviso sopra l’anonima fucileria monotona delle voci instancabili come i flutti stride la troia perversa al quadrivio poiché l’elegantone le rubò il cagnolino saltella una cocotte cavalletta da un marciapiede a un altro tutta verde e scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram silenzio – un gesto fulmineo ha generato una pioggia di stelle da un fianco che piega e rovina sotto il colpo prestigioso in un mantello di sangue vellutato occhieggiante silenzio ancora. Commenta secco e sordo un revolver che annuncia e chiude un altro destino

da Opere - Canti orfici e altri versi e scritti sparsi, TEA

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JORGE LUIS BORGES

MILONGA DI CALANDRIA

In riva dell’Uruguay mi ricordo del bandito che l’attraversò, afferrato alla coda del cavallo. Servando Cardoso il nome, ma per tutti Ño Calandria; non lo sbiadiranno gli anni che sbiadiscono ogni cosa. Non era dei fini che usan armi da grilletto; gli piaceva cimentarsi nella danza del coltello. Lo sguardo fisso negli occhi, sapeva parare la più abile coltellata. Beato chi l’ha veduto! Non così beati quelli il cui ultimo ricordo fu il brusco balzo in avanti ed il coltello che affonda.

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Sempre la selva e il duello, petto a petto e faccia a faccia. Visse uccidendo e fuggendo. Visse come se sognasse.

Dicono che fu una donna a darlo in mano ai nemici; ma la vita, presto o tardi, ci tratta allo stesso modo.

da Elogio dell’ombra, Einaudi

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GIORGIO CAPRONI

I COLTELLI “Be’?” mi fece. Aveva paura. Rideva. D’un tratto, il vento si alzò. L’albero, tutto intero, tremò. Schiacciai il grilletto. Crollò. Lo vidi, la faccia spaccata sui coltelli: gli scisti. Ah, mio dio. Mio Dio. Perché non esisti?

da Tutte le poesie, Garzanti

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GIOVANNI RABONI

TESTIMONI Qui il duca fu pugnalato, e questo è il pozzo dove si sbarazzarono del corpo fino all’alba. M’immagino la scena. Ma fra tante finestre, sottoporteghi, scale chissà quante parole della rissa trovarono orecchi avidi e timorati, cuori pronti a soffrire quest’altro segreto per carità di patria. O a bisbigliarlo più tardi, in fin di vita, nell’orecchio peloso del confessore. Circolazione di notizie nel buio delle viscere.

da Tutte le poesie 1949-2004, Einaudi

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VALERIO MAGRELLI

DIFFAMAZIONI

A Pierpaolo Pasolini Avrebbe minacciato un benzinaio con la pistola carica di un proiettile d’oro. Cineasta e poeta, orafo e orco! Ma cosa contestare a quest’accusa, l’arma o la sua pallottola? Cosa rivendicare, santa Romana Chiesa o l’usignolo? Quel colpo mai sparato traversa la sua opera piegandola ad un duplice ossimòro, fantastico fantasma di violenza e pietà, di sangue e alloro.

da Poesie 1980-1992, Einaudi

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DONATELLA BISUTTI

ESTETISTA (UN CASO DI CRONACA)

Dopo l’ufficio lei andò dall’estetista per prendersi cura del corpo. Vi rimase più di due ore Si fece tingere i capelli massaggiare il viso e il collo depilare le sopracciglia applicare le ciglia finte verniciare con lo smalto azzurro le unghie delle mani e dei piedi, depilare le gambe e le ascelle. Era perfetta. Poi lui venne a prenderla la fece salire sull’auto una Porsche nuova. Andarono per una strada fra i campi ormai era sera e si stava facendo buio. Lui la strinse forte poi fece a pezzi il suo corpo meticolosamente.

Inedito

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USICA

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ANTONELLA BINI SOFIA GUBAJDULINA: VIVERE NELLA VERITÀ E NON NELL’ERRORE

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Studiando la figura della compositrice russa Sofia Gubajdulina non si può non trattare la sua poetica e in particolar modo la "re-ligio”, intesa, alla maniera latina, come “ri-legare” e quindi unire e ristabilire un legame con la natura, la sensorialità, lo spirito e, in generale, con tutto il creato. Tale percezione del sacro affonda le sue radici nella formazione panreligiosa della compositrice: nonno mullah tataro di orientamento progressista, madre russa di origini ebreo/polacche e lei stessa convertitasi, in età adulta, al cristianesimo ortodosso. Questo suo aspetto pan-religioso e pan-culturale si ritrova nel suo procedere compositivo per contrasti e accostando le grandi filosofie orientali (Taoismo e Confucianesimo) con il pensiero occidentale e i testi Sacri del Cristianesimo. Troviamo così che gli aspetti occidentali – la concentrazione della composizione attorno ad un’idea centrale (ricerca e definizione del tema), il simbolismo connaturato e il pathos (potenza drammatica) – vengono a coesistere con gli aspetti orientali quali la meditazione, il silenzio come elemento strutturale (evidente il rimando a Cage, anch’egli fortemente influenzato dall’oriente), l’idea unitaria dell’arte e l’introduzione di strumenti percussivi etnici orientali che a loro volta rimandano alle radici russo-tatare della Gubajdulina. La musica popolare eseguita con strumenti autoctoni, diventa così oggetto di studio da parte della compositrice che fonda il Gruppo Astreja, in cui si “... reimpara a produrre il suono, e si cerca di raggiungere una condizione vergine della propria immaginazione sonora…”, inoltre è chiara la matrice metafisica del gruppo “... gli strumenti stavano li davanti a noi con tutto il loro bagaglio di consuetudini e di tradizioni, quindi più che uno studio assomigliava ad una sorta di esercizio spirituale...” A causa del contesto storico in cui era nata e vissuta fino agli anni Ottanta – dal “realismo socialista” applicato a tutte le forme dell’arte fino al periodo di isolamento politico e artistico degli anni 70 – la compositrice professò a lungo la sua fede in segreto per evitare ritorsioni sia su lei stessa che sulla sua famiglia. Probabilmente questa coercizione fece maturare il suo pensiero artistico attraverso Dio, l’umanità, l’universo, lo spazio, l’anima, la fede, l’apocalisse, la salvezza, la carità e l’unità cosmica; inoltre tra i suoi filosofi di riferimento, oltre Hegel e Jung, troviamo Berdyaev, fervente cristianoortodosso, difensore della libertà individuale e dello sviluppo spirituale, nonchè in contrasto con il regime. Per la Gubajdulina, lo scopo dell’arte, e quindi della musica, diventa la strenua ricerca della verità attraverso la percezione del sacro che si manifesta nella natura che è creazione e creatività, mutazione e perennità, contemplazione e meditazione, materia e spiritualità. 128


Questa concezione pan-naturalistica sviluppata da Sofia Gubajdulina, vivendo lei stessa a stretto contatto con la natura per poter così essere facilmente a contatto con il creato, avvicina la sua figura non solo a Messiaen, compositore e ornitologo, ma a tutti i compositori in genere, perché la natura e l’atmosfera di Arcadia – che con il loro linguaggio complesso e stupefacente, fatto di semplici suoni e fruscii, parlano costantemente all’uomo – sono state nei secoli, e lo sono tutt’ora, tra le grandi fonti di ispirazione di tutto ciò che è arte permettendo all’artista di esprimersi e di avvicinarsi con un processo interiore, a volte travagliato, alla ricerca del Vero. Perciò la musica, come intesa da Gubajdulina, è uno spazio sacro che rivela una spiritualità severa e arcaica, generando un aspetto drammaturgico della composizione: il flauto, ad esempio nei brani Allegro rustico e Suoni della foresta, viene inteso come lo strumento del demiurgo che dialogando con il pianoforte diventa evocatore di un mondo arcadico-bucolico, come accade anche nella poetica compositiva di André Jolivet. Però Sofia Gubajdulina ha espresso la propria spiritualità non solo con composizioni di ispirazione etnico-bucolica, ma anche in altri modi. La compositrice, già nei titoli infatti, esprime il suo misticismo religioso: Introitus, In Croce, Jubilatio, De Profundis, Offertorium, perché – come sostiene la compositrice stessa – “... con il nome un’opera riceve il suo destino”; inoltre, come riporta Valentina Kholopova (una delle sue massime studiose), “creazione”, “spiritualità”, “animazione” e “anima” sono soltanto alcuni dei concetti chiave ricorrenti nelle sue composizioni. Un altro modo consiste nel concepire il suono come soggetto, entità ontologica, e il timbro del suono stesso come veicolo del messaggio musicale. Ecco che Gubajdulina sviluppa alcune delle poetiche compositive delle avanguardie, secondo le quali il timbro da parametro coloristico e decorativo diventa protagonista del discorso musicale. Assistiamo, quindi, a una personificazione spirituale del timbro musicale e degli strumenti stessi che animandosi diventano creature soprannaturali e divine. Nell’opera Sette parole, ad esempio, la Trinità è rappresentata nel seguente modo: la fisarmonica impersona il Padre, il violoncello il Figlio e gli archi lo Spirito Santo. Inoltre pone in evidenza strumenti che nel grande repertorio hanno funzione di accompagnatori, come per esempio il clarinetto basso o il contrabbasso, assegnando loro il ruolo di solista. Sofia Gubajdulina presenta, perciò, un nuovo parametro compositivo che è quello dell’espressione, o della fisionomia sonora, secondo il quale la produzione del suono è caricata di significati semantici inamovibili. Il processo creativo non termina una volta conclusa la stesura della partitura, e gli esecutori – con i quali la compositrice intesse rapporti e confronti costanti per, come lei 129


asserisce: “... approntare redazioni mature, praticamente definitive delle mie composizioni” – diventano portavoce del messaggio mistico-musicale, che è tramite dell’atto espressivo e incarnazione del suono musicale stesso. Da un punto di vista analitico-musicologico, tutto ciò si traduce in una esplorazione dell’altezza del suono e nella creazione di polifonie virtuali (Sofia Gubajdulina ha a lungo studiato Bach), introducendo ad esempio glissandi (effetto sonoro che si ottiene sdrucciolando le dita o la mano sulla tastiera dello strumento, ndr), scale pentatoniche (cinque suoni), e l’uso costante di suoni armonici, quale esaltazione della natura e sublimazione nel passaggio da uno stato all’altro della materia sonora. Viene inoltre introdotto un terzo aspetto nella struttura del discorso musicale e cioè la “formante spaziale” che si traduce nel numero delle note e delle battute, creando un aspetto tridimensionale della composizione con chiari rimandi mistici: la totalità cosmica cioè l’unione dell’uomo con la terra e il cielo oppure – soprattutto – l’aspetto Trinitario di Dio, ovvero la Perfezione. Questo aspetto tridimensionale sottende una dimensione numerologica che prevede l’impiego della sezione aurea e della serie di Fibonacci applicati alla struttura degli intervalli e alla struttura ritmica, prendendo spunto dall’esperienza compositiva di Bartók, e ponendo al centro dell’esplorazione compositiva il “semi tono” cioè l’intervallo più piccolo del sistema temperato equivalente alla metà di un tono intero. Tralasciando gli aspetti prettamente analitici della musica di Sofia Gubajdulina, che necessiterebbero di un linguaggio prettamente musicologico e tecnico, preferiamo sottolineare ancora una volta la sua grande spiritualità, che possiamo ritrovare attraverso alcune interviste rilasciate dalla Gubajdulina stessa in occasione dei suoi incontri con il pubblico. “Io sono religiosa ortodossa e concepisco la religione come un ripristino della società. La vita critica l’uomo, lo fa a pezzi. L’uomo deve ritrovare la sua integrità, questo è quello che intendo per religione. Non c’è altra ragione per comporre musica se non per ricostruire la spiritualità…” E ancora: “Noi ci stiamo confrontando oggi con un mondo completamente differente, che sfortunatamente non è necessariamente il migliore. Le persone continueranno a diventare mono-dimensionali fino a quando continueranno a perdere la propria fede, questa perdita di spiritualità è dannosa per l’arte. Oggigiorno la vita è frenetica e questo diventa principale causa/effetto di guadagnare e mangiare, mangiare e guadagnare…”. Parlando invece della propria ricerca compositiva e del suo pensiero musicale la compositrice asserisce: “Per il mio pensiero l’ideale coesistenza tra la tradizione e le nuove tecniche compositive, è quella in cui l’artista unisce il vecchio linguaggio con il nuovo. Ci sono compositori che costruiscono i loro lavori 130


molto coscienziosamente; io sono una di quelle che li coltivano. È per questa ragione che io ho assimilato le forme come se fossero le radici di un albero, e il lavoro i suoi rami e le foglie. Ciò che segue potrebbe rappresentare un nuovo inizio ma esse sono foglie e nient’altro. Dmitri Shostakovich e Anton Webern hanno influenzato il mio lavoro in maniera molto forte. Anche se la mia musica non ne ha tracce apparenti, questi due compositori mi hanno dato una lezione molto importante: ESSERE ME STESSA”. “Il mio obiettivo è quello di essere più vicino alla terra per staccare l’asfalto o la crosta o qualsiasi altra cosa si sia incallita, io cerco di trovare la verità nella musica come in tutta la mia esistenza per vivere nella verità e non nell’errore”.

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VALENTINA COLONNA PROSODIE POETICHE UNO STUDIO FONETICO SULLA POESIA DI GIORGIO CAPRONI

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La lettura della poesia, con le sue svariate possibilità intonative, rappresenta sicuramente uno degli aspetti più trascurati dagli studi italiani di critica e linguistica. Se infatti il testo poetico prende vita proprio con la voce e i suoi suoni si materializzano per mezzo dell’intonazione, con la produzione delle onde sonore che connettono l’emittente al suo ascoltatore, questa è ancora una questione poco affrontata. Eppure l’intonazione appartiene alla nostra identità ed è strettamente connessa alla musica, non solo in quanto regolate entrambe dallo stesso emisfero, ma in quanto naturale è nell’uomo la predisposizione all’ascolto. È infatti una connessione ritmica e melodica, quella che lega il bambino alla mamma, a partire dai primi mesi: con il riconoscimento e poi l’imitazione dei patterns ritmici e melodici, cui si associa anche un aspetto motorio, regolato da una “musicalità” posta alla base dell’impulso vitale, il bambino consolida, a livello intonativo, un ritmo sillabico. Apprendimento analogo, “spontaneo”, potrebbe avvenire per il linguaggio musicale, laddove si potesse affinare la naturale capacità di sentire e imitare musicalmente. Molti sono gli studi dedicati all’apprendimento comune di musica e lingua, in ambito neurologico, e alla loro origine comune, a livello evolutivo. È opportuno non tralasciare un aspetto così importante e caratterizzante nella nostra vita, come quello intonativo. Per farlo è opportuno non scinderlo da quello musicale ma piuttosto considerare l’intonazione musicalmente. Il termine “prosodia”, che nel tempo ha visto mutare il suo significato, indica in campo linguistico la modulazione di alcuni parametri del parlato, rappresentando fondamentalmente le caratteristiche sovrapposte ai segmenti linguistici, determinanti per le proprietà acustiche dei loro suoni. L’intonazione è “l’andamento melodico dell’enunciato”, come scriveva Canepari, ed è anche il frutto della combinazione di quelle che sono definite “componenti prosodiche microstrutturali”, ovvero tono, intensità e durata, che, sovrapposte ai timbri dei suoni delle sillabe, producono inoltre le strutture macroprosodiche. Questi sono, in breve, gli elementi che, in uno studio prosodico, vengono perciò osservati e analizzati. A riguardo sono stati svolti numerosi studi, concentrati principalmente sull’intonazione del parlato e che si dividono in due filoni principali: un approccio fonologico da un lato (uditivo-percettivo, più incline al soggettivismo) e un approccio fonetico dall’altro (finalizzato all’individuazione oggettiva dei dati acustici). Su entrambi i fronti sono stati elaborati differenti modelli di studio con relativi metodi di trascrizione: tra le due possibilità di impianto si presenta anche una terza, di mediazione tra i due approcci. 133


La questione intonativa nell’arte poetica è stata, in questo panorama folto di studi, fondamentalmente estromessa nel panorama italiano, dove si ricorda, a livello esofasico, il significativo studio di Schirru (2004), concentrato sull’aspetto ritmico. Se sulle letterature orali è più facile reperire materiale, bisogna riconoscere che la critica italiana ha spesso tralasciato la questione. Tuttavia, come già Fortini documentava in un suo saggio, vi sono stati dei nomi significativi, tra i critici, che hanno argomentato a riguardo della lettura ad alta voce, come: Nencioni, Tavani, Raimondi, Gentili e Beccaria. La poesia, nonostante la scarsa attenzione dedicatale dal punto di vista musicale e intonativo, è tra le forme letterarie quella più abbondantemente insignita di termini “musicali”, basati su osservazioni soggettive, spesso imprecise e inappropriate, come già Beccaria aveva avuto modo di ribadire diverse volte nei suoi lavori magistrali del 1964 e del 1975. In ambito critico sono state elaborate inoltre diverse teorie sulla lettura e sul ritmo: rilevante è la scissione identificata da Cohen (1966), condivisa anche da Beccaria, in una lettura “espressiva”, considerata non adeguata alla poesia, e in una “inespressiva”, invece conforme alla natura del lavoro poetico, incline alla “monotonia”. Nel nostro lavoro di ricerca, dedicato appunto alla prosodia della poesia, si fa uso di un impianto fonetico: unitamente all’aspetto percettivo non viene tralasciato quello semantico del testo, imprescindibile anche in uno studio dedicato all’aspetto prevalentemente sonoro. Oggetto dello studio sono le “interpretazioni” (e non “esecuzioni”), intese come possibili varietà intonative e realtà artistiche autonome, frutto di molteplici fattori e scelte specifiche. La metrica dedica all’aspetto musicale del testo i suoi studi, che si basano su un approccio endofasico, cioè sulla lettura “silenziosa”, che per Beccaria sarebbe anche l’unica dimensione reale della poesia. Tuttavia essa “silenziosa” non sarebbe concretamente, già a dire di Fortini e poi secondo i recenti studi di neurolinguistica sul pensiero linguistico e il suono. Uno studio prosodico permette dunque di analizzare la lettura ad alta voce della poesia, nella sua varietà notevole, osservando le differenti soluzioni interpretative realizzate. Per entrare nel vivo della questione intonativa della poesia è necessario partire da dati concreti sonori, osservando file audio rappresentativi di diverse realtà interpretative, possibilmente di un medesimo testo, raccolte all’interno di un corpus. Nello specifico, lo studio in questione si avvia con l’ascolto e l’analisi di un autore che legge una sua poesia (in questo caso Giorgio Caproni alle prese con il Congedo del viaggiatore cerimonioso), per procedere poi con il confronto fornito da altre letture del medesimo testo, a opera di poeti contemporanei e altri professionisti della voce, come speaker radiofonici e attori (di teatro, cinema e audiolibri). Solo attraverso uno studio di tipo quantitativo 134


si possono porre le fondamenta per uno studio più ampio e concretamente funzionale alla questione. Un lavoro come questo è di tipo sperimentale e, per essere svolto, oltre che servirsi di una ricerca dei dati sul campo, si serve di software specifici, in grado di fornire oscillogrammi e spettrogrammi (con evidenza delle curve di frequenza e intensità). Grazie a questi strumenti è possibile visualizzare, unitamente all’ascolto, gli andamenti prosodici e le modalità intonative utilizzate dai parlanti, percepibili su più livelli.

Es. di oscillogramma, spettrogramma (con curve di frequenza f0 e intensità) e quattro livelli di segmentazione (Verse, Utterance, Intonation, Tone) sul software Praat.

All’ascolto ripetuto e all’osservazione dei dati raccolti e classificati (mediante segmentazioni e annotazioni su più livelli nel software, unitamente a segmentazione prosodica del testo) seguono la loro etichettatura, la descrizione e l’analisi, su più piani e a mezzo di una terminologia creata appositamente per uno studio di questo tipo. Da un approccio percettivo, unito sempre con il confronto del testo poetico scritto, emerge una molteplicità considerevole e spesso sottovalutata delle modalità organizzative di lettura nel panorama contemporaneo, a partire dagli anni Sessanta a oggi (spazio di tempo in cui si è concentrato il nostro sguardo). Non solo le diverse attività professionali, i differenti periodi storici e i vari luoghi di appartenenza incidono sui risultati, ma emerge all’interno di una stessa “categoria”, come può essere quella dei poeti, una significativa varietà nell’organizzazione dei segmenti prosodici e nelle scelte interpretative globali e specifiche. L’esame della lettura di diversi poeti contemporanei, prestati a uno 135


studio di questo tipo, mette in luce, oltre a una prevalente intonazione “monotona” del testo (come direbbe Beccaria), la prevalente scansione metrica, ovvero fedele al verso e non alla scansione logico-sintattica (in particolar modo sul campione maschile esaminato), caratteristica invece della lettura di attori e speaker radiofonici. Tuttavia uniformità melodica e scansione principalmente “metrica” rappresentano dati molto differenti rispetto a quelli raccolti con Giorgio Caproni, che presenta un’ampia varietà melodica e una scansione sintattica. È dunque impossibile compiere una generalizzazione riguardo alla lettura del testo poetico, anche restringendo lo sguardo ai soli poeti: emerge una variabilità interna importante, tale da convincerci dell’impossibilità di individuare la “più corretta” lettura del testo in un modello (quello cosiddetto “inespressivo”). Rilevante è stata anche, in questo studio, l’identificazione di un ritmo melodico, individuato a partire dalla lettura caproniana e riscontrabile in altre voci. Con esso si è inteso un ritmo non slegato dall’aspetto melodico-frequenziale ma a esso vincolato, in cui le parole ritmiche che lo compongono (definite tali nella terminologia interna alla ricerca) si presentano su stessi colori di f0 in modo ricorrente. Esso ha permesso di individuare inoltre nel ritmo sintattico una stretta e inscindibile connessione con quello metrico, anche laddove la lettura non è stata fedele al verso. Oltre alla ricca panoramica di timbri, impostazioni e registri complessivi, l’uso molto diverso della lunghezza delle curve intonative, del silenzio e della prevalentemente mancata realizzazione dell’inarcatura rappresentano altri nodi centrali di questo studio. L’ampiezza della curva di f0 si è presentata nettamente maggiore nel caso delle speaker radiofoniche, seguite dalle voci attoriali contemporanee, rispetto ai poeti, il cui respiro è globalmente più corto. Inoltre l’indagine sulla resa dell’enjambement è stata saliente all’interno di un’ottica comparata di questo tipo: ha permesso di individuare, in una prevalente assenza di resa fedele del fenomeno, un’alternativa modalità di produzione dello stesso, principalmente basata sull’allungamento vocalico della sillaba terminale del termine a conclusione del verso. Infine, da un confronto tra i casi di coincicidenza tra curve intonative e verso, è emersa una ricorrenza specifica di alcuni di questi, in specifiche combinazioni metrico-sintattiche. È sicuramente possibile, alla luce di questo lavoro, individuare alcuni schemi organizzativi e interpretativi convergenti, non sufficienti tuttavia a parlare di una schematizzazione generale omogenea ma piuttosto comprendenti micromodelli interni e una ricca possibilità di variazione. La voce nella poesia è sicuramente, al giorno d’oggi, grazie anche ai mezzi di comunicazione vivi e in uso, un tema che meriterebbe uno spazio più ampio e adeguato di osservazione, rispetto a quello, limitato, in cui viene ancora confinata. Studi di questo tipo possono contribuire, partendo da dati concreti, ad af136


frontare, da una prospettiva ancora poco esplorata in Italia, un tema connaturato alla composizione poetica e da sempre oggetto di indagine, ovvero quello sonoro. Fondamentale per indagini di questo tipo sono l’apertura alla multidisciplinarietà, il dialogo tra il mondo della linguistica (della fonetica in particolare) e quello della stilistica e metrica, della letteratura e infine della musica. Un confronto “interdisciplinare” e “transculturale” è la strada secondo noi migliore per apportare contributi di ampio raggio nella ricerca per un’arte come quella della lingua, che è per eccellenza “libera”, come già scriveva Terracini, in particolare in un ambito delicato come quello della poesia, così bisognoso di uno sguardo aperto, oltre i confini dei saperi.

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EATRO

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PICCOLO DOSSIER SHAKESPEARE GIUSEPPE PROVENZALE SHAKESPEARE CHI?

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Prima del Rinascimento, cambiano i parametri di bellezza e di estetica prosastica e poetica. La poesia rinascimentale inglese dell’età elisabettiana abbandona le tematiche allegoriche e religiose del precedente periodo medioevale, guarda all’Italia e ne imita i modelli, Boccaccio soprattutto. Surrey e Wyatt introducono il sonetto (usato sin dai tempi della Scuola poetica siciliana fondata da Federico di Svevia1) e praticano il blank verse (verso libero). Poi arriva William Shakespeare, che non ha bisogno di presentazioni. Con il crescere della sua fama inizia una secolare diatriba sulla sua identità 2. Gli Inglesi individuano un luogo natale (Stratford) e lo documentano insufficientemente, diffondendolo in tutto il mondo come verità unica e primigenia. Il padre è sellaio, guantaio, macellaio o simile, lui è accreditato di un’iscrizione all’appena istituita locale Grammar School; presunta tomba con torso degno di un oste soddisfatto. Nessun manoscritto. Di contro c’è una montagna di saggi scritti su una sua identità da danese ad araba mentre la più accreditata è quella italiana per le tante opere ambientate in Italia. I primi dubbi sulla nazionalità del Bardo vennero colti proprio in Italia, nei primi anni venti del secolo scorso, quando venne ritrovato un volume di proverbi, I secondi frutti, scritto nel XVI secolo da uno scrittore calvinista del Nord Italia, tale Michelangelo Crollalanza. Molti di questi detti sono gli stessi utilizzati da William Shakespeare nell’Amleto. Coincidenza? È la prima. È recente un’ipotesi ‘siciliana’ del Prof. Martino Iuvara. La introduco citando Ben(jamin) Jonson (1572-1637) che inserisce i primi dubbi sull’identità di WS. Egli amico e poeta testimonia una natura “trina” di Shakespeare dicendola formata da un “X” e 2 “contributors”. Nel suo First Folio (1623) dà notizia di un unicum di tre persone: un incerto William di Stratford già shakesper (posteggiatore di cavalli davanti ai teatri) che conosceva poco Latino e ancor meno Greco e due amici (a volta definiti fellows a volte contributors) John e Michelangelo Florio, traduttori, letterati ed eruditi, forse poeti e drammaturghi celati. Dunque un WS e due Florio. Secondo lo studioso Saul Gerevini “il testamento di John Florio, scritto l’anno stesso della sua morte, rivela impressionanti affinità con il modo di scrivere e di pensare di Shakespeare. Ci sono evidenze che Florio e Will di Stratford vissero sempre a stretto contatto. Ci sono fondate evidenze che la loro collaborazione permise la produzione di tutte le opere di Shakespeare”. Dunque un Will di Stratford, un John Florio e un Michelangelo (Michel Agnolo) Florio. A detta di alcuni omissis figlio e padre, cugini per altri omissis. Forse addirittura due John e due Michelangelo, aggiungendo altri omissis. Toscani per alcuni, Siciliani per altri. Una ridda d’ipotesi e nessun documento, se non ciò che loro stessi hanno scritto con calligrafia minuziosa e senza macchie; a differenza di quel Shakespeare di cui non esiste un solo manoscritto ma ap140


pena sei autografi simili più a un disegno copiato e ricopiato che a una firma voluta. Un rompicapo che potrebbe avere una spiegazione nella necessità di celarsi. Per Michelangelo gli storici parlano delle Inquisizioni (romana e inglese), per John del lavoro di Intelligence svolto (insieme a Giordano Bruno3) per conto di Sir Francis Walsingham4 presso l’Ambasciata francese. Il professor Martino Iuvara nel suo saggio5 (tra i meno documentati) sostiene che Michelangelo Florio6, figlio di Giovanni e Guglielmina Crollalanza (da Piuro, Chiavenna) sia nato a Messina il 23 (o 24!) aprile 1564 (data ufficiale di nascita di WS) e vi sia vissuto per circa 16 anni. E dà anche ragione a chi sostiene che J. Florio sia venuto dal profondo sud. Informazione criptata nello pseudonimo “John Soowthern”7. Una Messina economicamente ricchissima e all’avanguardia nelle arti e allora anche tra le capitali del Rinascimento. Città di pietra e di marmo con 100.000 abitanti quando la Londra di legno e pochi mattoni ne aveva 70.000. Non so quando né come ho cominciato a praticare una obliquazione di dati ed immagini e ho trovato qualcosa che aggiunge notizie originali, quasi conferme affini ad un’adiacenza Florio-Shakespeare. Partito da un’architettura di Andrea Calamech (architetto carrarese attivo a Messina nella seconda metà del Cinquecento8) sono approdato alla commedia scespiriana Molto rumore per nulla ambientata a Messina9. Commedia di fondamentale importanza per alcune testimonianze sparse qua e là come elementi di un puzzle. Nella commedia sono citati il Palazzo del Governatore (A. Calamech, 1565 circa, poi Palazzo reale)

Palazzo del Governatore, poi Reale. Illustrazione dell’Autore

e il tempio greco eretto ad Ercole, cointestato a Manticlo10 e infine dedicato a san Giovanni dei Fiorentini.

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(Due delle) Quattro Fontane. Una sull’ex Tempio. Illustrazione dell’autore

In questo intervallo tra il 1565 e il 1582 si colloca un’innegabile conoscenza della città. Indirettamente testimoniata da due importanti modifiche del loro status: il Palazzo che sino a quegli anni era stato detto “del Governatore” perché residenza dello Stratigoto11, solo successivamente diventerà Reale. Il tempio sarà demolito (1582 c.) e rimontato pezzo su pezzo in forma di chiesa della Controriforma. Bene, nella commedia firmata Shakespeare uno è ancora il Palazzo del Governatore e l’altro è il Tempio. Per illustrare meglio gli elementi di contatto tra Messina e Shakespeare elenco alcune istruttive spigolature da Molto rumore per nulla: – Atto III, Scena II: l’aragonese Don Pedro pronuncia una frase rimasta un rebus per gli Inglesi: She shall be buried with her face upwards (Dovranno seppellirla a faccia in su). Cosa significa? Tutti vengono sepolti così. E allora? La definizione messinese di una persona superba o semplicemente orgogliosa è ca nasca addritta (con il naso in su). Descrizione fedele di una Beatrice, innamorata di Benedetto, ma sempre orgogliosa, anche da morta. – Atto III, Scena III: … next morning at the Temple, and there, before the whole congregation shame her … (domani mattina al Tempio, e là, davanti a tutta la congregazione la svergognerai…) Questi versi citano non una chiesa qualsiasi, ma un tempio greco (v. 8). Assegnato ai Fiorentini residenti e successivamente ad una Congregazione di Preti Catechisti. Chi poteva conoscere questi particolari? – Atto IV, Scena I, Beatrice usa una tipica espressione messinese tradotta in inglese: ti manciu ‘u cori – I will eat your heart. 142


– Il nobilissimo governatore Lionato de’ Lionati (Leonato de’ Leonati) è un Papaleo discendente del Papa messinese San Leone? – Il nome del capo della ronda Dogberry (corniolo, albero dal legno durissimo) calza la definizione messinese di poliziotto: testa ‘i lignu. – C’è l’idioma messinese (v. 1) parlato dalla ronda, reso con uno strano linguaggio riecheggiante assonanze spagnole. Solo chi fosse vissuto a Messina poteva averne conoscenza e desiderio di citarlo. Spigolature simili si potrebbero trovare in tutte le opere “italiane” di WS, ma ciò non intacca minimamente l’attribuzione di una permanenza di Florio (Michelangelo? John?) a Messina. Il mistero sulla biografia di WS potrebbe essere proprio una trama-capolavoro di Shakespeare-Florio. Dovendo fuggire da Messina a causa della persecuzione religiosa (il padre era calvinista) si rifugia a Padova (i nomi di Rosencranz e Guildstein citati in Amleto, sono quelli di due studenti di quell’università), poi a Venezia (al Circolo Morosini conosce alcuni aristocratici inglesi che lo introdurranno nella cerchia del barone Burghley), quindi Venezia (stessa casa di Otello), poi a Verona (innamorato di una certa Giulietta) e Milano (città della vera storia di Giulietta e Romeo e della Tempesta). Per finire in Inghilterra in casa di uno Shakespeare cugino della madre. Magari discendente da quel ramo piurese (Chiavenna) che, avendo fiorente banco a Londra, aveva già tradotto il suo nome Crolla Lanza in Shakespeare. Con una complicazione dalle tinte gialle. John Florio (Londra 1553-Fulham 1625), da fonti inglesi è detto figlio di Michelangelo Florio12, nato durante il regno di Edoardo VI. No, John stesso smentisce tutti con un’intraducibile an Englishman in Italiane (To the reader dei Second Fruits, 1591) e, nell’epistola dedicatoria del World of Words (1598) si paragona a un bouncing bo[y]je, Bacchus-like “un vivace ragazzo simile a Bacco”. Egli precisa che era figlio della my Italian Semele, and English thigh, cioè concepito in un grembo italiano e nutrito in una coscia genitrice inglese! Chiarita la nazionalità del “Giovanni venuto dal Sud” (John Harding), qualche dubbio è legittimo sulle date e su un tempo relativo oscillante tra il Nuovo Calendario Gregoriano, i suoi aggiustamenti e la rarità degli orologi. Nelle fonti italiane invece John è il padre di Michelangelo. A meno di un nonno Michelangelo, un figlio John e un nipote ancora Michelangelo. Alla fine i nomi che si ricavano da questo voluto “polverone” sono: John Florio, traducendo il nome del padre; William Shakespeare, traducendo il nome della madre; il William preso a prestito da un defunto figlio del guantaio/commerciante di pellami Shakespeare di Stratford; il John Soowthern “Giovanni che proviene dal sud”. In aggiunta potrebbero esserci due William Shakespeare: l’attore che il contemporaneo scrittore Ben Jonson dice avere “poca conoscenza del latino e meno del greco” e il drammaturgo Florio che si cela firmandosi W.S. Un gentiluomo profondo conoscitore di musica, letteratura latina e greca, etichetta, 143


termini giuridici e marinari, letterato che descrive l’Italia e mostra carattere e spirito italiano… e che ha anche la necessità di un “Vivi nascostamente”, tradotto come “Hyde thy life”. Annotazione importante. John indirizza tale espressione al padre Michelangelo (epistola al lettore del Dizionario del 1598) ma la estende anche a se stesso. Dopo la “disumana” vicenda di Michelangelo Florio (incarcerato dall’Inquisizione nel febbraio 1548, e miracolosamente riuscito a sfuggire all’esecuzione capitale … le vite dei Florio erano in pericolo di morte. I due Florio, nobili e interdetti a teatri e commedie diventano hidden poets, e clandestin dramatists. John Florio … loved better to be a poet than to be counted so (To the reader dei Second Fruits, 159113). Santi Paladino14 afferma che questo era anche il “catechismo” di Michelangelo, simile a quello espresso da Falstaff nel King Henry IV: “non vuole esporsi; non vuole correre rischi che possano troncare la sua esistenza mentre l’ha dedicata a condurre a maturazione i frutti della sua alta cultura … L’onore … lo incita nella sua nobile battaglia letteraria, ma … esponendo il suo vero nome … può essere rintracciato e ucciso, preferisce rinunciare alla gloria personale”. Resta irrisolto un puzzle ben orchestrato da chi sapeva scrivere trame complicate e significative... un altro successo della produzione Shakespeare-Florio.

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1 Federico II imperatore e re di Sicilia con il nome di Federico I, auspicò (1231) che nel nuovo

Palazzo Reale si istituisse Messanae primum Academia sub ejusdem Imperatoris auspiciis ex eruditissimis viris conflata ad linguam Italicam in meliorem formam redigendam… Un’Accademia che adotti il Siciliano come lingua nazionale italiana e ne migliori la forma. Un linguaggio sopraregionale capace di coniare neologismi e assimilare apporti dialettali italiani, francesi e d’oltralpe. Un’operazione condotta dalla Magna Curia e dai suoi funzionari-poeti, che al seguito dell’irrequieto imperatore modellano una nuova lingua fondendo e omologando quelle locali. La siciliana innanzitutto. La sede dell’Accademia è il Palazzo Reale di Messina. (Gallo C.D., Apparato…, 1756, 247)1. La stessa notizia è riportata in AA.VV. Messina e Dintorni, Messina, 1902, 369: “In quel palazzo sontuoso Federico lo Svevo aveva congregato i primi rimatori in lingua volgare”. 2Ancor oggi due Università hanno un Master programme sull’argomento dell’identità di Shakespeare: la Concordia University (Oregon, USA) e la Brunel University (London, U.K.). 3 Barry, John, Giordano Bruno and the Embassy Affair, New Heven, 1991. 4 L’inventore del primo Servizio di spionaggio e consigliere della regina Elisabetta I. Grazie a questa collaborazione furono intercettate alcune lettere provenienti dalla Francia che causarono la morte della regina Mary Stuart di per sé traditrice perché cattolica. Erano spedite dentro barili con una tecnica descritta in Amleto. 5 Iuvara, Martino, Shakespeare era italiano, Ispica, 2002. 6 Michelangelo Florio studiò latino, greco e storia presso i Francescani di Messina prendendone il saio, ma a 15 anni fu costretto a fuggire con la famiglia in Veneto, a causa delle idee calviniste del padre, già condannato al rogo dal Sant’Uffizio (1548, Carceri di Tor di Nona) per aver pubblicato un libello sgradito alla Chiesa cattolica. 7 John Harding, che ha dedicato anni di ricerca al rapporto Florio-Shakespeare, informa che intorno al 1584 J. Florio firmava con quello pseudonimo, traducibile con “Giovanni che proviene dal sud”. 8 Provenzale, Giuseppe, Calamech in Messina, Mori ed., Carrara, 2016, passim. 9 La complicata trama della commedia è tratta, insieme a qualche nome, da una novella di Matteo Bandello. Volume che J. Florio aveva nella sua biblioteca. Pare che WS non avesse nemmeno uno scaffale. Novella elaborata e aggiunta di elementi senza dubbio tratti da una conoscenza diretta della città. 10 Manticlo era un generale messeno. L’edificio era stato costruito intorno al 483 a.C. e conteneva due statue di enorme valore: un Cupido in marmo di Prassitele e un Ercole in bronzo di Mirone. Il vicerè Marc’Antonio Colonna lo aveva paragonato al Pantheon di Roma. 11 La carica dello stratigoto era dell’epoca bizantina e aveva il compito di far rispettare le leggi ed amministrare la giustizia. Successivamente e con il rango di co-capitale del Regno di Sicilia Messina costruisce il suo Palazzo Reale. 12 Un esule italiano proveniente da Lucca (lo stesso fuggito dalle carceri di Tor di Nona?). Sappiamo poco sulla madre di John, forse un’inglese conosciuta negli ambiti di lord Cecil Burghley. Ciò spiegherebbe la notevole conoscenza della lingua inglese. 13 Come per i First Fruits, manuali di conversazione per l’insegnamento della lingua italiana. 14 S. Paladino, Un italiano autore delle opere Shakespeariane, 1955, pp. 21, 22 e 23.

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FRANCESCO SCARRONE SHAKESPEARE E LE STELLE Testo teatrale

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PERSONAGGI

CONTABILE BURBAGE SHAKESPEARE MORTE

Fitzmore, contabile della compagnia del Lord Ciambellano Primo attore della compagnia di cui sopra Scrittore in fase maniaco depressiva Sé stessa. Ma onnivora e bella in carne

PROLOGO (Contabile e Burbage) Entra un ometto curvo, vestito di una casacca nera logora, una vecchia papalina consumata, sta riepilogando i conti da un pesante libro che tiene legato alla vita con una catenella. Lo segue un uomo baldante. CONTABILE: Sette e sette sono quattordici, e dieci fanno ventiquattro. Otto sono trentadue e quindici, quarantasette. Meno! L’affitto del teatro, la sartoria, il trasporto dei macchinari, pigione per giorni quarantadue al Dirty Duck, ivi compresi due pasti al dì, ai quali vengono aggiunti tredici scellini di birra che non vi siete premurato di saldare, PIÙ, due sovrane a tale Lilly la grassona dei cui dubbi servizi apparentemente non riuscite a fare a meno, PIÙ, un paio di stivali nuovi che sarebbe bastato risuolare, meno, evvivaiddio, le entrate dovute alla grazia del Lord Ciambellano che ha permesso la rappresentazione straordinaria de L’Infausta Isolina durante il periodo di Pentecoste, PIÙ, ci aggiungiamo, bonus malus, diaria e pagamento delle imposte il risultato è... BURBAGE: È? CONTABILE: (buttandosi svilito su una sedia): La rovina completa della compagnia. BURBAGE: Andiamo Fitzmore, mi servono solo dieci sovrane sino alla fine del mese, poi vedrete che... CONTABILE: Che?! Che?! Dieci sovrane? Voi state scherzando Burbage! Dieci sovrane! Come se io le fabbricassi in cantina, le sovrane! Ma per chi mi avete preso? Avete sentito il rendiconto che vi ho appena letto? BURBAGE: Datemene nove, allora! CONTABILE: Vi siete comprato un paio di stivali quando quelli che avevate erano ancora quasi nuovi! 148


BURBAGE: Ma avevano dodici anni, Fitzmore! CONTABILE: Ecco! Quello che dicevo! Quasi nuovi! BURBAGE: D’accordo, facciamo sette. Sette sovrane. Di meno non posso vivere! CONTABILE: Potreste risparmiare sulla birra, o magari sui servizi di Lilly la grassona. Oppure potreste fare come il resto della compagnia che alloggia nel teatro. BURBAGE: Si tratta soltanto di un momento di difficoltà. La compagnia sicuramente riprenderà a lavorare come ai vecchi tempi. Non c’è da preoccuparsi. Vi ricordate Fitzmore, quando il denaro pioveva come chicchi di grano durante la messe, nel vostro borsello? CONTABILE: (languidamente) Aaaah. BURBAGE: Ricordate i profitti che di giorno in giorno tintinnavano come risatine d’argento? CONTABILE: Ooooh, le mie monete... BURBAGE: Già, vi ricordate? Ricordate il mio Romeo, il mio Amleto, il mio Otello! CONTABILE: No. Ma ricordo gli incassi. Quelli sì che erano bei tempi. BURBAGE: E i bei tempi torneranno! Ve lo giuro. Ma ho solo bisogno di sei sovrane fino alla fine del mese! CONTABILE: (infuriato) Cosa? Sei sovrane? Non se ne parla neppure! Voi, Burbage, siete un furfante, una serpe. Voi credete che ricordarmi i periodi felici possa muovere a commozione il mio cuore. Ma non vedete che è esattamente l’opposto? Che ricordarmi la felicità passata non fa che acuire la mia pena presente? Guardate qui: guardate il mio borsello! Vuoto! Vuoto!!! Non più un misero scellino! Natura abohrret vacuo!!! BURBAGE: Non vi preoccupate Fitzmore! Ho già in mente una nuova fantastica opera che risolleverà le sorti della compagnia! CONTABILE: Una nuova? Opera? Come si chiama? BURBAGE: Tebaldo e Isolina. CONTABILE: Il titolo non è granché. E poi perché sempre questa Isolina in mezzo ai piedi! Insomma di cosa si tratta? Tragedia o commedia? BURBAGE: Una grande tragedia! CONTABILE: Ah, no! Le tragedie non vanno più. La gente ha voglia di ridere. BURBAGE: Ma può adattarsi perfettamente a una commedia. CONTABILE: Una commedia? BURBAGE: Una grande commedia! CONTABILE: Grande commedia? BURBAGE: Grandissima. CONTABILE: Grandissima? 149


BURBAGE: Immensa. CONTABILE: Mi interessa. Andate avanti. BURBAGE: Tebaldo è innamorato della bella Isolina, ma le loro famiglie sono divise da un odio antichissimo. CONTABILE: Mi pare di averla già sentita. Non è forse Romeo, il nome del giovane? BURBAGE: Lasciatemi continuare, Fitzmore! Il giovane Tebaldo, non Romeo, Tebaldo! È innamorato della bella Isolina, promette al fantasma del padre di vendicarne la morte uccidendo tutta la famiglia... CONTABILE: Ah, no! Niente morti. Niente morti! Commedia, deve essere una commedia! BURBAGE: Ma è una commedia, è una commedia! Farà piangere, certo, ma anche ridere, sganasciarsi dalle risate! Ve lo assicuro. Cinque sovrane. Datemi solo cinque sovrane. CONTABILE: E questa opera... Questa... BURBAGE: Tebaldo e Isolina. CONTABILE: Questa Tebaldo e Isolina è opera di William Shakespeare? BURBAGE: No, Fitzmore. È opera mia. Lo sapete che Mastro Shakespeare non scrive più. È opera completamente mia e ve la cedo per sole quattro sovrane. Suvvia, cosa sono quattro sovrane. CONTABILE: È proprio questo il problema. Che Mastro Shakespeare non scrive più... BURBAGE: Mastro Shakespeare, Mastro Shakespeare! Ma chi se ne frega di Mastro Shakespeare! Sono io! Burbage! Io che ho fatto vivere le sue opere! Non crederete che le persone venissero a teatro per sentire gli sproloqui di un negro geloso? Nooo! Sono io, IO, che ho dato a lui il volto, la voce, le emozioni, il dolore e la rabbia! Io, che ho fatto vivere, e morire, decine, centinaia di Desdemone, e Ofelie, e Giuliette e Cleopatre. Ogni sera, là, su quel palco. Su quel lurido, sudicio palco, ogni sera, per ogni maledettissima rappresentazione che mai è stata fatta, IO, Fitzmore! Non lui, IO! E tutti invece sempre Shakespeare, Shakespeare, Shakespeare, Shakespeare. Ma cos’è? Solo una manciata di parole gettate sulla carta. Poesia vuota, pentametri sciancati. Senza di me non sarebbero stati niente. Niente più che nuvole portate via dal vento. Io, e io solo le ho rese eterne. Io, che ho fatto ridere e piangere migliaia di persone. Io, Fitzmore, io! Le parole, da sole, ricordatevelo, non servono a nulla. Non ci si può neppure nettare le chiappe se son scritte su pergamena! Possiamo fare a meno di Mastro Shakespeare. Possiamo fare a meno di tutti gli Shakespeare del mondo. Tebaldo e Isolina sarà un grande successo. Io stesso interpreterò Tebaldo, e vedrete che quando 150


la notizia si diffonderà... quando si diffonderà... facciamo tre sovrane. Mi bastano tre sovrane. Suvvia, siate generoso, Fitzmore. Cosa sono tre sovrane? CONTABILE: Tre sovrane sono tre sovrane. E voi, Burbage, voi siete un asino! Credete che chiunque possa mettere insieme delle parole, delle frasi in fila e che questo basti per attirare la folla e riempire il teatro. Non vi siete reso conto della tragica verità con quell’altra vostra terribile opera, quell’Infausta Isolina... A proposito, non sarà mica la stessa Isolina? BURBAGE: No, Fitzmore, no! È una Isolina completamente diversa. Completamente! CONTABILE: Per fortuna. Era terribile. BURBAGE: Due sovrane. Datemene due. In ricordo dei bei vecchi tempi. Prestatemi due sovrane e farò per voi tutto quello che volete. CONTABILE: Tutto? BURBAGE: Tutto! CONTABILE: (Riflette. Poi slega il borsello) Ottimo. C’è da scaricare il carro del fieno... BURBAGE: Cosa? Io? Burbage! Mai e poi mai mi abbasserò a fare un lavoro da umile manovale! CONTABILE: (riponendo il borsellino) Come non detto. (resta meditabondo) BURBAGE: Una sovrana. Una soltanto. CONTABILE: Certo che, in effetti. Parlando di Mastro Shakespeare... BURBAGE: Una sovrana appena. Mezza. Datemene mezza! CONTABILE: Certo che potrebbe essere una soluzione. Anzi, a ben guardare... BURBAGE: Mezza sovrana! CONTABILE: Sì, a ben guardare direi che sia l’unica soluzione possibile... BURBAGE: Nove scellini. CONTABILE: L’unica soluzione è chiedere a Mastro Shakespeare. Non possiamo sperare di cavarcela altrimenti. BURBAGE: Otto... CONTABILE: Sarà dura, ma forse, piagnucolando, dimostrandosi teneri e arrendevoli... BUBAGE: Sette... CONTABILE: Sì. È deciso. Mi recherò da Mastro Shakespeare e gli chiederò una nuova opera per la compagnia del Ciambellano. BURBAGE: Sei. CONTABILE: Come? BRUBGAE: D’accordo. Facciamo cinque. CONTABILE: Ma cinque cosa, figlio mio? BURBAGE: Quattro, va bene. Quattro. Ma non meno. Datemi quattro scellini. 151


CONTABILE: Quattro scellini? BURBAGE: Tre! CONTABILE: Due! BURBAGE: D’accordo, due. CONTABILE: (frugandosi nel borsello e tirando fuori due monetine consumate) Ecco qua, Burbage. BURBAGE: Come sono piccole... CONTABILE: E poi non dite che non sono come un padre, per voi, eh! (si ferma) Ah! Mi raccomando! Niente vizi, eh. BURBAGE: Grazie Fitzmore. Grazie infinite. CONTABILE: Di niente, ragazzo mio. Di niente. E adesso vado a prepararmi. Il viaggio sarà lungo, ma tu tieniti pronto. Al mio ritorno ci sarà una nuova opera di William Shakespeare! Ti voglio in forma, ragazzo mio. In forma! SCENA PRIMA (Shakespeare, Morte) SHAKESPEARE: Anni fa una strana donna mi predisse che quando le stelle sarebbero state allineate nella stessa casa che aveva udito il mio primo vagito, allora, la mia vita avrebbe avuto termine. Quel giorno nefasto avvelenò per sempre la mia esistenza, poiché da allora, non passa anno che non interroghi il cielo chiedendogli se non sia forse giunta ormai la mia ora. Ogni anno scruto voi, potenze celesti, per sapere se vi sia ancora appeso il filo del mio destino. E oggi, oggi che di nuovo, per un’altra volta ancora vi allineerete, oggi ancora io torno a scrutarvi, stelle tremende che custodite silenziose i segreti delle nostre vite. Quale mano feroce ha dato a voi tanto potere sui nostri destini. Quale divinità capricciosa vi ha gettate a manciate nel cielo stabilendo per noi grandezza o sfortuna! Così l’estate della nostra gloria si muta nello scontento dell’inverno sotto questo sole di Stratford. Così, oggi che gli stendardi di vittoria giacciono arrotolati e appesantiti dalla polvere, oggi, oggi tutto mi appare più cupo, e solo, e solitario di quanto mai non sia stato. Perché, questa infausta predizione, perché farmi sapere il giorno in cui tutto questo dovrà finire! Non è forse migliore la vita di colui che non sa, che ignora quando la mano del fato calerà pesante e sicura su di lui? Vivere in questo modo è come contare i granelli che scivolano inesorabili nella clessidra. E mentre li si conta, pensar che si sottrae così tempo all’esistenza che s’assottiglia, eppur non riuscire a staccare gli occhi 152


da quello scorrere inarrestabile. Non c’è più gusto per nessun gusto, solo l’ansia di resistere, che separa il giorno dalla notte e la notte dal giorno, giorno dopo giorno, notte dopo notte, finché le stelle ancora, una volta ancora, si riallineeranno su quello stesso preciso disegno che m’ha dato il respiro. Son così stanchi i miei occhi, stanche le mie membra, stanche le mie mani, affranta e afflitta la mia anima esausta. Stanco! Di aspettare che l’arazzo della vita si laceri. Ha perduto i suoi colori brillanti eppure non vorrei separarmene. So che questa mia stanchezza nient’altro è che disperato furore di vivere, che sento scorrer via dalle mie vene come neve che sciolga al sole e scivoli in ruscello al mare. Ed io che con le mie dita non so trattenerla, di giorno in giorno sprofondo nella più tetra disperazione. Oh furia, oh, dei, perché regalarci la vita, illuderci con la giovinezza di una promessa d’eternità, per poi tradirla con la vecchiaia e affondarci, in maniera così vile e codarda, quando ormai non abbiam più forza per brandire una spada e difenderci! Guardate la mia mano ossuta, il mio flaccido braccio, la mia bocca rugosa! Che merito avete, oggi, ad abbattermi nella polvere! Sì... sì, sono lontani i giorni dei fasti, i sospiri delle donne ardenti e le risate degli amici fedeli. Sono lontani, il tintinnare dei boccali e i lazzi dei buffoni. Così una notte senza giorno, eterna e immensa, mi avvolge oggi senza requie, trascinandomi col suo manto nero di tristezza, come il vento trascina le nubi che arrendevoli lo seguono senza porre resistenza. Così sono io. Una nube che lentamente si sfilaccia lontana dalla furia del temporale. Così sono io, in questo involontario esilio, questa morte prima della morte, chiamata vecchiaia. Solo la più cupa malinconia accompagna oggi le giornate di Shakespeare; e solo gli astri del cielo lo spiano quando vagola, sospinto dal verso lugubre della civetta, tra le tombe dei cimiteri cercando un conforto che non riesce a trovare, in attesa che l’alba livida venga a scacciare i suoi fantasmi. Solo le stelle del cielo che ridono di te, piccolo uomo, piccolo Shakespeare che pensavi di essere tanto grande. Oggi che fra le tombe cerco consolazione in voi, che mi foste fratelli, voi che viveste, rideste, patiste, amaste, come io feci. Eppure, niente val più di niente! Nessuno ritorna, mai. Nasceranno milioni e miliardi di uomini, pressoché simili, con due occhi, un naso, una bocca, un cranio, delle idee in quel cranio, ma mai tornerai tu, che oggi giaci in questo freddo letto di pietra. Per alcuni anni hai vissuto, fratello mio, mangiato, riso, amato, sperato come ogni altro. Ed ora è finita, per te, finita per sempre. Una vita! Qualche giorno, e poi più nulla! Si nasce, si cresce, si è felici, si aspetta, poi si muore. Addio, uomo o donna, tu non tornerai più sulla terra! Eppure ciascuno di noi porta in sé una nostalgia febbrile e inattuabile di eternità, ciascun di noi è una specie di 153


universo nell’universo, e ciascun di noi si annienta ben presto e completamente in un immondezzaio di giorni nuovi. Le piante, gli animali, gli uomini, le stelle, i mondi, tutto si anima e poi muore per trasformarsi. E mai una sola cosa creata che torni, insetto, uomo o pianeta. (si sente bussare) SHAKESPEARE: Chi mai può essere a turbare l’intimità di questo povero vecchio? MORTE: Apritemi! SHAKESPEARE: Non voglio vedere nessuno! MORTE: Apritemi ho detto! SHAKESPEARE: Andatevene! MORTE: Apritemi (con un calcio si spalanca la porta: appare una figura enorme, mastodontica, con una circonferenza equatoriale, avvolta in un mantello, il volto adornato di una folta barba) Ho detto. SHAKESPEARE: Chi siete, con quale diritto osate... MORTE: Aaaah, ma stai un po’ zitto. (si slaccia il mantello e lo lascia cadere a terra) Così è qui che vivi. È qui che dimora Mastro Shakespeare. SHAKESPEARE: Io... voi... io... voi... MORTE: Blablablabla. Ti facevo un oratore migliore. SHAKESPEARE: Io... MORTE: Voi... io, io, voi. Ho capito il concetto. Spero perdonerai l’ora alla quale mi sono presentato, ma nel mio lavoro... non hai una sedia più comoda, accidenti! Ah, eccola lì. Scusa, ma come puoi vedere la mia mole m’impone di non affaticare troppo queste povere ossa. SHAKESPEARE: Cosa volete da me? MORTE: Dicevo, nel mio lavoro non si decide il quando. Al massimo il come. Sai, sono un grande ammiratore delle tue opere. Non me ne sono persa alcuna. Come ho amato quel Riccardo deforme. Ah! Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo! E l’ambizioso MacBeth! Siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni. Grandi parole, Billy, grandi parole! Ma devo dire la verità, che per me, sarò un sentimentale, non lo nego, ma per me la migliore rimane ancora la tragedia veronese. Quell’amore adolescenziale e poi tutti che muoiono. Bello, bravo. Bella carneficina. Ancorché bisogna dire che la precisione con cui, nell’Amleto, non ne sopravviva uno, è assolutamente rimarcabile. Mi sono sempre chiesto come facessi. Hai un segreto? No, non credo che ci sia. Il genio non ha segreti, il genio è segreto a sé stesso. Chiaramente. SHAKESPERARE: Non capisco, gentile signore, il senso della vostra intrusione e delle vostre lusinghe, potreste cercare di essere più chiaro? Mi sono ritirato dalla scena tempo fa e non amo che degli sconosciuti piombino in casa mia... MORTE: Be’, tu hai sempre saputo dosare e calibrare con estrema maestria, il pendolo del cuore. Sai che c’è un tempo per ogni cosa. 154


SHAKESPEARE: Insomma, ditemi cosa volete, santissimo Cristo! MORTE: Non hai mica qualcosa da mangiare, per caso? (solleva un tovagliolo da un piatto sulla tavola e compare un pollo arrosto) Ah, perfetto! Spero che non ti dispiaccia. (si infila il tovagliolo nel colletto e lentamente, come se non gli importasse null’altro, comincia a mangiare il pollo, staccandone brandelli con le mani e infilandoseli in bocca) Sono una persona dotata di un certo qual appetito. Niente riesce a saziarmi. SHAKESPEARE: Mi auguro che ci sia una spiegazione per tutto questo... MORTE: Oh, certo che c’è Billy. Certo che c’è. Ma come vedi, sono impegnato a mangiare. E se c’è una cosa... mhm... se c’è una cosa che mi innervosisce, è quando mi si disturba nel mangiare. SHAKESPEARE: Non vi siete ancora qualificato. Si può sapere chi diavolo siete? MORTE: Davvero non lo hai ancora capito, Billy? SHAKESPEARE: … MORTE: Eppure ci siamo incontrati parecchie volte. Spesso hai scritto di me. Su, dai, fai un piccolo sforzo che ci arrivi. SHAKESPEARE: Siete... È stato il Lord Ciambellano a mandarvi qua? O forse la Regina in persona? Ho già detto che non voglio riprendere a scrivere. MORTE: Acqua, acqua, Billy. Insomma, acqua, si fa per dire. Preferirei del vino, se non ti fosse di disturbo. SHAKESPEARE: Se non è stato il Lord Ciambellano, a mandarvi da me, vorreste spiegarmi chi è stato? MORTE: Oh, ma nessuno Billy. Nessuno mi ha mandato da te. Sono venuto da solo. Di mia iniziativa. O se preferisci, per il volere delle stelle. SHAKESPEARE: Delle stelle? MORTE: Stelle, fato, destino, chiamalo come vuoi. Le tre simpatiche vecchiette che filano, sai. SHAKESPEARE: Se è uno scherzo è davvero di pessimo gusto... MORTE: Insomma, si potrebbe avere un po’ di vino? che diamine! SHAKESPEARE: Non mi piace il tono con cui... MORTE: Il tono! Oh, il tono! Mastro Shakespeare è disturbato dal mio tono. Perdonatemi. Non avevo intenzione. (Alzandosi in piedi con voce di tuono. Una luce dabbasso proietta la sua ombra enorme, nera e spaventevole, dietro di lui. I lineamenti quasi cambiano) Forse preferisci vedermi così, Mastro Shakespeare? SHAKESPEARE: Sangue di Cristo, chi siete, voi? MORTE: Te l’ho detto, ma non vuoi ascoltare. Hai scritto tanto su di me, e non mi riconosci? Che vergogna. SHAKESPEARE: Davvero non capisco... MORTE: (risedendosi) Sei una grande delusione, Billy. Una grande delusione. Ti credevo un uomo più perspicace. Mettiamola così: se le tre care vecchiette 155


tessono, filano e tagliano, be’, alla fin fine sono io che vado a riscuotere. SHAKESPEARE: Voi volete dire che siete... MORTE: Ci sei arrivato, Billy. Ti ci è voluto un po’, ma alla fine ce l’hai fatta. SHAKESPEARE: Non ci credo. Non è vero! Vi state burlando di me, sangue di giuda! Voglio sapere chi siete! MORTE: Sì, Billy, sono la morte! Passi le giornate tra cimiteri e camposanti e poi la fai tanto lunga quando finalmente mi vedi. SHAKESPEARE: Questo scherzo è durato fin troppo. Uscite di qui. Subito, o dovrete vedervela con la mia spada. MORTE: Le stelle sono allineate, Billy. Perfettamente allineate nella casa che udì il tuo primo vagito. Per utilizzare un’espressione a te cara. SHAKESPEARE: Come potete sapere...? Non è vero! Non può esserlo. È un incubo, questo! MORTE: Ah, quanto ho gioito nella tomba dei Capuleti. Davvero. Un piccolo capolavoro. Coltello e veleno. Meraviglioso. E tra le dita fredde del geloso moro! Mi pareva di sentire la stretta! Billy, devo ammetterlo, nessuno come te mi ha mai dato tante soddisfazioni. Per questo sono venuto di persona. Non credere che sia un trattamento riservato a chiunque. È un privilegio! Ma per te, Billy, mi sono detto che per te potevo fare uno strappo alla regola. E ora, vuoi darmelo un goccio di vino, sì o no? SHAKESPEARE: Un goccio di vino?... MORTE: Giusto due dita. Non bevo mai mentre lavoro. SHAKESPEARE: Voi non potete essere veramente la morte! MORTE: In carne e ossa. SHAKESPEARE: Ma non siete una donna o uno... MORTE: Uno scheletro vuoi dire? Oh, no! Dio me ne scampi. Siete voi che volete rappresentarmi così! SHAKESPEARE: Cosa volete da me? MORTE: Suvvia Billy, non essere sciocco. Cosa credi che possa volere? SHAKESPEARE: Ma io non sono pronto! MORTE: Credevo stessi dicendo che lo fossi, eccome! SHAKESPEARE: No, no. Non avete capito, io... Non è così. Mi... mi lamentavo, è vero. Lamentavo la mia vecchiaia, la decadenza umana, ma non intendevo dire... MORTE: Non intendevo, non intendevo... piagnucoli come un bambino. Il grande William Shakespeare che ha fatto un’ecatombe dei suoi personaggi, ed ora si spaventa di morire. Squittisce come una donnicciola in preda a un cedimento di nervi! SHAKESPEARE: Sentite, non possiamo fare... non so... non possiamo fare un patto, trovare un accordo. Si dice che giochiate a scacchi. 156


MORTE: Balle! Li ho sempre odiati gli scacchi. Non si fanno patti con me. Vi potete solo mettere l’anima in pace, chiudere gli occhi, e tutto si compirà come si deve compiere. SHAKESPEARE: Così voi siete venuto per uccidermi? MORTE: Per portarti via, sì. SHAKESPEARE: Dunque è così. MORTE: Hai ancora bisogno di molte spiegazioni per deciderti? Dove diavolo è il pepe? Ah, eccolo qui. SHAKESPEARE: E se io mi rifiutassi di seguirvi, signore? MORTE: Sai, Billy, queste sono questioni sulle quali non hai un grande margine di manovra. SHAKESPEARE: Ah sì, ma io non mi lascerò prendere tanto facilmente! Non farò il tuo gioco. Tu, lurida carogna. Castigo divino, tu che sprofondi anche l’uomo più grande con tutti i suoi sogni e le sue ambizioni. Tu vorresti che gentilmente, cordialmente, io mi inchinassi a te, mi facessi docile e ti seguissi! MORTE: L’idea sarebbe questa. SHAKESPEARE: Oh, dovrai strapparmi con la violenza a questa vita. Non ho intenzione di abbandonarla senza essermi battuto come un leone, con tutte le mie forze. MORTE: Come un leone, Billy. Ti sei visto? SHAKESPEARE: Non giudicare dalle apparenze, il vecchio aspide, per quanto stanco, è più letale del giovane cervo. MORTE: Dunque. Tu ti opponi a me? SHAKESPEARE: Con tutto il cuore, con tutto il sangue, con tutta l’anima. MORTE: Capisco. Sei convinto che mia sia la colpa dei grandi mali dell’uomo. SHAKESPEARE: E di chi altri? MORTE: Tu credi, lo credi veramente, Billy, che la vita sarebbe migliore se io non esistessi? SHAKESPEARE: Lo credo. E su quel che ho di più caro qui lo giuro. MORTE: Ma cosa sareste senza di me. Dimmi Billy, ci hai mai riflettuto? Dove sarebbe allora il vostro coraggio? Cosa rischiereste nelle vostre imprese? Esse hanno valore solo perché la vostra stessa vita è in gioco. Altrimenti tutto sarebbe ammesso e concesso. E i dolori, Billy. Ci hai mai pensato? Anche i dolori non avrebbero fine. SHAKESPEARE: Ma pure le gioie sarebbero infinite! MORTE: Billy, Billy. Da te! Sei un fine conoscitore dell’animo umano. Ne sai abbastanza per sapere che le gioie sono tali proprio per via della loro natura instabile, peritura. Hai mai provato, Billy, una grande gioia, un amore, qualcosa che duri nel tempo? Hai mai notato cosa succede? Dopo un po’ è dato per scontato e viene a noia. Ad abitudine. È nella vostra natura umana, 157


l’inesauribile insoddisfazione. Illudersi che l’eternità potrebbe cambiare ciò, è ridicolo. Non attribuire a me colpe vostre. Via, un po’ di onestà intellettuale, Billy. Un po’ di onestà intellettuale! Vedi, le tue azioni hanno un senso compiuto perché finiranno, ma un’azione che non può finire che senso ha? L’immortalità è un gesto che si prolunga, ogni cosa, acquista un altro valore. E credimi, Billy, sono la vostra salvezza. Vi do un limite, un senso. Qualcosa che finisce è qualcosa che ha un senso. SHAKESPEARE: Un senso... Che senso può avere un’azione di cui non resterà traccia nei secoli. Tra cent’anni, dieci, due. MORTE: All’eternità ci si abitua. Ma per voi, per voi ogni cosa è nuova. Il vostro senso è nel presente. SHAKESPEARE: Se esso è nel presente, perché allora il nostro destino sta già scritto nelle stelle? MORTE: Perché, caro Mastro Shakespeare, esse regolano i flussi delle vostre azioni. Nessuno come te ha saputo raccogliere le disgrazie della sventura umana, le tragedie inscritte nelle costellazioni, e lasciarle colare lentamente dalla piuma affinché il fiato vivo degli attori le sussurrasse alle orecchie attente e ai cuori avvinti di chi le stava ad ascoltare. SHAKESPEARE: Tu dici, morte tremenda, tu dici che tutto è ormai segnato, scritto e previsto dalle stelle stesse? MORTE: Così è, e tu lo sai. SHAKESPEARE: Sì, ricordo quella donna che mi predisse la tua venuta. La vide nelle stelle. E ricordo come fu per il nobile Amleto, la candida Ofelia, il prode Mercuzio. Tutti videro il loro destino infiammarsi e poi morire negli astri luminosi del firmamento. Però allora non erano che parole. Ancorché essi alzassero la mano imperiosa contro il cielo e lo maledicessero invocandone una giustizia inesistente, quelle che scrissi, erano pur sempre e solo parole. Semplici sillabe. Oggi invece sono brandelli della mia anima e della mia carne che mi penzolano dalle ossa e non posso, non posso credere che tutto questo dipenda da quegli astri lontani! MORTE: Negare il destino è come negare Dio. Dio, destino, fato, forze celesti, andiamo Billy, chiamale come vuoi, resta sempre la stessa cosa. Allora tanto vale negare anche me. Eppure io ci sono, mi vedi. E ti assicuro, te ne accorgerai: non c’è niente di più reale di me. SHAKESPEARE: Oh stelle nefaste, è dunque per questo che vi divertite a giocare col destino degli uomini. Perché troppo duro deve essere il vostro brillare senza scopo! Voi che esistevate prima degli dei e che agli dei imponeste il vostro fato, voi che vergate, nelle vostre costellazioni, la vita di noi tutti, voi, fredde e lontane, voi inaccessibili e immutevoli, voi, milioni di solitari riflessi notturni, voi avete nutrito una gelosia senza limiti per questi inutili uomini che 158


si affaccendano e si dibattono sulla terra. Cosa ne sapete, voi che risplendete come minuscoli diamanti di luce, voi non comprenderete mai la grandezza di chi cade nella terra e, sporco, e impolverato, si rialza. Voi credete di intimorirci con un monito di eternità, credete di spaventarci, ma noi ridiamo della vostra forza, vi deridiamo, sputiamo nel cielo e vi malediciamo per aver tenuta tutta per voi la grandezza dell’infinito e averci condannato alla morte. Io scalerò la notte e vi strapperò, una per una, alla volta celeste e vi precipiterò nella polvere della terra. Non vi temo! MORTE: Hai finito? Io avrei una certa fretta. SHAKESPEARE: Tu, razza di diavolo, aborto degli dei, tu! Io ti strapperò il cuore e lo getterò ai cani! MORTE: Sei sempre stato melodrammatico. È la parte che più amo di te. Tutto quel sangue e quella passione esagerata! SCENA SECONDA (Shakespeare, la Morte, Contabile) Si sente bussare SHAKESPEARE: Oh me misero! E adesso chi è ancora che viene a molestare il mio tempio solitario? Chi è che osa disturbare la mia pena nel suo momento più desolante e cupo? Chi? CONTABILE: Sono io Mastro Shakespeare! SHAKESPEARE: Eh? CONTABILE: Sono il vostro fido Fitzmore. SHAKESPEARE: Fitzmore? Il Contabile della compagnia? CONTABILE: E chi altri, Mastro Shakespeare, il vostro umile e servile Fitzmore. SHAKESPEARE: Oh dei, ma questa è certamente la peggiore giornata di tutta la mia esistenza! Ma cosa ho fatto di male? Andate via, Fitzmore, via, andatevene! CONTABILE: Ma io devo vedervi, Mastro Shakespeare, ho bisogno di voi. Debbo parlarvi. SHAKESPEARE: Non ci sono! CONTABILE: Ma se mi state rispondendo! SHAKESPEARE: (spalanca la porta e pianta uno stiletto alla gola del contabile) Via, sangue di Giuda, via! È possibile che non riusciate a capire quando qualcuno vi dice di andarvene? CONTABILE: Ma io... Mastro Shakespeare... 159


SHAKESPEARE: Ascoltatemi, Fitzmore, ascoltatemi bene. Qui, oggi, stanno accadendo cose che nemmeno gli spiriti potrebbero spiegare. Oggi, qui, è una giornata maledetta. Andatevene, vi dico. Andatevene, e la vostra anima potrà ancora sperare di abitare un giorno il paradiso. Non restate, non dannatevi, Fitzmore. Non dannatevi. CONTABILE: Mastro Shakespeare?... mi state un po’ facendo paura. Vi dispiace.... (fa cenno di abbassare lo stiletto) Mi avevano detto che non stavate tanto bene ma immaginavo fosse una semplice forma di depressione non immaginavo... SHAKESPEARE: Andatevene, vi ho detto. Andatevene! Richiude la porta sbattendola. MORTE: Un tipo invadente. Desideri che te ne liberi, Billy? SHAKESPEARE: Un tipo invadente... buffo, visto da chi viene il commento. Non avete mai l’impressione di essere un poco invadente, voi? MORTE: Sa forse l’onda di essere bagnata? Conosce, il fuoco, la sua natura ardente? Billy. Noi siamo e basta. E questo è tutto. SHAKESPEARE: Non c’è altra risposta, non c’è altro? È tutto qui? Si è! MORTE: Sì, Billy. Sì. E poi a un certo punto non si è più. Non vedo cosa ci sia di tanto difficile da capire. O di tanto grave. Tu ragioni come se la coscienza ti dovesse sopravvivere e ti preoccupi per essa. Una volta che non sarai più, Billy. Anche lei non sarà. Non ci sono altri modi per spiegarlo. SHAKESPEARE: E questo dovrebbe rassicurarmi? MORTE: Non so. Stai chiedendo alla persona sbagliata, Billy. Domanderesti mai a un oste se il suo vino è buono? SHAKESPEARE: Mi attendevo da te un po’ più di onestà che da un oste. MORTE: Hai ragione, Billy. E forse te la devo. Come ti ho detto: sono un tuo grande ammiratore. Vedi la questione... Fitzmore ricompare CONTABILE: È permesso? Si può? Mastro Shakespeare... SHAKERSPEARE: Fitzmore! Che diavolo ci fate qui? Non vi avevo detto di andarvene? Da dove siete entrato? CONTABILE: Dalla finestra. Era aperta. SHAKESPEARE: Non era aperta. CONTABILE: Be’, diciamo allora che si prestava a essere aperta. MORTE: Decisamente un personaggio invadente. CONTABILE: Ascoltatemi, Mastro Shakespeare. Ho la massima urgenza e il massimo bisogno di voi. SHAKESPEARE: Ma cosa volete da me? Cosa? CONTABILE: Un’opera, Mastro Shakespeare. Un’opera. Da quando avete lasciato la compagnia le nostre casse sono dissanguate, non abbiamo più uno scellino, i debitori 160


ci stanno col fiato sul collo, le ultime rappresentazioni sono state un fiasco totale. SHAKESPEARE: Cosa avete fatto? CONTABILE: L’infausta Isolina. CONTABILE: Come voi dite, Mastro Shakespeare... SHAKESPEARE: È ancora dell’idea che chiunque possa scrivere, che pure il suo cavallo sarebbe in grado di dargli le battute che lo renderanno immortale, vero? CONTABILE: In un certo qual senso... SHAKESPEARE: Non capirà mai, Burbage. Non capirà mai che scrivere significa lacerarsi l’anima fino a farla sanguinare, e lì, nel sangue sparso, intingere la piuma come in un calamaio di dolore, e lasciare che le parole si fissino sulla carta. Non è facile, Fitzmore, non è facile. CONTABILE: Lo so, Mastro Shakespeare. Tutti lo sanno tranne quell’asino di Burbage. SHAKESPEARE: Già. Ma è un asino dannatamente bravo quando si tratta di recitare, maledizione. CONTABILE: Voi siete il solo che possa fare qualcosa. Il solo che possa, con la vostra arte, le vostre parole, la vostra poesia, ridare speranza e salvezza alla nostra compagnia. SHAKESPEARE: Se foste venuto ieri, Fitzmore, se foste venuto ieri vi avrei cacciato lasciando l’impronta del mio stivale sulle vostre natiche. Non vi avrei perdonato un’intrusione simile nella mia malinconia. Ma oggi, quello che mi dite, e ciò che mi domandate, suona talmente dolce alle mie orecchie, che vorrei poter scrivere per voi la migliore delle opere ancora mai scritta. Comporre qualcosa che possa durare per sempre. Oggi, per voi farei questo e altro. Un inno alla vita. Al bisogno e al desiderio di essere vivo. CONTABILE: Ottimo! Una bella commedia è proprio quel che ci vuole! Per il compenso pensavo a una percentuale a seguire sugli utili eventuali... SHAKESPEARE: Purtroppo però, per quanto la vostra proposta mi riempa il cuore di gioia, allo stesso tempo me lo fa sanguinare... CONTABILE: Ma come, io... SHAKESPEARE: Sì, Fitzmore, sì. La stessa ragione per la quale vorrei potervi dire di sì, è allo stesso tempo quella per la quale sono obbligato a dirvi di no. CONTABILE: Ma Mastro Shakespeare, non capisco... HAKESPEARE: Siete arrivato troppo tardi, Fitzmore... CONTABILE: Ma se mi avete appena detto che ieri mi avreste cacciato a pedate... SHAKESPEARE: Ieri sarebbe stato troppo presto, ed oggi è troppo tardi, mio caro amico. Questo è il destino di noi uomini: il momento giusto è un attimo inafferrabile. CONTABILE: Se è perché volete un anticipo ci possiamo accordare... SHAKESPEARE: Non capite, Fitzmore. Questo signore (indica MORTE) è arrivato prima di voi. 161


CONTABILE: (lo vede per la prima volta e si spaventa) Oh! Non vi avevo visto. Mi avete spaventato. MORTE: Capita. CONTABILE: Allora è per questo che mi rifiutate la vostra opera, Mastro Shakespeare? L’avete già promessa a lui? SHAKESPEARE: In un certo qual senso vi siete avvicinato alla natura della ragione. CONTABILE: Ma possiamo accordarci! (si siede al tavolo con MORTE). Tra uomini di spettacolo ci si intende facilmente! Ascoltate, sono pronto a rifondervi! Ditemi voi, sono sicuro che riusciremo a trovare un accordo conveniente per tutti quanti. MORTE: Ne dubito. Non sono abituato a fare accordi o ad aspettare. Quello che voglio lo ottengo. Subito e in via definitiva. CONTABILE: Oh, via, via, via, come siete burbero, ci sarà pure qualcosa che posso darvi per farvi cambiare idea! MORTE: La vostra vita? CONTABILE: Ah ah. D’accordo, d’accordo. Siete un osso duro. Uno che non demorde. Ma anche io, nel mio ambito, non sono da meno. Sapete come mi chiamano a Londra? mi chiamano Il Tenace. Fitzmore Il Tenace, mi chiamano! Avrete già sentito parlare di me! MORTE: Bravo, Il Tenace. Ora stai buono che noi abbiamo da fare. CONTABILE: D’accordo, d’accordo. Voglio rovinarmi. Vi offro gratuitamente i diritti di un’opera magnifica: “Tebaldo e Isolina”, che ne dite? MORTE: Billy?... CONTABILE: È una grande opera: fa piangere, ridere. Sganasciarsi dalle risate (confidenzialmente) È una commedia. SHAKESPEARE: Venite Fitzmore, venite. Lasciate stare il mio ospite. È una persona che non ama essere disturbata. CONTABILE: Ah, Mastro Shakespeare, smettetela di tirarmi per la giacchetta! Sto contrattando. Lasciatemi lavorare tranquillo! SHAKESPEARE: No, ma Fitzmore, è proprio questo il punto. È meglio che lasciate perdere! Non è auspicabile fare affari col signore. CONTABILE: Sia mai detto che Fitzmore Il Tenace abbia lasciato perdere un affare! Allora, signor mio. Sono sicuro che possiamo risolverla, questa faccenda. Voi volete Mastro Shakespeare, ma anche io lo voglio. Vi offro Tebaldo e Isolina e la partecipazione straordinaria del grande Burbage! A vostre spese, ovviamente, il suo ingaggio. Eh? Che ne dite? Un affare! Con quello che sono disposto a offrirvi – una commedia, per tutti i santi! – potrete ben farvene una ragione. Perché non c’è ragione di non farsene... una ragione. Ragione-ragione. Non so se avete notato... Eh, Mastro Shakespeare? Voi non avete certo nulla in contrario, vero? 162


MORTE: Che io sia dannato se questo non è il peggior chiacchierone che abbia mai incontrato! CONTABILE: Eh, la favella, mio buon uomo, la favella è l’anima del commercio. Ed io, modestamente, ne sono dotato. Voi, per contro, non mi parete molto ben lanciato su questa via. Se volete posso darvi qualche dritta, qualche consiglio. A volte un buon consiglio vale quanto un ottimo affare! Per altro, avete un viso che mi dice qualcosa. Non ci siamo già incontrati da qualche parte? MORTE: Ne dubito. Ve ne ricordereste. CONTABILE: Già, già. Io ho una memoria che non perde un colpo. Non sbaglio mai. Vedo una persona una volta, mi basta un attimo, e anche dopo dieci anni, tra una folla, tac, la rivedo e la riconosco subito. Però sono sicuro di avervi già visto da qualche parte. MORTE: (spazientito) Sangue di Giuda! CONTABILE: Forse avete lavorato con Kit Marlow? MORTE: Tra gli altri. CONTABILE: Ah, Kit! Che sagoma che era! Peccato, stroncato a soli trent’anni... MORTE: Ventinove. CONTABILE: Siete uno preciso, voi. MORTE: Il mio lavoro lo richiede. CONTABILE: Stroncato a soli 29 anni, dicevamo, nel fiore della sua giovinezza! Il suo Faust, il suo Edoardo, il suo Tamerlano! Di quale giovane genio, quella baldracca della morte ci ha privato! Da prenderla a calci nel suo vecchio culo rinsecchito, come si dice noi a Londra. SHAKESPEARE: Sentite, Fitzmore, state un po’ esagerando. Ora è il momento che ve ne andiate. MORTE: Sì, lo credo anch’io. CONTABILE: Insomma, allora, questo affare, lo vogliamo concludere? Me lo lasciate Mastro Shakespeare? MORTE: No. CONTABILE: Va bene, rilancio. Vi offro di partecipare a 50 e 50 nell’operazione. MORTE: Niente da fare. CONTABILE: Oh, al diavolo! Andiamo, su, Mastro Shakespeare. Lasciate perdere questo cialtrone. Venite con me. Non vi manca Londra? Sempre rinchiuso qui, tra queste quattro mura umide in campagna! Cosa ci restate a fare? Togliamoci la muffa di dosso! Andiamo a Londra! Un boccale di birra vi farà bene! Ho conosciuto una donna raffinatissima, Lilly la grassona, vi rimetterà in sesto come non siete mai stato. Dai, diamo una botta a questa vita! 163


Su. E poi mi scriverete una piccola commediola! Lo so che qua dentro c’è già qualche idea che frulla e spinge per uscire. Voi siete un fiore di poeta, mio caro Mastro Shakespeare. Qui appassite. Per forza vi vengono tetri e lugubri pensieri. Avete visto dove vivete? Potenze Celesti, che postaccio infame. Ma adesso voi verrete con me, e tutto tornerà a posto. In più, francamente, lasciatemelo dire con discrezione. In tutta franchezza: quel tipo con cui avete a che fare, non ha per niente l’aria di una persona per bene... SHAKESPEARE: Non insistete, per favore, Fitzmore. CONTABILE: Fa troppi misteri... Negli affari le cose devono essere chiare. E poi, non vi dà un brivido a guardarlo? SHAKESPEARE: Sì, Fitzmore. Un brivido me lo dà. CONTABILE: Appunto! Lasciatelo perdere! Io vi conosco, io so quel che fa per voi. Non andate altrove. Chi lascia la vecchia via per la nuova... SHAKESPEARE: Non ho scelta, mio buon Fitzmore. CONTABILE: Ossuvvia! Abbiamo sempre una scelta! SHAKESPEARE: Davvero. Vi prego di non insistere. Rendete tutto più penoso. CONTABILE: Guardatelo... guardatelo Mastro Shakespeare. Guardate come mangia quel pollo. Quello è tutta avidità. E alla morte e all’avidità non si scappa mica... SHAKESPEATE: Appunto. Non si scappa. CONTABILE: Diamine, Mastro Shakespeare, diamine! Voi volete veramente vedermi rovinato! Ve lo chiedo con tutto il cuore. Non è neppure più una richiesta: è una preghiera. Vi prego come pregherei la santa vergine in persona. Mi getto ai vostri ai piedi! Ho bisogno! Ho bisogno del vostro genio. Ve ne prego, ve ne supplico. Vi scongiuro. Mi basta una commediola, pure corta. Qualsiasi cosa che possa dire composta da voi. Scrivetemi anche un lazzo, un gioco, una bazzecola, una rimetta! SHAKESPEARE Non so più come dirvelo Fitzmore. È finita. Capite? Finita! CONTABILE: No, Mastro Shakespeare, no! Voi vi ingannate! Non è mai finita fino a quando non cala il sipario! E anche allora restiamo sempre in attesa di un nuovo, ultimo, colpo di scena! SHAKESPEARE: Anche volendo non saprei cosa scrivervi. Sono esaurito. Non ho più niente dentro. Un calamaio prosciugato. CONTABILE: Come? Come! Mastro Shakespeare! Ma proprio voi parlate? Voi! Il più grande, l’unico. Voi che avete saputo cavare dall’animo umano tutte le sue emozioni. Che ci avete insegnato a vivere, a gioire, a soffrire. Ma non vi ricordate, Mastro Shakespeare? Come vibravano le vostre rime? Essere o non essere, questo è il problema! Morire, dormire, poltrire, russare... Romeo, Romeo perché sei tu Romeo!? Rifiuta tuo padre, rinnega il tuo nome!... Ahimè, povero Yorick!... 164


Quest’uomo io l’ho conosciuto, Orazio! Mi portava a cavalcioni sulle sue ginocchia! Aaaah, Mastro Shakespeare, Aaaaah!. La vostra tavolozza ha saputo raccontare tutte le sfumature dell’uomo. Non una vi è sfuggita. Voi siete sempre riuscito, voi... le vostre parole rimarranno eterne per sempre. La gelosia, la rabbia, il sogno, il riso, la vendetta. Solo voi, Mastro Shakespeare, solo voi! SHAKESPEARE: Erano solo parole... CONTABILE: Ma le vostre, di parole, sono immense ed eterne. Le vostre parole, Mastro Shakespeare, vivranno dopo che voi avrete cessato di vivere. Sono il soffio dell’uomo che si innalza fino alla volta celeste e lì si pianteranno, ve lo giuro sui santi, per essere ammirate nei secoli dei secoli. S: Eppure oggi, caro Fitzmore, oggi le darei tutte: tutte le parole, tutte le opere che ho scritto, tutti gli sberleffi, le rime, i pentametri, tutto quanto, anche per un solo istante di più da vivere. CONTABILE: Ma cosa dite Mastro Shakespeare! Voi non vi rendete conto della fortuna che avete! Voi sopravviverete a voi stesso grazie alle vostre parole. S: Sangue di Cristo, Fitzmore! Cosa me ne faccio di parole eterne! Io voglio la vita. La vita, Fitzmore, la vita! Le ore, i giorni, i mesi, trascorsi chino su di un foglio. Quanto spreco! Quanti tramonti ho mancato, quante fresche albe? Il sole che sorgerà e non mi troverà più qui. Questo è ciò che mi angoscia! Cosa volete che mi importi di qualche applauso, qualche strofa, qualche sonetto. La mia fama sarà eterna, dite. E con questo? Non sarò lì per godermela. Cosa può importarmene? Oh, se solo avessi usato diversamente il mio tempo. Se solo avessi vissuto, al posto che raccontare ad altri la vita. Se solo avessi vissuto! E invece arriva il tempo in cui ci si rende conto che tutto è nulla. Tutto è silenzio. E che la polvere dei giorni ci si infila in gola e ci soffoca, ci ricopre, disperdendoci poi, come semi di un fiore soffiati dalla bocca capricciosa di un fanciullo. Ah, Fitzmore, Fitzmore! Quando feci dire al mio MacBeth “Cos’è la vita, una favola narrata da uno sciocco piena strepito e di furore che non significa nulla”, come mai avrei potuto immaginare che fosse così dannatamente vero! CONTABILE: Siete strano, Mastro Shakespeare. Vi sentite bene? Volete una tisana? SHAKESPEARE: Lo so. Mio buon Fitzmore, lo so. Vieni qui, ora, e ascoltami. CONTABILE: Ma... Mastro Shakespeare, voi mi date del tu! SHAKESPEARS: Perché così si fa tra fratelli. CONTABILE: Fratelli? SHAKESPEARE: Da quanti anni ci conosciamo? CONTABILE: Eeeeeh. SHAKESPEARE: Ti ho mai ringraziato per il lavoro che hai fatto per me e per la compagnia? 165


CONTABILE: In effetti non mi avete mai dato impressione di farlo, anzi, mi trattavate anche abbastanza male... ma io non me ne lamentavo, ben s’intende, voi avete un temperamento da artista e io sono solo un povero contabile... SHAKESPEARE: Sei stato un buon amico, Fitzmore. Il migliore contabile che si sarebbe mai potuto desiderare. CONTABILE: Dite... dite sul serio, Mastro Shakespeare? Voi davvero lo pensate? SHAKESPEARE: Lo penso e mi vergogno, ora, di non avertelo mai detto quando avrei dovuto. Ogni tanto – mi rendo conto – dev’essere stato ben difficile lavorare con me. CONTABILE: In effetti, Mastro Shakespeare, proprio facile non era. Il vostro carattere, i vostri ritardi nella consegna dei testi, sempre all’ultimo minuto, i vostri gozzovigliamenti, i duelli, le meretrici... SHAKESPEARE: Ma io lo so, lo so, di essere un po’ difficile. E tu, Fitzmore, sei stato davvero un valido compagno. Il più valido al quale il cielo avrebbe mai potuto affidarmi. Senza di te avrei dissipato il mio denaro e il mio genio. Però ora devo domandarti di dimenticarti di me. Scorda il buon William, dimentica i miei lavori e le mie parole, e lascia che la polvere del tempo si adagi sul mio nome. Troverai qualcuno che scriverà per te quel che necessiti. E sarà un buon lavoro e un grande successo. Ma oggi Shakespeare non è più Shakespeare. Vedi, mio buon amico, quella persona che sta qui seduta, e che con la sua presenza sprofonda questa stanza nell’inquietudine più amara, essa non è un impresario come avesti avuto modo di pensare. È qualcuno di assai meno gradevole. CONTABILE: Meno gradevole di un impresario teatrale? SHAKESPEARE: E assai più temibile, caro Fitzmore. Qualcuno, il cui solo nome potrebbe farti tremare i polsi. CONTABILE: Non vorrete mica dire... SHAKESPEARE: Sì, Fitzmore, sì. CONTABILE: Ah, non avevo capito... SHAKESPEATRE: È un bel triste giorno, questo in cui il destino ci ha dato di rincontrarci. Le stelle si divertono a beffarci! Ma come ti ho detto, ti porterò sempre nel cuore, e tu fa lo stesso con me, mio buon amico. CONTABILE: Un controllore delle imposte, qui da voi! SHAKESPEARE: Come? CONTABILE: Ah, Mastro Shakespeare! Non c’è più decenza se non si rispetta neppure una persona del vostro rango! Che immensa sciagura! Non sapevo, non avevo capito. Perdonatemi. E voi che avete anche cercato di mettermi in guardia! Che sciocco che sono! Allora è per questo che eravate così strano, così distante. SHAKESPEARE: Ah. Eh, sì, mio caro Fitzmore. Io provavo a dirtelo... 166


CONTABILE: Sentite Mastro Shakespeare... io... voi sapete l’affetto che mi lega a voi, ma, vedete, avrei ancora dei piccoli... fastidi... maldicenze, si intende... un errore... ma tant’è, che mi rende inviso alle casse del regno. Ora, sono sicuro che voi possiate comprendere che in questa circostanza la mia presenza... SHAKESPEARE: Capisco, Fitzmore, capisco. CONTABILE: Non vorrei apparirvi insensibile, ma sapete... in questi casi, come si dice, ognun per sé... SHAKESPEARE: Tutt’altro, caro amico. Vi comprendo e vi saluto con l’affetto più caro. Andate pure. CONTABILE: Grazie, Mastro Shakespeare. Sappiate che quando vorrete... sempre a vostra disposizione, ovviamente... (sottovoce) noi non ci conosciamo, eh. Poi per l’opera eventualmente ci risentiamo in un altro momento... SHAKESPEARE: Andate, andate. CONTABILE: Quando volete. (a MORTE) Tante buone cose anche a lei, eh. Arrivederci. Io... arrivederci... E mi scusi, eh. L’avevo scambiata per un altro. Scusi ancora... Anche lei, Mastro Shakespeare, avevo scambiato anche voi per un altro. Arrivedervi... (esce di scena) MORTE: Finalmente si è levato dai piedi. SHAKESPEARE: Pensavo che col vostro mestiere foste dotato di maggiore pazienza. MORTE: Vuoi scherzare, Billy? Pazienza, io? Ti sembra che possa essere qualcuno dotato di pazienza; ti pare che io possa aspettare? Sono gli altri, Billy caro, sono gli altri che aspettano me. Mi aspettano per tutta la vita. E quando arrivo, per quanto abbiano aspettato, non sono mai abbastanza preparati. SHAKESPEARE: Me ne sono accorto. MORTE: Eppure ti dirò che quell’uomo ha qualcosa di, sì, mi rincresce dirlo, ma qualcosa di simpatico. Peccato non ci sia anche un pezzo di formaggio. Un pezzo di formaggio a fine pasto ci sta sempre bene. Ha qualcosa di simpatico. Canagliesco, direi. Oh, in fondo ho sempre avuto un debole per le canaglie. SHAKESPEARE: Che tu ci creda o no, Fitzmore è un buon impresario di compagnia. MORTE: Oh, non stento a crederlo. Se sei riuscito a fare tutte quelle opere non sarà mica solo merito tuo. SHAKESPEARE: Già. MORTE: Sei sicuro di non avere un pezzo di formaggio? SHAKESPEARE: Come? MORTE: Formaggio, capra, vacca, qualsiasi cosa. Non hai niente? SHAKESPEARE: Ah. Sì, lì nel cassetto. MORTE: Ah, benone. Solo una fettina, sottile sottile. Più per l’apparenza che per la sostanza. Allora, tu sei pronto? 167


SHAKESPEARE Di già? MORTE: Billy, mica crederai d’essere il solo a dover morire? Non è mica una cosa straordinaria, sai? Ma sai quante persone sono morte, quante moriranno, quante, in questo preciso istante, stanno lasciando il loro ultimo flebile respiro appeso a un rimpianto o una speranza? Buono, il formaggio. SHAKESPEARE: Ma è che... ho come l’impressione di avere ancora tante cose da fare. Situazioni da chiudere. MORTE: È sempre così, Billy. Sempre così per tutti. Non si chiude mai un bel niente. E tutto sommato non si chiude niente perché non c’è mai niente da chiudere. La vita, l’esistenza intera, è un cerchio che rimane aperto. SHAKESPEARE: Lo so, è solo... è solo che noi artisti siamo così miserabili! Arriviamo con la borsa per la notte e ce ne andiamo a mani vuote. La mia memoria resterà ancora qui, per qualche tempo, come una specie di monumento, ma arriverà l’istante in cui scomparirò del tutto. MORTE: Senti Billy, direi delle stronzate se ti dicessi che so come ti senti. Non lo so. Non lo posso sapere. Ma posso dirti che ne ho visti tanti, ma tanti davvero, tanti che la tua mente umana non potrebbe neppure riuscire ad immaginarne il numero. Ho visto loro. Ognuno con un volto diverso, un’espressione differente, stupita o rassegnata o che altro. Chissenefrega! Non c’è regola, Billy. Non c’è il modo giusto di farlo. Si fa e basta. SHAKESPEARE: E dopo? MORTE: È inutile, non capiresti. HAKESPEARE: Posso provarci. Cosa c’è dopo? MORTE: Vedi Billy. C’è la morte. E con la morte non ci sei più tu, però ci sei. Non so se riesci a capire. SHAKESPEARE: Cosa vuoi dire, per tutti gli angeli, spiegati! Sarò relegato a un’ombra, un fantasma? MORTE: Non ci sono più confini. Tutto è libero. Non è morte, è ritorno alla Madre. Un tempo tu non eri. Eppure sei stato. E quei sogni, quella forza del sangue nelle vene, quelle visioni magnifiche di parole che hai saputo afferrare, da dove credi che arrivassero? Non siamo noi che abbiamo fatto il nostro sangue. Ogni morte biologica è solo cambiamento di materia. SHAKESPEARE: Tornerò? MORTE: Non così come sei, se è questo che vuoi dire. Girerai, viaggerai e tornerai. Ma, no. Mai tornerai quello che sei. SHAKESPEARE: Allora è così che tutto finisce? MORTE: Che tutto continua, Billy. SHAKESPEARE: Ma non per me. MORTE: Non per quello che sei adesso. No. SHAKESPEARE: E non c’è soluzione? 168


MORTE: Non c’è e mai ci sarà. SHAKESPEARE: Capisco, così tutto quanto finirà... E dimmi, Fitzmore, il buon vecchio Fitzmore, lo sai quando morirà? MORTE: Certo. SHAKESPEARE: E quando? MORTE: Domani. Sulla via del ritorno. SHAKESPEARE: Domani? Stai scherzando? Domani morirà?! Tu lo sapevi e non mi hai detto niente? Hai permesso che lo lasciassi andare via così? MORTE: Cosa avresti fatto di diverso? SHAKESPEARE: Non lo so: ma qualcosa l’avrei fatto di sicuro, sangue di giuda!!! Qualcosa avrei fatto, Cristo misericordioso! Vuoi dire che se non fosse venuto a chiedermi quell’opera non sarebbe morto? MORTE: Una cosa non può essere disgiunta dall’altra. SHAKESPEARE: E io che gliel’ho rifiutata... MORTE: Era nel suo destino di venire a chiederti l’opera e non sarebbe potuto essere altrimenti. E poi, anche se gliel’avessi data, tanto sarebbe morto domani, che se ne sarebbe fatto? SHAKESPEARE: Bel modo di ragionare. Allora non facciamo più niente. Non muoviamoci più. Sediamoci in poltrona e aspettiamo che arrivi la nostra ora. Tanto niente serve, in questa vita. MORTE: Be’, più o meno è quello che fate già. E di uno come quello, nessuno ne sentirà la mancanza. Shakespeare tira uno schiaffo alla morte. EPILOGO (Shakespeare) MORTE: Vedo. Direi che è venuto il momento di andare. Non ho avuto occasione di ringraziarti per la cena. È stato molto gentile da parte tua. (rimettendosi il mantello) Spero che tu sia pronto. SHAKESPEARE: Non ti preoccupare per me. Lo sono molto più di quanto tu possa immaginare. MORTE: Benissimo. Con voi umani va sempre a terminare in questo modo. Permalosi, arroganti. E finite per detestare tutto quello che non potete avere. SHAKESPEARE: Oh, no. Questa volta ti sbagli completamente. Quello che non possiamo avere lo amiamo mille volte di più. 169


MORTE: Come vuoi. Non ho intenzione di discutere oltre. Andiamo. SHAKESPEARE: Arrivo. Lasciami da solo un momento. MORTE: Oramai, più solo di così... La morte esce e chiude la porta. Shakespeare viene avanti. Le luci si spengono. Progressivamente compariranno le stelle. Addio. Addio ai prati, ai fiori, alle regole infrante, alle notti di primavera, alle donne mancate, ai cani in calore, alle pozzanghere sfinite, al passo stanco, alla parola dimenticata, all’occhio verde, alla pioggia sulla strada Comincia un viaggio nelle stelle che va progressivamente accelerando. allo zoccolo del cavallo, alla sua orma, all’acqua che vi ristagna, alla foglia che vi atterra, al vento che l’afferra, al fiume che l’accoglie, all’onda che la porta, al mare che l’accetta, al cielo che la osserva, all’astro che l’accende, all’occhio che si infiamma e a tutto, tutto, tutto, all’universo tutto e oltre. Il viaggio continua ancora accelerando e diventando sempre più incredibile. Stelle, pianeti, galassie, sfrecciano, colori meravigliosi e inimmaginabili. Al suo climax: salto nel vuoto. Buio. Silenzio. Come se si stesse nuotando nello spazio. Il contabile nella sala, come un’apparizione. CONTABILE: Perché è così che tutto finisce e tutto riprende, senza apparente ragione, eternamente, eternamente, eternamente. Il buio diventa progressivamente più totale, privo di riverberi anche lontani. Non è più l'universo: è uno spazio chiuso. Cresce un rumore attutito di acqua, cresce ancora. Battito cardiaco. FINE

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ESTO A FRONTE

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GËZIM HAJDARI è nato in Albania e vive esule politico in Italia, vicino a Roma dal 1992. Ha studiato all’Università di Elbasan e alla Sapienza di Roma. Nel 1991, è stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, e del settimanale di opposizione Ora e Fjalës. Nelle elezioni politiche del 1992, si è presentato come candidato al parlamento nelle liste del PRA. Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista, ha denunciato i crimini dell’ex-regime di Enver Hoxha e la corruzione dei regimi post-comunisti. È stato invitato a presentare la sua opera in vari Paesi ma non in Albania, dove viene ignorato. È scrittore e traduttore bilingue, autore anche di libri di viaggio e saggi. È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale.

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GËZIM HAJDARI UN INEDITO

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GOZHDËT E EZILIT Fisi im vdes të premteve. Të premteve, romakët e lashtë ekzekutonin të dënuarit me vdekje. Të premten vdiq edhe Jesu Krishti. Im at Riza, një mëngjes të premteje i tha time mëje: “Sot do të vdes! Thirre Agimin, dua t’i lë amanetin!” Agimi është vëllai im më i madh. Në çastin e vdekjes i tha: “Unë po vdes, amaneti nënën tuaj Nur, është pa pension dhe e sëmurë; shtëpia është me lagështi dhe kur bie shi, rrjedh nga çatia; amanet edhe Gëzimin në ezil, është vetëm dhe larg, përtej detit të zi”. Pastaj, duke parë nga dritarja e hapur, shtoi: “Ma lani trupin me ujin e freskët të pusit në hije të manit të kuq, e me varrosni në varrin e time mëje, vdiq duke më lënë jetim gjashtë muaj. Po lë këtë penë prej shtogu si kujtim për vëllain tuaj poet!” I kërkoi Agimit besënii për shlyerjen e borxheve, dhe u shua. Ishte pena me të cilën ai shkroi ditarin e jetës së tij gjatë viteve të terrorit, kur kthehej nga puna si barì i qeve të kooperativës, grisur nga ime më nga frika e sekuestrimit nga Sigurimiiii. Me fletët e atij ditari nëna ndizte zjarrin për t’na ngrohur ne fëmijët netëve të ftohta dimërore rreth oxhakut, në shtëpine e gurtë, majë kodrës së errët, në Darsìiv.

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I CHIODI DELL’ESILIO La mia stirpe muore di venerdì. Venerdì, gli antichi romani usavano eseguire le condanne a morte. Di venerdì è morto anche Gesù. Mio padre Rizà, una mattina di venerdì chiamò mia madre e le disse: “Oggi morirò! Chiama Agìm, lo voglio salutare!”. Agìm è il mio fratello più grande. In punto di morte gli disse: “Io sto per morire, amanèti vostra madre Nur, è senza pensione e malata; la casetta è umida e l’acqua piovana gocciola dal tetto; amanèt anche Gëzim in esilio, è solo e lontano, oltre il mare negro!” Poi, guardando dalla finestra spalancata, aggiunse: “Lavatemi il corpo con l’acqua fresca del pozzo all’ombra del gelso rosso, e fatemi seppellire nella tomba di mia madre, che morì lasciandomi orfano a sei mesi. Lascio questa penna di sambuco come ricordo per il vostro fratello poeta!” Chiese la besa ii, che Agim avrebbe pagato i debiti, e se ne andò. Era la penna con la quale scrisse il diario della sua vita durante gli anni di terrore, quando tornava dalla campagna come pastore dei buoi, strappato da mia madre per paura di essere sequestrato dal Sigurimi iii. Con i fogli del suo diario lei accendeva il fuoco per riscaldare noi bambini nelle notti fredde d’inverno intorno al focolare, nella casetta petrosa, in cima alla collina buia, in Darsìaiv.

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Rizai ishte shkruesi i fshatit, te dielave shkruante letrat që fshatarët u dërgonin djemëve ushtarë. Qëkur na rrëmbyen pasurinë tonë familjare gjatë komunizmit, ne u lindëm e u rritëm në shtëpi të lagështa e të ftohta; varfëria s’na u nda kurrë nga shpina. Të premten vdiq gjyshi im Veli, shërues i kafshimëve të gjarpërinjve helmues Të parët e tij vinin nga Bjeshkët të Nëmunav shpërngulur në Darsì për shkaqe hakmarrjeje parashikuar në Kanunivi e Maleve. Veli u martua për të dytën herë me Zyranë, ishte shumë më e re se ai. Ajo e thërriste burrin e saj: “Im zot”, edhe Zyra vdiq të premten, në një ditë me rrufe dhe shi. Të premten vdiq Zyberi, kushëri i Veliut, e zuri trungu poshtë trungu i shelgut në përroin e Çapokut. E vuajta me sytë e mi atë skenë të tmerrshme, isha gjashtë vjeç, qava i dëshpëruar duke u kërkuar ndihmë kalimtarëve në rrugë. Të premten vdiq gruaja e Zyberit, Mynever, ishte vegjente. Kishte sy në formën e bajames, dinte të lexonte mendimet e fshatarëve në fshat. Të premten vdiq Osamni, vëllai i Zyberit, e vrau hasmivii gjatë natës së dasmës, në stratin martesor: hyri në dhomën e të sapomartuarve nga çatia e shtëpisë. Atë natë familjarët nuk i rrëfyen gjamën mysafirëve që festonin, pinin dhe vallëzonin. Të nesërmen babai i Osmanit u drejtua miqëve: 176


Rizà era lo scrivano del villaggio, durante le domeniche, scriveva le lettere che i contadini spedivano ai loro figli che facevano il militare. Da quando confiscarono i nostri beni di famiglia durante il comunismo, noi siamo nati e cresciuti nelle casette umide e fredde, la povertà non ci si è mai tolta di dosso. Di venerdì è morto mio nonno paterno Velì, guaritore di morsi di serpenti velenosi, I suoi avi provenivano dalle Bjeshkët e Nëmunav, trasferitosi in Darsìa per motivi di vendetta previsto dal Kanunvi delle Montagne. Velì aveva sposato in seconde nozze Zyrà, era molto più giovane di lui. Lei chiamava il suo marito: “Mio signore”, anche Zyra morì di venerdì in una giornata di fulmini e pioggia. Di venerdì è morto Zybèr, cugino di Velì, fu investito da un tronco di salice alla riva del torrente di Capok. Ho visto con i miei occhi questa scena terribile, avevo sei anni, piangevo disperato chiedendo aiuto ai passanti per strada. Di venerdì è morta sua moglie Mynevèr, era veggente. Aveva occhi a mandorla, sapeva leggere il pensiero dei contadini del villaggio. Di venerdì è morto Osman, il fratello di Zyber, è stato ucciso dal hasmivii durante la notte delle nozze sul letto matrimoniale: hasmi entrò nella sua stanza matrimoniale dal tetto della casa. Quella notte i familiari non fecero sapere nulla dell’accaduto agli ospiti che festeggiavano, bevevano e ballavano. L’indomani il padre di Osman si rivolse agli ospiti: 177


“Të nderuar mysafir, dje festuam martesën e tim biri, sot duhet të qajmë varrimin e tij!” Të premten vdiq Nejme, motra e madhe e Veliut, Zgjohej natën, vishej me të bardha, dhe shkonte tek perroi i fshatit për të folur me nuset e natës. Të premten vdiq Lidia, motra tjetër e Veliut, martuar larg, përtej shtatë malesh e shtatë kodrash. Midis gjyshit tim dhe asaj nuk rridhte gjak i mirë. Të premten vdiq Sabriu, në qytetin e Lushnjes, vëllai i madh i tim eti, dënuar me njëqind e një vite nga regjimi i Enver Hoxhës sepse kishte luftuar në radhët e “Partisë së Ballit Kombëtar”, pastaj u fal. Para se të ikte nga kjo botë, kërkoi ta çonin në fshatin e lindjes për të parë për të fundit herë ullinjtë e të puthte tokën ku ishte lindur. Kur pa leprin e egër tek vraponte nëpër kodër dhe zogjtë e zin mbi degët e kërrusura të ullinjve, qau me dënesë si fëmijë. Të premten vdiq Mustafai, vëllai prej babe i tim eti, Riza, i dehur, duke rrahur gruan e tij në oborr të shtëpisë, sepse nuk i kishte lindur një djalë pas shtatë vajzave. Të premten vdiq Hyseni, vëllai i vogël prej babe i tim eti, atë ditë u grind me nënën time për hiçgjë. E shtypi maqina në sheshin e qytetit.

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“Amici cari, ieri abbiamo festeggiato il matrimonio di mio figlio, oggi dobbiamo celebrare il suo funerale!” Di venerdì è morta Meje, sorella più grande di Velì, si svegliava di notte, si vestiva di bianco, e andava al fiume del villaggio a parlare con le spose notturne. Di venerdì è morta Lidia, l’altra sorella di Velì, sposata lontana, oltre sette monti e sette colline. Tra mio nonno e lei non scorreva buon sangue. Di venerdì è morto Sabrì, nella città di Lushnje, fratello maggior di mio padre, condannato a centouno anni dal regime di Enver Hoxha per aver combattuto durante la guerra nelle file del partito il “Fronte Nazionale Albanese”, poi assolto. Prima di andarsene chiese di essere portato nel villaggio natale per vedere per l’ultima volta gli ulivi e baciare la terra dove era nato. Quando vide la lepre selvatica correre sulla collina e gli uccelli neri sui riami incurvati degli ulivi, pianse a nenia come un bambino. Di venerdì è morto Mustafà, il fratellastro di mio padre, Riza, ubriaco, menando sua moglie Hurmà nel cortile di casa perché non gli aveva donato un figlio maschio dopo aver partorito sette femmine. Di venerdì è morto Hysein, il secondo fratellastro di mio padre, quel giorno aveva litigato con mia madre per futili motivi, fu travolto da una macchina nella piazza centrale della città.

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Edhe Hakiu, vëllai i vogël prej babe i Rizait, vdiq të premten, duke pirë raki e folur për të “Drejtën Romake”, shpresonte se Shteti poskomunist do t’i kishte kthyer pasurinë e vjedhur nga Partia e proletariatit familjes tonë. Të premten vdiq edhe Fatimè, motra e vetme e tim eti, e çmendur. Një të premte do të vdes edhe unë, kryqëzuar këmbë e duar me gozhdët e ezilit kuke mbartur mbi shpatulla peshën e të gjitha të premteve të fisit tim!

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Anche Hakì, il fratellastro minore è morto di venerdì, bevendo rakì e parlando del “Diritto Romano”, sperava che lo Stato postcomunista avrebbe restituito i beni rubati dal Partito del Proletariato alla nostra famiglia. Di venerdì è morto anche Fatimè, l’unica sorellastra di mio padre, impazzita. Di venerdì morirò anch’io, crocifisso mani e piedi con i chiodi dell’esilio portando sulle spalle il peso di tutti i venerdì della mia stirpe! Traduzione bilingue dell’Autore

i Amanèt: mi raccomando.

ii Besa: la parola data per gli albanesi. iii Sigurimi: polizia politica segreta del regime di Enver Hoxha. iv Darsìa: la provincia della città di Lushnje, Albania, dove è nato il poeta,

Bjeshkëve të Nëmuna: Le Montagne Maledette dove ha regnato per cinquecento anni il Kanùn, (Codice Giuridico Orale albanese) e la besa (la parola data, la promessa per gli albanesi). vi Kanun: il Codice d’Onore Albanese, nato tra 1300-1400; è il complesso del diritto consuetudine formato nel corso di 500 anni e tramandato oralmente di generazione in generazione, uno dei pochi diritti consuetudinari conservatisi in Europa. vii Hasmi: la persona in vendetta di sangue a causa di un omicidio. v

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HANS RAIMUND, austriaco, nato nel 1945, ha studiato all’Università di Vienna, dove ha poi insegnato lingua e letteratura inglese e tedesca dal 1972 al 1984. Si è poi trasferito a Duino, vicino a Trieste, come docente di musica e tedesco all’United World College of the Adriatic. Dal 1997 è ritornato in Austria. Ha pubblicato quattro libri in prosa e dodici raccolte di poesie. È stato tradotto in sloveno, bulgaro, albanese, inglese, francese, italiano, spagnolo, cinese. Ha tradotto diversi autori dall’inglese, dal francese, dall’italiano (G. Bufalino, S. Solmi, L. Piccolo, V. Giotti etc.). Fra i molti premi ha avuto il premio W.H. Auden (1992), il premio Georg Trakl (1994), il premio Anton Wildgans (2004). È membro della European Academy of Sciences and Arts.

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HANS RAIMUND da TRAUER TRÄUMEN1 (SOGNARE IL LUTTO)

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(Streckhof) Das ist ein Ort der Kulte – Schlafen Schauen Kochen Essen Trinken Trauern Träumen... – In sechs durch offene Türen Zu einem Raum gestreckten Räumen Voll Schellenklang und Uhrenschlag... Und Nässe Die aus den Mauern schwitzt als matter Glanz Auf Bodenkacheln liegt der Hunde Hitzen Kühlt der Menschen bloße Füße die Behutsam aufgesetzt um ja nicht Fliege Spinne oder Assel zu zertreten Oder unversehens auszugleiten Den einen Raum von vorn nach hinten Und von hint nach vorn durchschreiten

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(Streckhof) Questo è un luogo di culto – dormire guardare cucinare mangiare bere piangere sognare… in sei stanze che attraverso porte aperte diventano un unico spazio pieno di scampanellii e di rintocchi… e di umidità che dai muri trasuda come bagliore opaco posa sulle piastrelle del pavimento dei cani la vampa rinfresca degli uomini i piedi nudi che cautamente appoggiati per mosche ragni od onischi non calpestare o per non inavvertitamente scivolare l’unico spazio da cima a fondo e da fondo a cima percorrono

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(operas-minutes) 1 Ein Schatten Über mir Ein Flügelschlag Im Laub Ein Rascheln Ein Vogelschrei Als pralle Holz auf Glas 2 Entlaubt und aufrecht Das Fragment des Nußbaums – Die Borke bleich Die Wipfel abgesplittert Das Dach der Scheune überragend – Ein erhobener ZeigeFinger 3 Der Birken Äste Pinseln Schatten Auf die Dächer 4 Sprachgerinnsel Die im Nu zerrinnen Klangaufnahmen Vom Billard Mit WörterKugeln 6 Seit Tagen schon: Der Stamm der Birke Blutet aus dem Stumpf Des in den Weg gestandenen zur Unzeit abgeschnitten Asts

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(operas-minutes) 1 Un’ombra su di me un frullo d’ali nel fogliame un fruscío Un grido d’uccello quasi battesse legno su vetro 2 Senza foglie e ritto il frammento del noce – la corteccia pallida le punte scheggiate sovrastante il tetto del fienile un indice alzato 3 I rami delle betulle dipingono ombre sui tetti 4 Grumi di lingua che all’istante si sciolgono registrazioni di suoni dal bigliardo con palle-parole 6 Da giorni ormai: il tronco della betulla sanguina dal moncone del ramo sporgendo sulla via tagliato al momento sbagliato

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7 1 ockergelber Fuchs von hinten Der Lunte Spitze blitzend 1 Kröte Mitten auf der Straße Totgestellt noch vor dem Tod Durch Überfahren Wildschweinschemen Immer wieder Vogelschreie ...... 8 Festhalten Was ich wahr nehme Wahr zu nehmen glaube – Eigensinnig festhalten Mit den Wörtern –: Sonnenaufgänge Himbeerrote über Köszeg Sonnenuntergänge Pfingstigflammend über Kirchschlag Elfennebel über dem Geschriebenstein ... Hochfliegende Störche ... Erste Schwalben ...

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7 1 volpe da dietro giallo ocra la punta della coda che brilla 1 rospo in mezzo alla strada finto morto ancor prima di morire investito Schemi di cinghiali Sempre ancora gridi di uccelli 8 Tenere fermo quello che percepisco credo di percepire – caparbiamente tenere fermo con le parole –: aurore rosso lampone sopra Köszeg tramonti fiammeggianti su Kirchschlag nebbia da elfi sul Geschriebenstein Altovolanti cicogne… Le prime rondini…

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(Altern) für L.H. 1 Foppt mich Labt mich Mit dem faden Fleisch der Feigen Aus dem Karst Laßt mich sitzen Auf der Altenbank Den Fuß fest auf dem Wühlmausloch und Mir entgegen schreitet Hoch sich stämmend Aus dem Mutterkuchen Mit den blauen Bändern flatternd Her der Kindbaum – Mandel? Weichsel? – schreitet Durch mich hindurch.... 2 Leichten Herzens Storchenflaum hinweggehaucht – Verschenke ich Aus Händen übervoll Die Doppelböden Die geheimen Fächer – Längst schon abgeklopft: Schönhohles Tönen – Das Sperrholz bunter Puppen Eine in der andern So sinn- und bilderträchtig... Das lyrische Gerümpel eben Bevor ich ganz vertieft Ins Spielen mit dem Wort Zeug fort mich träum Weit fort aus diesem Leben 190


(Invecchiare) per L.H. 1 Canzonatemi rifocillatemi con la polpa insipida dei fichi del Carso lasciatemi seduto sulla panchina dei vecchi il piede saldamente piantato sul buco del topo e incede verso di me puntando i piedi per innalzarsi dalla placenta con le fasce blu svolazzanti l’albero dei bambini – Mandorle? Visciole? – incede attraverso proprio attraverso di me… 2 A cuor leggero piuma di cicogna spirata via – Io dono a strapiene mani: i doppi fondi gli scomparti segreti – a lungo già cercati picchiettando: toni cupi – Il compensato di bambole variopinte una dentro l’altra così cariche di senso e di immagini… Il ciarpame lirico proprio prima che io tutto assorto nel giocare con la roba parole mi allontano via sognando via lontano da questa vita. 191


(anwesend abwesend) 1 Eines Morgens lagen verstreut unter dem Auto kleine Stücke gelben Plastiks: die Reste der Abdichtung der Kühlerhaube. Auch ein paar Kontakte seien durchgebissen gewesen, auf jeden Fall angenagt, behauptete der Chef der Werkstätte, während er die Rechnung schrieb. Einen sah ich tot – ich war wie immer frühmorgens mit dem Hund unterwegs –, dort wo die Dorfstraße in die Bundesstraße mündet, auf dem Bankett – graubrauner Balg, hellgraues Wollhaar, lange runde Rute, gegabelter weißer Kehlfleck – überfahren, von einem Auto, irgendwann nachts. Ich ging gleich weiter. Wegen des Hundes. Als ich ein wenig später, wie immer angezogen vom Tod, ohne Hund zur Kreuzung zurückging, war der Kadaver verschwunden... Einen, hörte ich, hatte der Nachbar gefangen, mit einer Falle. Ich könnte ihm das Fell abkaufen, sagte er, um 500 Schilling. Im Winter weckte mich einige Male, als ich oben auf dem Dachboden schlief, ein Getrappel die ganze Länge des Daches entlang, von Giebel zu Giebel. Dem aus dem Tiefschlaf Gerissenen, verängstigt im Halbschlaf Schutz Suchenden erschien das Geräusch als eine verknappte Version des, von der kleinen Trommel steigernd verstärkten Crescendos und Decrescendos im „Alten Karren“ von Mussorgskis „Bilder einer Ausstellung“... Wahrscheinlich ein Laufritual der Ranzzeit...

2 Unversehens sind sie wieder da, auf den Drähten sitzend, sich putzend unter den hochgeklappten Flügeln, schattenhaft vage über dem Rot der Dächer kreuzend, Schlingen, Schleifen, vertikale Kreise fliegend, auf der Stelle flatternd, bodenscheu... Lautlos, kaum je kreischend, kämpfen sie um die in Herbst und Winter leergebliebenen Nester, befliegen sie, umflattern sie, besetzen sie, unermüdlich aus ein und einschliefend, kopfüber den Rand durch die leibenge Öffnung hinein hinaus, bringen den raren Lehm heran, den Mörtel verfallender Mauern... Bis auf einmal blutige Eihälften auf dem Kies liegen, die erste Brut Tag und Nacht zwitschert, gurrt, rumort, mit aufgerissenen Schnäbeln Futter fordernd... Da, und doch, für unsereins, nicht wirklich da, solang bis eines Tages, ungesehen, der Specht mit seinem Schnabel das Nest verwüstet... Ungehört auch der Schuß aus dem Gewehr des darüber erbosten Bauern... 192


(presente assente) 1 Una mattina giacevano sparsi sotto la macchina dei pezzetti di plastica gialla: quello che restava dell’isolante del cofano. Anche un paio di contatti erano stati troncati a morsi, comunque rosicchiati, sosteneva il capofficina mentre scriveva la fattura. Uno lo vidi morto – come sempre ero per strada la mattina presto col cane – nel punto in cui la via del paese sbocca nella statale, sulla banchina – pelle color grigio bruno, lanugine grigio chiaro, coda lunga e tonda, macchia bianca biforcata sulla gola – travolto da una macchina chissà quando nella notte. Proseguii. Per via del cane. Quando un po’ più tardi, attratto come sempre dalla morte, ritornai all’incrocio senza il cane, il cadavere era scomparso… Uno, ho sentito, lo aveva catturato il vicino con una trappola. Avrei potuto comprargli la pelliccia, disse, per circa 500 Scellini. D’inverno, quando dormivo di sopra nel sottotetto, più volte mi svegliò un calpestío per tutta la lunghezza del tetto, da un capo all’altro. A uno che, strappato a un sonno profondo e spaventato cercava nel dormiveglia una difesa, quel rumore sembrava una versione ridotta del Crescendo e Decrescendo nel “Vecchio carro” dei “Quadri di un’esposizione” di Mussorskij, scandito dall’incalzare dei tamburelli… Forse una corsa rituale alla stagione degli accoppiamenti…

2 Improvvisamente sono di nuovo qui, appollaiate sui fili, a far pulizia sotto le ali alzate, incrociando indistinte e vaghe sopra il rosso dei tetti, intrecciando scivolando, descrivendo in volo cerchi verticali, svolazzando sul posto, timorose del suolo… silenziose, appena stridendo, lottano per i nidi abbandonati in autunno o inverno, volano, sbattono le ali, instancabili entrando nei nidi e uscendone a capofitto dal bordo dentro fuori attraverso la fenditura a sguincio, appiccicano la rara argilla, la malta di muri cadenti… Finché un giorno mezzi gusci sanguinolenti giacciono sulla ghiaia, la prima covata giorno e notte cinguetta, tuba, gorgoglia, con becchi spalancati chiedendo cibo… Qui, e tuttavia, per noialtri, non veramente qui, finché un giorno, non visto, il picchio distrugge il nido col suo becco… Inudito anche il colpo di fucile del contadino esasperato… 193


3 LEBEN MIT DEM TIER Das gestörte Verhältnis des Menschen zum Tier : der Unwille, das „Andere“, anzuerkennen, das „Unverständliche“ hinzunehmen, aus einem verbohrten Anthropozentrismus heraus, der als solcher oft gar nicht erkannt wird. Tiere sind schmutzig, sie stinken, sind blöd, unintelligent - wo doch Intelligenz nicht einmal für die Beurteilung eines Menschen relevant ist –, sie sind unnütze Fresser, Schläfer, die alles verstinken, verdrecken, vollscheißen... Die „Affenliebe“ des „österreichischen“ Menschen widerspricht diesem Befund nur scheinbar, nimmt sie doch dem Tier sein Anderssein weg, indem sie sein tierisches Wesen vermenschlicht. Wie oft ertappe ich mich dabei, wie „unsinnig“ mir das zeremoniöse Koten, das einem minutiösen Schnuppern folgende markierende Urinieren vorkommt, das unmotivierte Gejaule und Gebelle, das Gejage von allem, was sich bewegt, die panische Angst vor dem Ungewohnten – vor einem Auto, das dort steht, wo sonst nie ein Auto steht, vor einem Plastiksack, weit weg, mitten auf einem Acker –, das hektische Hin- und Her-Ablaufen einer Spur... „Trottel“, sage ich und lasse mich doch von der Hündin an der Leine über Stock und Stein zerren... Wie schämte ich mich - vor mir selber – über den Schlag, den ich ihr – aus vollem Menschenherzen voller Wut – versetzte, als sie ihre erste, mühsam ausgegrabene, erjagte Maus verschlang – mit einem unwiderstehlich zufriedenen Ausdruck des ganzen Körpers...

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3 VIVERE CON LA BESTIA Il rapporto disturbato dell’uomo con la bestia: la riluttanza a riconoscere l’Altro, ad accettare l’incomprensibile, a causa di un ostinato antropocentrismo che spesso non viene affatto riconosciuto come tale. Le bestie sono sporche, puzzano, son stupide, prive di intelligenza – quando poi l’intelligenza non è mai rilevante nella valutazione di una persona – sono inutili mangioni, dormiglioni, che tutto appestano, insozzano, scacazzano… Lo “smisurato” amore degli Austriaci per le bestie contraddice solo in apparenza questa diagnosi, toglie infatti alla bestia il suo essere “altro”, perché ne umanizza l’essenza bestiale. Spesso mi sorprendo di quanto assurdo mi appaia il cerimonioso cacare, l’urinare per marcare il territorio dopo un minuzioso annusare, l’immotivato latrato e abbaio, il correre dietro a tutto ciò che si muove, il timor panico dell’insolito – di un’automobile che sta dove non ce n’è mai stata una, di un sacchetto di plastica, lontano, in mezzo a un campo… – , il frenetico andirivieni nel seguire una traccia… “Stupida”, dico, e però mi lascio trascinare su e giù dalla cagnetta al guinzaglio… Come mi sono vergognato – di fronte a me stesso – per il colpo che di tutto cuore – cuore di uomo pieno di collera – le ho assestato quando lei il suo primo topo, cacciato e faticosamente dissotterrato, divorò – con un irresistibile fremito di gioia di tutto il corpo…

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4 DIE FORMALE DIVERSITÄT meiner Bücher, die bei den Lesern, vor allem bei denen, die sich für zuständig halten, den rezensierenden Germanisten etwa, den Eindruck der Formlosigkeit hervorrufen. Dabei ist „Form“ seit jeher für mein Schreiben wichtiger als „Inhalt“, weshalb ich bestrebt bin, für alles, was zum Gedicht wird, eine, in meinen Augen, entsprechende Form zu finden. Mich langweilen Gedichtbände, in denen Inhalte in eine einmal gefundene, weil sich ergebende Form geleert werden, formal 1-tönige Serien-Produkte, die ihr Auslangen mit 1 Ausdrucks-“Schimmel“ finden. Was der Bequemlichkeit des Schreibers und des Lesers zugegebenermaßen entgegenkommt... Ich habe immer die proteischen Chamäleone unter den Kreativen bewundert: Picasso, Strawinsky..., die, seismografisch allen Einflüssen offen, imstande sind, alles und jedes ihrem künstlerischen Idiom anzuverwandeln, sodaß es stets Picasso ist, was man sieht, Strawinsky, was man hört...

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4 LA DIVERSITÀ FORMALE dei miei libri, che ai lettori, soprattutto a quelli che si considerano responsabili, per esempio i recensori germanisti, danno l’impressione dell’assenza di forma. Peraltro, la “forma” è da sempre nella mia scrittura più importante del “contenuto”, per cui io mi sforzo di trovare, per tutto ciò che diventa poesia, una forma a mio giudizio corrispondente. Mi annoiano i libri di poesia in cui i contenuti sono riversati in una forma trovata casualmente una volta per tutte perché arrendevole, prodotti di serie monotonali per i quali basta una sola espressione schematica. Il che, per loro stessa ammissione, viene incontro alla comodità di chi scrive e di chi legge… Io ho sempre ammirato, tra i creativi, i camaleonti proteiformi: Picasso, Stravinskij… i quali, aperti come sismografi a tutti gli influssi, sono capaci di incorporare ogni cosa nel loro linguaggio artistico, in modo tale che sia sempre Picasso ciò che si vede, Stravinskij ciò che si sente…

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TRAUM 2 auf dem land: ein dunkles gewölbe für Har und mich ein raum der aber momentan an einen bekannten und seinen freund vermietet ist auffallend die aufstellung der beiden betten in form eines T der bekannte steht im schlafrock mitten im raum neben ihm der frisör Michel ich sage ich möchte sofort drankommen er stehe zu diensten sagt der frisör übertrieben devot zuerst müsse aber geklärt werden was mit dem freund des bekannten geschehen solle er sei schwierig Har zerlegt das bett der bekannte zittert vor angst sein freund tritt auf er küßt mich auf die wange auch er trägt einen schlafrock er ist so winzig daß mir der atem stockt er hat eine wie ein dorn aufgestellte nase schütteres blondes haar straff zurückgekämmt unzählige pickel im gesicht basedowaugen... Har und ich brechen in schallendes gelächter aus (der pfarrerclown fällt mir ein mit den falschen mauszähnen und der roten plüschblume am hintern der auf der letzten soirée der Schmitz war) der frisör bleibt ernst ich suche ein klo ich merke daß das gewölbe auf einmal aus vielen räumen besteht die durch bretterwände voneinander getrennt sind in jedem raum sitzen leute wie beim bandagisten sage ich und flattere mit fliegendem nachthemd an ihnen vorbei ich sei in eile sage ich hätte einen termin beim frisör im nächsten raum sind viele kleine türen manche so klein wie der durchschlupf für katzen ich hoffe daß es klotüren sind ich bücke mich öffne eine es dampft heraus ich erblicke drinnen im dunst sich tummelnde junge männer nackt mitten unter ihnen nehme ich den nur mit einer mütze bekleideten Nurejew aus ich werfe die tür zu haste weiter... um den frisör haben sich inzwischen dreißig damen angesammelt die alle gleich drankommen wollen er läßt sie in einer reihe aufstellen zählt sie: ... 27 28 29 30 aber ich will als erste drankommen ein problem allerdings ist daß kein schirm zur hand ist denn draußen schüttet es Har schlägt vor Robert Walser um einen schirm zu bitten wir machen uns auf in sein zimmer das gewölbe weitet sich zu einer enormen kuppel mit vielen kleinen treppen ganz oben in der decke ist eine kleine rechteckige öffnung durch die der himmel zu sehen ist ein sternenhimmel ich frage Har wo denn Robert Walser hier wohnen könne Har antwortet Walser habe schon sehr oft um eine andere wohnung angesucht aber nie eine bekommen da steigt Walser über eine der treppen herunter er sieht aus wie Don Giovanni links und rechts von ihm rutschen lautlos gesichter schneidende gestalten die treppen auf und ab wie von seilen gezogen Walser versinkt in zeitlupentempo in einer spiegelnden fläche die gerade so groß ist wie sein körper er lächelt noch: sein apfelgroßer kopf mit den gebleckten zähnen im bleichen antlitz ist entsetzlich... wir sehen alles von einer balustrade aus ich hoffe daß sich das kind nicht geschreckt hat ... 198


SOGNO 2 in campagna: una volta buia per Har e me un posto per il momento è affittato a un conoscente e il suo amico sorprendente la collocazione dei due letti in forma di T il conoscente sta in vestaglia in mezzo alla stanza presso di lui il parrucchiere Michel io dico che vorrei fosse subito il mio turno lui è a disposizione dice il parrucchiere esageratamente ossequioso ma prima deve essere chiarito che cosa succede dell’amico del conoscente è un tipo difficile Har smonta il letto il conoscente trema dalla paura compare il suo amico mi bacia sulla guancia anche lui indossa una vestaglia è così minuto che mi lascia senza fiato ha un naso puntuto come una spina radi capelli biondi pettinati tesi all’indietro innumerevoli foruncoli sulla faccia occhi basedowiani… Har ed io scoppiamo in una sonora risata (mi viene in mente il curato clown che c’era all’ultima soirée degli Schmitz con i finti denti da topo e il fiore di stoffa rosso sul sedere) il parrucchiere rimane serio io cerco un gabinetto mi accorgo che la volta improvvisamente consiste di molte stanze separate le une dalle altre da paratie di legno in ogni stanza siedono persone come dall’ortopedico dico e ondeggiando con la camicia da notte sventolante passo davanti a loro vado di fretta dico ho un appuntamento dal parrucchiere nella stanza successiva ci sono molte porticine alcune piccole come gattaiole spero che siano gabinetti mi chino ne apro una fuori esalano vapori scorgo dentro nella nebbia giovani uomini scorrazzanti nudi in mezzo a loro riconosco Nureyev con indosso solo un berretto sbatto la porta e mi affretto oltre… intorno al parrucchiere nel frattempo si sono radunate trenta signore che tutte vogliono che sia subito il loro turno lui le fa mettere tutte in fila le conta: … 27 28 29 30 ma io voglio essere la prima tuttavia è un problema che non ci sia un ombrello a portata di mano perché fuori piove a dirotto Har suggerisce di chiedere un ombrello a Robert Walser ci rechiamo nella sua stanza la volta si allarga in una enorme cupola con molte scalette proprio in cima nel soffitto c’è una piccola apertura quadrata attraverso la quale si può vedere il cielo un cielo stellato chiedo a Har dove mai Robert Walser possa abitare in questo posto Har risponde che Walser ha già fatto ripetutamente richiesta di un’altra abitazione ma non ne ha mai ricevuto una ecco che Walser scende da una delle scale sembra Don Giovanni alla sua destra e alla sua sinistra delle figure scivolano silenziosamente su e giù dalle scale facendo smorfie come tirate da corde Walser sprofonda al rallentatore in una superficie riflettente che è esattamente grande come il suo corpo ancora sorride: la sua testa della grossezza di una mela con i denti scoperti nel viso pallido è spaventosa… noi vediamo tutto da una balaustrata spero che il bambino non si sia spaventato… 199


TRAUM 4 ein großer saal parkettboden im dachgeschoß eines wiener ringstraßenhauses auf dem schwarzen konzertflügel liegt eine neunschwänzige katze an der stirnwand hängen durchlöcherte schießscheiben ein gong trommeln in verschiedenen größen mitten im raum steht ein bunter spielzeugtraktor aus plastik und ein schwarzes gokartauto... ein mann tanzt auf einem zweirad sitzend zur mondscheinsonate das rad surrt ohne die fahrt zu unterbrechen nimmt der mann aus einem fangkorb bälle mit denen er stetig tretend fahrend jongliert er hat spitze schuhe an eine gestreifte turnhose die über den bauch hinunter bis zum ansatz der schamhaare gerutscht ist, ein polohemd das über den bauch hinauf bis zum ansatz der behaarten brust gerutscht ist sein nabel quillt hervor wenn er die arme hebt um sich die mit aluminiumfolie überzogenen bierflaschen aus dem fangkorb zu fischen die er wie die bälle zuvor zur decke wirft die „vorstellung“ wird jäh unterbrochen wenn er samt bierflaschen bällen und rad umfällt zu boden stürzt er bleibt verdattert auf dem parkett sitzen leckt mit der gestreckten zunge über die lippen zuerst über die oberlippe von links nach rechts dann über die unterlippe von rechts nach links... der mann tanzt auf einem einrad sitzend zur mondscheinsonate er wirft mit schwarzen ziegeln um sich... wieder auf dem im kreis fahrenden zweirad sitzend - leert er ein mit wasser gefülltes schnapsglas danach läßt er eine maustrommel (?) kreisen in der auf der spitze eines stabes ein randvoll gefülltes glas steht... er ist „in der umstellung“ sagt er auf dem boden sitzend... auf dem Klavier gespielt wird die mondscheinsonate von einer dame im schwarzen trikot jedes mal wenn der akrobat unter getöse zu boden stürzt verfällt der kleine sohn des tanzmeisters in einen krampf der nur von der herbeigeeilten großmutter durch lautes zählen bis dreißig – ... 27 28 29 30 - gelöst werden kann... in einer ecke an einer übungsstange vor einem wandspiegel - battement tendu simple oder rond de jambe à terre – ER die der akrobat auf dem parkettboden sitzend laut fragt „ no homs scho ohgnumma?“

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SOGNO 4 Una grande sala col pavimento di parquet nella mansarda di una casa viennese del Ring sul pianoforte a coda nero è posato un gatto a nove code sul muro frontale sono appesi dei bersagli sforacchiati un gong tamburi di diverse grandezze in mezzo alla stanza c’è un variopinto trattore giocattolo di plastica e un’auto da go-kart nera… un uomo in sella a un biciclo balla sulle note della sonata al chiaro di luna la ruota stride senza interrompere il viaggio l’uomo prende da un cesto delle palle che sempre andando a velocità costante lancia in aria come un giocoliere indossa scarpe a punta un pantalone a righe che gli è scivolato giù dalla pancia fino all’inizio dei peli del pube una maglietta polo gli è scivolata su dalla pancia fino all’inizio dei peli del petto l’ombelico gli sporge in fuori quando alza le braccia per pescare dal cesto le bottiglie di birra fasciate con carta stagnola che lui come prima le palle lancia fino al soffitto la “rappresentazione” viene improvvisamente interrotta quando lui insieme alle bottiglie di birra palle e ruota casca giù ruzzola sul pavimento rimane smarrito a sedere sul parquet tira fuori la lingua e la passa sulle labbra prima lecca il labbro superiore da sinistra a destra poi il labbro inferiore da destra a sinistra… l’uomo balla in sella a un monociclo sulla note della sonata al chiaro di luna getta mattoni neri intorno a sé… nuovamente in sella al biciclo che gira in tondo – vuota un bicchierino da liquore pieno d’acqua poi ci fa ruotare un tamburo di topo (?) nel quale sulla punta di un’asta sta un bicchiere pieno fino all’orlo… lui è “nel mutamento” dice sedendo sul pavimento… sul pianoforte viene eseguita la sonata al chiaro di luna da una signora in vestito di maglia nera ogni volta che l’acrobata ruzzola sul pavimento con grande fracasso incorre il figlioletto del maestro di danza in un crampo che solo dalla nonna sopraggiunta di corsa contando a voce alta fino a trenta – … 27 28 29 30 – può essere sciolto… in un angolo su una stanga da esercitazione davanti a uno specchio a muro – battement tendu simple o rond de jambe à terre – ER che l’acrobata che siede sul parquet chiede ad alta voce “ha già perso peso?”

1 Da Trauer träumen, Lyrische Texte. Otto Müller Verlag, Salzburg, 2004 (trad. it. Di Augusto De-

bove) 201



RTE

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GWEN HARDIE è nata e cresciuta in Scozia e successivamente ha vissuto a Londra e a Berlino prima di trasferirsi a New York nel 2000. Il suo lavoro è stato esposto di recente nella mostra REALITY: Modern and Contemporary British Painting alla Walker Art Gallery di Liverpool e in una collettiva al Sainsbury Centre di Norwich, in Gran Bretagna (2004-2005). Mostre recenti includono la personale Skin Deep alle Olin/Smoyer Galleries di Roanoke College in Virginia, 2013; Borderline: Depiction of Skin, da Garis and Hahn, New York; Skin; An Artistic Atlas, collettiva al Royal Hibernium Academy di Dublino, 2012; la personale Boundaries alla Galleria An Lanntair and Taigh Chearsabhagh, Isole Ebridi, Scozia 2012/2013. Hardie è stata invitata in molte residenze prestigiose inclusa la Bogliasco Foundation in Italia e Yaddi, MacDowell e VCCA in America. Il suo lavoro è stato recensito in importanti riviste d’arte in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tra cui il New York Times, il New Yorker, il Sunday Herald e il Contemporary Visual Art. È stata la più giovane artista a esporre una personale alla Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo. Negli anni ’90, quando viveva a Londra, ha esposto in gallerie quali Annely Juda Fine Art, Beaux Arts e Fischer Fine Art. Suoi lavori sono stati acquistati da collezioni private e pubbliche tra cui il Metropolitan Museum di New York, il British Council di Londra, la Scottish National Gallery of Modern Art, di Edimburgo e la Gulbenkian Collection di Lisbona.

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GWEN HARDIE UN PROGETTO

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UNA PORZIONE DI PELLE

I miei tondi e i miei dipinti di forma ovale sono ingrandimenti di una piccolissima porzione di pelle e rappresentano una fase ulteriore rispetto ai miei precedenti dipinti di osservazione ravvicinata di piccole parti del mio corpo. Studiando l’effetto della luce del giorno sulla superficie semi traslucida della mia pelle, mi sono resa conto che stendendo colori alternativamente freschi e caldi avrei potuto creare l’illusione di un’ambigua profondità spaziale grazie a cui la rappresentazione della pelle e del corpo sarebbe apparsa come un paesaggio, evocando un mondo infinitamente più vasto. In questi nuovi dipinti ho cercato di coniugare un’immagine realistica della pelle con l’illusione che la superficie piatta del dipinto sia un oggetto tridimensionale, sferico. Ci sono abbastanza dettagli della pelle per consentire di riferire l’immagine al corpo, ma non abbastanza da suggerire di quale parte del corpo si tratti, Questo mi permette di confrontarmi con un’idea del corpo senza rischiare una dimensione voyeuristica o banalmente realistica. L’aspetto illusionistico di questi dipinti viene spinto al suo estremo al fine di creare l’illusione che il tondo sia uno spazio infinito e anche di enfatizzare il tondo come un oggetto in sé, una sorta di smentita sospesa della superficie piatta. Ogni dipinto quindi si sforza di porsi come contrappeso fra Realismo in quanto rappresentazione realistica di qualcosa (la pelle) e Illusionismo in quanto far sì che il tondo piatto appaia come un oggetto tridimensionale, sferico. g.h.

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L POETA

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NINO DE VITA è nato a Marsala nel 1950. Esordisce, nel 1984, con la raccolta di versi Fosse Chiti (Premio Cittadella), a cui fa seguito una trilogia in dialetto siciliano: Cutusìu (Mesogea 2001, Premio Mondello), Cùntura (Mesogea 2003, Premio Napoli), Nnòmura (Mesogea 2005, Premio Salvo Basso e Bartolo Cattafi). Nel 2011, sempre con Mesogea, è uscito Òmini (Premio Viareggio della Giuria), nel 2015 il romanzetto in versi A ccanciu ri Maria e nel 2017 Sulità. Nel 1996, per la opera poetica, gli è stato assegnato il Premio Alberto Moravia; nel 2009, il Premio Tarquinia-Cardarelli e nel 2012 il Premio Ignazio Buttitta. Tre suoi racconti per ragazzi, Il cacciatore (illustrato da Michele Ferri) 2006, Il racconto del lombrico (illustrato da Francesca Ghermandi) 2008, La casa sull’altura (illustrato da Simone Massi) 2011, sono stati pubblicati dall’Editore Orecchio Acerbo di Roma. Di recente sono uscite tre antologie dell’opera di Nino De Vita. La prima, a cura di Anna De Simone, dal titolo Il cielo sull’altura. Viaggio nella poesia di Nino De Vita, Circolo Culturale Menocchio, Montereale Valcellina, Pordenone 2013. La seconda, The Poetry of Nino De Vita (con testo inglese a fronte) a cura di Gaetano Cipolla, Legas, Mineola, New York 2014. La terza, Antologia (1984-2014), a cura di Silvio Perrella, Mesogea 2015.

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NINO DE VITA POESIE

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’U RRIALU I Cci avia purtatu un cori, un curuzzu, rrussignu, ri curaddu, firriatu r’un filiceddu r’oru. ’U tinia nna sacchetta ra bbunaca, rintra una scatulicchia cu ’a màttula. Tacchiava e nnastumentri cu ’i ìrita ’u bbattuliava. Èranu ’i casi nno Càssaru, pi mmità tagghiati ru bbiancuri ru suli. ’A ciamma chi cci avia pigghiatu pi st’artista: àvuta, cu i capiddi nìvuri, rrizzi, nfuti…

IL DONO I Le aveva portato un cuore/ un cuoricino, rossiccio,/ di corallo, contornato/ tutto d’un filo d’oro./ Lo teneva nella tasca della giacca,/ dentro una scatolina/ con la bambagia.// Camminava lesto/ e ogni tanto con/ le dita lo picchiettava.// Erano le case nel/ Càssero, per metà/ tagliate dal biancore/ del sole.// L’amore che lo aveva/ preso per questa artista:/ alta, con i capelli/ neri, ricci, folti…

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II Stàvanu nfaccinfacci assittati, nno fora ru bbarri, a Portanova. S’avia pigghiatu iddu, e cci affunciava nna bbuttigghia, una gazzusa. Idda vivia, lippiannu ri nno bbiccheri, un sucu r’aranci sanguinelli. ’U rrialu era ddà, nna sacchetta. Calava iddu aliquannu ’a manu nna finitoria ra bbunaca e ’u strinciuniava. “Ah, l’aranci, l’aranci…” idda fici, pusannu, smizzatizzu, nno tavulu ’u bbiccheri. Riri vulia, sarrà, com’èsti piacirìbbili stu fruttu.

II Stavano faccia a faccia/ seduti, fuori/ del bar, a Porta Nuova./ Aveva preso lui,/ e beveva dalla/ bottiglia, una gazzosa./ Lei beveva, sorseggiando/ dal bicchiere, una spremuta/ di arance sanguinelle./ Il dono era lì,/ nella tasca./ Abbassava/ lui, di tanto in tanto, la mano/ lungo il bordo della/ giacca e lo stringeva.// “Ah, le arance, le arance…”/ lei fece,/ poggiando, mezzo vuoto,/ sul tavolo il bicchiere./ Voleva forse dire,/ com’è delizioso/ questo frutto./

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“Aeri” rissi “mi cunnuciu un amicu nno ’n gghiardinu chi cci havi a Racalìa e mi nni retti rui. Eu cci scavai ’a scoccia e m’i manciai”. Una spina si misi a pùnciri nno pettu r’ iddu. “I jardina, i jardina…” idda nzìstiu. “Tu ’u pusseri un gghiardinu?” “Nno ’n gghiardinu” iddu rissi “acciancu ra me’ casa, quann’eru azzuni a unu cci spararu”. “Matruzza mia” ’a fìmmina fici, pigghiata “ ’U rrussu ru sangu e rrussu ri l’aranci”. E sdivacau rrirennu ’a testa p’u nnarrè. Taliau nno celu. “Com’èsti azzolu” fici. “Cchiù tardu, nna cuddata” assistimànnusi cci rissi, l’occhi fermi, nziccu nnall’occhi r’iddu “ ’u celu si fa rrussu, rrussu com’esti ’u sangu, rrussu comu l’aranci”.

“Ieri” disse/ “mi condusse un amico/ in un giardino che ha a Rakalìa/ e me ne diede due. Io scavai/ la scorza e le mangiai”./ Una spina si mise/ a pungere nel petto/ di lui./ “I giardini, i giardini...”/ lei insistette. “Tu/ lo possiedi un giardino?”/ “In un giardino” lui disse/ “accanto alla mia casa,/ quand’ero piccolo a uno gli spararono”./ “Matruzza mia” la femmina/ fece, sobbalzando. “Il rosso/del sangue e il rosso delle/ arance”./ E buttò/ ridendo la testa/ all’indietro. Guardò il cielo./ “Com’è azzurro” fece./ “Più tardi, nel tramonto” raddrizzandosi/ gli disse, con gli occhi fermi,/ fissi negli occhi di lui/ “il cielo si fa rosso,/ rosso come il sangue,/ rosso come le arance”./

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“A mmia mi piaci stari a vvillu, nna cuddata” iddu cci palisau. “I cuddati” ’a picciotta rissi “sannu ’a pinzari, fiurari... E abbasta un postu cchiù scògnitu pi chissu, un agnuneddu ri jardinu…” Si misi ’a spina arrè a pùnciri nno pettu. “E s’av’a ssiri nnui...” ’u picciottu ciatau. “Nnui” idda rissi “nnui” puntànnulu. Su’ cosi vulia, sarrani, riri, ch’un poi capiri. Rissi, pusannu, sbacantatu, nno tàvulu ’u bbiccheri: “Chi fruttu piacirìbbili!”.

“A me piace stare/ a guardarlo, nel tramonto”/ lui le confessò./ “I tramonti” la ragazza/ disse “vanno pensati,/ immaginati... E basta un posto/ più appartato per questo,/ un angolo di/ giardino…”/ Si mise la spina di nuovo a pungere nel petto./ “E si deve essere in due...”/ il ragazzo fiatò./ “In due” lei disse “in due”/ puntandolo. Sono cose/ voleva, forse, dire,/ che tu non puoi capire./ Disse,/ posando, svuotato,/ sul tavolo il bicchiere:/ “Che frutto delizioso!”.

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COPRIRE UN POETA

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GANDOLFO CASCIO POESIE CON IRONIA

ENTRAMBI AMIAMO L’INGHILTERRA Io alla mia età mi delizio con la Austen. Tu che ne hai la metà mi scambieresti per un’Aston. * Malinconia, malinconia, per piccina che tu sia, io non ti lascio andar via. * Nostalgia, nostalgia, per feroce che tu sia, sei per sempre tutta mia. DA ALCMANE Non di tutti gl’ uccelli io so il canto, ma di molti riconosco il lamento e la grazia azzurrina. UNO SCHERZO Discutendo d’eleganze e ottocentesco kitsch abbiamo inevitabilmente annoiato la dama che con tanta gentilezza c’ha preparato la quiche a noi ingrati poeti preoccupati solo della fama. 221


AMO L’INVERNO IO Amo l’inverno io perché mi metto la giacchetta di lana. Quella a colori scuri, un po’ stanchi. Ce l’ho quando sto a casa a scrivere il saggio che spero di finire presto. La lavo e poi la poggio sulla poltroncina. Mi guarda, io lo so, mi aspetta. LA BELLEZZA SOBRIA Si rivela intera nella minuta forma della grasta al balconcino la bellezza sobria del pianeta. La geometria imperfetta del gelsomino, della cannella zuccherosa. Meglio ancora è l’antologia del petalo scarlatto porporino rosso vermiglio dardo alla superba ragione. * Quant’era bella la latta d’olio un po’ arrugginita che trabocca di bianchi ciclamini, d’infiammati gerani o, megli’ancora, d’utili erbette. Quant’è brutta ai nostri giorni la finta ceramica umbra, senz’anima, non severa.

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WOLFANGO TESTONI 11 POESIE SENZA TITOLO

* Queste facce che sembrano più vere dei vivi, dei morti un’altra volta vivi, in luoghi d’affannate o divertenti memorie tanto fragili al risveglio. Svaporavano oppure rimanevano fino al caffè come una giostra che si spegne mentre una calza sale sul polpaccio e l’altra attende d’essere riempita. Si pensa a chissà cosa, magari quella traccia incisa sul portone di una vita indietro, o lo scalino troppo stretto che sgomita ancora nel buio. Per questo sono tornato a rivedere la stessa ghiaia e la finestra al secondo piano dove una faccia nuova mi ha sostituito e non sa chi sono, ed io, quasi scusandomi, non so cosa rispondere. *

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Qui s’era alzato il volo del pallone mentre piegavamo la testa sotto l’arco del suo passare in aria. Qui sul muro mai guarito dalla sua età di polvere dove col dito scrivevamo nomi visibili per poco. E si vedeva un’altro arrossamento sotto l’intonaco. Una placca lucida come la fronte, con le sue scale a grappoli il volo oltre oceano e tutte le promesse in bianco e nero. Una leggera linea chiara tracciata a mano libera. Leggera come un giunco accennava a un’epoca più timida. * Il cane che strattona la catena soffoca di rabbia per il passare svelto di noi. Lui che deve spingere e tirare il collo per annusare appena la ciotola dell’acqua. * Che ore sono. La mattina già s’imbuca portando nella stanza 224


rettangoli di luce e lo spigolo del mobile è un occhio un po’ geloso. Alto e senza lacrime ci fissa. Il ticchettio dell’orologio è come una legione persa sulla pianura spoglia del comodino ma le ore avanzano più lente se mi giro verso di te. * Vita, vita, per metà dimenticanza. Accecata da uno strappo della prima giovinezza. Il tuo colore congelato in cecità stonava come un sasso a cui mancava il guizzo, la lacrima che dice della vita il suo rammollimento. Eppure Tu, pupilla circolare dalla grandezza giusta, Tu lo sapevi del dolore che vuole la corale umanità. Tutto si ritorce dentro il fuoco. La Tua vecchiaia rossa brucia come le doglie. * Vorrei chiamarlo col suo nome quando tira vento. Nelle giornate asciutte mi dimentico di lui. Riflesso nei vetri della finestra sembra quasi vero. Ma quando piove tutto si ingorga e prende voce. Nella grondaia ride un’acqua più arrabbiata ed io non so 225


che nome dare a questo dio che arriva impreca e poi si disfa. * Tutta la luce.

Bevuta e rigettata. A scatti si ritira in cerchio. Riemerge da un’altra estremità. Tra poco scoppierà qualcosa, sarà la resistenza delle piante. La breve e intensa pioggia e questo è tipico d’estate. * Ma noi lo sapevamo di certe piogge che cercano nei luoghi la propria sepoltura tra un improvviso scroscio e la sua perplessità. Più veloce dei morti è la primavera, infortunio di stagione, balzo che nel fiore si colora e poi rovina. E dopo il temporale dai rami batte un’altra tregua. Un’amnistia. * C’era dell’altro nell’ironia taciuta, sempre puntuale, sull’amore a tratti opaco. Il gioco delle parti. Tu, lei, il mondo fuori asse. I riti e sue velocità. Ma i bambini crescono. Anche tua moglie cambia. Non parla più di te. Non chiedo più nessuno più lo chiede. Nessuno più si azzarda a rivangare il campo. 226


L’origine dei fiori è terribile. Che primavera c’è lì? Lo splendore è sempre impaziente. * Gli uomini sono quel che sono e un pizzico di vergogna nelle chiome. La secca somiglianza con i rami che si incurvano. La strada stava sotto, girava la caviglia attorno al campanile. Di questi pomeriggi un’altra immagine rimane. Lo spazio caldo del campetto vuoto. Recintato. Li vedevo passare la discesa con quell’aria che odorava di domenica. Le campane scoppiavano di salute e le eterne zitelle prendevano posto su panche troppo pesanti per essere portate in cielo. * Quando il prete parla qualcosa si rigira e la navata è un luccio morto. Persino le candele elettriche sembrano dormire nel tremolio più timido dell’ultima scusa: Non siamo vere. L’arco compie il suo dovere tuffandosi da un muro all’altro. Opposti confini di una stessa causa. Un tempo c’era un crocifisso lì. Immobile nel vuoto. Le braccia spalancate 227


come aeroplanino. Le gocce rosse sulla pancia, la parrucca e tre chiodi nella carne di gesso. Poi l’hanno tolto, restauri al Figlio di Dio. Dicono che tornerà.

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IVAIO

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LORENZO BABINI POESIE SPARSE

I FIGLI Ci vuole coraggio a mettere al mondo dei figli, esporli al vento e alla luce, inserirli nel tempo che li consuma. Nei borghi di pietra o nelle pianure d’Italia, in grandi città, nei paesi di guerra, tra le distese di ghiaccio o tra i giardini d’aranci, nei lunghi deserti mediorientali vivere significa vivere con poco amore nella terra dura e strapparsi i figli dal grembo per vivere ancora. Mentre nel buio cadono i padri silenziosi, in una terra piena di voci, invasa dal vento e dalla sabbia, le donne guardano i figli e tra le nenie sussurrano, affidano al dio degli arabeschi la responsabilità di averli messi al mondo. UN SOGNO Stanotte ho fatto un sogno terribile, aprivo la finestra e compariva una casa e dentro la casa c’era una stanza con i morti stesi per terra e sul tavolo, senza vestiti. Mi svegliavo, spostavo i mobili dell’appartamento, aprivo i libri, i cassetti … erano bianchi. Non bastavano più i nomi, le parole, i posti in cui tornare.

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IL LADRO Vieni, c’è un’ultima rampa e poi basta scostare la porta per vedere gli occhi dell’assassino, del ladro. È stato qui, lo sai, e a volte a volte è persino inquietante vivere con l’impossibile io che ti agita dentro, ribatte ogni tua frase, sommuove i punti fermi. La polizia se n’è andata da giorni e immagino che non tornerà. Non ha preso le impronte, non ha messo i sigilli, al sesto piano l’appartamento è rimasto socchiuso. Ci sei entrato da solo stanotte e sei rimasto lì, per più di dieci minuti, senza accendere la luce.

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VALENTINA COLONNA

Un giorno sarà in un teatro pieno con un gran coda nero e un vestito rosso, liscio, a coprirmi i piedi e le mani avanti ad abbracciare un tutto che straborda oltre le corde le scalette. In mezzo sorrideremo per questo atteso riconoscerci. Domani sei mani avrà la tastiera e la sera staremo stretti in una casa piena di abbracci, fogli volanti di pentagrammi lettere mai spedite volanti a intermittenza senza sosta rimbalzando da una stanza all’altra. Sarà lei a trovarci una sera a Capodanno in cucina a preparare per la cena correggendo articoli teorizzare attorno a una tazza a fiori piena di burro da amalgamare rapido e ammorbidire tutti i contorni, i bordi in uno scuotere del cucchiaio disciogliersi e risucchiarci interi tutti in una culla.

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* Nel vaso di fiori colti per il mio onomastico le orchidee si macchiano e il sole annida nei bulbi stretti che gonfiano le rose intatte tutte pronte per noi due. Allora mi ci immergo. Loro tiepide. Ridono. Questo tuo sbocciare rapido senza preavviso gli occhi. La tua fronte alta, bellissima la bacio. Io ti bacio lentamente come mia madre che ci guarda – in questi fiori – poi sorride. Accarezza piano piano, uno a uno i petali li irradia di profumo la stanza nelle sue rose rosse sono le nostre. Respiro di miracolo che mi porti negli incroci annebbiati sospesi della notte nelle curve. Tu che appari e come aria mi respiri. Lo sai, che per te soltanto resto e qui ritrovo di me le [parti che voglio lasciarti prima che il tempo un giorno mi confonda e di me una nuvola – che si cala lenta tra le valli e sfonda le strisce delle strade i vuoti d’aria tra i dirupi e i fossi – resti.

A MIO PADRE Mi sembra come non ti avessi mai visto in questi anni quando cambi le corde e ti fermi a cercare i suoni – immobili i gatti, le ombre di muro. Mi ritrovo a cercare di te un solo momento l’esitazione dell’aria alle vibrazioni esatte, perfette. Un’attesa dolce. Mi pare quasi sconosciuta... Un giorno lei avrà un vestito piccolo rosso in vellutino a balze un fiocco sul petto e passi brevi a onda sotto il palco un fiore in mano e tu dietro in giacca sorridente a braccia aperte inseguirci.

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DOSSIER SAMOTRACIA E IL FANCIULLO DIVINO TAVOLE DI LUCIANO RAGOZZINO

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PRIMA PARTE SAMOTRACIA

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Il tema di questo Dossier ci è stato suggerito dal lavoro dell’artista greca Polyxene Kasda, già da tempo ispirato al Pais (fanciullo in greco) 1 di cui Eraclito disse: “L’ Eone è un fanciullo che gioca” Eone è stato tradotto in italiano in molti modi, come “vita”, “tempo” “eternità”. Ci è venuta quindi l’idea di trattare il tema del “Fanciullo divino”, ripreso e approfondito da Jung, nei suoi vari aspetti filosofici, spirituali, psicoanalitici, specialmente in relazione alla situazione del mondo oggi, ritenendo che una ricerca del Pais, in quanto Bambino interiore che può schiuderci una scoperta di sé e di un’altra dimensione di realtà, sintetizzi in qualche modo la direzione in cui vuole muoversi la rivista. Perché, come già detto nell’Editoriale, ma giova ripeterlo ancora una volta qui, “è indispensabile cambiare le coscienze, specie in un momento di grave crisi in cui un intero sistema minaccia di affondare, se si vuole cambiare il mondo”. Il mito del Pais ha guidato Polyxene Kasda come un filo nel labirinto dei Misteri di Samotracia, l’isola dei Grandi Dei, fino a immaginare, attraverso intuizioni, illuminazioni interiori e associazioni analogiche, un percorso concreto nell’isola quale itinerario iniziatico che ha preso la forma di una Caccia al Tesoro spirituale. Caccia al Tesoro in cui il tesoro è il Lapis Exilis, ovvero la Pietra filosofale degli alchimisti, identificata da Polyxene Kasda con il Pais, e anche con il Magnete leggendario nascosto da tempo immemorabile nell’isola e collegato a Ercole e ai riti misterici dei Cabiri (Cabiri è l’epiteto d’origine fenicia per Grandi Dei, di cui non si doveva pronunciare il nome). Un progetto che si può interpretare anche come un recupero – non come operazione intellettuale ma in quanto esperienza esistenziale – ovvero una rivisitazione degli antichi processi di iniziazione misterici alla luce dei moderni studi psicoanalitici. Ma quello che rende particolare e forse unica la ricerca sul Mito condotta ormai da anni da Polyxene Kasda, è che essa è un atto creativo in quanto si svolge in stretto rapporto e scambio con i luoghi – luoghi della Grecia ripercorsi, rivissuti e reinterpretati prima di tutto come “centri di energia”. Un percorso quindi insieme culturale e spirituale. A questa Caccia al Tesoro potranno partecipare anche i lettori della rivista che vorranno recarsi nell’isola di Samotracia e questa è la sorpresa annunciata per questo Dossier che per la prima volta è suscettibile di trasformarsi in Evento. Non sarà questa l’unica volta perché intendiamo creare altre occasioni di condivisione e di esplorazione di dimensioni spirituali suggerite da artisti e scrittori che collaborano alla rivista. Abbiamo quindi pensato di dividere il Dossier in due parti: la prima, specifica su Samotracia, in cui Polyxene Kasda spiega come è nato questo Itinerario, e altri interventi approfondiscono le convergenze anche sorprendenti fra l’antico pensiero greco e la scienza contemporanea o riferiscono un’esperienza diretta delle straordinarie energie “magnetiche” dell’isola che fu il centro di culto più importante dell’Egeo nell’epoca ellenistica, paragonabile per la sua fama a Eleusi, e dove si celebravano le nozze sacre di Cadmo e Armonia, associato in seguito addirittura alle origini di Roma attraverso il mitico Dardano capostipite dei Troiani, o ancora danno informazioni sulle attività che vi si sono svolte in relazione a un Progetto Pais e sulla Caccia al Tesoro. La seconda parte del Dossier, invece, è stata aperta ai contributi più vari sul tema del Fanciullo Divino. Come riferisce Polyxene Kasda nel suo testo, il suo primo incontro con l’isola e le sue straordinarie magie è avvenuto già nel lontano 1996 e ha dato origine già allora a un primo Simposio sul tema del Pais. Cominciò così a profilarsi un primo abbozzo di quello che doveva diventare in seguito una Mappa del tesoro spirituale, e l’etnologo e poeta romeno Vasile Avram, purtroppo scomparso nel 2002, in un discorso pronunciato in occasione di quel Simposio doveva definire questo progetto “un coraggioso invito a reintegrare il senso primario dell’esistenza, a legare l’immanenza alla trascendenza, a riabilitare, non solo culturalmente, ma secondo una prospettiva ontologica, il grande mito da cui sono nati tutti gli elementi del mondo”. Nel 2010 alcuni artisti di vari Paesi sono stati invitati a interpretare il tema del Pais e ne è nata una mostra itinerante tra Alexandropolis, Samotracia e 236


Atene dal titolo Pais: L’eternità è un bambino che gioca, il cui scopo era quello di far nascere una pinacoteca a Samotracia, curata dalla stessa Kasda, dalla gallerista italiana Dores Sacquegna e dell’artista francese Pierre Chirouze, con il patrocinio tra gli altri del Ministero della Cultura greco, e organizzata dall’ Unione delle Associazioni Culturali di Evros (la prefettura che comprende l’isola di Samotracia) di cui era segretaria Katerina Kaltsou. Opere di alcuni di questi artisti ispirate al tema del Pais fanno ora parte del Dossier. “A distanza di tempo”, dice Dores Sacquegna, “ho compreso che questo progetto non è iniziato per caso. Anche qui c’è stata una sorta di ‘trasmissione di energia’, che, grazie alla moderna macchina dell’informazione di internet, ha messo in moto una catena elettronica tra artisti, curatori e organizzatori, in un gioco le cui radici affondavano nell’archetipo, alla riscoperta del fanciullo che è in noi”. Successivamente gli abitanti dell’isola hanno aiutato Polyxene Kasda a individuare alcuni luoghi con particolari caratteristiche legate alle tradizioni e al Mito, per realizzare concretamente una Caccia al Tesoro che desse forma al suo “itinerario iniziatico”. È stato così creato un “Gioco di Carte” con le immagini dei luoghi dell’isola elaborate dall’artista Antonis Papantoniou. Anche la nostra rivista si unisce così alla realizzazione di questo progetto che si propone di “reintegrare il senso primario dell’esistenza” e rifondare “il grande Mito da cui sono nati tutti gli elementi del Mondo”. Nella seconda parte del Dossier, come accennavo, sono raccolti invece diversi contributi saggistici – e qualcuno anche visuale – che trattano l’argomento sotto le più diverse angolazioni e in rapporto a diverse culture, epoche, religioni, con diretti riferimenti alla realtà di oggi. Come sempre, il Dossier non si propone di essere enciclopedico ed esaustivo, il che sarebbe tanto presuntuoso quanto impossibile, bensì di dare degli stimoli a ricerche in molteplici direzioni, spesso le più inattese: gettare semi di curiosità, aprire porte e finestre su realtà culturalmente lontane nel tempo e nello spazio al fine di far nascere nuove elaborazioni. Se Benozzo, da specialista di culture celtiche esplora i miti irlandesi, Marota ci parla invece del “fanciullino” del Pascoli. Gluck dell’Annunciazione, Capuano approfondisce la filosofia eraclitea tenendo presente Nietzsche, Carla Stroppa la nozione di gioco alla luce della psicoanalisi, Vacchelli ci parla del puer aeternus nella Bibbia, Ampolo, da psicoterapeuta, analizza l’archetipo bipolare senex-puer, e Nuno Miguel Afonso del puer fra eros e spiritualità nell’induismo e nel tantrismo. Fra gli interventi più curiosi segnalo quello sul mito portoghese del Bambino Imperatore dovuto a Manuele Masini. Fa parte di questo secondo Dossier anche un’elaborazione del mito del puer di Silvia Venuti attraverso sue immagini fotografiche. Come sempre anche questa volta i disegni che accompagnano gli articoli del Dossier e che tanto di prezioso e insostituibile aggiungono alla fisionomia della rivista, sono dovuti (come i capolettera delle diverse sezioni) all’artista Luciano Ragozzino, cui va il nostro grazie più vivo.

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Per informazioni al riguardo leggere nel Dossier l’articolo di Polyxene Kasda intitolato Il Gioco culturale della Caccia al Tesoro. 237


POLYXENE KASDA PAIS (IL BAMBINO)

L’Eone è un bambino che gioca e sposta le pedine sulla scacchiera: il regno di un bambino. Eraclito fr. 52 Talvolta, una parola apre la “bocca” gorgogliante nel mezzo della nostra realtà ordinaria, ingoiandoci nella cavità risonante del suo ventre in cui perdiamo la pelle, squamandoci e mutando secondo la sua immagine. Così, la parola si incarna continuamente. La mia ossessione per la parola Pais è iniziata negli anni ’90 quando mi sono arresa al QEM, l’irresistibile attrazione per il Qualcosa Essenziale Mancante, una specie di ferita inferta dentro di me, così profonda da arrivare a toccare le stelle e anche oltre. Il QEM si insinuava nei miei sogni ricorrenti sotto forma di un minuscolo bambino, un piccolo principe che mi strappava al mio benessere con le sue piccole mani, facendomi cenni mentre giocava a nascondino, gettandomi in continue avventure e meraviglie autorigeneranti, nelle abissali distese spugnose delle leggende e del mito, suoi paesaggi naturali. Il desiderio di condividere questa affascinante dimensione mitica che si sovrappone alla nostra realtà convenzionale mi ha portato negli anni ’90 a creare le Mappe del Tesoro Nascosto. In esse, antichi simboli, nomi ed elementi naturali, che germogliano nei siti mitici della Grecia, erano interconnessi in itinerari sperimentali nei quali i poeti partecipanti, ognuno “cercando per sé” (D-K101)1, entravano nell’enigma autoreferenziale della “vera natura cui piace nascondere” (DK123), provando il piacere di “Dio che si trasforma come il fuoco, quando si mescola ai profumi” (D-K31). Nella nostra trama temporale vi sono lacune straordinarie che sfuggono alla censura del nostro sistema sensoriale, scorciatoie verso l’impercettibile rumore di fondo della nostra esistenza. Quelle mappe sono state descritte da Donatella Bisutti come “semiotica del paesaggio… che apre le porte su dimensioni impossibili da immaginare” 2. Nel corso di questo processo di creazione di mappe, sono stata condotta nel 1996 a Samotracia, leggendaria isola dei Grandi Dei, dove i Misteri della Ierogamia (matrimonio sacro) e del concepimento / nascita del Bambino divino erano al centro dei culti dei Cabiri. In questo luogo sacro, ho avuto la conferma sul piano della mitologia di un’esperienza profondamente 238


emotiva e viscerale che ho vissuto negli anni ’90, quando stavo dipingendo vecchie mattonelle mentre ero sintonizzata sul QEM, questa sconosciuta fonte di magnetismo. Ho visto Pais, il Bambino, attraversare la foresta multidimensionale della mia coscienza, e atterrare nella nostra dimensione mentre ero Madre / Kore / Bambina nel Padre. È stata un’esperienza intensa, silenziosa e toccante, oggettiva e soggettiva nello stesso tempo. Mi sentivo profondamente indegna della visione interiore di quella emanazione inconscia e impercettibile che è all’origine del nostro desiderio irresistibile di autosuperamento, di amore, di nascita, di eternità nel tempo. Secondo Carl Gustav Jung3, l’archetipo del Bambino è un organo psicologico situato profondamente all’interno del nostro corpo, una legge umana che ci permette di compiere atti di autoconoscenza. In quanto “fenomeno liminare”, la sua funzione dipende dalla nostra connessione con un passato remoto; il suo cattivo funzionamento porta alla distruzione della nostra mente conscia da parte dei suoi contenuti inconsci, poiché siamo lasciati senza radici, in balia di qualsiasi suggestione esterna. Sul lato occidentale della Torre di Bollingen4, che per Jung rappresentava la struttura della psiche, egli costruì nel 1975 un cubo di pietra su cui fece incidere in greco il frammento di Eraclito. “L’Eone è un bambino che gioca…”. Nel museo di Paleopolis a Samotracia, ho trovato l’iscrizione Pais5 incisa su di un utensile votivo in argilla, oppure – così osai pensare in un grandioso momento di intuizione del collasso del Tempo – ero stata io stessa a inciderla in un tempo imprecisato per ritrovarla un giorno alla fine del gioco? Ricreare i simboli rovesciandoli è l’unico modo per decifrare le pietre miliari della memoria, e il Bambino che era in me stava dischiudendo antichi simboli ermetici, nutrendosi della loro essenza, mentre egli cresceva dentro di me e io mi rimpicciolivo volontariamente dopo essermi arresa al suo invasamento. Attraverso questa esperienza interiore, connessa alla ghiandola pineale, che aveva preceduto il mio viaggio a Samotracia, ero arrivata a cogliere, in una certa misura e a modo mio, il trans-temporale mistero dei Grandi Dei: Axieros (Demetra/Madre), Axiokersa (Persefone/Kore), Axiokerso (Dioniso/ Pais) che si mescolavano pur restando distinti in Kadmelos (Hermes, ovvero la consapevolezza dello stesso iniziato?). Tentare di avvicinarsi a tali “questioni dell’anima” richiede uno stato mentale che Lucian Blaga6 definisce “estatico” perché trascende le antinomie, uno stato di autotrasformazione che rappresenta una tendenza della contemporaneità: “L’introduzione simultanea della continuità e della discontinuità sembra ora necessaria in una forma che non è comprensibile”, 239


notò Louis De Broglie agli inizi del secolo XX, riferendosi alla natura ondulatoria e particellare della materia. I frammenti antinomici di Eraclito, il pensatore greco dell’antichità conosciuto come l’Oscuro o l’Enigmista, sono in accordo con la visione del mondo della meccanica quantistica. La stessa struttura antinomica dei frammenti provoca in noi una fondamentale intuizione degli opposti che porta alla trasfigurazione e determina una presenza (parontopoisis). Essi “non nascondono, né rivelano: essi significano (semainei)” (D-K93). Nel frammento D-K122, Eraclito ci suggerisce che essi, come i granchi, si muovono in tutte le direzioni, simultaneamente, attorno al nucleo paradossale ed ermetico che ci tiene tesi sulle alte frequenze di anchinoia, che significa tensione della mente. Anchinoe, ninfa delle acque fluenti, è la madre di Cabiro e Cabiro è la madre dei Cabiri! La lingua greca contiene dunque un enigma vitale, frattale e autoreferenziale dove la domanda è in realtà la risposta? “Ciò che ho compreso è importante e ciò che non ho compreso è altrettanto importante”, commentò Socrate a proposito dei frammenti dell’Enigmista. Eraclito catturò l’immagine dell’Eone identificandola con quella del Bambino primordiale che gioca nel teatro del Tempo, facendola poi filtrare attraverso di noi, “mortali/immortali, immortali/mortali, viventi la morte di quelli, morenti la vita di questi” (D-K62). Nel corso della sacra congiunzione di mortale-immortale dei Misteri dei Cabiri, nel tempio di Afrodite a Paleopolis, nell’isola di Samotracia, fu concepito Alessandro il Grande (al Acbar o Cabir), venerato come figlio di Olimpia, sacerdotessa di Afrodite, e di Zeus-Ammone. Egli rappresenta una delle forme storiche di Pais, colui che ha posato la pietra angolare dell’età presente dove, come bambini, giochiamo con i contenuti della cultura, con gli elementi fondamentali delle civiltà di tutte le epoche. A Paleopolis, la leggendaria Pietra Eraclea si credeva trasmettesse il suo magnetismo agli anelli di ferro degli iniziati e questi, a loro volta, trasmettevano ad altri anelli il potere della Pietra, creando una lunga catena trans-temporale di calamite. Era questa pietra magnetica, che Socrate riteneva essere lo Spirito dell’Epoca con cui i poeti per primi entrano in contatto, all’origine della mia irresistibile attrazione nei confronti del QEM, ciò che mi aveva attirato in questa avventura verticale? Nel 2010, una serie di circostanze mi ha permesso di tornare a Samotracia in occasione della rassegna Pais 2010, ispirata al mio componimento poetico Pais, pubblicato nel 19967. Sembrava che l’archetipo del Bambino fosse maturo per manifestarsi in questa epoca critica di risonanza congiunta dell’Essere (Tauton) e del Divenire (Eteron), già descritta da Platone nel Timeo. Il Bambino, necessaria 240


congiunzione di Mortale/Immortale per il ringiovanimento dell’Eone, è Pais mentre gioca spostando le pedine sulla scacchiera. Le cascate di Samotracia ti catturano all’interno dei loro vibranti muri d’acqua. Tutti i pensieri e le paure ti ritornano addosso con l’eco del loro rimbombo. L’unica via di uscita da questa intensa eco è un’esplosione verticale al di fuori del sé, che permette la rivelazione della totalità. In occasione di Pais 2012, ho immaginato una Caccia al Tesoro in cui i partecipanti, mischiando un mazzo di carte illustrate con i siti e i simboli da scoprire, confezionano il loro percorso, “ognuno crescendo in base alle parti mancanti” (D-K 126b), cercando Pais dentro/fuori se stessi, “districati dal distacco che è dato dal rapporto costante con le cose” (D-K 72), e sperando nell’insperato perché “se non speri, non esplorerai l’insperato, che è inesplorato” (D-K18). I partecipanti dovranno scoprire gli indizi nascosti sintonizzandosi sui frammenti antinomici dell’Enigmista, che rovesciando la nostra usuale dimensione razionale portano al “risveglio”. L’oggetto della caccia al Tesoro è concepito come espressione visibile dell’universale che ci fa cenni dall’iperspazio poetico e abbraccia i “dormienti”, spazio inesplorato che ci spalanca la “evardastissis”, il piacere della Saggezza universale “che comanda su tutto attraverso tutto” (DK41), “che è separata da tutto” (D-K108). “Ascolta il Logos non me” (D-K50), raccomanda l’Oscuro. Questo progetto stocastico di ecologia del sé e dell’ambiente intende indurre un cambiamento percettivo che conduca da una modalità di esistenza egocentrica a una logocentrica. Il tesoro che deve o non deve essere trovato è Pais, il Lapis Exilis “che riposa nel suo cambiamento” (D-K84a). La pietra angolare ignorata, “disprezzata dai folli e amata dai saggi” resterà sull’isola, a evocare il leggendario Magnete di Ercole, nella speranza che possa attrarre nel suo campo magnetico le generazioni future, sfidandole a investigare di nuovo il paesaggio dove “il sole è nuovo ogni giorno” (D-K6), dove “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume” (D-K49a), a dire il vero neanche una volta, dato che “noi siamo e non siamo” (D-K49a)! In greco “io faccio domande” si dice “eroto”, che deriva dalla parola eros, a sua volta anagramma della parola “ores” che significa “ore” (tempo). Il Bambino alato è l’eterno fuggitivo nella nostra interminabile ricerca della verità, nella nostra affascinante Caccia al Tesoro che dura una vita ed è limitata dal tempo, e che ci rende umani. Traduzione dall’inglese di Gabriele Ferracci 241


1 I numeri indicati tra parentesi fanno riferimento ai frammenti di Eraclito nella successione

proposta da Diels-Kranz nel 1956. 2 La Clessidra n.1, 1995. 3 Jung, Carl Gustav, e Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia 4 Iscrizioni presenti sulla pietra cubica della Torre di Bollingen di Carl Gustav Jung: la prima è una citazione tratta dal Rosarium Philosophorum: “Hic lapis exilis extat, pretio quoque vilis, spernitur a stultis, amatur plus ab edoctis” (“Questa pietra è modesta e a buon mercato; è disprezzata dai folli, ma amata dai saggi”). La seconda è la citazione del frammento D-K52 di Eraclito. Il Lapis exilis corrisponde alla “pietra filosofale” degli alchimisti cfr. René Guénon, Simboli della scienza sacra. 5 Π è l’essenza matematica della circolarità che descrive la manifestazione del nostro mondo fisico. Esso è derivato dal rapporto tra la circonferenza e il suo diametro, come nella nona (ottava) lettera dell’alfabeto greco Θ, iniziale di ΘΕΟΣ / Theos (Dio). Θ è incisa sugli utensili sacri dell’isola, che appartiene agli Dei. 6 Lucian Blaga, Trilogia della cultura. Lo spazio mioritico. 7 Il testo è stato pubblicato con il titolo Il Bambino in Poesia e Spiritualità n. 3. 242


PAIS 2012 IL GIOCO CULTURALE DELLA CACCIA AL TESORO Armeggiando con i frammenti “oscuri” dell’Enigmista nei paesaggi primordiali di Samotracia L’artista non è una persona dotata di libero arbitrio che cerca secondo i propri fini, ma colui che permette all’arte di realizzarsi secondo i suoi propositi attraverso se stesso. In quanto essere umano, egli può avere umori, una volontà e propositi personali, ma in quanto artista egli è uomo in un senso più alto – è un “uomo collettivo”, un veicolo e un modellatore della vita psichica inconscia dell’umanità. Carl Gustav Jung – Psicologia e Letteratura Nella ricerca di Pais, i partecipanti attraversano un paesaggio profondo fatto di scambi di fuoco, aria e acqua, mentre vengono loro svelati gli enigmi di Eraclito. Sono incoraggiati a incontrare antichi simboli, attivatori transtemporali delle loro funzioni psichico-cerebrali che rendono visibili processi inconsci impercettibili e inducono una straordinaria, unificata consapevolezza del mondo circostante che coinvolge il nostro intero essere. I partecipanti adottano il fuso orario del mondo delle piante, scalano montagne, attraversano boschi di tassi (taxus baccata), olivi selvatici, querce, castagni, aceri e peri selvatici, cedri, platani; avvertono la fragranza di centinaia di cespugli e piante erbacee. Navigano sotto le Acque Pensili, si tuffano in laghi gelidi, in lagune e cascate che sgorgano da un’altezza di 1400 metri e si bagnano in acque calde e solforose. Un gruppo di residenti dell’isola, ispirato dal concetto di Pais, ha creato l’associazione culturale IDEA. Essi hanno così condiviso le proprie esperienze di vita negli ambienti scelti, mentre A. Papantoniou/VimViva ha illustrato i luoghi e gli indizi da scoprire, rappresentandoli su un mazzo di carte da gioco. In queste carte, gli indizi del Tesoro sono amplificati oltre le loro reali proporzioni in immagini surreali che si muovono tra la cosa vera e l’idea che di essa ci facciamo mentre cerchiamo qualcosa. Utilizzando il mazzo illustrato, gli organizzatori hanno anche ideato un Gioco dedicato alla costruzione dell’anfiteatro locale. Il tesoro è il Lapis Exilis, una roccia raccolta sull’isola di Afrodite, Milo, che Polyxene Kasda aveva utilizzato nella sua performance Pais, nell’antico teatro 243


di Megalopoli in Arcadia, nel 1997. La roccia sarà la pietra fondante (Themele) di questo nuovo teatro, immagine del Bambino che gioca nel teatro del tempo. p.k.

Chi volesse cimentarsi nella Caccia al Tesoro, prima di recarsi sull’isola può contattare per ulteriori informazioni sulle disponibilità locali Polyxene Kasda a questo indirizzo mail: polykasda@gmail.com 244


GOULETAS PANAYIOTIS – ELENA PETRIDOU PAIS NELLA TOPOLOGIA DELLA COSCIENZA

Αἰὼν παῖς ἐστι παίζων, πεσσεύων· παιδὸς ἡ βασιληίη Il tempo (Aion) è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera: è il regno di un fanciullo Eraclito Prima della filosofia platonica, la parola aion (“αιών”) significava tempo, arco della vita, vita come spazio temporale definito. Indicava cioè, essenzialmente, i margini di vita assegnati a ciascuno di noi dal Fato (“Ειμαρμένη”). Euripide menziona l’aion come il Pais del tempo (figlio o fanciullo del tempo). Da questo riferimento vediamo che l’aion, come Pais che gioca, è un segmento in scala, ridotto, del più ampio concetto di tempo. Il tempo può essere distinto in tempo ultraterreno e terreno. Il primo è immobile, fisso, mentre il secondo nasce dal movimento celeste. Si tratta di un moto che assomiglia a una danza attorno al padre-creatore, che si ripete un infinito numero di volte. Una parte di essa resta ferma mentre l’altra ruota ciclicamente e torna al principio. La parte che ruota ciclicamente in realtà non è una ma molte, e ciascuna è legata a una specifica funzione in rapporto all’insieme degli esseri. Essa danza come còro, “gruppo di danzatori” (da “χορóς”), ed è chiamata cronos, da còro+noùs, o noùs danzante (“νοῦς” è intelletto, ragione).

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In entrambi i casi, il tempo è l’elemento base della seconda creazione, come afferma Proclo. Esso unifica il passato, il presente e il futuro. Le unità di tempo sono i corpi celesti, attraverso i quali gli esseri comprendono la sua funzione, che genera la loro redenzione. I veri movimenti delle stelle e del ciclo celeste, le danze cosmiche del noùs danzante che conduce gli esseri alla pienezza, possono essere concepiti solo attraverso l’energia del noùs o intelligenza (diànoia), e del logos. Il logos esprime la causa della creazione (il creatore), mentre l’intelligenza/diànoia (“διάνοια”) esprime la gnosi, la conoscenza interna del creatore stesso, che riguarda le due categorie del tempo, e – da ciò – la funzione di realizzazione o compimento degli esseri. La velocità di questi moti ontologici è l’unica realtà, e poiché diventano percettibili da parte degli esseri solo in virtù del noùs, la coscienza deve aver conquistato tale velocità. Nell’astrofisica moderna, lo spazio e il tempo sono un unico continuum spaziotemporale. L’universo è uno e indivisibile, come già affermato da Pitagora, per il quale il tempo è l’anima del tutto, l’anima dell’universo. Quando diciamo che l’aion (“αιών”) è un fanciullo che gioca con le pedine (pessoi)1, diciamo che sostanzialmente si cimenta in un gioco di topologia, collocando ciascuna pedina in uno specifico spazio-tempo. Quello delle pedine degli scacchi è un gioco di topologia, a differenza di quello dei dadi (o degli astràgali)2, basato sulla casualità. L’aion situa i corpi celesti in un luogo e tempo specifici, e gli esseri in tal modo “rivivono i rituali d’ingresso e di dipartita propri delle liturgie arcaiche”, disseppellendo i semi terreni di una memoria che ha origine e si riconosce nelle stelle. Dioniso, in quanto signore e maestro della seconda creazione e colui che regge lo scettro del regno divino assegnatogli dal padre degli uomini e degli dei, Zeus, è essenzialmente colui che guida, regola e gestisce il tempo; governa la funzione relativa alla pienezza, al compimento degli esseri. Così l’originario fanciullo divino, su una scala specifica, è l’aion in quanto tempo, e si occupa di completare la coscienza degli esseri, e detiene questa funzione come re DionisoPais (re Dioniso fanciullo). Nell’organismo umano, l’idea di coscienza si situa nell’encefalo: il midollo spinale è parte del sistema nervoso centrale, il cui centro a sua volta è l’encefalo: il midollo parte alla base del cervello (ne rappresenta una continuazione) e termina all’altezza della vita. I nervi che da esso si dipartono sono formati da neuroni di tipo cinetico e sensoriale. In altre parole, il midollo spinale è quell’organo che si incarica di dare all’uomo e alla sua coscienza le prime sinapsi mentali, attraverso i sensi. L’antico vocabolo per indicare il midollo spinale era aion, “ αιών”! (Dizionario di lingua greca: Pappe-Passow-Koumanoudi & Suda Dictionary). Platone, nel Timeo, così si esprime: “gli dei, imitando la forma circolare dell’universo, racchiusero i due cerchi in un corpo sferico detto capo, che è 246


la parte più sacra del nostro corpo”. Questi due cerchi sono quello di Tauton e quello di Thateron. Come dice Proclo, il ciclo di Tauton è il meridiano celeste, e quello di Thateron è l’ellisse o zodiaco su cui i pianeti si muovono, ed è posta in diagonale rispetto al meridiano. Il cerchio inclinato composto da sette cerchi più piccoli è il cerchio platonico di Thateron. L’altro, il meridiano celeste, è il cerchio di Tauton. Pertanto, nell’uomo la funzione della coscienza svolta dall’encefalo (cervello) e dal midollo spinale/aion è legata direttamente alla proiezione macrocosmica dell’universo. Il microcosmo (la coscienza umana) e il macrocosmo (Aion-Pais-Dioniso) sono uniti e indivisibili. Come disse Plutarco: “colui che può connettere tra loro le cause in un unico sistema che le tiene allacciate, in accordo con le leggi naturali, sa e prevede tutto ciò che è, che sarà, che fu”. In termini terreni, l’aion/eone misura cento rivoluzioni della Terra attorno al sole. Una generazione umana occupa 1/3 di un eone, ovvero 33 anni solari, all’incirca. Tale analogia corrisponde ai soggiorni di Dioniso e di Apollo a Delfi, da dove Apollo si assentava per tre mesi ogni anno per recarsi nelle terre degli Iperborei, venendo sostituito da Dioniso. In altre parole, l’analogia circa la permanenza degli dei a Delfi si pone come 3 (Dioniso) in rapporto a 9 (Apollo), e 3/9 = 1/3. Ciò può corrispondere all’analogia fra il sensorio e il mentale. Ci si può rendere quindi conto che il divino Pais prepara la via per il futuro mutamento della coscienza umana. È l’interezza e compiutezza che sopravviene alla coscienza umana, e ciò spiega perché essa crea la sua propria topologia. Il mutamento della coscienza è il più affascinante atto di intelligenza riscontrabile nell’imminente futuro, perché da questo nascerà un mondo nuovo (come un altro Pais), un mondo che è impensabile per coloro che non sanno di geometria. Giochiamo, dunque, nel vortice del gioco cosmico, con il Divino Fanciullo, che tesse come Persefone-Kore, e a volte conduce a buon fine grandi cose come Dioniso fanciullo, oppure compie magnifiche gesta come Alessandro-Pais. Benedetti sono coloro che prendono parte al gioco cosmico del divino fanciullo, nella topologia nel-tempo propria della coscienza. Traduzione dall’inglese di Marco Giovenale

1 Pessoi: antico gioco basato su pedine, come gli scacchi, o come il moderno backgammon. 2 Il gioco degli astràgali si basava su tre dadi, lanciati da un cono. Il lancio migliore era detto

Afrodite e consisteva in tre 6, mentre il peggiore era chiamato Kion (“cane”) e consisteva in tre 1. 247


VASILE AVRAM SPAZIO PRIMORDIALE

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Un luogo che potrebbe essere definito, senza riserve, spazio primordiale. Una strana isola che sorge dal mare come un gigante di granito, supremo respiro di Gaia mentre cerca nei frammenti della sua esistenza uno spazio pronto per l’inizio di un nuovo mondo. Non deve sorprendere che qui si trovi la più strana fonte di Miti. Questi prendono forma dagli originali misteri dei Cabiri e legano l’essere umano ai segreti della Terra, dalle cui viscere sorgono le forze che danno significato alla vita, come in un Athanor di dimensioni cosmiche. Un’isola abitata in illo tempore da una popolazione i cui sensi erano aperti verso due infinità – le stelle del cielo e le stelle della profondità della terra – verso il macrocosmo e il microcosmo, al suono della musica delle sfere e delle pulsazioni dell’erba che si leva da un suolo arso da fuoco vulcanico. Una popolazione che non edificò solamente una cittadella difesa da ciclopiche mura, costruite con pietre strappate alle montagne, ma che fu anche artefice di un modello in grado di integrare l’uomo nei misteri cosmici, come fecero nella stessa epoca Egizi, Sumeri, Micenei e Traci. Non deve sorprendere che il mondo antico nella sua interezza, da Omero e Erodoto fino a Plutarco e Strabone, fosse affascinato dai riti che celebravano i poteri dei Grandi Dei alchimisti di Samotracia, perché proprio da qui Poseidone seguì lo svolgimento della guerra di Troia; qui il re Filippo di Macedonia trovò Olimpia, colei che avrebbe messo al mondo, con delle nozze cosmiche, Alessandro Magno; qui Arsinoe costruì un tempio sferico consacrato ai misteri primari fondati sullo strano magnetismo della pietra di porfido che giungeva dalle profondità della Terra; qui venne rivelata la vera immagine della Dea più meravigliosa che lo spirito umano abbia conosciuto – la Nike alata – sostenuta dai venti che mai smettono di soffiare sull’isola. Brano tratto dal discorso tenuto in occasione del simposio Pais 96, Isola di Samotracia, il 27 luglio 1996 e pubblicato nella Transilvania Review 1-2-3/1996

Traduzione dal romeno di Emil Matei Videa e Ileana Daian Traduzione dall’inglese di Gabriele Ferracci

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DORES SACQUEGNA VIAGGIO A SAMOTRACIA

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Samotracia è un’isola dell’Egeo, di 178 kmq, con al centro il Monte Fengari (1611 metri). Per arrivarvi è necessario prendere un traghetto da Alexandropolis. La navigazione dura circa due ore. Circondata dal mare, è nota anche come isola dei venti. Dal 700 a.C., è stata uno dei più grandi centri di culto pre-ellenico di tutta la Tracia, regione ai margini dell’Ellade e luogo di diffusione di credenze magiche e sciamaniche del mondo della Grecia classica. Tracia, dal greco threskeia, vuol dire “culto reso agli Dei”. Un luogo intriso di Mito e di pace. Il suo aspetto selvaggio ti resta dentro. I reperti archeologici ritrovati sull’isola sono famosi in tutto il mondo, e tra i tanti è famosa la scultura alata Nike, comunemente conosciuta come la Vittoria di Samotracia, la cui statua è conservata nel Museo del Louvre, a Parigi. Un’antica leggenda narra di una pietra magnetica chiamata Heraclia. Il rito di iniziazione avveniva tramite degli anelli magnetici localizzatori di energia, che gli iniziati dell’epoca si scambiavano e in questo modo la distribuivano ad altri iniziati. Una sorta di catena energetica. In termini scientifici e alla luce di studi sulla fisica, possiamo spiegare l’energia dell’isola come un campo di forze elettromagnetiche, localizzatore di energie cinetiche opposte, una sorta di contenitore di conservazione di energia, che gioca sulla velocità dei venti (campi vettoriali), sulle sorgenti ambientali, le radiazioni ottiche della luce e le particelle elettromagnetiche presenti in natura. Oggigiorno è facile comprendere la potenza delle forze della natura, grazie alle moderne tecnologie e ai sistemi di generazione e trasformazione dell’energia. La presenza sull’isola di cascate, centri termali, natura rigogliosa, mare e vento, fattori di densità geografici, ciclici e abiotici, possono aver trasformato questo luogo in una sorta di conduttore magnetico. Non a caso si narra che nel Santuario dei Grandi Dei (in greco Hieron ton Megalon Theon) si celebravano i riti Cabirici, dedicati al culto dell’energia cosmica. Poche le informazioni pervenute al riguardo, se non quelle che legano il loro culto a quello della Grande Madre, da cui tutto ha avuto origine. Questo tipo di culto era già conosciuto tra gli etruschi e gli antichi romani, e in molte altre culture, come quella dell’antica Sardegna. Pais, è una parola greca che significa “bambino”. È incisa negli utensili sacri e votivi presenti nel Museo di Paleopolis a Samotracia, non lontano dal Santuario degli Dei. Documentandomi sul Pais e su Eraclito, ho letto che, nell’iconografia popolare, l’eternità è rappresentata da un bambino con il cerchio dello zodiaco o un serpente avvolto intorno al corpo. A questo proposito, Eraclito dice: “L’Eone è un bambino che gioca… Di un bambino è il regno del mondo”. Un Pais-bambino divertito e curioso che at251


tende di essere rivelato o di rivelarsi in un viaggio a ritroso nel tempo, in quella dimensione spirituale e intellettuale che esiste dentro di noi da sempre, uno spazio atemporale di rigenerazione del corpo e dello spirito. Personalmente, credo di aver vissuto un’esperienza intensa e straordinaria, che mi ha rigenerato internamente e mi ha “caricata” di una strana energia magnetica. A Samotracia ho scoperto il mio tempo interiore e senza lancette, lontano da ogni condizionamento. Viaggiatrice in un mondo sconosciuto, in cui si afferma l’inscindibile legame tra anima e corpo, tra naturale e divino, tra essere e non essere, tra negativo e positivo, tra Yin e Yan, sono entrata in contatto con qualcosa di grande e di indecifrabile che è ancora accanto a me, e che mi guida ogni giorno verso nuove mete.

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ARTISTI A SAMOTRACIA

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Eozen Agopian – Time Between Space

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Eva Vevere – Dawn Manuscripts

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v George Syrakis – Enigma

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Pam Longobardi – Warrior Child

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DOSSIER SECONDA PARTE IL FANCIULLO DIVINO

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CARLA STROPPA GIOCARE PER VIVERE

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“Il mondo è il gioco di un fanciullo che scompone e ricompone i pezzi di un puzzle” (Eraclito, frammento 52). Lo diceva Eraclito con folgorante intuizione. È il genere di intuizione ancora integra e visionaria che appunto appartiene al fanciullo: al bambino piccolo che giocando compone e ricompone il suo mondo interiore, lo esplora, lo cura mentre rivolge al mondo esterno il suo sguardo ancora colmo di stupore e di curiosità. È così fino a quando la necessità di adattarsi all’ambiente adulto cambia la prospettiva, pone limiti e confini inevitabili, ma nella misura in cui non traghetti il cuore in un altro spazio di speranza e di creatività, fa vacillare tutto quanto: il senso di sé e del mondo. Dell’originaria intuizione di un tutto internamente scomponibile e ricomponibile narrano i miti e le leggende che si riferiscono al fanciullo spirituale, quello eterno che inesausto continua ad abitare il cuore umano a fronte di ogni consunzione della memoria, dell’ideazione e dell’esperienza tutta. A fronte della consunzione della vita e di sé. Come riesca a farlo è un mistero, ma certo il fanciullo, quello in carne ed ossa che non sia già tanto ferito e alienato da aver perso il contatto col suo doppio spirituale, gioca sempre il suo gioco. Ostinato e incurante, cocciuto e sublime, persegue un ludico e serissimo fine: attirando le cose inanimate nel cerchio magico della sua fanciullesca illusione, riversa in esse la sua anima ancora intera e così il mondo là fuori prende vita e senso, si anima appunto, ed è così che il gioco del bambino si fa specchio trasparente del gioco serissimo del dio che dal fondo dell’anima scompone e ricompone le passioni umane per propiziare via via una superiore coscienza conoscitiva. Avete mai guardato veramente un bambino giocare? Non lo avete mai osservato nella sua concentrazione assoluta? Non avete mai notato come prende sul serio la sua finzione sapendo tuttavia che è finzione e che quando il gioco finirà le cose ordinarie riprenderanno il loro corso? Sì, riprenderanno il loro corso e il bambino lo sa perfettamente, ma fintanto che dura l’illusione ludica, la vita ordinaria rimane in sospeso, può attendere, e proprio dentro questa sospensione fluiscono le domande più intime e importanti, le emozioni più vere, le intuizioni più fertili, la visione del mondo che preme per esplicitarsi. Per questo il bambino indugia, vuole prolungare il gioco; per questo resiste ai richiami della realtà ordinaria. Mentre con la sua immaginazione anima gli oggetti inanimati del mondo esterno, fa esperienza della sua stessa anima, cioè a dire del sentimento più integro e centrale di sé. Il fanciullo, proprio come un dio, crea il tutto dal nulla. Possiede una capacità visionaria che lo rende simile al poeta e all’uomo spirituale. Diceva G. B. Vico: “Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione, ed è proprietà dè fanciulli di prender cose inanimate tra le mani, e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive”. (G. B. Vico, Scienza Nuova, Utet, Torino, 1976, p.328). Non a caso il gioco è stato assimilato al sacro: sono entrambe dimensioni speciali dell’esistenza che si connotano per un’intensità intima e segreta del sentire e si dispiegano in uno spazio 260


separato, altro, che tuttavia fluisce nella vita di tutti i giorni e le offre un senso. Il fanciullo, il filosofo visionario e l’uomo spirituale, ciascuno con il proprio linguaggio, dicono la stessa cosa e stanno lì ad indicare l’inizio e la fine del tempo, che nella misura in cui percepiscono come circolare, immaginano alveo di speranza e di nuovi cominciamenti. Può sembrare un paradosso eppure è così: a differenza del moto lineare che termina con un punto di arrivo definitivamente lontano da quello di inizio e dunque assimilabile alla morte di ogni cosa che è stata viva, il tempo immaginato come movimento circolare oltrepassa la consueta concezione causale ed evoca piuttosto l’idea di eterna trasformazione. No, non il sempre uguale a se stesso che ritorna in modo ossessivo; non l’eterno ritorno dell’eguale senza resti, senza avanzamenti. È vero il contrario esatto: il punto di arrivo del moto circolare coincide con la possibilità di un nuovo giro, un po’ più ampio del primo e via via a tracciare idealmente la figura di una spirale che crescendo in tondo abbraccia porzioni sempre più ampie di esperienza e di consapevolezza. Alla fine del giro il percorso prosegue su un altro piano e così propizia un nuovo inizio. Il suo moto non può prescindere dalla possibilità di riattingere a quel tanto di fantasia e di energia primarie, certo mutate e ferite dal tempo – chi potrebbe negarlo senza apparire stupido? – senza le quali tuttavia non si riuscirebbe a imprimere nessun nuovo impulso alla vita e alla trasformazione di sé. Finisce un giro di vita e i bilanci non sono sempre positivi, ma i suoi temi di fondo ritornano in superficie proprio in quei momenti e vengono rilanciati, rielaborati con cognizione dei limiti, delle ombre e delle spaccature non più ricomponibili, certo, tuttavia sempre dentro un gioco che, mentre allontana il giocatore dall’origine incontaminata in cui abita il fanciullo, non la dimentica affatto, al contrario ad essa sempre ritorna per rilanciare l’ideale di interezza che conteneva, in un’altra ruota di valori e di speranza. Non è facile entrare in questa rappresentazione – che la caducità e la linearità del tempo contingente fanno apparire del tutto vana e utopica – ma è proprio questa la rappresentazione del fanciullo che solo giocando col suo roteante giocattolo può mimare la vita e la speranza di un ancora. Se non la immaginasse eterna (la vita), se non la immaginasse come un flusso che oltrepassa la sua vita individuale, ma con un senso che in parte conosce perché sempre ritorna; se il fanciullo non potesse collegare la sua anima individuale a quella del mondo, non avrebbe una vera ragione per scomporre e ricomporre i pezzi del puzzle, cercando sempre una forma migliore, ovvero quella che meglio si avvicina all’essenza del suo intimo sentimento che si esplicita man mano a partire dal continuo confronto col sentimento degli altri. E certo il suo gioco mima anche la morte, la scomposizione insanabile, il dolore, che della vita sono parti integranti e di cui egli fa via via esperienza. Il fanciullo evade, giocando, dalle opache contingenze, ma lo fa per una sorta di paradossale e vitale necessità: occorre saper prendere le distanze dalle parvenze alienanti che la normatività della vita ordinaria impone 261


come realtà unica. Lui non crederà mai che quella è l’unica realtà e con la sua ludica finzione cercherà sempre di propiziare una straordinaria funzione psichica: quella dell’anima che, mentre ricompone le lacerazioni del mondo interiore, colma l’inalienabile bisogno di assoluto che il cuore ospita. È così che il bambino chiama a sé il suo doppio divino: giocando si collega spiritualmente con Dioniso, il fanciullo che come narra il Mito greco viene fatto a pezzi dai Titani proprio mentre gioca con lo specchio e con la trottola, questi giocattoli altamente simbolici: riflettente il primo, straniante ed estatico nonché pericoloso il secondo, per via di quella rotondità roteante che evoca la vertigine dell’altrove estatico e la perdita dell’Io. In ogni caso simboli iniziatici. Abbondante e affascinante la letteratura a questo proposito. Basti pensare, tanto per fare un esempio, ad alcuni racconti di Kafka e di Savinio (F. Kafka, La trottola, in Racconti, I Meridiani Mondadori, Milano 1970, p. 451; A. Savinio, Nuova enciclopedia, Adelphi, Milano, p. 205-210), che girando attorno al simbolismo della trottola, ripropongono alla riflessione della mente adulta l’iter dell’umano disorientamento e della ricerca di un senso trascendente che proprio da questo disorientamento prende avvio. L’esistenza sognata attraverso l’immaginario del fanciullo si dispone lungo un continuum di sentimento e di pensiero ad andamento circolare potenzialmente infinito, fatto di giri fra l’interno e l’esterno, di affondi negli abissi dell’umano dolore e della memoria e di rinvii a un trascendente che ricomponendo sul piano spirituale quello che non è possibile ricomporre su un piano concreto, ospita la speranza e rende vivibile la vita. Dioniso sì, è lui il bambino divino simbolo per eccellenza dell’originaria frammentazione e della ricomposizione su un piano superiore; lui con tutta la sua esasperante duplicità, metà animale e metà dio, fanciullo fragile e antico sapiente. Lacerazione ed estasi: metafora perfetta dei punti terminali delle opposizioni di cui l’anima umana è portatrice. Fra le tensioni di queste polarità l’Io è costretto a forgiarsi trovando via via mediazioni col mondo esterno, ma senza dimenticare il fanciullo: origine e meta di ogni percorso umano. Non si ritorna forse a essere fragili ed esposti in vecchiaia? Bisognosi di affetto e cure? Bisognosi di una qualche speranza in un altrove? Inutile negarlo: anche il desiderio di avere figli risponde a questo bisogno di circolarità della vita; anche lasciare una traccia di pensiero e opere sperando che qualcuno raccolga gli spunti e li rilanci a suo modo, portandoli avanti. Come diceva Giorgio Colli, Dioniso è la “cifra archetipica della sapienza” (l’argomento è trattato in C. Stroppa, La luce oltre la porta, nel capitolo La terra dell’anima, Moretti e Vitali 2010). Il medesimo continuum di sentimento e di visione che sostiene il gioco del bambino, sostiene il pensiero della mente filosofica, la speranza di quella religiosa e l’afflato lirico di quella poetica: assorbite ciascuna a proprio modo nella riflessione sul senso della vita – quella riflessione che lo specchio di Dioniso fanciullo anticipava – rilanciano la concezione circolare dello spazio e del tempo che appartiene al mito dell’infanzia e al fanciullo 262


divino che ne è nume tutelare. Le scene e i sentimenti originari vissuti dal fanciullo quando era ancora intero e inconscio, determinano la sostanza del pensiero e delle scene successive della sua vita. Almeno quelle che contano: quelle che riescono a sfuggire all’ideazione ordinaria per attingere alla profondità della vita interiore, quando una speciale intensità del sentire e del vedere costringe l’Io volitivo a lasciare la sua presa sulle cose. È allora che “presenza e memoria stanno fianco a fianco di fronte alla coscienza: sicché il pensiero o l’immagine veduta creano simultaneamente l’esperienza di un ricordo, di un’attesa e di un presente”. (Luisa Colli, La morte e gli adii, Moretti e Vitali 1999, p. 81). I tre tempi dell’anima si rendono trasparenti in quei rari momenti. Il poeta lo sa dire con parole evocative: Di ritorni è dunque fatta la vita,/o agra ballatetta,/di false ripetizioni, vecchie e nuove. (Luigi Fontanella, Terra del tempo, Book edizioni, 2000, p. 69). E: Nella rilettura c’è il tuffo/ all’indietro di tanti momentialcova/ la costruzione esatta e diversa/ d’una geografia interna/ pronta a slittare altrove, infiniti/ ripostigli che si aprono allo sguardo/ rapito di un vecchio bambino, un riposo/ prolungato si anima di colpo/ a nuove avventure: così/ tutto ricomincia a parlare/ in un tempo che imita se stesso./ Allora la morte è davvero solo un accidente, un pretesto. (Luigi Fontanella, Ceres, Caramaica Editore, p. 63). C. G. Jung, che all’archetipo del fanciullo divino ha dedicato molta della sua riflessione, diceva nel 1940: “È un sorprendente paradosso di tutti i miti del fanciullo che questi, se da un lato è consegnato inerme a ultrapotenti nemici ed è minacciato da un continuo pericolo di annientamento, dall’altro dispone di forze che superano di gran lunga ogni dimensione umana. Questa caratteristica è strettamente connessa con il fatto psicologico che il fanciullo da una parte è ‘insignificante’, sconosciuto, ‘soltanto un fanciullo’, dall’altra è invece divino”. (C. G. Jung, Psicologia dell’archetipo del fanciullo – Opere, IX, 1, Boringhieri, Torino, 1983). È divino il fanciullo perché, a dispetto di tutta la sua fragilità, solo lui sa mantenere il contatto originario con il Tutto. E sempre sa riproporlo. Sebbene alla fine di ogni giro di vita la coscienza senta forte il peso dell’esclusione dal suo regno senza tempo, lui, rintanato in fondo al cuore, continuerà a sussistere e assorto nella sua visione farà ancora girare la trottola: e così sarà il fanciullo – staffetta che raccoglierà le consegne dello spirito adulto e propizierà nuovi inizi, fosse anche quello della speranza di passaggio a un’altra dimensione dopo la morte.

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GIANLUCA CAPUANO AION PAIS PAIZON: IL TEMPO È UN FANCIULLO CHE GIOCA Interpretazioni a partire da un frammento di Eraclito

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Pochissimo sappiamo di Eraclito, eppure, figura di spicco tra i cosiddetti “filosofi della natura”, le sue sentenze ermetiche hanno profondamente influenzato il pensiero occidentale. Uno dei frammenti attribuiti al filosofo (DK 52, C. 18) recita: “Aion pais esti paizon pesseuon paidos e basileue” che Giorgio Colli traduce: “La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi su una scacchiera: reggimento di un fanciullo”, mentre Gabriele Giannantoni: “Il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo”. Aion è il concetto cardinale che qui il filosofo greco vuole definire. Il termine indica il tempo cosmico (da esso derivano Aevum, Eone); nella cosmologia greca è altra personificazione del tempo, insieme a Chronos. Epifanio di Salamina (IV sec. d.C.) riferisce che in Egitto i pagani festeggiavano la vittoria della luce sulle tenebre celebrando la nascita di Aion generato dalla vergine Kore. L’immagine di un bimbo veniva processionalmente portata al Nilo dove si raccoglieva l’acqua che si sarebbe trasformata in vino. In altri culti misterici, i sacerdoti rinchiusi nei templi ne uscivano a mezzanotte annunciando la nascita del Sole da una vergine. E il Sole veniva raffigurato come un bambino. Oltre alle evidenti assonanze con il culto cristiano che molto deve ai riti misterici, l’immagine del tempo associata a quella di un infante ci riporta al frammento eracliteo, remota origine di questo complesso apparato simbolico. L’idea del tempo-fanciullo appare più volte nell’opera di Friedrich Nietzsche. Ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci l’Aion-Pais diviene immagine per la rappresentazione dell’artista: “Un nascere e un perire, costruire e un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano in un’innocenza eternamente uguale – si ritrovano in questo mondo solo attraverso il giuoco dell’artista e del fanciullo. Come giocano il fanciullo e l’artista, così il fuoco eternamente vivo gioca, costruisce e distrugge in piena innocenza. Questo è il giuoco che l’Eone gioca con sé stesso. […] Un attimo di sazietà, e poi egli è colto di nuovo dal bisogno, così come l’artista è costretto a creare dal bisogno. Non è la scelleratezza, bensì è l’impulso a giocare, risorgente sempre di nuovo, che suscita alla vita altri mondi. Talvolta il fanciullo getta via il suo giocattolo, ma tosto lo riprende, per innocente capriccio. E non appena costruisce, egli collega, adatta e forma in obbedienza a una legge e in base a un ordine intimo. Soltanto l’uomo estetico può contemplare il mondo in questa maniera […]. Eraclito non ha alcuna ragione per dover dimostrare (come accadde invece a Leibniz), che questo mondo è addirittura il migliore di ogni altro: a lui basta dire che esso è il gioco bello e innocente dell’Eone. […] Eraclito descrive soltanto il mondo esistente, e trae da esso il diletto contemplativo con cui l’artista contempla il sorgere della sua opera”. Non c’è connotato morale nel gioco, esso si svolge in un clima di totale innocenza. La spinta a rinnovare il gioco, come nella creazione artistica, deriva dal semplice bisogno che si ripresenta eternamente uguale a sé stesso. E il gioco, come l’arte, crea mondi nuovi, li porta alla luce su265


scitando la meraviglia di chi osserva. L’immagine del gioco in Nietzsche corrisponde perfettamente a quella di mondo, che il filosofo pensa scevro da ogni ordine morale, privo di finalità, libero, gioioso, rispondente solo alle sue proprie regole interne. L’influsso di Wagner e Schopenhauer si avverte fin nelle minime pieghe del testo nicciano: è l’artista il solo ad attingere all’essenza del mondo (che è volontà), e questa essenza è perfettamente simile al gioco, immagine del divenire del tutto. Il mondo del fanciullo/tempo è un mondo in cui non si dà distinzione tra vero e falso, tra apparente e reale. Nel capitolo Delle tre metamorfosi del Così parlò Zarathustra Nietzsche riporta al centro della scena la figura del fanciullo; il percorso che conduce l’uomo a divenire superuomo passa attraverso tre stadi, il cammello (la rinuncia a tutto e la presa in carico della decadenza del mondo), il leone (lo spirito che si crea lo spazio per l’accoglimento di valori nuovi) e infine il fanciullo: “ Innocenza è il fanciullo, e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì”. Unschuld, Vergessen, Neubeginnen, Spiel nomina Nietzsche le determinazioni del nuovo uomo che prefigura il mondo a venire, e ancora ein aus sich rollendes Rad, eine erste Bewegung, ein heiliges Ja-Sagen, adombrando insieme salvazione cristiana e terminologia teologica aristotelica. Il gioco, come il mondo, risponde alle proprie regole interne, come una “ruota rotante da sola” senza un motore esterno che la metta in movimento; il “sacro dire di sì” è accettazione del mondo così com’è, è amor fati. Il mondo, in più passi dell’opera nicciana paragonato al tavolo dei dadi, è la scena per gli avvenimenti del caso che viene eternamente amato e desiderato dall’uomo-giocatore. Amato al punto da volere che si ripeta eternamente in un circolo, l’eterno ritorno dell’uguale, struttura portante del tempo/mondo/Aion. Ecco dunque il portato filosofico della sentenza eraclitea che si colloca nel cuore dell’operazione post-metafisica nicciana. Il concetto di gioco torna centrale nell’opera capitale di Eugen Fink (1905-1975), Il gioco come simbolo del mondo (lo citeremo dalla traduzione di Nadia Antuono, Roma 1969). Fink, allievo di Husserl e Heidegger, quindi ideale erede e prosecutore del pensiero di Nietzsche, utilizza il gioco come elemento di rottura nei confronti della tradizione ontometafisica platonica: “ Il nostro compito sta nel diffidare […] della vittoria concettuale che la metafisica avrebbe riportato contro il gioco. […] il gioco e il bello sono situati [dalla metafisica] nella medesima classe d’essenti, cioè su di un gradino inferiore a quello della verità”. Il gioco in Fink viene interpretato come la “ragione nascosta, ragione che si occulta nel sensibile, attraverso il quale lascia risplendere la verità”. Questa definizione è molto vicina al concetto nicciano di volontà di potenza, ovvero alla lettura del mondo come una massa di forze senza principio e senza fine che non aumenta e non diminuisce, un gioco di forze senza soggetti e senza oggetti. Il mondo è senza fondo, un abisso (Abgrund) spalancato in cui si muovono queste forze eterne. 266


Dunque il gioco non va pensato come un “oggetto” del mondo, ma come la sua dimensione originaria. Il gioco del mondo, come il mondo stesso, è senza soggetto, è un gioco non giocato ma giocante, nel senso che opera quella apertura originaria sull’essere che è all’origine del soggetto stesso. Sullo sfondo di questa interpretazione troneggia il pensiero heideggeriano che porta a tema il linguaggio: l’uomo non è il padrone del linguaggio, non ne è il suo soggetto: piuttosto l’uomo è detto attraverso il linguaggio, è detto dal linguaggio; la verità e il mondo non sono “nell’uomo”, è l’uomo che trova il suo “luogo” nella verità, nel mondo e nel linguaggio. Siamo dunque di fronte a un decentramento dell’uomo rispetto alla collocazione centrale per lui pensata dalla metafisica, e il gioco rappresenta nel modo migliore il rischio, l’inquietudine di sé, la perdita di un soggetto regolatore. Il gioco senza soggetto è perfettamente incarnato dal gioco giocato da un bambino, che, innocente e in-fante (ovvero alla lettera “non ancora dotato di parola”), è a uno stadio dell’esistenza umana in cui ancora non pretende di porsi come centro regolatore e scaturigine di linguaggio e verità. Il fanciullo di Eraclito gioca ai dadi e il tempo è il suo regno. Così Fink legge la sentenza eraclitea: “Tutto l’ente, in quanto ente governante, viene definito simbolicamente ‘ bambino che gioca’, Pais paizon. La creazione più originale ha il carattere del gioco. L’universo governa come gioco. […] Ma dove e quando si attua questo gioco? Lo si può situare in qualche luogo o in qualche momento? Ciascun luogo e ciascun momento sono già occupati da cose nel mondo. Fra le cose non si presenta mai e in nessun luogo il gioco universale. Questo gioco di cui parla Eraclito non esiste, dunque? […] Che il gioco universale di Eraclito non si presenti mai e in nessun luogo in ciò che è dato, ha la sua ragione nel fatto che esso si esaurisce nel dare, che è l’onnipotenza che porta a compimento tutto l’ente, che gli concede luogo e durata. […] Eraclito ha usato più o meno casualmente il gioco umano come ‘metafora cosmica’ – avrebbe potuto servirsi altrettanto bene di un’altra similitudine? O forse il gioco dell’uomo, preso come fenomeno, rinvia implicitamente al tutto universale? Il gioco è essenzialmente determinato da una funzione rappresentativa. In effetti è questo il punto: ed è la ragione più profonda della similitudine cosmologica di Eraclito. […] Per Eraclito dei e uomini stavano in rapporto al ‘fuoco perpetuo’, erano imitatori e creatori subordinati della prima potenza creatrice. La loro forza poietica si fonda sul gioco del mondo. Da allora furono essenzialmente dei giocatori. In quanto dei e uomini traevano la loro esistenza dal rapporto cosmico, la diversità che li separava era sì grande, ma non invalicabile, come mostra il frammento 62 di Eraclito [cioè quello che stiamo esaminando]. Però quanto più il rapporto comune degli dei e degli uomini col mondo non viene più appositamente pensato, tanto più forte incalza la distinzione fra divini e mortali; l’essenza umana viene quindi interpretata sulla distanza da Dio”. (p. 29-30). Cosa dice Fink in questa pagina densa che ci riporta al 267


senso originario della sentenza di Eraclito? Parte da una affermazione che ci fa sobbalzare: il fanciullo non è altri che l’ente nella sua totalità, come a dire quindi che il tempo (Aion) è determinato dal movimento dell’ente, l’ente che governa la modalità d’essere del mondo. Il gioco sembra essere la ratio interna della creazione e dell’universo intero. Il gioco del Pais non è da intendersi come il gioco umano, che in quanto tale è situabile nel tempo e nello spazio, bensì è all’origine della nozione di tempo e spazio (“si esaurisce nel dare” luogo e durata all’ente). Ora, il gioco ha grande forza rappresentativa, ed è questa la ragione per la quale funziona perfettamente a descrivere il momento sorgivo dell’ente. Il rapporto di uomini e dei col “fuoco”, origine del tutto nel cosmo eracliteo, sembra essere regolato a immagine del gioco, ed è il gioco stesso dunque il tratto comune che unisce uomini e dei nel mondo: essi sono giocatori. Una volta spezzato questo tratto originario comune, ecco che prende il via il mondo disegnato dalla metafisica, in cui la distanza dal divino è esattamente l’elemento che definisce la condizione umana. Più avanti Fink, come già Nietzsche, identificherà in Platone (per essere più precisi Nietzsche accuserà Platone attraverso Socrate) colui che, sancendo un’accezione esclusivamente “umana” del gioco, e ponendo così nell’oblio il significato cosmico attribuitogli da Eraclito, accantona ogni interpretazione di stampo “mitico” per sostituirla con l’impianto definitorio: senso avrà solo ciò che sia sottomettibile alla domanda socratica: “ti estì”, “cos’è questo?”. Una sentenza misteriosa che risale agli albori del pensiero greco si è rivelata molto feconda per alcuni filosofi che si propongono come compito quello di superare la metafisica platonico-aristotelica. Sia Nietzsche, il primo grande a rompere con questa tradizione, che Heidegger e i suoi allievi intravedono nelle parole brevi ed enigmatiche dei cosiddetti “presocratici” il resto di una sapienza antichissima che poi si corrompe e adultera con l’arrivo del pensiero definitorio. Risalire e abbeverarsi a questa sapienza originaria resta un compito ineludibile per chiunque abbia a cuore le sorti del pensiero.

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MAURIZIO MAROTA IL FANCIULLINO PASCOLIANO UNA VIA DI RISCATTO E PALINGENESI PER L’UOMO MODERNO

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Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta. Giovanni Pascoli Le prose pascoliane de Il Fanciullino sono da sempre considerate importanti al fine di conoscere il pensiero del loro autore intorno all’arte poetica. Esse sono anche servite come strumento di indagine di molti componimenti del Pascoli stesso. Il discorso che le caratterizza, però, sapido e denso in non pochi punti, traslato e metaforico in altri, può prestarsi a sensi e percorsi diversi di lettura. Certamente quello estetico è il principale, rappresentando il tema che salta subito evidente all’attenzione del lettore e che costituisce la ragione di nascita delle medesime prose. Ma vi è anche, da individuarsi tra le righe, una sfumatura morale, tutt’altro che difficile da cogliere da parte di chi sa procedere con passi accorti e lenti nel fitto e profondo bosco della scrittura pascoliana. Nell’incipit di tale operetta si legge che “è dentro di noi un fanciullino”. In realtà l’autore prende spunto da un passo del Fedone platonico, quello in cui Socrate rimprovera ai suoi interlocutori di avere paura, al pari di fanciulli, della morte. Cebete, un personaggio del dialogo, aggiunge che forse non sono loro, ad aver paura, ma il bambino che è in loro. A questo punto potranno sorgere molte domande circa la natura del fanciullino pascoliano. Ci si potrà infatti chiedere se possa essere identificato con l’alter ego dell’individuo, oppure con la voce della sua coscienza, se non addirittura con il suo inconscio. Per noi, impegnati nella scrittura di queste righe, sarà da prendere come un discorso metaforico da spiegare non in termini psicologici o psicanalitici, non essendo, il presente intervento, la sede più opportuna per cercare di rispondere a tali domande. Sta di fatto che a Pascoli interessa affermare, attraverso il suo famoso scritto, quella che per lui è una grande verità: esiste in noi un angolo, una zona d’anima, che ci accompagna dall’infanzia, in cui sono depositate determinate caratteristiche e qualità, che tendiamo a smarrire non appena entriamo nell’adolescenza. In altre parole egli vuole significare che sono sepolti in noi, sedimentati dagli anni e dall’esistenza, valori, capacità, comportamenti mentali, modi di essere tipici della fanciullezza. Tale tesoro nascosto, che si forma nei primi anni di vita dell’individuo, ben si conserva nello stesso a dispetto del tempo che passa, anche se sono pochi, sostiene il poeta, a sentire dentro di loro la voce del fanciullo, che non cessa mai di parlare, in ogni stadio dell’umana esistenza. Accade che il giovane cerchi di soffocarla, proprio in quanto ha desiderio di crescere e diventare grande, sforzandosi di tagliare ogni filo che lo tenga ancora legato al mondo dei bambini. L’uomo adulto, dal canto suo, nutre altri pensieri, sempre immerso in problemi e in una vita che lo porta continuamente all’esterno, incapace, com’egli è, di qualsivoglia introspezione. Pascoli aggiunge pure che tale fanciullino si 270


trova in ogni uomo; pertanto anche coloro, e sono numerosi, che non odono la sua voce, lo ospitano nel fondo della propria anima, magari inconsapevolmente, occultato e dimenticato. Tale fanciullino, come si legge nelle relative prose pascoliane, “parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle”; egli “popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione”. Inoltre “ci fa perdere tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce”. Ciò significa che è sepolto in noi un diverso modo di osservare le cose, più libero di quello che caratterizza la nostra vita abituale, senza schemi precostituiti, senza categorie, senza pregiudizi; esso si basa su una visione più autentica e pura con cui si percepisce la realtà, che in tal modo sembra rinnovarsi di continuo, anche se contaminata dalla fantasia, e che porta a scoprire aspetti nascosti e inediti. Il fanciullino non si stanca mai di contemplare l’antico viso del mondo ed esso gli appare, di volta in volta, “novello”. “Vuoi il nuovo”, scrive Pascoli, “ma sai che nelle cose è il nuovo, per chi sa vederlo, e non t’indurrai a trovarlo, affatturando e sofisticando. Il nuovo non s’inventa: si scopre”. E se si sa scoprire il nuovo, si è anche capaci di trovare la poesia in ciò che ci circonda “e in ciò che altri soglia spregiare (…). E sommamente benefico è tale sentimento”, continua a dirci l’autore di Myricae, “che pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità”. La vita umana, così ci viene ricordato con questo passo, è affaticata da brame e voglie che conducono l’individuo a non aver mai requie, mai riposo, ma a cercare di partorire desideri in continuazione, al solo fine di soddisfarli. Si può leggere a tal riguardo nel Qoèlet (1,8): “Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire”. La natura umana, in altre parole, è simile a una fabbrica di desideri infiniti; occorre pertanto, e tale soluzione è indicata tra le righe dallo stesso Pascoli, saperli controllare, limitare, contentandosi del poco, vivendo nel giusto mezzo, forse accettando le note norme di condotta conquistate dalla saggezza antica e contenute nei testi sapienziali. Il fanciullino che è in noi, o meglio quell’approccio alla vita tipico dell’età infantile, è sempre pago di ciò che possiede, non è mai scontento e mai desidera altro da ciò che trova a portata di mano; egli non è alla perenne ricerca di qualcosa che gli sfugge di continuo, non arde per brame e desideri vani, ma la visione poetica dell’esistenza lo rende felice in ogni istante. Nulla egli possiede, ma il mondo intero è suo, e con esso una natura sempre rinnovata, ricca di colori e meraviglie. Quella del Pascoli, come si è fin qui delineata, è dunque una religione, tutta laica, della poesia, non aliena da un’aura sacrale. I poeti, quelli autentici, sono coloro che ancora riescono ad ascoltare, nonostante l’età matura, la voce del 271


bambino che furono, e a tener presenti alcuni valori spirituali, caratteristici della fanciullezza. Essi sono diversi dagli altri individui, proprio per tale capacità che li porta a essere contraddistinti da filantropia, maggiore sensibilità d’animo e ricchezza di humanitas. La poesia, per Pascoli, così appare sempre in tali prose, è una sorta di “lampada”, che fa ardere l’anima umana, la illumina dall’interno e che, addirittura, “migliora e rigenera l’umanità, escludendone non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico (…)”, che “è ciò che la morale riconosce cattivo e l’estetica brutto”. Tale religione della poesia porta l’artista della parola, in virtù degli elementi di purezza e candore che sa recuperare nel proprio cuore, a essere “ispiratore di buoni e civili costumi”, dell’amor patrio, di quello familiare e, in senso lato, di quello umano. Egli è una sorta di sacerdote che si muove in una landa impoetica e barbara, richiamando ad antichi valori le coscienze smarrite e perdute, indicando a tutti la via della vita e della salvezza, confidando nella rinascita dell’interiorità umana e nel suo riscatto. Ogni uomo, sostiene Pascoli, fosse anche un “masnadiero”, sentirà in sé, purché lo sappia ascoltare, un fanciullo “che gli canti le delizie della pace e dell’innocenza, e la casa dove non deve più riposare, e la chiesa dove non sa più pregare”. Sembrerebbe dunque evidente che alcuni passi di tali prose, come si è detto, offrano contenuti morali e spirituali, addirittura salvifici per l’uomo dei nostri giorni, preda di mille illusioni e fanfare che cercano sempre più di rapirlo a se stesso. Il fanciullo pascoliano, con la sua voce tenue e fragile, non fa che invitarlo a recuperare un modus vivendi dedito alla pace, alla tranquillità, alla coltivazione del giardino dell’anima, concedendo ampio spazio alla riflessione e alla meditazione, nel silenzio e nell’introspezione, favorendo quei sentimenti che ci rendono fratelli e ci portano a riconciliarci gli uni con gli altri, bandendo ogni guerra scatenata in nome della ragione. Occorre pertanto riscoprire, di volta in volta, alcune qualità che il mondo contemporaneo disconosce, perché le ha perdute o le ha volutamente cancellate nella corsa al potere: la voce dell’anima da contrapporsi a quella del denaro, i buoni sentimenti di contro al cinismo dilagante, l’essere più che l’apparire e l’avere. Ecco, dunque, che nell’attuale società consumistica, nevrotica, nichilistica e quasi suicida, piena di ansie e timori, si apre una speranza di rinascita interiore, l’occasione di una inversione di tendenza, la quale si fondi sulla semplicità e l’umiltà, il candore e l’innocenza, sulla calma da contrapporre alla frenesia, sulla gaiezza che allietava le nostre giornate quando si era piccoli, sul recupero del “bello” e del “buono”, classicamente intesi, con cui risanare un’esistenza sempre più moralmente laida e impoetica. Anzi il fanciullino pascoliano si fa, suo malgrado, corifeo di una resistenza della poesia contro tutti i talk show, i reality che ci assediano da ogni dove e contro la nota fanghiglia che viene quotidianamente rivangata e sparsa dai mezzi di comunicazione di massa nelle coscienze. In tale 272


panorama desolato si erge ancora, ultimo bagliore di civiltà nella notte del tempo presente, come fosse un luminoso faro concesso all’uomo contemporaneo, la turris eburnea della poesia, nobile e solitaria, che, come scrive Pascoli, ci invita a ricercare il silenzio e la bellezza, e ad ascoltare, seppur disturbati dai tromboni e dai colpi di grancassa della quotidianità, “lo stormire delle foglie o il gorgoglio del ruscello o il canto dell’usignolo o il suono dell’anima”.

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MICHAËL GLÜCK L’ANNUNCIAZIONE

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Nel suo laboratorio o in chiesa un pittore contempla il pannello di legno o il muro davanti al quale è stata eretta l’impalcatura. Si è riletto il Vangelo, ha consultato i cartoni, ascoltato i committenti. Se ne sta lì, di fronte al nulla, artigiano del poco di fronte al nulla. E ogni volta, prima del primo tratto o della prima mano di calce sul muro o del primo appretto sul legno, ogni volta l’oscuro o famoso pittore se ne sta lì, davanti a quel nulla che l’infanzia continua a riproporre: da dove? E ogni volta, litania o ninna-nanna, sulle labbra dell’uomo che tra poco tenderà come un giglio il pennello verso la superficie da dipingere, ogni volta tornerà a spuntare la stessa domanda: da dove, da dove viene, da dove viene il bambino? Di certo un giorno, da piccolo, nel mondo dove nascono, si moltiplicano e muoiono le specie, ha visto accoppiarsi maschio & femmina. Forse ha osservato, se non spiato, quel &, quella copula che anima quanto vive all’intorno, senza sospettare che quel &, quella copulazione degli esseri, è un gioco che concepisce l’inconcepibile. Senza dubbio l’ha visto senza capire, travolto da un riso selvaggio per scongiurare ciò che ha visto e che, lui crede, non doveva vedere. È lì per dipingere l’invisibile, pagato per questo, per mostrare l’anima del mondo e non la propria. Ma nonostante ciò per cui è stato convocato, la domanda gli gira dentro come dentro a tutti quanti: da dove, da dove viene il bambino, da dove viene? Da quali grida nei boschetti o nelle stalle, da quale luce negli occhi? E come e perché? E quella cosa, quell’immagine? Ciò che ancora non è e che a un tratto si presenta. In parte materia, in parte pensiero. Un pittore sta nel suo laboratorio o in chiesa con una parte di materia e una parte di pensiero tra sè copulanti. Un pittore in mezzo alle domande che tornano a riproporsi prima dell’atto di dipingere. Ex nihilo. Come può crearsi dal niente qualche cosa di diverso dal niente? E, ogni volta, gli stessi tremori prima del giubilo che spinge la mano verso gli strumenti propizi al pensiero sensibile. E, ogni volta, una sorta di svenimento sulla soglia del terrore. Ogni volta, malgrado i testi e i gesti risaputi e ripetuti sotto la ferula del maestro, nasce l’ansia prima di ricominciare il mondo, perché sempre, sì sempre, c’è da affrontare l’inizio. Dov’ero quando non c’ero? E chi, e che cosa? Dio e il nome di niente, che non placa niente. Un pittore: quello, un altro, questo qui, tra la beatitudine dell’angelo e il dubbio divertito della scimmia. Un pittore sta lì tra le antiche domande, quelle che ogni volta ridanno inizio a un uomo malgrado le risposte apprese e che lui dovrebbe contentarsi di riprodurre. Un pittore, oppure voi o io, ognuno di fronte al niente, ogni volta sul punto di dire io e di averne le labbra lacerate, gli occhi incendiati. Sul punto di dire non so quello che ho sempre saputo: e da ciò deve ricavare una scena dentro a quella che gli si chiede di ripetere secondo il volere del committente. E ogni volta il pittore finisce per afferrare il pennello, brandirlo come torcia vivente, avvicinarsi alla luce del niente, scavare nella superficie impenetrabile e, con l’oscenità del gesto da tempo acquisito, malgrado tutto, partorire. Una materia partorita dal pensiero. 275


Ed ecco: un’Annunciazione. Ed ecco noi, sopraggiunti più tardi, molto più tardi, dopo che il pittore ha asciugato il pennello in un panno: non diciamo più l’Annunciazione ma un’Annunciazione; e poi un’altra e un’altra ancora. Certo non abbiamo più gli occhi ai quali era destinato ciò che doveva compiersi, non abbiamo più quegli occhi grandi come la pancia in cui il pittore doveva deporre, visibile, la parola illeggibile destinata a istruirci, costruirci, edificarci. L’opera non introduce più alla preghiera di cui era l’aurora. Ha cessato di costringerci ai riti, alle genuflessioni, a sgranare rosari di penitenze. Se a volte ci capita ancora di varcare le porte di una chiesa, lo facciamo solo per l’affresco o per la tavola dipinta, senza l’antica fame che essa era preposta a placare. Non varchiamo più la soglia della Casa ma del Museo, quasi stupiti se non imbarazzati di incrociarvi sotto le volte lo sguardo spento di un prete o d’intravedere un uomo in preghiera nella penombra di un confessionale. Allora diciamo: è un’opera d’arte, un’Annunciazione di…, o di…, o della scuola di… Non abbiamo più i nostri occhi di prima. Non abbiamo più occhi. Percorriamo navate o gallerie, con un casco in testa ascoltiamo la voce commentante, infiliamo la derisoria moneta nella fessura di una macchina per dissolvere la penombra. Fiat lux: l’affresco s’illumina, sappiamo tutto ciò che ci è stato detto che dovevamo sapere. Lo sappiamo. Sfiniti, ce ne torniamo alla tristezza di una camera d’albergo, soffochiamo sotto il cuscino le domande che più non si pongono, abbandoniamo sul comodino gli occhi induriti. Lì accanto dorme lei: sogna a nostra insaputa di essere visitata da un angelo. Da dove viene il bambino, da dove il bambinello, da dove viene? Non ascoltiamo più.

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FRANCESCO BENOZZO ARCHEOLOGIA DELLA PAROLA POETICA: IL FANCIULLO DIVINO COME IPOSTASI LIBERTARIA

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I Nessuna mitologia ha fatto a meno del Fanciullo nella solitudine del suo primo elemento, del sole che si rigenera continuamente, del mondo che racconta se stesso come nascente-nascituro. I testi, le leggende dell’Eurasia preistorica: Vishnu, Mercurio, Belinos, Vainamoinen, i Celti, i Balto-Slavi, gli Ugro-Finni. Tracce del fanciullo-uovo, del trovatello mistico, si trovano ovunque nelle letterature medievali: dal puer agens di Sigieri di Brabante (De aeternitate mundi) all’Eminente Fanciullo (al-faris) di Muhammad Al-Baqir, da Marcabruno, trovatore “trovato” e trovatello, al bardobambino inghiottito dalla balena (Taliesin). II Il Fanciullo Divino nasce spesso dal fango, come in Mesopotamia: in questo senso, per questa sua affinità, egli precede, anche paleontologicamente, la figura del Dio onnipotente, formatasi necessariamente col sorgere delle società stratificate, cioè nell’Età del Bronzo e del Ferro: la nascita dal fango rimanda invece al Neolitico, al periodo in cui, con l’agricoltura, l’attenzione dell’uomo per le diverse proprietà del terreno, anche di quello fangoso, fa uscire il fango da quello che per i cacciatori- raccoglitori del Paleolitico era un universo innominato, e lo eleva a materia prima dell’arte dei vasari. È il fanciullo che vive spesso, non a caso, nelle pentole ceramiche: in un racconto irlandese, da un vaso posto sotto un nocciolo si rigenera costantemente un fanciullo che fa fiorire gli alberi e riempie di pesci i torrenti. III La lingua del Fanciullo Divino è la lingua del poeta, la lingua che si rigenera di continuo e che genera di continuo. È lo sguardo non sclerotizzato sulle cose. Lo sguardo che contrasta l’abitudine. È il vagito dei versi cantilenati, la pulsazione anaforica del ritmo, la musica di ciò che accade. IV Nell’uovo, nell’acqua raminga, nel suo errabondare solitario caratterizzato dall’assenza di padre e madre, dall’assenza di paternità e maternità, il Fanciullo Divino, braccato dal tempo che lo vorrebbe equiparare agli dei umanizzati, prefigura l’anarca braccato da un ordine che esige il controllo di sé e di ciò che accade intorno. Come l’anarca, il Fanciullo è immagine della libertà, dell’originaria volontà di resistenza, dell’affrancamento dalle forze del branco.

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V Attratta dal Fanciullo Divino, la psiche procede a ritroso verso una centralità perduta, disponendosi con docilità rispetto a un asse governato da un ciclo di rinascita senza apparente morte. La parola e i gesti tornano a una dimensione di crepuscolo d’alba, e nell’infanzia del mondo accade e riaccade la nascita germinale. Sono i paesaggi umbratili in cui si muovono le figure del mito e a cui ritorna l’inconscio ingigantendone la presenza: dietro i giganti, allora, dietro i draghi del monte del Fato, è sempre il Fanciullo a correre libero e intoccato.

VI Il regno crepuscolare del Fanciullo Divino è ancora attraversabile nell’interfaccia onirico del nostro incedere verso l’annientamento. Il sogno appartiene a questa rinascita incessante e i suoi riti ne rinnovano l’arborescenza. Come i pre-socratici che passavano interi anni nelle caverne, come i bardi irlandesi che apprendevano la propria arte dopo mesi di sepoltura nel terreno, come Dante nel suo letargo eretico e sdegnoso, nel sogno rinnoviamo l’accesso alle forze che ci fecero nascere bambini, e perpetuiamo il contatto con il Fanciullo. È il nostro destino di orfani perenni, la nostra connessione con il nostro passato pisciforme.

VII Fanciullo Luminoso, Shiraz, gioiello dei diademi del cielo, il tuo fantasma si allontanava dai miei occhi, sfuggiva alla custodia dei guardiani, togliendo la luce agli occhi, la rugiada alle foglie del mattino. Al momento della separazione non ricordai il mio nome, e l’albero di pesco smise di germogliare (Hâfez).

VIII Il sogno, il crepuscolo, l’incubazione iniziatica: la lingua del poeta è la lingua del fanciullo primordiale, dell’anarca che pensa a se stesso come essere libero. Il Fanciullo Divino è l’ipostasi libertaria dell’essere poeta e del farsi poeta, ne rappresenta l’intima mistica ragione, la totalità autoreferenziale simile a quella dell’albero.

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IX Il Fanciullo Divino è il fuoco che genera e purifica, puer è legato all’antico indiano pavitár ‘purificatore’, al greco pyrá ‘rogo’, al latino pūrus ‘purificato dalla fiamma’. Ma è al tempo stesso acqua, essere acquatico, vita sommersa: il fanciullo-pesce presente nel folklore mondiale, il bambino con le squame (bulmandji) della mitologia australiana. Terracqueo, ermafrodita, pre-verbale, seguito dagli animali prima che dagli uomini, genera il sole ma è al contempo sole e luna, non è generato ma è padre a suo padre, madre a sua madre, inversione di tempo e spazio. X CuChulainn combatté per dodici giorni sul campo di Lia Muachra. Le ferite del suo corpo erano simili a quelle dell’albero dei Sidhe all’ingresso della piana di Muirthemne. Allora Emer fece un sogno nel quale egli tornava bambino. Teneva nella mano un ramo di nocciolo e avanzava nel campo seguito da una mandria di cervi. I suoi amici e i suoi nemici lo riconoscevano, ma nessuno osava adesso avvicinarlo. Egli parlava la lingua di Conchobar, profetizzando il destino dell’Irlanda (racconto irlandese del XII secolo). XI Quando Caserio, l’uccisore del presidente Carnot, fu interrogato a Lione prima di essere impiccato, rispose al giudice che non avrebbe fatto i nomi dei suoi compagni anarchici, che non era pentito del suo gesto, e che se avesse avuto ancora un’ora avrebbe ucciso altri due presidenti. “ Per quale ragione voi odiate la legge?”. “Perché lo Stato ha ingannato e ucciso gli individui, la loro libertà e la loro dignità”. “E voi chi siete per giudicare lo Stato?”. “Io sono il fanciullo che non potrà mai morire, perché restituisce la libertà a chi ne è stato defraudato”. XII Il poeta, gioiello dei diademi del cielo, restituisce la libertà a chi ne è stato defraudato. La sua parola, prefigurata nei rituali di incubazione, è pulsazione pre-verbale e acquatica. La sua lingua, generata dal crepuscolo d’alba, è la lingua del Fanciullo-albero.

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GIANNI VACCHELLI IL SIMBOLISMO DEL BAMBINO INTERIORE TRA BIBBIA E INTERCULTURALITÀ

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Chi possiede dentro di sé la pienezza della virtù può essere paragonato ad un infante Lao-Tze Il Fanciullo Divino è una realtà archetipica, trasformativa e di grande rilevanza mistica, da sempre presente nei testi sacri di molte tradizioni d’Oriente e d’Occidente, come nel patrimonio mitologico, letterario, topico etc. di tante latitudini e tempi. In particolare la realtà simbolica del “bambino interiore”, declinazione moderna dell’archetipico Fanciullo Divino, è ormai un dato acquisito anche di molta ricerca nel campo delle scienze umane (psicoanalisi, psicologia analitica, pedagogia etc.). Basti pensare ai lavori di Jung, della von Franz, di Hillmann, per citare dei classici. Importanti poi gli approfondimenti di autori come Whithfield (monografico sul tema) e di Schellenbaum (sulla tematica della ferita dei non amati). Per A. Miller e Winnicott è il “vero io”, mentre Rokelle Lerner lo chiama “il bambino interno”. Vale subito la pena di precisare che bambino esteriore e bambino interiore non sono due realtà dualisticamente separate: sono bambino in una certa epoca della mia vita, ed insieme rimane in me la realtà del puer nel corso dell’intera mia vita. L’un polo richiama l’altro. In generale l’impressione è che molto resti da studiare e approfondire, che molte perle vadano riunite, possibilmente per farne collana o almeno per non farle cadere sciolte. Esistono sì, certo, incursioni nel materiale mitologico, religioso, letterario, fiabesco e topico (oltre agli autori già sopra citati, cfr. anche Eliade, Campbell, Corbin, Curtius etc.), tuttavia gli ambiti disciplinari devono essere radicalmente messi in fecondo dialogo tra loro, in virtuoso crocevia che possa essere anche transdisciplinare, interculturale (sia nel senso che diversi “approcci” si parlano, sia nell’ottica di una reale apertura a mondi e culture differenti). Ad es., come chiariremo tra poco, la simbologia del bambino interiore è di forte rilevanza simbolica nel testo biblico, così come in importanti opere letterarie di ogni tempo. Il campo di ricerca appare, se non vergine, certo da conoscere meglio, arare e far fruttificare ulteriormente. Insomma, la simbologia del “bambino interiore” è di straordinario valore euristico e di grandi potenzialità interdisciplinari e interculturali. L’argomento è semplicemente immenso. Qui non possiamo che procedere in maniera sintetica, concentrandoci in primis sulla Bibbia, con brevissimi cenni ad altri universi culturali e ad altre discipline. Forse non siamo abituati a rinvenire nell’universo biblico la realtà del “bambino interiore”, eppure essa vi è profondamente richiamata: si tratta anzi di un tema assolutamente essenziale. Basti pensare naturalmente ai “Vangeli dell’infanzia”1 e a tutta la straordinaria “storia degli effetti” (iconografica e non), che hanno prodotto. Tuttavia questi testi non 282


raccontano solo una nascita storica: Gesù di Nazareth, il Cristo per i cristiani. Senza una lettura interiore, simbolica, mistica di questi testi, disperdiamo nell’orizzontalità la loro straordinaria potenzialità trasformativa, verticalizzante, a disposizione di tutti coloro che leggano con attenzione e cuore puro. Il “bambino divino” di quelle pagine infatti non è solo esteriore, il Gesù storico o anche il Cristo della fede, altro da me. Piuttosto lì contemplo, ricordo, ricontatto la mia natura reale, divina, eterna, che per un cristiano ha il suo simbolo centrale in Cristo; e Cristo mi richiama al mio essere “cristofania”. Il “Fanciullo divino” è mistero che può nascere dentro di me, potenzialità divinoumana (e cosmica), parto mistico del Logos, come, in modo simile e diverso, cantano il Cantico della perla, la preghiera manichea di Gesù e il bambino, i sermoni di Eckhart e della mistica renana, Angelus Silesius etc. Ancora nei Vangeli, l’unica volta che compare il gesto dell’abbraccio da parte del Cristo riguarda proprio i bambini. Il Cristo non abbraccia sua madre, Lazzaro risorto, o nessuno dei discepoli. Soltanto i bambini, in due passi straordinari del Vangelo di Marco (9,33-37; 10,13-17). Il verbo greco in questione – enankalízomai – è inoltre un hapax nel Nuovo Testamento: il che ne rafforza il valore esemplare. In entrambi i testi, l’assimilazione tra Cristo e il bambino è centrale: “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37); e anche: “Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10,15)2. Accogliere il bambino è accogliere Cristo, entrare nel suo regno, perché Cristo è il bambino, il bambino è cristico, e in quel dinamismo relazionale si entra anche nel mistero trinitario (il Padre, il Figlio e il soffio d’amore dello Spirito). Anche in questo caso abbiamo bisogno di un’ermeneutica intera, olistica e polisemica dei passi proposti. Il bambino “fisico”, per così dire, è colui che è docile alla volontà dei genitori; è una creatura piccola, fragile, anche marginale nella società antica (ma solo allora?); ed ha bisogno di cure, di attenzioni 3. Nelle scene marciane quindi i bambini significano tutto questo, ma il Cristo non sta parlando solo del bambino fisico, esteriore. È anche (soprattutto?) il “bambino interiore”, senza perdere nulla dei significati sopraesposti, che va accolto, curato, riscoperto dentro di sé. Ma cosa significa esperire, essere, ridivenire il “bambino interiore”? Esso, come abbiamo già accennato, richiama – utilizzando linguaggi di più tradizioni – una potenzialità divina dentro di noi (quale sia il nome che gli diamo): l’Io Reale, l’Io essenziale, il Bambino divino, il Figlio interiore, il nous, il nucleo eterno, lo Yod del Sacro Tetragramma (YHWH) che ci abita, il Logos, il Figlio (la Seconda Persona della Trinità), il Cristo interiore, il Puer aeternus, l’atman, la nostra “vera natura”, l’essenza, la buddhità, la vacuità, lo Spirito, la scintilla o il fondo dell’anima, l’apex mentis, l’Inconscio (come Sé, come Sovracosciente…) etc. Questi nomi non dicono tutti la stessa cosa, anche perché vengono da tradizioni, discipline e culture diverse, ma sono piuttosto “equivalenti omeomorfici” (Panikkar). 283


Se disperdiamo questa istanza divina, non ci compiamo, restiamo nell’ignoranza, nella superficialità, lontani dalla nostra natura reale. Il Fanciullo Divino è una realtà mistica e spirituale (ma anche psicologica, materiale: nulla va disperso). Insomma: la simbologia del bambino interiore deve essere recuperata in tutta la sua ricchezza, che non è solo psicologica, pedagogica, neurologica, fisica (non va perso di vista il bambino fisico, appunto, l’infanzia come realtà “cronologica”), ma anche simbolica, interiore e mistica. La realtà del puer aeternus è anche pratica, esperienziale, trasformante. I miti, i testi sacri, le opere d’arte e di autentica ricerca interiore chiamano al vai verso di te, all’individuazione, alla trasfigurazione, all’integrazione degli archetipi e dei grandi simboli (quali appunto il puer). Il puer aeternus è una realtà iniziatica, archetipica, da vedere, ri-trovare, interpretare, vivere. Mithos e logos vi coesistono. E così coscienza e spontaneità ontologica. In tal senso lo studio di questo simbolo è una reale via di trasformazione, di liberazione e presuppone pratiche, tecniche, lavoro su di sé. Hillman auspica che in questa nostra età di transizione, travagliata e difficile, l’integrazione del puer avvenga (cfr. l’archetipo del senex-puer, Mercurio-Saturno, “il vecchio maestro di giovanile aspetto” del sufismo etc.). Tuttavia la realtà del bambino interiore è tutt’altro che irenica. Infatti accanto allo sviluppo, all’integrazione, all’onorare il seme trasformante del bambino interiore, esiste un’altra via, mortifera e inquietante: la persecuzione del bambino interiore (ed esteriore), il suo sacrificio, la sua uccisione. Sempre per restare nella Bibbia, si pensi alla straordinaria esemplificazione delle due istanze: da una parte il bambino resuscitato da Elia (1 Re 17,17-24) o da Eliseo (2 Re 4,18-37), la storia di Mosè salvato dalle acque o del piccolo Davide, il giudizio di Salomone (1Re 3,16-28), che restituisce alla sua vera madre il bambino minacciato, impedendo che finisca tagliato in due, fino al Talità qum del Cristo che ancora resuscita una bimba (Mc 5,35-41); dall’altra le pagine inquietanti del sacrificio di Isacco (Gen 22) o della figlia di Jefte (Gdc 11), le varie “stragi di innocenti” etc. Indicazioni ricchissime in tal senso naturalmente anche dal mito greco (Tantalo, Dedalo e Icaro, Adone, Mercurio, Dioniso etc.), dalla fiaba, dalla storia delle religioni (Jung, von Franz, Eliade, Corbin, Campbell, Hillman, Grün etc.)4. In questa direzione si apre poi una pista di affascinante interazione con gli studi pedagogici sulla “persecuzione del bambino” (cfr. ad es. A. Miller). La simbologia del “bambino interiore” è una realtà che può riguardare anche altri ambiti di ricerca come la meditazione, la Philosophy for children, la pratica educativa e scolastica (molto puericentrismo può trovare ulteriore arricchimento; cfr. anche Freire, Korczak, Roorda etc.), la terapia (cf. Grau, Lerner, Whithfield etc.). Ci piace però concludere con alcuni riferimenti alla nostra tradizione poetica. Alla luce di quanto abbiamo accennato, come non rileggere anche in senso interiore e simbolico le pagine straordinarie (sia poetiche che in prosa) di Leopardi sull’infanzia? Come non rimeditare in questo senso ontologico il “Fanciullino” pascoliano? 284


E non è certo un caso che Dante, alla fine del suo viaggio, si ricolleghi al simbolo del bambino interiore, soprattutto per via biblica (ma non si dimentichi la IV Egloga virgiliana). Più il Poeta matura, si essenzializza, più ritorna piccolo, infatti: Ormai sarà più corta mia favella,/pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/che bagni ancor la lingua alla mammella (Pd XXXIII, 106-108). Oh mistero del puer-senex, dell’integrazione umano-divino-cosmica!

1 Interessante in proposito S. Venturini, Il Vangelo del bambino interiore, Città Nuova, Roma 2008. 2 Cf. il bel libro di A. Romaldo, Gesù abbraccia i bambini.

Riflessioni teologiche e antropologiche sul gesto dell’abbraccio nella Bibbia, Cantagalli, Siena 2007 (dove però è meno sottolineata la prospettiva interiorizzante). 3 Ivi, pp. 44ss. 4 Per approfondire, cf. G. Vacchelli, Dagli abissi oscuri alla mirabile visione. Letture bibliche al crocevia: simbolo poesia vita, Marietti, Genova-Milano 2008, pp. 266-267; 296-298; I. Sibaldi, Quando hai perso le ali, Frassinelli, Milano 2008. Riferimenti in tal senso anche nell’opera di Annick de Souzenelle. 285


VINCENZO AMPOLO IL FANCIULLO E L’ANZIANO, TRA FEDE E NARRAZIONE

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1. L’Archetipo Senex-Puer Per noi come individui, aghi della bilancia della storia, il compito è scoprire la connessione psichica fra passato e futuro, altrimenti l’uomo inconscio dentro di noi, che è il passato primitivo, modellerà il futuro storico in modo forse disastroso. James Hillman, Senex er Puer La psicologia analitica di Carl Gustav Jung pone modelli bipolari alla base di tutte le sue principali idee psicologiche. Se conscio e inconscio rappresentano i poli primari, anche gli archetipi, realtà unitarie naturalmente ambivalenti e paradossali, vengono divisi in poli quando entrano nella coscienza-io. Di ogni archetipo, ambedue i poli sono necessari, ma la mente umana, per poter concepire, ha bisogno di separare, di valutare. Tutto è necessario, anche se tutto è duplice, opposto, apparentemente contrapposto. Dall’adulto nasce il bimbo che a sua volta diventerà adulto e poi vecchio, pronto a morire. “Infatti, per quanto riguarda la natura, essa è soggetta a cicli, quasi un ‘eterno ritorno’, di nietzscheiana ispirazione, poiché la sua temporalità non è una progressione lineare, ma un circolo, per cui ciò che muore poi ritorna, assicurandosi la perennità”.1 A questo proposito nel testo di Jung e Kerényi Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia si sostiene che il Bambino è un archetipo al quale partecipano tutti gli dei, in quanto ciascun Dio ha un aspetto infantile e, in quanto archetipo, esso è presente in ognuno di noi, per tutta la vita.2 Il rapporto tra padri e figli è a fondamento dello sviluppo individuale e delle sue anomalie e disfunzioni. Questo confronto-scontro è presente nella storia dell’umanità, fin dall’inizio degli inizi, con tutta la sua carica di drammaticità e di passione più o meno distruttiva. I miti ci riportano la persecuzione, la minaccia di castrazione, dei figli da parte dei padri potenti, vittime, a loro volta, del terrore di essere spodestati, di perdere il potere, di essere privati loro, di quel pene potente, generatore di vita, di creazione. Urano imprigiona i suoi figli nelle buie cavità della terra, il figlio Crono, recide, con una grande falce, la virilità del padre e la getta dietro le spalle. A sua volta Crono inghiotte uno alla volta tutti i suoi figli, fino a quando non viene vinto da suo figlio Zeus, scampato con l’inganno al destino dei suoi fratelli.3 Parricidio e figlicidio si alternano nelle storie mitiche, con l’unica variante dell’incesto, il segreto dei misteri edipico-dionisiaci. L’archetipo senex-puer contiene gli estremi polari dello spirito padre-figlio, maestro-discepolo, caratterizzati da polarità positive quali: ordine-dinamismo, riflessione-intuizione. La forza creativa (Gestaltungkraft) nasce dall’insieme delle istanze tipiche dei due poli dell’archetipo. Se il padre perde il rapporto con il suo bambino, il vecchio re non ascolta e cura 287


il giovane principe, se il vecchio saggio non si appoggia al discepolo e non trasmette con amore i segreti imparati durante una vita, si svilupperà l’aspetto negativo del senex, sotto forma di superbia, cinismo, tirannia. Se al contrario sarà il puer a sfuggire all’autorità dei padri, dei vecchi saggi, la coscienza sognatrice rinuncerà alla costanza dell’impegno e così facendo non potrà produrre opere, costruzioni, realizzazioni definite. Lo spirito eroico ed erotico rischierà il disordine, il naufragio e la deriva e senza possibilità di approdo, diventerà eroe negativo. Ma bisogna chiarire che essere posseduti dall’una o dall’altra polarità dell’archetipo non è necessariamente collegato all’età anagrafica del singolo individuo. L’entusiasmo e la ricerca del bello, dell’estasi, possono appartenere a un uomo in là con gli anni, mentre l’impegno responsabile, l’applicazione allo studio ed alla riflessione possono riguardare una persona di giovane età. Quando ciò succede si avverte tuttavia una sensazione spiacevole, come di qualcosa di innaturale, una disarmonia dell’essere. D’altra parte la vita psicologica non segue gli schemi di ordine e determinatezza. Ciò che Hillman chiama “negentropia” potrebbe essere chiamata libertà, libero arbitrio, per cui esiste un puer senilis, che si comporta e vive in modo più “vecchio” della sua età, così come esiste un puer aeternus, l’eterno ragazzo, vecchio mai cresciuto o che ridiventa bambino con l’avanzare degli anni. “Il puer ispira lo sbocciare delle cose; il senex presiede il raccolto. Ma la fioritura e il raccolto si succedono alternativamente durante la vita. E sappiamo infine chi ci prende in custodia alla morte: Barbagrigia con la sua falce o il giovane angelo?”4 2. Davide e Golia Il fanciullo divino è sempre solo ad affrontare pericoli straordinari, spesso indotto dal padre, più spesso dalle divinità, da cui è molto amato e che molto ama. La sua infanzia, ricca di aneddoti di forza, di intelligenza e di saggezza precoci, è segnata da una fede incrollabile, a causa della quale si spinge a una aperta ribellione verso i genitori e gli anziani. Per una serie di coincidenze e di attualità, ci piace soffermarci sul mito di Golia, musico e poeta, e sui suoi rapporti con gli adulti e con la sua divinità di riferimento. Davide, di cui Cristo venne chiamato “figlio” (Matteo, 15, 22 – Marco, 12, 35 – Luca, 20, 41) è il simbolo della giovinezza eroica, dell’eroismo religioso. Pastorello solitario, vive nei pressi di Betlemme, cantando lodi a Dio con strumenti da lui stesso costruiti. Mandato dal padre a portare del cibo ai suoi fratelli nel campo dell’esercito d’Israele, apprende che Golia, Filisteo gigantesco “insulta le schiere del Dio vivente”. Se “il re Saul e tutti gli Israeliti sono sbigottiti e pieni di paura”, il giovane Davide decide di affrontare Golia accettandone la sfida. Re Saul, la saggezza, l’esperienza, l’anziano, sconsiglia al giovane l’impresa, ma 288


Davide, il giovane, non obbedisce e dice: “Il signore che mi liberò dagli artigli del leone e dell’orso, mi libererà dalle mani di questo Filisteo”. Non vi è, neppure verso il re, l’obbligo di obbedienza assoluta: in circostanze particolari, anche i re, anche gli anziani, sbagliano. Davide, disprezzato da Golia per la sua giovinezza, affronta il Gigante con i suoi mezzi. Armato soltanto della sua fede, di un bastone e di una fionda, Davide sconfigge Golia con un solo lancio ben indirizzato, costringendo alla fuga l’esercito filisteo. La saggezza “come innocenza” del giovane prevale sulla saggezza “come conoscenza” degli anziani. Abbattendo Golia, la forza bruta, la barbarie (il passato che deve morire, perché Dio, la Vita, trionfi) Davide vince, nel nome di Dio e afferma il futuro, la Legge divina di elevazione dell’uomo, di dominio dell’uomo sulle forze cieche del mondo. Ma, proseguendo la narrazione, emerge una realtà inaspettata. La vittoria di Davide e la sua acclamazione suscitano l’invidia di Saul. Il sovrano inizia a sospettare che il giovane voglia impossessarsi della sua corona e, diventato malinconico e ostile a Davide, cerca di ucciderlo. Saul è costretto a fuggire e a ritirarsi nel deserto della Giudea. Lo ritroveremo re del regno di Giuda e poi anche di Israele, fino a quando Salomone, il suo secondogenito, non gli succederà al trono. 3. Puer estatico – Puer estetico Iside siede con Oro Bambino sulle ginocchia: ha in grembo l’innocenza, la verità dal sorriso solare, puro. Osiride, (la ragione, la conoscenza, il tempo) suo padre, è morto, sconfitto da Seth, il crudele Tifone. Oro “impara” guardando le stelle che Thot Ermete, Trimegisto, metà uomo e metà uccello, gli mostra. La magia della fede, dell’amore, del sentimento, rende Oro immortale. A differenza di suo padre, muore e rinasce. Il mito egizio di Oro, del figlio, del futuro, ricorda il mito cinese del mattino, della novità del mondo: il mito del Sol Levante. Il mito di Oro si riallaccerà al mito greco-romano di Apollo, al mito classico della giovinezza, dell’umanità nuova che rinnova il mondo. Apollo è il figlio per eccellenza, dio della speranza e dell’evoluzione, dio del Sole, della poesia, della gloria. Apollo uccide il drago, il serpente Pitone, il Demonio. Dafne gli sfugge, rifiuta il suo abbraccio sensuale. Il desiderio del dio si sublima in amore e, dal dolore della solitudine, nasce la poesia, la gloria: Dafne si muta in alloro, premio al poeta. Lo scrittore puer è lo scrittore innocente che sorride alla vita, intuitivo, entusiasta, solare. A differenza del suo collega senex che, nell’intento di acquisire la conoscenza, si dedica allo studio e rimane curvo a logorarsi sulle “sudate carte”, il puer cammina a testa alta per strada, osservando il mondo, i suoi meccanismi sociali e le sue magie. Del mondo egli trae una visione estetica: il mondo come immagine bella o come un vasto scenario. Questa estasi estetica viene definita da James Joyce con le parole 289


del suo eroe Stephen Dedalus “quell’incantamento del cuore”. “Questa suprema qualità è avvertita dall’artista” – dichiara Stephen – “quando l’immagine estetica viene per la prima volta concepita nella sua immaginazione”.5 Ecco che, in questo senso, il fanciullo divino, in particolare, possiede le qualità del creatore e conoscitore per eccellenza, magari incompreso e ingenuamente ribelle. Porta su di sé i segni della sua diversità, che sarà rivelata al raggiungimento della sua meta, del suo percorso. Ed è proprio il percorso di questo fanciullo un necessario e inevitabile sentiero di crescita e maturazione, la piena consapevolezza del sé raggiunto attraverso superamenti di prove, patimenti e ostacoli. Questo fanciullo, divino ed eroico al tempo stesso, in tutte le sue variabili, è numinoso, le sue gesta sono solari, celesti e anche il suo desiderio è trascendente desiderio di meta, smania di traguardi. I confini del sacro e del lecito sono segnati da questo attraversamento dei luoghi d’ombra, dallo scontro culturale, di etiche e di comportamenti, che non contemplano il territorio simbolico della morte, preferendo ignorarlo, con l’innocenza e la fede del bimbo che si lancia tra le braccia del padre. Se l’inconscio collettivo conserva e ripropone, nella realtà attuale dei fatti, la ricerca di questa fanciullezza mitica, è necessario recuperare l’ordine del desiderio e del puro immaginario, ritornando con la memoria ad un tempo in cui “desiderare era ancora possibile”.

1 F. Tricomi, Estetica e psicoanalisi, Ed. Rubbettino, Catanzaro, 2001, p. 45; 2 C. G. Jung e K. Kerényi Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino 1966.; 3 C. Kerenyi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Ed. Il saggiatore, Milano, 1963; 4 J. Hillman, Senex et Puer, Marsilio Editori, Padova, 1973, p.28; 5 James Joyce Ritratto dell’artista da giovane, Adelphi, Milano, 1987;

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SILVIA VENUTI L’ARCHETIPO – IMMAGINI

Al Bambino Divino Per me è stato come se ti avessi conosciuto da prima, quando i sogni hanno l’aria del mattino.

Sono alcune immagini fotografiche che hanno attinenza con il tema dell’archetipo del Bambino Divino. Egli nasce da un calice di fiore o da un uovo. Egli allude alla rinascita primaverile dopo la morte invernale ed è rappresentato con l’allegoria dell’alba e del sorgere del sole. Egli viene alla luce da un uovo sorto dall’acqua evidenziando la connessione acqua-mareutero materno, ma è anche allevato in una grotta tra i monti. Egli rappresenta il concetto del volo e si fa messaggero tra i mondi terrestre e celeste (Mercurio). s.v. 291


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NUNO MIGUEL ALFONSO PUERAETERNUS- EROTICA E SPIRITUALITÀ

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L’unité-reine scintilla. Le monde se prouvait. Rien n’étais plus épars. O mur hynénéens, pandectes de l’azur! O creuset d’une alliance incorruptible! Toi, l’espace, les mots, Sade, les jours futurs, La volupté, le verbe, en un seul diamant. Gilbert Lely Un giorno gli Dei furono tormentati e sconfitti dai titani Assura, poiché Shiva, l’altissimo, si rese inaccessibile e cercò isolamento sul monte Kailash per praticare una forma particolarmente intensa di concentrazione. Gli Dei furono condotti da Indra, il loro leader, fino alla sfera dell’auto-generato Brahma, creatore di tutte le cose, e gli chiesero aiuto per vincere le forze demoniache. La risposta del dio creatore fu semplice: soltanto il seme di Shiva avrebbe avuto il potere di generare l’eroe capace di vincere gli eserciti titanici. Tuttavia sarebbe stato quasi impossibile allontanare Shiva dal suo stato di profonda concentrazione. Nella disperazione nacque fra gli dei l’idea di invocare Kama, dio dell’erotismo, in modo da risvegliare Shiva grazie al desiderio. Kama risalì il monte Kailash, si ricoprì di tutti gli attributi di gioventù e bellezza, sciolse le nevi eterne e creò, intorno a Shiva, una dolcissima Primavera, colma di attraenti diletti e aromi voluttuosi. Acquisendo una bellissima fisionomia cercò di far sì che il Signore Supremo si innamorasse. Ma per la disperazione degli Dei, Shiva socchiuse soltanto le palpebre della sua terza visione, e ciò ridusse d’immediato Kama in cenere. Mossa a compassione la dea madre Parvarti accorse in aiuto degli Dei, ed entrò in meditazione, in modo da raggiungere uno stato parallelo a quello di Shiva. Dopo lunghe penitenze riuscì a risvegliare il desiderio del Supremo Dio. Questo risveglio erotico, però, provocò in Shiva l’eccitazione solitaria, e il suo sperma non fecondò la Dea, perché nessuna divinità avrebbe potuto essere fecondata dal suo seme più che incandescente, senza morirne. Soltanto Agni, il Dio del fuoco, poté accogliere temporaneamente il seme divino nella sua bocca e generare il figlio eroico. Così nacque il dio Murugan, senza la partecipazione dell’elemento femminile come matrice. Murugan si manifesta come eterno e per sempre giovane, capo delle milizie celesti, e la sua battaglia contro i titani è descritta nell’antichissimo Mahâbhârata, poema epico di Vyâsa. Murugan è la manifestazione storica più remota del mito del puer aeternus, di molto anteriore alla civiltà greca. L’eterno bambino sorge in questo contesto come il casto giovane, considerato non figlio, ma essenza vivificante dello stesso Dio degli Dei, l’incarnazione gioviale di Shiva. Si dice che non si sposò mai, perché tutti gli Dei erano innamorati di lui. Sebbene delicato, e di aspetto fragile, il suo potere è immenso, superiore a quello di Vishnu. In India il culto di Murugan risale alla preistoria, a un periodo anteriore alle invasioni ariane, e da sempre è proibito alle donne. Murugan è conosciuto sotto molti altri nomi, come Skanda (getto di sperma), o Sanat-Kumâra (alla lettera, puer ae297


ternus). Riferimenti a Murugan si trovano in moltissimi testi e pratiche dello Yoga, ed è descritto come colui che concede il potere dell’astinenza sessuale, e simbolizza l’energia del seme virile preservata dalla castità e dall’ascesi. Questa energia viene rappresentata in forma di serpente, avvolto intorno al fallo di Shiva, che chiude con la sua testa l’orifizio, così da impedire la fuoriuscita del liquido seminale, e conservare l’energia essenziale per la gestazione spirituale. Tuttavia l’antica storia degli Dei acquisisce una dimensione operativa ulteriore, quando declinata nella prospettiva delle pratiche dello yoga tantrico. I poteri degli istinti, simbolizzati dalle schiere titaniche, non possono essere vinti finché l’erotismo non viene sublimato: solo quando ciò avviene può nascere il puer aeternus che li conquista, grazie all’orientamento dell’energia seminale procreativa in favore di fini intellettuali e contemplativi. Attraverso questa via l’adepto dello yoga si trasforma in Jivan Mukti – l’immagine viva di Shiva. Questo cammino trova il suo significato allegorico nello Svayambhû-linga, il fallo di Shiva senza sostegno in Yoni (la vulva della dea), la gestazione metafisica che racchiude il segreto dell’immortalità. I tre Gunas, o tre tendenze fondamentali della sostanza universale, che si incontrano in tutto ciò che esiste, sono i principi maschile, femminile e neutro (questo terzo genere è presente in moltissime delle antiche lingue indoeuropee). Costituiscono riflessi dei principi della trinità divina Shiva (il maschile – Purusha), Vishnu (aspetto femminile – Prakriti) e Brahma (principio neutro – il Creatore). Ma questo terzo principio è spesso raffigurato anche da Murugan, l’aspetto autonomo di Shiva. Nell’antichità indù, la radice mitica del puer aeternus personifica ciò che si considera come terza natura (Tritiya Prakriti), il principio che oltrepassa la dualità sessuata, il napunsak (non-virile, anándros, androgino). Ciò chiarisce l’associazione dell’adolescenza all’eternità: l’adolescente possiede questa ambiguità sessuale che lo distingue dall’uomo adulto, e lo rende consustanziazione dell’unità trascendente, anteriore alla creazione, e pertanto senza tempo. Un tale elevato principio neutro informa qualcosa di più vasto e incondizionato, e qui risiede la ragione per cui tutti gli dei sono innamorati di Murugan, indipendentemente dal loro sesso: l’amore emerge dall’attrazione rispetto a stadi di libertà superiore. Nella tradizione indù le persone caratterizzate dall’ambiguità sessuale sono considerate manifestazione di questo terzo principio, eletti innati di Skanda Murugan. I sacerdoti di Skanda sono quasi sempre omosessuali o eunuchi. Ma ciò comporta caratteristiche trasversali alla tradizione indù. È soprattutto fra i napunsak che si reclutano i sacerdoti erranti, i maghi, gli iniziati, le vergini sacre, le sacerdotesse e anche gli artisti e i poeti. In tale principio risiedono alcuni costumi radicati in diverse tradizioni indoeuropee: dobbiamo ricordare, per esempio, che i sacerdoti della Magna Mater romana si vestivano da donna e praticavano la castrazione per esaltare ancor di più la loro natura neutra, così come le sacerdotesse etrusche ostentavano il fallo di legno in pubblico con lo stesso obiettivo. Non si trattava di travestitismo, come trasmutazione verso il sesso opposto, ma di una manifestazione della non dualità androgina. 298


Sacerdoti di Kumâra, Tamil Nadhu Nello Shiva Swarodaya, poema tantrico sulle pratiche dello yoga, sono menzionati quattordici tipi di persone caratterizzate dall’erotismo non riproduttore, in cui la castrazione, l’impotenza sessuale, la castità e l’omosessualità sono le maniere più comuni per sfuggire alla continuità genetica del lignaggio degli antenati, alle funzioni biologiche, e per dare una risposta a disegni trascendenti. La riproduzione animale, biologica, non è altro che un sostituto ingannevole dell’eternità, effimera illusione di continuità terrestre, composta da individui separati, mortali, che accade soltanto nella sfera del temporale. Perciò il puer aeternus rappresenta la vera generazione nell’eternità, oltrepassando la finitezza dell’individuo condizionato dal corpo fisico. La dualità antitetica fra Monoteismo e Politeismo è superata, nella tradizione indù, dall’Enoteismo, ossia la credenza che esiste soltanto un Dio con molteplici manifestazioni e isotopie culturali. Effettivamente possiamo incontrare tali manifestazioni nella cultura occidentale, cominciando da Iacchus, l’aspetto eternamente giovane di Dioniso, venerato nei misteri orifici, e a cui Ovidio attribuisce, per la prima volta, l’epiteto di puer aeternus. Queste similitudini fra miti dionisiaci e la tradizione del culto di Shiva, sebbene evidenti alla luce degli studi più recenti, erano già conosciute dagli antichi. Alessandro Magno parte alla conquista dell’India esattamente perché nella mitologia greca questa era considerata la dimora di Dioniso. Quando i regni dell’India furono annessi al suo Impero, esistette un’intensa relazione culturale fra le élites spirituali d’Occidente e d’Oriente. Si arrivò così a proclamare che Dioniso e Shiva fossero la stessa divinità. Oggi sappiamo che entrambe le tradizioni provengono dalla cultura ancestrale indoeuropea, e che condividono innumerevoli profili comuni. Il vantaggio di studiare l’Oriente, in questo aspetto, è quello di avere a che fare con informazioni di una tradizione viva, le cui pratiche spirituali possono forse chiarirci i misteri dell’Occidente antico. Per questo non ci sorprende che Eros e Ganimede condividano molti degli attributi di Kumâra, entrambi giovani ed eterni. Kumâra è rappresentato come un arciere, come anche Kama e l’Eros dei greci, il che ne fa isotopie di una stessa realtà spirituale. Eros nasce senza gestazione femminile, così come Dioniso, Kama e Kumâra, e non hanno madre poiché rappresentano l’unità originaria, anteriore alla scissione dei generi, che tutti gli esseri cercano di rincontrare nell’unione sessuale. Dioniso è generato nel corpo di suo padre Zeus. Zeus a sua volta si fa accompagnare da Ganimede, il giovane eterno suo amante, evidente avatar del puer aeternus: la sua passione nasce dalla sublimazione sensuale 299


che assorbe il giovane mortale e lo getta sulle altezze dell’Olimpo. In tutte queste figure esiste un denominatore comune, Eros, volto dalle mille forme che si nasconde indelebile nell’aspetto più profondo di questo mistero. Nella sua forma cosmica primordiale Eros ha il nome di Phanes, il castrato Urano, padre di tutti gli dei, perché prima che qualcosa esista è necessario che esista il desiderio di creare. Eros appare prima dell’esistenza, in un senza-tempo anteriore alla creazione, all’origine di tutte le cose. Come Kama è il seme di tutto, e la ragione d’essere dell’esistenza: l’universo esiste soltanto a causa dell’amore e per l’amore. Phanes, l’aspetto cosmico di Eros, appare allo stesso modo sotto forma di puer aeternus, raffigurato all’interno dell’uovo cosmico. La Via Lattea si compone del suo sperma e lo zodiaco configura la sua aura. Appare anche rappresentato, come molte delle figure di Kumâra, avvolto nel serpente del tempo, che rassomiglia a sua volta al serpente che avvolge il fallo di Shiva, dal momento che Phanes è l’omphalos cosmico. Il serpente del tempo tappa anche, con la sua testa, la cima di questo omphalos. Possiamo certo incontrare altre manifestazioni della figura puerile imperitura in tradizioni, tempi e luoghi distinti. Per esempio, potremmo mettere in rilievo che il nome del grande patriarca immortale del Taoismo, Lao Tze, 老子, significa letteralmente “bambino eterno”. Tenendo presenti queste informazioni non ci sorprendono le caratteristiche marcatamente dionisiache di Peter Pan, puer aeternus dell’immaginario infantile. Così come non ci risultano strani i riferimenti marcatamente dionisiaci nella persona di Tadzio, personaggio di Thomas Mann, forse il puer aeternus più celebre della letteratura e del cinema. Secondo Mann, Morte a Venezia è il dramma che racconta la vendetta di Dioniso contro gli ideali estetici apollinei. Tadzio incarna la bellezza androgina, istigando la passione omoerotica che distruggerà i valori delle convenzioni sociali, e manifesterà chiaramente l’eterna figura di Iacchus, nella sua funzione iniziatica. Ma ciò che più conta è che, attraverso la ricchissima simbologia dell’eterna gioventù, possiamo intravedere un’altra spiritualità, agli antipodi dell’odio verso il carnale tipico delle religioni del libro, in lotta fratricida fra corpo e spirito, e i suoi innumerevoli falò e inquisizioni. E, allo stesso tempo, ci troviamo più prossimi alla poesia, principalmente a quella maudite, in cui si sono rifugiate molte vestigia spirituali vive della coscienza metafisica. Non sarà lo stesso Rimbaud un giovane Iacchus? Lui, che a sedici anni ci rivelò, in sintesi, i principi del tantrismo orientale: “Je dis qu’il faut se faire voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens”. Traduzione dal portoghese di Manuele Masini

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MANUELE MASINI IL BAMBINO IMPERATORE DEL MONDO

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Se c’è un regno in questa terra che ci è familiare e allo stesso tempo estraneo, chiuso nei suoi limiti e allo stesso tempo senza frontiere, questo regno è l’infanzia. A un tale paese innocente, da cui si è esclusi sempre troppo presto, si fa ritorno solo in momenti privilegiati, e a questi ritorni diamo il nome, a volte, di poesia. Eugénio de Andrade

I ANTEFATTI Nei primi tempi viviamo, ma non esistiamo. Allora ero un’anima che abbozzava un corpo; e tutto era anima davanti ai miei occhi […] Avevo sette anni. Fra me e gli altri non c’era distanza. Io ero tutto e tutti. Teixeira de Pascoaes Il poeta surrealista Mário Cesariny, affermava che il Portogallo è un paese specialmente votato all’immaginazione, un “paese fanciullo”. Un paese capace, continuava, di attendere per secoli il ritorno di un re scomparso, novello Artù, in cui si identificavano le speranze di rinascita profetica di un intero popolo. In effetti Dom Sebastião (1554 – 1578), salito al trono infante, e con poteri effettivi già dall’adolescenza, incarna perfettamente la figura del puer aeternus. Ossessionato da idee messianiche, scomparso sul campo di battaglia di Al-Kasr al-Kbir, nel corso di un’impresa senza speranza, senza lasciare eredi, provocò una crisi dinastica che avrebbe portato all’annessione del Portogallo alla Spagna. Ma questa singolare figura, come scriverà in pieno ‘900 il poeta Teixeira de Pascoaes, sarà di un’importanza essenziale all’interno della definizione del mito della nazionalità portoghese, e in modo del tutto singolare: “piuttosto dopo morto che quando è in vita”. Attorno a questo simbolo della nazionalità scriveranno, fra gli altri, autori dell’importanza del gesuita António Vieira, che ne farà uno dei tasselli delle teorie messianiche della sua Storia del Futuro (storia teologica che vede nel Portogallo il Paese destinato a fondare un impero eterno e di pace), e, molto più tardi, il già citato Teixeira de Pascoaes, il filosofo e pensatore portoghese Sampaio Bruno (che gli dedicherà un intero volume) e il Fernando Pessoa degli scritti sul “Quinto Império” e del poemetto Mensagem, la cui struttura tripartita già di per sé rimanda a una lettura esoterica. Non è un caso che il re abbia storicamente ricevuto tre epiteti: quello di desejado – desiderato – in quanto la sua nascita evitò una crisi dinastica in verità solo rimandata; encoberto – occultato – una volta scomparso sul campo di battaglia e depositario di speranze messianiche; restaurato, infine, ogni volta che fu identi302


ficato con un nuovo possibile pretendente al trono che potesse restituire l’indipendenza al Paese. Il re scomparso si trasforma così in una di quelle figure della nazione, letta come chiave simbolica e necessariamente allegorica di una storia mai separata dalla teologia, o di progetti politico-culturali come quello pessoano, tanto legato tanto alla poesia quanto alla mito-critica. Ombra di un sogno “costantemente prossimo”, nebbia attraverso la quale si svelerà la luce, prova postuma della nazionalità (come scrisse Oliveira Martins), e, in sintesi, idea-limite, isola sempre da raggiungere (“il mistero del mondo risiede nelle isole”, affermava Michelet), utopia dell’identificazione di una nazionalità sempre in fieri. Il dramma dell’io diviso, del resto, di cui in lingua portoghese furono massimi interpreti Fernando Pessoa e Teixeira de Pascoaes, affonda le sue radici nel mistero di un’infanzia perduta e non poche volte ripensata nel presente in piena libertà immaginativa. Se pensiamo all’opera e alla vita di Pessoa, è facile constatare che il segno di una frattura è originato dalla morte del padre e dal trasferimento in Sud Africa, come il poeta testimonia in modo dilacerato nel poema Aniversário, dell’eteronimo Álvaro de Campos, controcanto sia della poesia di riconciliazione di un Alberto Caeiro, sia delle speranze profetiche dell’ortonimo di Mensagem. L’io armonico dell’infanzia che non distingue la frontiera fra il sé e le cose (e si concepisce come prolungamento e parte di queste), è costantemente rotto dal dramma della coscienza e del pensiero, e questa antitesi insolubile produrrà tanto i mirabili scritti in prosa di Pascoaes (Verbo Escuro, O Bailado, O Pobre Tolo, o le Memórias) quanto alcuni dei testi pessoani più noti, dalla Tabacaria alle Lisbon Revisited di Campos, dalla Cefeira ortonima alla poesia di Caeiro. In entrambi l’infanzia è identificata da un lato con la patria perduta (spesso un feticcio: una patria mai esistita e posseduta nel puro spazio immaginario di una lettura retroattiva), o alle attese messianiche già riferite che, partendo dal libro di Daniele, possono aver influenzato tanto le teorie gioachimite quanto Dante in Inferno XIV, 103 segg., quanto infine lo stesso padre António Vieira nella sua Storia del Futuro. Infanzia, Patria o Paradiso, perduti, finiscono poi per coincidere, sulla scia dei grandi romantici, in un luogo poetico in cui il contatto col divino, l’evocazione di una felicità remota – tanto nella storia personale come in quella collettiva – e la ricerca sul linguaggio, collimano. L’infanzia è lo spazio del ludico, così presente in Nietzsche, e anche la metafora di un dinamismo creativo che sospende la pesantezza del tempo (del tempo del mercante, non a caso…), sebbene questa esaltazione dell’a-storico spesso porti a vicoli ciechi: lo iato che separa la meditazione riflessa (la scrittura come il pensiero), da un ideale di azione, è difficilmente eludibile, e drammaticamente vissuto, tanto, per non citare che due fondatori della cultura moderna, in Nietzsche, come in Baudelaire (si ricordi del primo il famoso Sull’utilità e il danno della storia per la vita, e del secondo alcuni passi de I Paradisi artificiali o de Il pittore della vita 303


moderna). Ma certo è che nelle poetiche romantiche e post-romantiche anche l’idea di patria finisce per coincidere con l’infanzia, questa volta l’infanzia di una nazione, di cui il popolo (nella sua supposta freschezza e ingenuità), conserva ancora il canto. In Portogallo sarà Pascoaes a farsi interprete di queste istanze, tanto da compilare un esteso saggio sulle principali linee della poesia lusitana in cui le varie correnti sono classificate secondo questi principi: all’esplosione creatrice corrisponde il momento di formazione dello spirito e la speranza, identificabile con l’idealismo romantico (fanciullezza), mentre la cristallizzazione coincide con il momento della memoria, e quindi del realismo classico (senilità). Tuttavia quel romanticismo che a ben vedere non ha mai smesso di informare la nostra contemporaneità ha cercato di perpetuare il momento incipiente della creatività, e di scoprire la prima alba del mondo a ogni nascere di sole: così Pascoli, così lo scrittore e pittore portoghese Almada Negreiros (nella sua magnifica prosa poetica L’Invenzione del Giorno Chiaro), così il Kandinsky de Lo Spirituale nell’arte. Non per caso in tutti il recupero dello sguardo infantile (che è anche quello dell’Alberto Caeiro de Il Guardiano di greggi), corrisponde al superamento di un soffocante materialismo e alla ricerca di una nuova unità fra spirito e corpo. Obiettivo tutto poetico, ma nel senso in cui nessuna poetica può essere svincolata da una teologia. La sospensione del tempo è perciò analoga a quella raccontata nella cantiga 103 del re poeta Alfonso X el Sabio, in cui un monaco, curioso di sperimentare in terra cosa sia il Paradiso, è graziato dalla Vergine che, nello spazio topico di un hortus conclusus, opera al fine di fargli perdere completamente la nozione del tempo che scorre.

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II AGOSTINHO DA SILVA Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di fanciulli Gioacchino da Fiore L’intuizione geniale di Agostinho da Silva1 fu quella di assemblare una serie di tasselli che corrispondono ad altrettanti elementi fondatori della cultura portoghese in una teoria coerente. Partendo dalla storia medievale portoghese, e dal suo accentuato municipalismo (simbolo di una democrazia diretta e di una gestione locale delle risorse), e considerando l’ampia diffusione in Portogallo del monachesimo francescano di tendenza spiritualista e delle teorie gioachimite (soprattutto grazie all’operato del re poeta Dom Dinis e della regina Santa Isabel), Agostinho si fa lettore acuto dell’opera di Gioacchino da Fiore, che in modo così armonico si può affiancare tanto all’utopia dei canti IX e X delle Lusiadi di Camões, quanto al suo completamento, la già citata Storia del Futuro di padre António Vieira. Ma alla parte erudita della teoria si affianca la riscoperta in loco di vestigia portoghesi di un antico culto dello Spirito Santo e dell’avvento del nuovo regno, o impero, dello Spirito, epoca di pace e fratellanza in terra, autentico recupero del Paradiso perduto. Le feste dello Spirito Santo, ancora vive nelle isole Azzorre, in Brasile e nelle aree periferiche del Portogallo, conservano, seppure imprigionate in una sorta di carnevale bachtiniano e in una dimensione folklorica, la memoria della diffusione delle teorie gioachimite in terre lusitane, di cui inscenano uno degli aspetti più affascinanti: l’incoronazione dei bambini imperatori del mondo. Questi procedono poi all’apertura delle carceri (sospensione del concetto di colpa e punizione), e all’offerta di un banchetto (ideale della gratuità del quotidiano). Sulla base di tutti questi precedenti e abbracciando un pensiero utopico fattivo, il filosofo e divulgatore luso-brasiliano ribadisce i principi base della sua idea di società: l’elogio del ludico e dell’infanzia, l’elogio della gratuità, l’elogio della poesia e della creatività completamente libere, che ne sono le più evidenti manifestazioni, e che risiedono ugualmente in ciascun individuo (“tutti gli esseri umani sono eccezionali – dirà – nella misura in cui ciascuno rappresenta un’eccezione unica sia dal punto di vista fisico che psichico”). La creatività spontanea è elevata a unico vero obiettivo dell’uomo, all’interno di una sospensione del tempo e di un assorbimento totale tipicamente infantile, capace di restituire una perduta unità originaria: superamento positivo 306


del lacerante dilemma pessoano dell’io diviso. Sulla base di questi principi, Agostinho svilupperà il suo pensiero filosofico e pedagogico e, sul fronte creativo, ne farà la base della sua personalissima interpretazione dell’opera di Pessoa (dal titolo eloquente di “Un Fernando Pessoa”). Attraverso la rilettura dell’eteronimo Alberto Caeiro e soprattutto della narrativa quasi eretica che, all’interno de Il Guardiano di greggi, immagina il ritorno di Gesù Cristo, questa volta però eterno irriverente bambino, mai condannato al calvario e alla croce, Agostinho sferra una giustissima e feroce critica alla castrante società capitalistica di matrice protestante, che trasformando precocemente i bambini in adulti li inserisce nell’ingranaggio soffocante di un vuoto mito della produzione e del lavoro. Il filosofo portoghese intuisce già negli anni ’50 che vuote erano anche le speranze riposte nella Comunità Europea la quale non avrebbe fatto altro che allargare il principio del consumo-produzione-consumo. L’utopia di Agostinho non smise mai, scommettendo un atlantismo meridionale e luso-tropicale, di affermare un suo contro-principio, rivendicando per il Portogallo, paese fanciullo, un ruolo storico e propulsore. L’utopia della poesia e della gratuità trovano il loro sostegno in un ripensamento del linguaggio e della creatività finalmente liberati, in un recupero dell’infanzia come percezione della realtà e modi di rappresentarla, per una riconciliazione di materia e spirito, affinché, in un certo senso, tutto il tempo e tutto lo spazio tendano a coincidere in un luogo geometrico in cui desiderio e destino sono la stessa cosa.

1 Agostinho da Silva (1906 – 1996) fu uno dei più intensi, originali e paradossali scrittori porto-

ghesi. Filosofo, pensatore a tutto tondo, pedagogo, storico della cultura, i temi centrali della sua produzione furono le culture di lingua portoghese, valorizzate nella loro diversità ma anche nella necessità ecumenica di un abbraccio luso-tropicale universalista, e l’utopia di un futuro rigenerato di pace e di creatività. 307


VINCENZO GUARRACINO PUERILIA LEOPARDI

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“Indizi”, “segnali della predestinazione alla poesia”, aveva già definito nel ’72 le prime “puerili” prove di Giacomo Leopardi Maria Corti nel presentarne una gran messe (ben 160) sotto il titolo suggestivo “Entro dipinta gabbia” (Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810): “germi o segni embrionali del futuro”, inquadrabili entro un ambito di onesta esercitazione retorico-morale, conforme agli schemi di una pedagogia impostata su presupposti umanistici di educazione alla letteratura come elemento di civile elevazione e privilegio. Presagi, dunque, di ciò che Giacomo sarà in grado nel tempo di produrre, tanto in prosa che in poesia: un coerente percorso di formazione scolastica, sotto la guida di insegnanti scelti all’uopo dal conte Monaldo, che va dalle prose latine del 1809, caratterizzate da un impettito impianto retorico ma a tratti ancora zoppicanti in quanto a morfologia e sintassi, alle più sicure prose italiane dello stesso anno (Descrizione di un incendio, L’Amicizia, Descrizione del Sole per i suoi effetti), per approdare, dopo l’incunabolo “eroico” del sonetto La Morte di Ettore (“la prima mia Poetica composizione. 1809”, secondo lo stesso autore), a una materia più varia e complessa, dalle feconde implicazioni, che delineano il quadro di una formazione dai canonici contorni settecenteschi, coerente con le attese di un ambiente sociale quale è quello familiare, ma non senza qualche timido tentativo di personale rielaborazione. Quasi un guardarsi intorno, dunque, un prendere coscienza di sé e delle proprie risorse all’interno di un recinto ben protetto: insomma, “molto moto d’immaginazione e molta attività di lavoro”, per dirla con Francesco De Sanctis, prima di avventurarsi in territori nuovi, dove certa attitudine alla contemplazione non passiva del paesaggio e una razionalità a tratti corrosiva e sulfurea fanno già presagire sviluppi ben al di là di questa stagione di noviziato letterario. È una ricerca che si sviluppa in molteplici direzioni traducendosi in un ampio campionario di forme, in componimenti poetici (poemetti, sonetti, anacreontiche, canzonette, versi martelliani, terzine, quartine, sestine, endecasillabi sciolti) e prosastici in italiano e in latino e concernenti argomenti disparati: dai temi arcadicamente idillici delle canzonette della raccolta La campagna del 1809 e dell’idillio La spelonca del 1810, alla materia biblica degli sciolti del Sansone (1809) e dei poemetti Il Balaamo e I Rè Magi, al gusto patetico e grandioso delle tre Notti Puniche, del Catone in Affrica e de Il Diluvio Universale, tutti del 1810, alla vena moralistica ed epigrammatica delle favole in versi, ai toni scherzosi e burleschi dei versi martelliani Contro la minestra (1809), delle lettere e dei sonetti indirizzati al precettore don Sanchini, degli scherzi in versi per la sorella Paolina (“Delle Donne l’esemplare,/l’immortal Dama erudita/fin da Tullio riverita”, 1810) e della spiritosa lettera della Befana Alla Signora Marchesa Roberti (1810), per concludere infine con il “sublime” delle due tragedie La virtù indiana del 1811 e Pompeo in Egitto del 1812. 309


A conferma di ciò, val la pena soffermarsi per un attimo su un testo, L’Ucello, che si inscrive all’insegna di un tema trattato poi dal Leopardi maturo più volte e da particolari angolazioni di significato. Protagonista di una delle tre “favole morali” in versi (assieme a Il Sole e la Luna e L’Asino e la Pecora, composte tra 1809 e 1810), L’Ucello, ispirato probabilmente a due testi poetici di Giovanni Battista Roberti, rappresenta l’audace impresa di un uccello, che “de l’abbondanza immemore” abbandona “l’usato albergo”, dispiegando lieto e giocondo le sue ali, ancorché in un “volo non bene esperto”, oltre “l’ozio e il diletto” della sua gabbia verso cieli di libertà, a testimonianza del fatto che “di libertà l’amore” giammai può essere conculcato “in un giovin cuore”. Testo emblematico quant’altri mai, la “favola” delinea uno dei motivi, secondo solo alla Luna, che accompagneranno Leopardi per tutta quanta la vita. Tanto importante, l’Uccello, da tradursi addirittura in motivo anche iconico, segnato e ripetuto, a siglare carte puerili zeppe di appunti e testi poetici, quasi a fissare già da ora inquietudini e aspirazioni, insofferenze e repulsioni nei confronti della “dipinta gabbia”, come dire del “loco natio”, da osservare da conveniente distanza, possibilmente dall’alto, da un “colle” o “d’in su la vetta” di una “torre antica”. È all’interno di questa immagine, dell’uccello della favoletta in settenari, che si disegna un’esperienza esistenziale già consapevolmente in perdita, anche se moralmente fecondissima, che pare trovare lucida intuizione ed espressione nel momento stesso in cui convenzionalmente si situa la nascita vera e propria dello scrittore, in quel Diario del primo amore (1817), dove il giovane contro oggettive e soggettive incapacità disegna le proprie scelte: “non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere...”. Ma ora veniamo allo specifico di due autografi, che, testé scoperti, si aggiungono ai numerosi testi “puerili” fin qui noti, dei quali condividono natura e qualità. Si tratta di due composizioni poetiche, databili al 1810, e legate a figure dell’ambito familiare, la prima alla nonna paterna, la seconda a don Sebastiano Sanchini, precettore di casa Leopardi tra il 1807 e il 1812: nel primo caso, per indirizzare all’ava uno spiritoso omaggio poetico; nel secondo per protestare contro una bizzarra decisione del pedagogo. La prima delle due, Alla Signora Contessa Virginia Leopardi, è costituita da 18 versi martelliani e reca la data del 25 giugno 1810, a ridosso insomma del dodicesimo compleanno dell’autore (29 giugno), e fa il paio con la già conosciuta lettera “ditirambica” alla stessa del 1811. Contenutisticamente, come si diceva, è un spiritoso omaggio poetico alla nonna, descritta in toni molto affettuosi (comprensiva, gentile e con “volto placido”, oltre che “amica” e di “rare doti” e “pregi nobili egregi”), salvo rivelarsi 310


presto l’occasione per esporre una propria personale concezione della poesia, dettata da motivazioni affettive ed etiche, di contro a certi poetastri che la poesia la concepiscono come ozioso armeggiare con versi altrui nella speranza di comporre “vaghi concenti” di fiori poetici. Ancor più interessante, poi, dal punto di vista formale, dove vivacità del metro e variegata tastiera di registri verbali e stilistici rivelano un talento davvero notevole per la giovane età dell’autore nell’adoperare e modulare con disinvoltura strutture ritmiche e tecniche espressive. È un’abilità, questa, che a livello metrico conferma le qualità riscontrate nei martelliani di Contro la Minestra dell’anno precedente e che per quanto riguarda l’aspetto linguistico avvalora ciò che già era emerso da un testo probabilmente dello stesso 1810, ossia la lettera Alla Signora Marchesa Roberti, spiritosamente firmata La Befana (“Carissima Signora. Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro portone, e poi tirare avanti il mio viaggio...”). Rispetto ai martelliani di intonazione burlesca di Contro la Minestra (“O cibo, invan gradito dal gener nostro invano! / Cibo negletto, e vile, degno d’umil villano! / Si dice che risusciti, quando sei buona i morti; / Ma oh detto degno d’uomini invero poco accorti!”), la composizione Alla Nobil Donna La Signora Contessa Virginia Mosca Leopardi mostra infatti un andamento ritmico più agile sostituendo alla contegnosa misura dei doppi settenari piani del testo del 1809 un verso costituito da un settenario sdrucciolo e uno piano, a riprova di una tecnica scaltrita e musicalmente orchestrata che darà i suoi frutti nella lettera “ditirambica” Alla Signora Contessa Virginia Mosca Leopardi del 1811, cui il ragazzo indirizza “ardito” un canto, previo un giocoso rituale (“Già salisco sul Parnaso / tutto pien di buon umore; / pria mi soffio un poco il naso / ed asciugomi il sudore”), augurandosi che possa risultarle “aggradito”, onde conseguire “di gloria il vanto”. Al di là dell’aspetto metrico, va rilevato un altro dato ancor più significativo. Alla Signora Contessa Virginia Leopardi, proprio a specchio dei due testi citati, ossia Contro la Minestra del 1809 e la lettera della Befana del 1810, istituisce una singolare linea di continuità nell’uso e nello sviluppo di quei registri burleschisatirici, che rivelano una precisa presa di distanza, lo stesso progressivo distacco morale nei confronti dell’ambiente circostante, familiare e cittadino, che abbiamo riscontrato dietro i versi de L’Ucello del 1810 e che da lì negli anni successivi si tramuterà in un dato caratteriale sempre più marcato e coerente. L’altro testo, All’Illustrissimo Signore Don Sebastiano Sanchini, è un’epistola poetica composta da 40 versi polimetri, in strofe di ineguale estensione (ottonari, quinari e decasillabi), secondo il modello bernesco. Sottoscritta dall’autore e perfino circostanziata in quanto a data e luogo di composizione (“Recanati è il mio paese,/e d’Ottobre siam nel mese”), 311


l’”epistola” risale al 1810 e in un certo senso costituisce l’anello mancante di una spiritosa trilogia comprendente tre testi, quasi una sorta di gioco poetico, di “imbroglio”, che trova nella conclusione il suo scioglimento e disvelamento. Tutti e tre creano un vivace “teatrino” familiare, che dietro la figura del “precettor gioioso e gaio” lascia intravedere una piccola comunità scandita da abitudini e ritualità vissute con l’impegno di chi vede in esse sintetizzato tutto il proprio mondo e lo vive in modo serio e al tempo stesso leggero. Nei due già noti, dunque, indirizzati rispettivamente All’Illustrissimo Signor Don Sebastiano Sanchini e All’Illustrissimo Padrone Colendissimo Il Signor Don Sebastiano Sanchini, il giovanissimo “scrittore” si rivolge al suo “gran Precettore”, non senza una punta di malcelato umorismo nella caratterizzazione del personaggio (“che va sempre con il sajo” ed è proclive, data anche l’età, ad appisolarsi durante il lavoro soprattutto serale, con un sarcastico invito, “State a far la vostra nanna”), perché accetti con animo benevolo quanto l’autore gli indirizza, ossia due sonetti, svolti come compito sgradito. Notevole l’ironico ritratto del personaggio, il precettore (“gioioso e gaio” e “Immortal Poeta invitto”, nel primo, e “dotto amico Vate” e addirittura “Precettor di Pindo gioia”, nel secondo), che costituisce di tutti e tre i testi il perno essenziale e l’oggetto dell’omaggio dei primi due, e dello scherzoso rimbrotto del terzo. Perché il succo di tutto è proprio un rimbrotto, ancorché con giocoso rispetto, sintetizzato subito nei primi versi: “Mi par cosa vergognosa / senza dire qualche cosa / il dovere incominciare / verso sera a studiare”. La situazione è presto detta: di ritorno dalle vacanze estive, il precettore, in vista dell’esame annuale ha deciso di allungare l’orario giornaliero di studio ai tre rampolli, già insofferenti nei confronti di uno “studio ch’è non poco faticoso”, aggiungendo anche tre ore serali, e la cosa non è andata giù soprattutto a Giacomo che ha deciso di dar mano alla penna e di vendicarsi, pur professandosi “Servitore Devotissimo” e “scolare obbligatissimo”. Dando prova così di fermo ardire ma anche di buon profitto nell’esercizio della versificazione, che costituisce uno degli impegni di studio legati alla lettura e traduzione dei classici. Il risultato è un testo vivacemente espressivo, che travolge sì la figura del maturo precettore in una cascata di ottonari, quinari e decasillabi con effetti gustosamente ironici e a tratti addirittura parodici, ma dà insieme concreta testimonianza delle capacità acquisite dal giovanissimo autore.

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HANNO COLLABORATO

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NUNO MIGUEL AFONSO è nato a Lisbona, dove vive, nel 1972. Ricercatore nell’area dell’estetica e della teoria dell’arte contemporanea, si interessa in particolar modo della performance in rapporto alla speculazione sulla “Morte dell’Arte”. Scrittore, filosofo e performer, da sempre lavora su un piano interdisciplinare. È artista plastico, scenografo, ha partecipato a numerosi progetti artistici e insegnato Arte ed Estetica del Rinascimento. Ha pubblicato diversi contributi nell’ambito dell’estetica. Fa parte del Centro di Ricerca Francisco de Hollanda della facoltà di Belle Arti di Lisbona.

EOZEN AGOPIAN è nata ad Atene nel 1960. Dal 1980 al 1993 ha vissuto negli Stati Uniti dove ha ottenuto il Bachelor of Fine Arts, Hunter College, N.Y. (1989) e il Master of Fine Arts, Pratt Institute, Brooklyn, N.Y. (1992). Ha tenuto nove personali: Invisible Thread Higgins Gallery, Pratt Institute, Brooklyn, N.Y., 1992; Paintings and works on paper Michael Walls Gallery, N.Y. 1993; Epanasundesis Gallery Thema, Athens 1995; Cords Gallery Thema, Athens, 1997; Under Thread Gallery Kaplanon, Athens, 2011; New Museum of Contemporary art, Municipality of Renti, 200 – Gallery Monohoro 2003 and 1999; Double Space Galleria Kaplanon, Atene, 2011.

SILVIO AMAN ha curato la raccolta di saggi Memoria, mimetismo e informazione in teatro naturale di Giampiero Neri (Edizioni Otto/Novecento, Milano, 1999); la raccolta di poeti svizzeri (Brigjet Sponde, Gjakovë, 2015) e pubblicato un’ampia antologia di poeti e scrittori svizzeri (in Hesperos, La Vita Felice, Milano, 2001). Ha partecipato a La poesia della Svizzera italiana (Poschiavo, CH, L’ora d’oro, 2015). Nel 2009 è uscita la monografia Robert Walser, il culto dell’eterna giovinezza (Giampiero Casagrande, Lugano, Milano). Libri editi di poesia: Sinfonia alpina (Balerna, CH, Edizioni Ulivo, 2004); Nel cuore del drago (Novara, Interlinea Edizioni, 2005); Ariele (Moretti & Vitali, Bergamo, 2010) di cui dieci poesie sono apparse nel numero di novembre 2009 della rivista Poesia dell’Editore Crocetti, e L’orifiamma (Nomos Edizioni, Busto Arsizio, 2013). Ha tradotto Hermann Hesse, Robert Walser e alcune poesie di Christine Koschel nel volume Nel sogno in bilico (Mursia, Milano, 2011). 314


VINCENZO AMPOLO vive a Lecce e è psicologo-psicoterapeuta di formazione analitica ed umanistico-esistenziale, saggista e formatore. Collaboratore della rivista internazionale di psicologia analitica L’Immaginale, ha diretto riviste di pedagogia, psicologia e studi interdisciplinari, pubblicando numerosi saggi. Dal 1982 al 2013 ha coordinato le attività dell’Ente Morale di Ricerca, Formazione e Terapia “Perseo”. Tra i testi curati: La Pratica del Creativo (1988); EXTASY (1997); Musica droga & transe (1999); Diario e dintorni (2001); Voci dell’Anima - Scrittura narrazione e pratica analitica (2004); Dissociazione e Creatività - La transe dell’artista (2005); Martha Nieuwenhuijs Tra Eros e Logos (2009) Oltre La Coscienza Ordinaria - Riti Miti Sostanze Terapie (2012) In Tondo Immagini intra-viste al femminile (2017).

LORENZO BABINI, nato nel 1990 a Ravenna vive a Milano. Laureato in Filologia Moderna con la tesi Somiglianze di Milo De Angelis: edizione critica e commentata, ha collaborato a Poesia; ClanDestino; Nuovi Argomenti; Bollettino ‘900; Gradiva; Cenobio. Nel 2014 ha tradotto L’inferno del bibliofilo di Charles Asselineau per La Vita Felice e curato la voce Neoavanguardia per il Dizionario Biblico della Letteratura Italiana. Per la poesia ha vinto i premi Violani Landi, 2014 e Le Stanze del Tempo, 2015. Figura nell’antologia Davanti agli occhi c’è un ponte (Alla Chiara Fonte editore 2015). Nel febbraio 2016 è uscita per l’editore Carta Canta di Forlì la sua prima raccolta, Santa Ricchezza, Premio Opera Prima Città di Como 2016 e Premio Solstizio 2016, finalista Premio Maconi e al Premio Ceppo Pistoia.

FRANCESCO BENOZZO dal 2015 stabilmente candidato al Premio Nobel per la Letteratura per la sua poesia epica incentrata sui paesaggi naturali e su una dimensione orale e performativa del gesto poetico, è musicista e filologo oltre che poeta. Ha all’attivo più di 600 pubblicazioni e 9 CD. Gli ultimi lavori poetici sono Felci in rivolta e La capanna del naufrago (Kolibris 2015 e 2017) gli ultimi CD L’inverno necessario (Tutl Records, Danimarca, 2016) e Un requiem laico (ARCI 2016); gli ultimi libri filologici Carducci (RCS - Rizzoli Corriere Della Sera 2016) e Speaking Australopithecus (Edizioni dell’Orso 2017). Sito: www.francescobenozzo.com 315


ANTONELLA BINI è nata a Genova, dove vive. È la prima flautista italiana Laureata CIMA (2014), premio patrocinato da S.A.R. Christina dei Paesi Bassi. Si esibisce come solista, in duo con Gabriele Rota, e in Ensemble in Italia e all’estero È invitata regolarmente in Germania dal compositore Art-Oliver Simon e nel 2015 ha aperto il festival Oaarwurm 2015 di Berlino. È flautista stabile di ACHЯOME ensemble (Milano), Eutopia Ensemble (Genova), di Artensemble (Berlino). È laureata di II° livello in Discipline Musicali – Flauto Traverso (Conservatorio “Cantelli”, Novara) e in Conservazione dei Beni Culturali – Curriculum Storico/Artistico all’Università degli Studi di Genova. Un suo saggio sulla Gubajdulina è pubblicato in eBook per le edizioni LeggereLeggere.

DONATELLA BISUTTI è nata e vive a Milano. Raccolte di poesia: Inganno Ottico (Guanda 1985); Penetrali (Boetti & C. 1989); Violenza (Dialogolibri 1999); La nuit (Éditions Unes 2000); Bestiario Fantastico (Viennepierre 2002); La Vibración de las Cosas (SIAL, Madrid, 2002); Colui che viene (Interlinea 2005); The Game (New York, Gradiva, 2007); Rosa Alchemica (Crocetti 2012); Un amore con due braccia Lietocolle 2013); Dal buio della terra (Empiria 2015). Sulla poesia: L’Albero delle Parole (Feltrinelli 2002); La Poesia salva la vita (Mondadori 1992, Feltrinelli Tascabili 2009); Le Parole Magiche (Feltrinelli 2008); La poesia è un orecchio (Feltrinelli 2012). Il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri è uscito da Bompiani (1997). Nel 2017 sono uscite da Einaudi Ragazzi le filastrocche Storie che finiscono male. È Fellow della Bogliasco Foundation.

GIANLUCA CAPUANO, nato a Milano nel 1968, musicista appassionato di filosofia, filosofo dedito alla musica, svolge un’intensa attività come direttore e organista in Europa, Usa, Israele e Giappone. Laureato in filosofia teoretica all’Università Statale di Milano, perfezionatosi presso l’Università di Freiburg I. B., continua a dedicarsi agli studi di filosofia occupandosi soprattutto di estetica musicale. Ha pubblicato per l’editore Jaca Book il volume I segni della voce infinita in cui svolge un’indagine filosofica sull’origine della scrittura musicale. 316


LUIGI CARACCIOLO è nato il 7 di marzo del 1954 ad Ariano Irpino, vive a Mantova. Docente in Scienza e Tecniche Investigative e Storia delle Organizzazioni Criminali presso la Scuola di Alta Formazione in Scienze Criminologiche Istituto FDE di Mantova; Esperto di Sicurezza Urbana Componente il coordinamento scientifico della rivista Crimen et Delictum-International Journal of Criminological and Investigative Sciences. Storico della letteratura poliziesca, ha più volte partecipato a festival e rassegne del genere sia come componente di giuria sia come esperto in grado di dialogare con gli autori. Dal 2012 è responsabile della Sezione Gialli del festival letteratura di Mantova.

ANNA MARIA CARPI è nata e vive a Milano. Ha insegnato letteratura tedesca nelle Università di Macerata e di Venezia. È autrice di raccolte di poesia, saggi (Celan, Benn, Th. Mann, Handke), racconti, quattro romanzi due dei quali apparsi anche in tedesco (E sarai per sempre giovane, Forever young, Rowohlt 1997, e Kleist, ein Leben, Insel 2011). In Germania è uscito il volume Entweder bin ich unsterblich, Hanser, Monaco 2015, testo a fronte, trad. di P. Salabé, postf. di D. Gruenbein. È traduttrice (Nietzsche, Rilke, Benn, Enzensberger, Gruenbein, Krueger e altri, Premio ministeriale per la traduzione 2011 e Premio S. Elpidio 2014). Nel 2014 ha vinto il Premio Carducci per la poesia. Nel 2016 è uscita da Marcos y Marcos l’antologia E io che intanto parlo. Poesia 1990-2015 con prefazione di Fabio Pusterla.

GANDOLFO CASCIO è nato a Norimberga nel 1974 è cresciuto in Sicilia e vive in Olanda dove, all’università di Utrecht, insegna Letteratura italiana e Traduzione e dirige il centro di studi danteschi. Ha pubblicato i saggi Variazioni romane (2011); Michelangelo in Parnaso (2013); Un’idea di letteratura nella “Commedia” (2015) e come poeta il volume Admeto (2005) e la plaquette Ik bemin/Il ragazzo bello (2009). Al momento lavora a un nuovo libro di liriche intitolato Giovenzio. www.gandolfocascio.com (La foto è di Dino Ignani). 317


VALENTINA COLONNA è nata nel 1990 a Torino, dove vive. Di poesia ha pubblicato Dimenticato suono (Manni 2010) e La cadenza sospesa (Nino Aragno 2015). Ha partecipato nel 2014 al Festival Parco Poesia, nel 2016 al Festival di Genova 2016 e nel 2017 al Festival Literatur & Wein di Krems (Vienna), per il quale è uscito Wo Lyrik Zuhause ist. Valentina Colonna (Aramo Editions, Wien). Si è laureata in Scienze linguistiche con una tesi sperimentale in fonetica e ha conseguito il Máster universitario en Interpretación de la música antigua, a cura della Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e della Escola Superior de Música de Catalunya. Ha partecipato alla giornata mondiale della voce a cura del Laboratorio di Fonetica Sperimentale Arturo Genre dell’Universittà di Torino.

GABRIELE FERRACCI, nato a Roma nel 1982, è dottorando in Letterature Comparate Euro-Americane presso l’Università degli Studi di Genova e insegnante di lingua inglese nella scuola secondaria di I e II grado. Dal 2010 è membro dell’Associazione Italiana di Studi Nord-Americani (AISNA). Nel 2011 è stato traduttore e corrispondente da Genova per l’edizione americana della rivista Wired. Dal 2012 al 2014 è stato tutor didattico di lingua inglese presso il Dipartimento di Lingue e Culture Moderne dell’Università di Genova. Il suo articolo Dalla Frontiera a Camelot: il giornalismo secondo Mark Twain, è apparso sulla rivista Quaderni di Palazzo Serra nel 2014.

MARCO GIOVENALE, nato a Roma nel 1969, è editor e traduttore. È redattore di www.gammm.org, www.puntocritico.eu. Collabora a Il Manifesto. Suoi testi sono comparsi su Il Verri; Poesia; Nuovi Argomenti; Rendiconti; Semicerchio; l’immaginazione. Libri recenti: Numeri primi (Arcipelago 2006); Criterio dei vetri (Oèdipus 2007); La casa esposta (Le Lettere 2007); Soluzione della materia (La camera verde 2009); Storia dei minuti (Transeuropa 2010); Quasi tutti (Polimata 2010); Shelter (Donzelli 2010). Antologie: Parola plurale (Sossella 2005); Nono quaderno di poesia (Marcos y Marcos 2007); il volume del Premio Antonio Delfini 2009; Poeti degli anni Zero (Ponte Sisto 2011); Prosa in prosa (Le Lettere 2009). Ha curato nel 2008 per Sossella l’antologia di Roberto Roversi, Tre poesie e alcune prose. 318


MICHAËL GLÜCK, nato a Parigi nel 1946, è poeta, scrittore, drammaturgo. Ha diretto il Théâtre de la Colonne, Miramas (19851989) e tenuto corsi di scrittura teatrale nelle Università di Lione e di Bordeaux. È membro della giuria del Prix Antonin Artaud e dell’Accademia internazionale di poesia Oriente-Occidente in Romania. Prix des créateurs, 1981, per La mémoire écorchée / Abattoirs La Mouche, (Jean-Michel Place). Prix Antonin Artaud, 2004, per Cette chose-là, ma mère (éditions J. Brémond). Pubblicazioni recenti: Oranges (Espace 34); Deuxième suite pour la terre sans nous (J. Brémond); Peaux d’lapin (Wigwam); Figures inachevées avec vue sur la mer (Apogée); Le repos (L’Amourier); goutte d’encre sous la langue (pré carré); exaltation rouge (avec Martine Lafon) (Rivières); Fluctuat (in Sillages, Cadex) Passion Canavesio (L’Amourier). VINCENZO GUARRACINO è nato a Ceraso (SA) nel 1948 e vive a Como. Poeta, critico letterario e d’arte e traduttore. Poesia: Gli gnomi del verso (1979); Dieci inverni (1989); Una visione elementare (2005). Traduzioni: Carmi di Catullo (1986); Lirici greci (1991); Poeti latini (1993); Poeti greci (2011); Poeti cristiani latini (2017). Critica: Guida alla lettura di Verga (1986) e Guida alla lettura di Leopardi (1987 e 1998). Tra le antologie: Infinito Leopardi (1999); Il verso all’infinito. L’idillio leopardiano e i poeti italiani alla fine del Millennio (1999); Interminati spazi sovrumani silenzi. Un infinito commento: critici, filosofi e scrittori alla ricerca dell’Infinito di Leopardi (2001); Caro Giacomo. Poeti e Pittori per Giacomo Leopardi (1998); Giacomo Leopardi. Canti e Pensieri (2005). Inoltre El infinito y otros cantos (Pigmalion, Madrid, 2011) e Cantos sueltos (Colombia, 2017, con la traduzione di Ana Marìa Pinedo Lòpez). POLYXENE KASDA nata ad Alessandria d’Egitto vive ad Atene. Membro del IAA, UNESCO, ha partecipato alla 2a e 3a Biennale di Pechino 2005-2008, alla Biennale di Tashkent 2007, a Nuit Blanche, Parigi 2007, a Olympic Fine Arts, Pechino 2008 (medaglia d’oro), a DESIGN 2009-2011 e alla Pinacoteca di Atene. Suoi il monumento a Emile Cioran a Sibiu, Romania (1997) e quello olimpico Chrysalis / Grail ad Atene (2004). Ha realizzato il progetto Myth/Network, (1990-2010) con installazioni interattive globali, itinerari attraverso la Grecia mitica. Ha pubblicato Pais et les Sept Dormants (Lucian Blaga University Press 2007). Il suo saggio The Conscious Eye, Art-Perceptioninformatics, (Atene 1988) è confluito nel volume Artificial Intelligence insieme al professor John Kontos, nel 2015. 319


ANDREA LANFRANCHI è nato a Civitanova Marche e vive a Fermo; di poesia ha pubblicato: Vociverse (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2009, Premio Autori per l’Europa); Corpo di reato (Fara Editore 2009); A14 (Wizarts Editore 2010, silloge finalista alla XII edizione del premio Poesia di Strada); la plaquette La Pesa (La Luna 2010); Cantiere in luce (CFR editore 2014, Premio Fortini). Sue poesie sono state pubblicate nelle seguenti antologie: Dire la Vita (Anterem 2008, Premio Montano); Retroguardie (Limina Mentis 2009); Tutti tranne te (Limina Mentis 2010); Le parole disabitate (Le voci della Luna 2010, Premio Mezzago Arte); La torre dell’Orologio (Pro Loco di Porto Sant’Elpidio, 2011, VII edizione premio Città di Porto Sant’Elpidio). È inoltre presente nelle seguenti riviste letterarie, cartacee e on-line: Le voci della Luna, Argo, Arcipelago Itaca, La dimora del tempo sospeso. Collabora anche con l’associazione culturale marchigiana “La Luna”. PAM LONGOBARDI, nata nel 1958 a Glen Ridge, New Jersey, conta più di quaranta mostre personali e 65 collettive in USA, Cina, Italia, Spagna, Finlandia, Polonia, Giappone, Grecia e Marocco, ed è presente in collezioni pubbliche e private. Insegna arte alla Georgia State University di Atlanta e a lei si deve il Drifters Project 2006, sull’inquinamento da plastica degli oceani. Ha preso parte alla NY ARTS in occasione delle Olimpiadi 2008 a Pechino, a ARTLIFE for the world nel 2009 alla Biennale di Venezia (Arte Visive). Ha pubblicato nel 2010 il libro Drifters: Plastics, Pollution and Personhood (Edizioni Charta, Milano). Ha esposto Voyages on an Uncanny Sea alla Gallery Diet di Miami, e in Oceanomania al Nouveau Musée National di Monaco e il Savvy Contemporary di Berlino. MASSIMO MAGGIARI è nato a Genova-Nervi. Attualmente vive a Charleston, nella Carolina del sud, dove insegna lingua e letteratura italiana all’università locale. Nel 2015 ha pubblicato Il respiro della rosa. Viaggio nei versi che fanno anima (Agorà) e un libro di poesia, mitopoiesi e riflessione junghiana sull’esperienza poetica. Seguono gli esordi come scrittore di viaggi e narratore. Nel 2008 ha pubblicato Dalle terre del Nord. Alla ricerca dell’anima artica (Vivalda editore); il romanzo storico La fortezza di cristallo (2011) a cui segue nel 2014 Passaggio a nord-ovest. Sulle tracce di Amundsen (Alpine Books) e l’ultimo scritto artico: L’avventura del Grande Nord (Alpine Books 2016). 320


VALERIO MAGRELLI è nato nel 1957 a Roma, dove vive. Traduttore e saggista, è ordinario di Letteratura francese all’Università di Cassino. Ha diretto per Einaudi la collana trilingue Scrittori tradotti da scrittori. Nel 2002 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attribuito il premio Feltrinelli per la poesia italiana. Collabora alle pagine culturali di Repubblica. I suoi numerosi libri di poesia sono stati pubblicati da Feltrinelli, Mondadori ed Einaudi. Le sue prime raccolte sono confluite nel volume Einaudi Poesie (1980-1992) e altre poesie (1996). Sono seguiti, sempre per Einaudi, Didascalie per la lettura di un giornale (1999) e Disturbi del sistema binario (2006); Geologia di un padre (2013); Il sangue amaro (2014). Numerosi anche i suoi saggi critici, fra cui Vedersi vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valéry (2002). Tra i lavori in prosa l’ultimo è Addio al calcio (Einaudi 2010). Il suo pamphlet Il Sessantotto realizzato da Mediaset è del 2011. MAURIZIO MAROTA, è nel 1970 a San Benedetto del Tronto, e insegna Lettere nella scuola superiore. Suoi testi poetici figurano in varie riviste (Smerilliana; Il Monte Analogo; Capoverso; Linfera; Poesia e Spiritualità). È presente in antologie di poesia tra cui Il Miele del Silenzio - Antologia della giovane poesia italiana a cura di Giancarlo Pontiggia e Poetry Quartet. Ha pubblicato il poemetto Federicae (Ed. Periferia, Cosenza, 2003), Letteratura dialettale di S. Benedetto del Tronto e Grottammare (Nuovi Orizzonti Ed., San Benedetto del Tr., 2002) e l’eBook didattico Compendio di Analisi Logica (Ediz. Simone, Napoli, 2014). Ha tradotto Catullo (Versi per Lesbia, Ed. Periferia, Cosenza, 2002), Cicerone (La vera felicità, Ed. Medusa, Milano, 2005), Lucrezio (Il canto della vita, Ed. Medusa. Milano, 2017). MANUELE MASINI è nato a Massa Marittima nel 1978. Laureato in Filologia Romanza e dottorato in Studi Portoghesi e Critica Testuale a Lisbona, si interessa di letterature iberiche in tutte le loro proiezioni linguistiche e geografiche. Più volte borsista di importanti istituzioni in Portogallo, Spagna, Francia e Brasile, ha svolto progetti di ricerca e di traduzione soprattutto nell’ambito della poesia e del cinema, ed è autore di monografie, articoli e di numerose traduzioni dal portoghese, castigliano, gallego, catalano e francese. È ricercatore della Fondazione per la Scienza e la Tecnologia (Portogallo), presso l’Istituto di Studi di Letteratura e Tradizione dell’Università Nova di Lisbona, soprattutto per la poesia medievale in rapporto alla poesia contemporanea, la poesia iberica contemporanea, la critica del testo, lo studio di ricorsi poetici in prosa, la poetica della traduzione. 321


MATTEO MESCHIARI è nato a Modena nel 1968. Insegna antropologia e geografia all’Università di Palermo. Studia il paesaggio in letteratura, la wilderness, il camminare, lo spazio percepito e vissuto presso varie culture di interesse etnografico. Ha pubblicato le sue ricerche con Sellerio, Liguori, Quodlibet ed Exòrma. Scrive testi di saggistica, narrativa e poesia.

MARZIO G. MIAN, giornalista, è nato a Maniago, Pordenone, nel 1961. Ha fondato con altri giornalisti internazionali la società no profit The Arctic Times Project con sede negli Stati Uniti. Con The Artic Project Marzio Mian racconta l’Artico attraverso inchieste collettive e multimediali. La prima spedizione è stata pubblicata su Sette, Guardian e sulla prima pagina del Washington Post. Da segnalare la sua partecipazione a The River Journal, un progetto di racconto multimediale attraverso i grandi fiumi del mondo. È stato per sette anni vicedirettore di Io donna, il femminile del Corriere della Sera. Tra le sue collaborazioni segnaliamo: Sette, Il Giornale, Rai, GQ e L’Espresso. Ha realizzato inchieste e reportage in più di cinquanta paesi. È anche autore di teatro e come tale ha scritto Karadzic, carnefice psichiatra poeta, un libro sulle guerre balcaniche pubblicato da Mursia nel 1996 e Artico. La battaglia per il Grande Nord (Neri Pozza 2018). MARIA ROSA PANTÉ, vive a Borgosesia, dove insegna. Collabora ai siti www.personaedanno.it; www.gaianews.it, www.griseldaonline.it. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’amplesso retorico. Voci femminili dal mito (Campanotto 2004); e Gatti di-versi (Key Editore 2016); i racconti Noi che non fummo Muse (Manni 2006); il romanzo Non ho l’età (Zerounoundici Edizioni 2010); e saggi nelle antologie Animali della letteratura italiana e Banchetti letterari (ed. Carocci). Ha scritto testi per la rassegna Teatro e scienza, tra cui: La strega Agnesi, Premio Città di Trieste, 2008. Collabora alla scrittura degli spettacoli di Lucilla Giagnoni: Big Bang (2009); Apocalisse (2011); Ecce Homo (2013); Furiosa Mente (2016). Nel 2013 ha scritto il soggetto del video vincitore del concorso per le biblioteche A corto di libri (2013) e ha vinto il Premio Insegnare poesia del Festival di poesia di Genova. Ha pubblicato nel 2017 il saggio La scienza delle donne (Hoepli) sulle matematiche. È presidente dell’Associazione FAST, Facciamole Studiare: due fragilità fanno una forza, che ha lo scopo di far studiare ragazze in difficoltà, straniere e italiane. 322


ANTONIS PAPANTONIOU, nato ad Atene nel 1971, è un artista concettuale e un illustratore, che sviluppa esperienze interattive nel campo dei giochi virtuali. Attualmente vive a Austin nel Taxas, dove è art director per White Wizard Games per i settori di Epic, Hero Realms, Star Reals e Sorcerer. È un membro attivo della Hellenic Chambers Fine Arts, della International Association of Art (AIAP) e dell’Unesco.

ANGELA PASSARELLO, agrigentina, vive e lavora a Milano. È stata redattrice della rivista Il Monte Analogo. Ha collaborato con La Mosca di Milano. Ha pubblicato la raccolta di racconti Asina Pazza (Greco e Greco 1997); la raccolta di poesie La carne dell’Angelo (ed. Joker 2002); le prose poetiche Ananta delle voci bianche (Quaderni di Correnti 2008); Piano Argento (Edizioni del Verri 2014); Pani Scrittu (Edizioni del Pulcino Elefante 2015). Dipinge narrazioni su tela e ceramica.

DARIO FRANCESCO PERICOLOSI, nato a Milano nel 1958, dove vive, è autore e editore di se stesso. Ha pubblicato in proprio le raccolte di poesie: Via Plinio (1986); Parole d’acquerello (coproduzione con Maria Luca 1999); e-iliade (2000); Poetica-mente (2002); Lambro (2005); Terra forzata (2008); Ha pubblicato con la piattaforma online StreetLib gli eBook di racconti: Il rivenditore di stelle zuccherate (2014); Il Natale del Signor Bonefeste (2014); Viaggio nella storia della poesia italiana (2015). Nel 2006 ha vinto il primo premio del concorso milanese Poeti in galleria organizzato da Alba Libri editore. Sito: www.calcioallapoesia.it 323


GIUSEPPE BEPPE PROVENZALE, architetto, è nato nel 1954 a Messina, da antica famiglia franco-siciliana. Ha studiato Architettura a Venezia e Palermo dove è anche stato assistente all’Istituto di Urbanistica, ricercatore CNR e Dirigente tecnico presso l’Assessorato Regionale del Territorio. Un master all’Institut universitaire d’etudes européenes de Turin. Dal 2011 è visiting professor all’Università dell’Arizona. È autore di saggi e articoli d’arte per quotidiani, settimanali ed articoli di costume per Il Sole 24 ore (Sexioni notturne, La Slam poetry, L’esploso). È presente anche in 25 tra sillogi ed antologie di poesie. Sin dall’inizio è stato membro del Laboratorio della Casa della Poesia di Milano, alla Villa Reale di Monza ha organizzato manifestazioni e reading. Nel 2016, al Salone del libro di Torino ha vinto il primo premio come Autore dell’anno. Tra le lectures segnaliamo quella tenuta all’Hilton Kensington Conference Hall di Londra sull’identità italiana di William Shakespeare e quella al College of Architecture di Tucson, AZ, su A. Calamech, sconosciuto architetto toscano del ‘500. È dell’anno scorso la pubblicazione della monografia Calamech in Messina, an unknown architect’s revenge. Sempre di tenore storico sono i due lavori Tarme :nv:s:b:l: e Provenzal: :nv:s:b:l: vincitori del Premio J. Prevert e pubblicati nel 2005 e 2006. LUCIANO RAGOZZINO è nato e vive a Milano, dove ha conseguito il diploma alla Scuola superiore degli artefici di Brera. Ha collaborato, fra gli altri, con gli editori Pulcinoelefante, La Vita Felice, Interlinea, Fabrizio Mugnaini, Edizioni dell’Ombra, Lietocollelibri, Quaderni di Orfeo, illustrandone i testi con incisioni per le quali utilizza principalmente la tecnica dell’acquaforte. Vincitore di premi internazionali e del premio delle Arti e della Cultura a Milano per il settore della grafica (2005), pubblica in proprio le edizioni de Il ragazzo innocuo (anagramma del suo nome), in tiratura limitata. ENZO REGA, nato a Genova nel 1958, vive vicino a Napoli. Redattore di Gradiva e Levania, scrive per L’Indice dei libri del mese, Poesia, Italian Poetry Review e collabora con l’Università di Salerno. Di saggistica ha pubblicato Berlino e dintorni. Arte, cultura e vita nel Novecento (Edizioni Il grappolo, San Severino, Salerno, 2001); con Carlangelo Mauro, A colloquio con i poeti: De Angelis, Fontanella, Neri (Stango, Roma, 2003); con Pasquale Gerardo Santella, Il cinema come fenomeno sociale (Loffredo, Napoli, 2005); La coscienza dell’utopia. Vincenzo Russo, giacobino napoletano (l’arca e l’arco edizioni, Nola, Napoli, 2011); Derive mediterranee. Immagini letterarie da Napoli all’altra sponda (l’arca e l’arco edizioni, Nola, Napoli, 2012). Per la poesia ha pubblicato Indice dei luoghi. Poesie da viaggio (e d’amore) (Laceno/Mephite, Atripalda, Avellino, 2011). 324


ANTONIO RICCARDI è nato a Parma nel 1962. Ha studiato filosofia all’Università di Pavia. Dalla fine degli anni Ottanta è impegnato nell’industria editoriale, particolarmente alla Mondadori, di cui è stato anche Direttore Letterario e degli Oscar. Ha fondato la Società Editrice Milanese (SEM). Come poeta ha pubblicato Il profitto domestico (Mondadori 1996, nuova edizione Il Saggiatore 2015), Gli impianti del dovere e della guerra (Garzanti 2004) e Aquarama e altre poesie d’amore (Garzanti 2009). Ha pubblicato inoltre il volume di prose Cosmo più servizi. Divagazioni su artisti, diorami, cimiteri e vecchie zie rimaste signorine (Sellerio 2014).

DORES SACQUEGNA, vive a Lecce dove è nata nel 1970 e si è laureata all’Accademia di Belle Arti. Dal 1993 al 2003 ha insegnato grafica e stampa d’arte. Dirige dal 2004 la Primo Piano Living Gallery fondata con Maria Rosaria Sacquegna. Ha lavorato per il Festival dei Due Mondi, Spoleto; Festival di Cannes; CCCB Centre de Cultura Contemporanea, Barcellona; Fondazione Morra, Napoli; Olympic Fine Arts, Beijing, China; Ministero della Cultura, Atene, Grecia; Fondazione Saatchi & Saatchi, New York; Fondazione Ray of Light, New York; Ministero della Cultura, Ankara, Turchia. Ha scritto i testi per cataloghi di Hermann Nitsch e di Pam Longobardi. Ha lavorato con molti artisti tra cui Ugo Nespolo, Matthiew Barney, Erwin Olaf, Hermann Nitsch, Aes+F Group.

GABRIELE SALARI. Ufficio stampa di Greenpeace Italia dal 2001. Segue la campagna per la protezione dell’Artico fin dall’inizio. Giornalista professionista, si occupa principalmente di ambiente, natura, viaggi e scienza. In tv ha lavorato al programma King Kong - Un pianeta da salvare (RAI 3) condotto da Licia Colò. Ha vinto diversi premi giornalistici ed è autore di libri come Guida segreta ai paradisi naturali d’Italia (Newton Compton), L’Italia diversa (Gribaudo), N come Natura (Editoriale Scienza) e Operazione Natura (San Paolo). 325


STEFANIA SCARNATI, scultrice, pittrice, incisore è nata e vive a Milano. Ha al suo attivo numerose personali in Italia e all’estero, tra cui nel 2001 al Parlamento Europeo di Bruxelles; nel 2002 Talismani di Luce al Palazzo delle Stelline a Milano; nel 2012, usando vini pregiati come pigmenti, presenta con l’Associazione Italiana Sommelier Vino su Tela; nel 2014, Respiro a Palazzo Isimbardi; nel 2015 da Miroglio Piazza della Scala a Milano, patrocinata dal Club Zonta. Nel 2004 è stata inserita nel volume 40 e più donne per Milano edito da F. Motta Editore. Dal 2005 alle mostre di pittura, scultura e incisione si affiancano quelle di “sculture da indossare” : creazioni di arte orafa. Numerosi i Volumi e i Libri d’Artista con opere di Stefania Scarnati, corredati dai testi suoi o di poeti contemporanei. Tutta la produzione di Stefania Scarnati è denominata Artépore® dal greco pore, porèia, ossia cammino, percorso. FRANCESCO SCARRONE è nato a Mondovì (CN) nel 1977e vive a Saorge in Francia. Sceneggiature: The Repairman e nel 1978, Chi entra e chi esce. Arno Klein ha rappresentato le sue opere teatrali: Seguendo il sentiero dei nidi di ragno, Fleurs, Storie nascoste, Un destino dispettoso e per bambini Un’isola affollata. Ha scritto Ecuba – ovvero il banchetto dei morti per Franca Nuti, prodotto dal Mulino di Amleto. Elena Griseri ha messo in scena il suo monologo L’allestimento. Per la Gorilla Sapiens Edizioni ha pubblicato Di lama e d’ocarina ambientato nel mondo del tango, da cui i MaMaGré hanno tratto lo spettacolo musicale Il più grande tanguero della Pampa tradotto anche in francese. Collabora alle testate web Crampi sportivi e Football is Not Ballet. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo Dublino 90 sul mondo del calcio.

SIMONE SIBILIO, nato a Napoli nel 1979, è docente di lingua e cultura araba presso l’Università LUISS di Roma e traduttore specializzato alla Scuola Europea di Traduzione Letteraria. Ha un Dottorato di ricerca in letterature comparate con una tesi sulla memoria della Nakba nella riduzione letteraria e cinematografica palestinese. Traduzioni: Fatena al-Ghurra, Tradire il Signore (Cascio editore, Lugano, 2011); In un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese, a cura di F.M. Corrao (Giunti Editore, Firenze, 2007) e Muhammad al-Faytūrī, Canti d’Africa (San Marco dei Giustiniani, Genova, 2005). 326


FRANCESCO SOLITARIO, nato ad Amorosi (BN) vive tra Milano e Arezzo. È docente di Estetica e di Filosofia dell’Arte Contemporanea all’Università di Siena, e si occupa anche di estetica comparata e di estetiche orientali (islamica, indiana, cinese, giapponese). Tra le sue pubblicazioni: La ricezione critica in Italia di Ananda K. Coomaraswamy (1992); Itinerari del Sublime (1994); L’estetica di E. Oberti tra metafisica e fenomenologia (1997); A. De Gubernatis storico dell’Orientalismo italiano (2001); Il fondamento metafisico del “canone cosmico della bellezza” di C. Ottaviano (2004); Il linguaggio poetico tra Silenzio e Parola Assoluta (2012); Estetica e Metafisica (2012); Trame di luce. La scultura di I. Giubbilei tra informale e figurativo (2012); La responsabilità dell’artista tra arte, religiosità e bellezza (2014); Il Verbo e il Vuoto tra Parola e Silenzio (2016).

CARLA STROPPA è psicoterapeuta e psicoanalista junghiana, membro ordinario dell’ARPA (Associazione Ricerca Psicologia Analitica) e dello IAAP (International Association of Analytical Psychology). Già docente alla scuola di specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università di Torino. È responsabile scientifica del settore psicoanalisi e scienze umane della Moretti & Vitali editori e dirige le collane Amore e Psiche e Il tridente saggi, della Moretti & Vitali editori. Autrice di numerosi saggi sui rapporti fra psicoanalisi, letteratura e mito. Fra le ultime pubblicazioni: La luce oltre la porta; dei e muse nel teatro dell’anima; Il satiro e la luna blu; Ai confini dell’ombra; Fantasmi all’opera. L’imperiosa realtà dell’illusione. È nella direzione editoriale della rivista Qui libri.

GEORGE SYRAKIS è nato ad Alessandria d’Egitto nel 1949. Dal 1961 si è trasferito ad Atene, dove vive tuttora. Oltre agli studi universitari, ha approfondito la pittura e la musica al Conservatorio Nazionale e alla Scuola di Belle Arti. Nel 1974 ha ottenuto il premio per la pittura all’Università di Atene. Nel 1975 si è laureato in Medicina all’Università di Atene. Ha fatto delle personali di pittura ad Atene, in Francia, Cina e nella Repubblica Ceca. Si è occupato anche di scrivere saggi sulla poesia e la storia dell’arte. I temi della sua pittura sono i paesaggi fantastici e la materia inorganica. 327


WOLFANGO TESTONI è nato a Como nel 1970. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti a Milano negli anni ‘90, alternando da allora disegno e scrittura. Dal 2010 collabora con la Casa della Poesia di Como. Ha pubblicato L’amaro sale (LietoColle 2010) finalista al Premio Fogazzaro 2011 e La prima ora (Ed. Stampa Varese 2013) finalista al Premio città di Como 2014. Alcune sue poesie sono state pubblicate sulla rivista semestrale di poesia e critica letteraria Il monte analogo n°14 (Dicembre 2011).

TAEKO UEMURA è nata a Kyoto, Giappone. Si è laureata in Lettere all’Università di Konan. Dirige la Japan Universal Poets Association YUNPA. Insegna Letteratura e Scienze Economiche all’università di Kyoto ed è anche presidente di una società imprenditoriale. È membro del Pen Club giapponese e della Associazione di Poesia di Kansai. In inglese ha pubblicato To a vanishing point (Junpa Books 2012) e To a Serendipity Muse (Junpa Books 2013) e oltre numerose raccolte in giapponese. Nel 1212 ha vinto come poeta il premio di eccellenza Junpa. Nel 2012 e nel 2013 ha preso parte al Festival di Struga e nel 2015 al Festival Europainversi a Como. Sue poesie figurano nell’antologia italiana Più non sai dove il lago finisca. Ha pubblicato nel 2015 un raccolta di versi in versione giapponese e inglese insieme a Donatella Bisutti, intitolata Duet o life. GIANNI VACCHELLI è professore di lettere nella scuola pubblica e collabora a livello universitario con ricerche e contributi. È membro della Comunità di Ricerca “Culture Religioni Diritti Non violenza”, ispirata al pensiero di Raimon Panikkar, e attiva presso l’Università degli Studi di Bergamo. La sua lettura della Bibbia e di Dante, attenta al dialogo interculturale, è al crocevia delle tradizioni d’Oriente e di Occidente. I suoi ultimi libri: Dagli abissi oscuri alla mirabile visione. Letture bibliche al crocevia: simbolo, poesia e vita (con prefaz. di Raimon Panikkar); Per un’alleanza delle religioni. La Bibbia tra Panikkar e la radice ebraica; Viaggio; Per un’ermeneutica simbolica. Tra filosofia, religione e poesia; L’attualità dell’esperienza di Dante. Ha scritto anche opere di narrativa: il romanzo Arcobaleni; Generazioni. Storie di liberazione e abisso, racconti e, in collaborazione con Maristella Bellosta, il romanzo Eutopia. 328


SILVIA VENUTI, è nata e vive a Varese. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Milano. Il suo percorso artistico è stato presentato da Rossana Bossaglia, in I giardini dell’anima (Mondadori 2007) e in La sacralità naturale (selezione Premio Tassoni 2008). Ha pubblicato, con le Ed. Del Leone, le raccolte Allieva della vita (1999, introdotta da Silvio Raffo); Le parole necessarie (2002, da Paolo Ruffilli); Nelle ragioni della vita (2005, da Giorgio Bàrberi Squarotti); Oltre il quotidiano (Moretti&Vitali 2009, introdotta da Giancarlo Pontiggia). Premio Mirella Cultura Ponte di Legno; La visione assorta (Interlinea 2012, introdotta da Tomaso Kemeny) Premio Camposampiero, Premio Rodolfo Valentino-Sogni a occhi aperti; Sulla soglia della trasparenza ( Interlinea 2016, introdotta da Piero Viotto) Premio Camaiore 2017. EVA VEVERE è nata nel 1981 a Riga, in Lettonia, dove vive. È un’artista visuale che lavora con installazioni, grafica a e pittura. Recentemente si è interessata all’esplorazione delle possibilità dello spazio e alla sua transmogrification (trasformazione magica) attraverso il linguaggio visuale e ha tenuto esposizioni in cui le opere erano integrate con l’ambiente fino a fare dello spazio uno dei loro elementi. Buchi nel tempo, cosmi privati, santuari, spazi aperti e tunnel, visioni poetiche e robotiche. Ha un MFA per la pittura (2007) dell’Art Academy of Latvia. Ha anche studiato alla Finnish Academy of Fine Arts. Ha partecipato a varie collettive europee e tenuto personali nei Paesi Baltici.

PATRIZIA VILLANI vive a Milano e insegna Lingua Inglese all’Università Cattolica. Ha pubblicato le raccolte Conversazioni necessarie (Raffaelli Editore 2011, con prefazione di Roberto Mussapi) e Sulle tracce dell’America, epica del mito americano (Moretti & Vitali, Bergamo, 2016) prima classificata nella sezione Poesia del Contropremio Carver e finalista al Premio Gozzano 2016. Figura nelle antologie Poeti per Milano (Viennepierre Edizioni, Milano, 2006); Bona Vox – La poesia torna in scena (Jaca Book, Milano, 2010); La giusta collera (CFR Edizioni 2011) e La memoria e l’attesa (deComporre 2013). Ha collaborato alle riviste Agenda (UK); Connections (USA); La Mosca; La Clessidra; Il Monte Analogo. Sta lavorando a Nido di mare, liriche ispirate a luoghi e visioni fondamentali per la propria poetica. 329






Taeko Uemura

Gëzim Hajdari


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