Opere 37

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A partire dal 1° gennaio 2014 è entrato in vigore l’obbligo di aggiornamento professionale per gli architetti introdotto dal D.P.R. 137/2012 e normato dal Consiglio Nazionale degli Architetti (CNA). Di seguito riportiamo l’elenco dell’offerta formativa dell’Ordine degli Architetti PPC di Firenze per il 2014, in attesa di approvazione e attribuzione crediti da parte del Consiglio Nazionale degli Architetti.

Area 1 / Architettura, paesaggio, design, tecnologia _Acustica ambientale _Acustica architettonica _Acustica edilizia _Acustica nei luoghi di lavoro _Agg. Coordinatori sicurezza cantieri _Agg. Prevenzione incendi _Città e quartieri in trasformazione _Coordinatore sicurezza cantieri _Costruire in legno _Habitare il progetto _Introduzione al calcolo strutturale degli edifici in legno _L’illuminazione urbana _Lighting design _Luce e apparecchi, architettura e ambiente _Luce e beni culturali _Luce e spazi commerciali _Luce per il lavoro e l’educazione _Luce, architettura e scenografia _Luce, colore e architettura _Master Smart City _Paesaggi e giardini aperti _Paesaggi, palinsesti, ecosistemi _Prevenzione incendi _Progettare abitazioni integrate (Domotica) _Progettazione urbana e residenziale. Take care territory

_Relazione paesaggistica _Retail, arredamento, contract _Scenari di ricostruzione e prevenzione emergenza _Temporary design _Teoria e critica dell’architettura contemporanea Area 2 / Gestione della professione _Corso per membri di commissioni tecniche consultive Area 3 / Norme professionali e deontologiche _Aggiornamento codice deontologico _Il compenso professionale _Il Consiglio di disciplina Area 4 / Sostenibilità _Certificazione energetica degli edifici _Corso avanzato certificatore _Casaclima _Corso base certificatore _Casaclima _Dire, fare, progettare architettura sostenibile _Esperto Protocollo ITACA per professionisti _Fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica _Fonti rinnovabili per la produzione di energia termica _Il modello energetico dell’edifico per il progetto consapevole

_L’Acustica nella progettazione dell’edificio sostenibile _La progettazione bioclimatica e l’edificio “quasi” passivo _Protocollo LEED _Riqualificazione energetica _Risanamento energetico degli edifici (Casaclima) Area 5 / Storia, restauro, conservazione _Botanica applicata al giardino storico _Conservazione e restauro del giardino storico _Storia del giardino storico _Progetto architettonico - progetto impiantistico _Interventi di restauro e manutenzione sulle facciate dei centri storici _Conoscenza, valutazione e rilievo del giardino storico _Interventi su edifici storici/vincolati – prevenzione sismica _Storia dell’architettura e tecniche costruttive del cantiere storico – età medievale Area 6 / Strumenti, conoscenza e comunicazione _(Re)thinking BIM (Revit Bim: livello base) _{Food&Diet} computation (Python: livello base + intermedio)

_Blender avanzato _Blender base _Build(able) surface Rhinoceros avanzato _Building Stories _Contest CAD _Design and Digital Craft (conferenza) _Droni per la documentazione e il rilievo architettonico e ambientale _Energy (Revit Energy + Vasari: livello base) _Fotografare gli spazi progettati _Fotogrammetria digitale _GIS avanzato _GIS base _Grafica, fotoritocco e impaginazione base con strumenti open source _Grasshopper 101 livello base _Infografica e sistemi di sintesi visiva _Moderne tecniche topografiche per il rilievo architettonico _Parametric organism (Grasshopper e fabbricazione digitale: livello avanzato) _Photoshop base _Progetto e realizzazione di un servizio fotografico di architettura _Radiosity 101 livello base _Revit Architecture (Revit Bim: livello avanzato)

_Revit Dynamo 101 (Programmazione visuale con Revit Dynamo: livello base + intermedio) _Rhino avanzato _Rhino base _Rhino.Python 101 livello base _Rhinoceros 101 Livello Base _Shaping space (Physical simulation: livello base) _Sistemi a scansione 3D per i beni culturali _Sketchup _Skin facade development livello base + intermedio _Wayfinding per il progetto ambientale e sistemi di orientamento spaziale Area 7 / Urbanistica, ambiente e pianificazione nel governo del territorio _Disciplina urbanistica in Toscana _L’attività edilizia in Toscana _L’attività edilizia in zona soggetta a vincolo paesaggistico _Pianificazione urbana e mobilità ciclistica nell’area metropolitana fiorentina _Pianificazione urbana e mobilità ciclistica nell’area metropolitana fiorentina (seminario) _Gli spazi della mobilità: sostenibilità e progetto urbano


I째Passerella Pedonale di Antonio Fei

3째Fashion Valley di Chiarastella Borgia

4째Ex-Scuole Lambruschini di Fabio Bruschetini


L’immagine del Valdarno

Risultati del workshop-concorso indetto dal Commissione territoriale degli Architetti del Valdarno Fiorentino, con il patrocinio del Comune di Figline e in collaborazione con la Fondazione Centro Studi e Ricerche Professione Architetto e il Circolo Fotografico Arno.

2°Complesso delle Navi di Alessandro Parigi

5°Supermercato Coop di Chiara Berlingozzi


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Bando per la selezione di opere architettoniche realizzate nel periodo 2004-2014

Comitato Organizzatore: Ordine degli Architetti di Firenze --Provincia di Firenze --ANCE | Firenze --Fondazione Architetti Firenze ---

1. Finalità

progetto, promuove una

3. Modalità di

Il Premio intende

qualità di vita migliore

iscrizione

stimolare la riflessione

anche nei singoli aspetti

Il materiale dovrà

intorno all’architettura

del quotidiano.

essere consegnato

contemporanea, in quanto

esclusivamente in formato

elemento determinante

2. Condizioni per la

digitale sul sito del Premio

della trasformazione

partecipazione

di architettura AT’14

del territorio e in

Le candidature al

www.premio-at.it

quanto costruttrice

Premio potranno essere

nell’apposita pagina

di qualità ambientale

presentate relativamente

dedicata all’iscrizione e

e civile. Il Premio

alle opere ultimate sul

consegna del materiale.

intende promuovere

territorio della Provincia

La consegna dovrà essere

pubblicamente la

di Firenze, nel periodo

effettuata tramite il

qualità dell’architettura

2004-2014 da architetti e

modulo on-line dalle ore

attraverso la

ingegneri, singolarmente

12.00 del 16 Dicembre

valorizzazione dei

o in gruppi. Si intende

2013 alle ore 12.00

suoi attori principali

che le opere dovranno

del 01 Marzo 2014. La

– progettista,

essere completate entro

compilazione del modulo

committenza e impresa

la scadenza del presente

on-line e l’invio del

– poiché la qualità di

bando. La presentazione

materiale equivalgono

un’architettura deve

della candidatura

all’iscrizione al Premio.

essere fortemente voluta

potrà essere effettuata

da tutti i suoi attori

o dal progettista, o

4. Motivi di esclusione

altrimenti difficilmente

dalla committenza, o

Non possono

potrà essere conseguita.

dall’impresa esecutrice.

partecipare al Premio

Il Premio intende

Inoltre il Comitato

le opere progettate dai

promuovere l’architettura

Organizzatore si riserva

soggetti di seguito indicati:

come arte sociale, a cui

di indicare una selezione

- i membri della

tutta la società partecipa

di opere di particolare

Commissione Giudicatrice,

e nella quale tutta la

rilevanza documentata

i loro coniugi ed i loro

società si rappresenta

da pubblicazioni sulle

parenti ed affini sino al 3°

progettando le proprie

principali riviste nazionali

grado compreso;

città e il proprio territorio.

di settore, invitandone i

– i membri del Comitato

È quindi necessario

progettisti a presentare

Organizzatore, i loro

sensibilizzare i diversi

la candidatura. Ogni

coniugi ed i loro parenti

attori del processo di

candidato non potrà

ed affini sino al 3° grado

trasformazione del

presentare più di una

compreso;

territorio e premiare chi,

candidatura per ogni

– i membri della segreteria

attraverso la cultura del

categoria.

organizzativa, i loro


coniugi ed i loro parenti

personali ai sensi del

10. Modalità di

ogni partecipante o

ed affini sino al 3° grado

D.Lgs. 196/2003 per le

iscrizione

gruppo dovrà altresì

compreso;

finalità del presente

e documentazione

fornire le autorizzazioni di

– le cariche istituzionali

Premio e autorizzano

richiesta

cui all’art. 7 del presente

e dirigenziali degli enti

gratuitamente il Comitato

Per la partecipazione

bando.

promotori, i loro coniugi ed

Organizzatore a riprodurre

al Premio è necessario

i loro parenti ed affini sino

e rappresentare in tutte

compilare il modulo di

11. Calendario

al 3° grado compreso.

le forme (in particolare:

partecipazione disponibile

Diffusione bando e lancio

esposizione, edizione,

alla pagina modulo

ufficiale del Premio:

5. Premi

pubblicazione sul sito

d’iscrizione del sito

– 16 Dicembre 2013

Il Premio si articolerà nelle

internet, traduzione)

www.premio-at.it che

Iscrizione al Premio e upload

seguenti categorie:

ogni materiale inviato

prevede l’inserimento

del materiale:

– nuova costruzione;

per la partecipazione al

dei dati relativi al

– 16 Dicembre 2013 – 01

– restauro e recupero;

premio, considerato opera

partecipante e all’opera.

Marzo 2014

– allestimento e interni;

d’ingegno di carattere

Inoltre il candidato

Data ultima invio quesiti:

– spazi pubblici e

creativo ai sensi della

dovrà inviare, per ogni

– 10 Febbraio 2014

paesaggio;

L. n. 633/41, in quanto

progetto partecipante

Lavori della Giuria:

– opera prima (prima

titolari di diritto d’autore,

alla selezione, il seguente

– Marzo 2014

opera significativa

oppure forniscono tale

materiale:

Risultati:

realizzata da un architetto

autorizzazione di altri

- ELABORATI GRAFICI

– 15 Aprile 2014

che non abbia compiuto i

soggetti titolari di diritto

(fino a 10 immagini

Premiazione e inaugurazione

40 anni al momento della

d’autore. Il tutto attraverso

.jpg in RGB, formato

mostra:

consegna degli elaborati).

le modalità indicate nel

2.480x3.500 pixel, per un

– 09 Maggio 2014

Per ciascuna categoria la

form d’iscrizione al premio

totale massimo di 50 Mb)

Mostra:

Giuria premierà un’unica

e comunque per via

> planimetria generale

– dal 09 al 22 Maggio

opera. Per ciascuna opera

telematica.

con orientamento ed

2014.

premiata potrà essere

inserimento urbanistico

assegnata una menzione

8. Mostra e

del progetto oltre che

12. Informazioni e

per l’attenzione posta agli

pubblicazione

scala grafica, disegni di

segreteria

aspetti di sostenibilità

Una selezione di opere

progetto (piante, prospetti

Le richieste di chiarimenti

ambientale. Ai premiati

presentate parteciperà

e sezioni nella misura

e delucidazioni sul bando e

sarà assegnata una targa

alla mostra con pannelli

ritenuta necessaria alla

sulle procedure potranno

da affiggere sull’edificio

digitalizzati impaginati,

comprensione dell’opera),

essere formulate e

premiato, in cui saranno

stampati ed esposti a

dettagli ed eventuali

inviate all’indirizzo email

segnalati il progettista,

cura degli organizzatori.

schizzi o foto di plastici.

segreteria@premio-at.

il costruttore ed il

Sul catalogo saranno

Gli elaborati dovranno

it entro il 10 Febbraio

committente.

pubblicate: le architetture

riportare la relativa scala

2014. Successivamente

premiate assieme alle

grafica utilizzata;

a tale data non saranno

6. Giuria

valutazioni della Giuria, le

- IMMAGINI (fino a 10

accettate ulteriori

La commissione

architetture che verranno

immagini .jpg in RGB,

richieste di chiarimenti. Le

giudicatrice, nominata dal

eventualmente segnalate

formato 2.480x3.500 pixel,

risposte ai quesiti saranno

Comitato Organizzatore,

e una sintetica scheda

per un totale massimo di

pubblicate sul sito

sarà così composta:

di tutte le architetture

50 Mb) > documentazione

www.premio-at.it.

– un critico o uno storico;

partecipanti al Premio.

fotografica digitale

– due progettisti; – un sociologo.

della realizzazione. 9. Norma finale

La documentazione

La partecipazione alla

fotografica dovrà anche

7. Consensi e

presente selezione

illustrare il contesto in cui è

autorizzazioni

implica automaticamente

inserito il manufatto.

I candidati consentono

l’accettazione del presente

Attraverso lo stesso

al trattamento dei dati

regolamento.

modulo di partecipazione

Firenze, 16 Dicembre 2013


COLOPHON

CONTRIBUTORS

Rivista trimestrale anno XI — n.37 dicembre 2013 chiuso in redazione — dicembre 2013 finito di stampare — gennaio 2014

Giovanni Avosani Architetto, si laurea discutendo una tesi di progettazione sul recupero di un’area industriale dismessa trasformata in polo universitario. Dal 2005 svolge attività di collaborazione alla didattica presso la Facoltà di Architettura di Ferrara. Dopo la laurea ha svolto workshop ed esperienze professionali in ambito internazionale. Dottorando di ricerca presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, svolge attività di ricerca sui temi del “Social Housing” e sulle implicazioni che legano “Tecnica e Architettura”. Consegue il titolo di “Dottore di Ricerca”, discutendo una tesi sulla qualità dello spazio pubblico nell’edilizia sociale. L’attività professionale è orientata all’analisi dei modi dell’abitare e delle nuove forme della città contemporanea. Stefania Boccaletti Ha studiato architettura alla Facoltà di Firenze e alla University of British Colombia in Canada. Ha lavorato in qualità di progettista per DSDHA and GLAS entrambi a Londra. La sua cariera accedemica è iniziata all’Università di Venezia. Attualmente insegna — dal 2004 — Progettazione alla University of Westminster e — dal 2013 — al Royal College of Art. Roberto Bottazzi È un architetto impegnato nella pratica, ricerca ed insegnamento. Dopo aver conseguito la laurea con lode all’Università di Firenze e un master in Advanced Studies alla Ubc (W. Gerson Award), collabora prima con lo studio Lwpac (Vancouver) e poi dal 2004 al 2010 con Chora (Londra) su diversi progetti e ricerche fra cui: il concorso per lo spazio publico The Landing, Arnhem (primo premio) e l’installazione Xiamen City Energy Masterplan. La sua ricerca sull’impatto delle tecnologie digitali nella progettazione urbana è stata pubblicata a livello internazionale attraverso lezioni ed esibizioni tra le quali: Honk Hong/Shenzhen Biennale, Fargbabriken Institute (Stoccolma) e Aicsa conferences (Los Angeles), Design Museum (Londra). Dal 2005 insegna al Royal College of Art — in qualità di master tutor e cordinatore del programma di dottorato — e alla Westminister University entrambe a Londra. Paolo Chiozzi Laureato in Filosofia all’Università di Pavia ha successivamente approfondito gli studi di Antropologia a Parigi con Georges Balandier. Ha svolto ricerche in Africa (Nigeria e Somalia) nell’ambito dell’antropologia economica. In seguito si è interessato alle minoranze etniche in Europa, all’antropologia dell’infanzia e alla antropologia della comunicazione visuale. Nell’Università di Firenze ha insegnato Sociologia Urbana e rurale (Facoltà di Architettura); Antropologia culturale (Facoltà di Psicologia); Antropologia visuale (Facoltà di Scienze Politiche). Attualmente insegna Antropologia del mondo contemporaneo, ed Etnologia. È membro del comitato scientifico

direttore Guido Incerti

OPERE OPERE piazza Stazione 1 50123 Firenze tel. 055 2608671 fax 055 290525 email opere@architoscana.org rivista toscana di architettura ISBN 978-88-6315-655-3 ISSN 1723-1906 Pubblicazione trimestrale Spedizione in abbonamento postale 45% - art. 1, comma 1, CB Firenze. D.L. 353/2003 (conv. L. 27/02/04 n. 46) -•Registrazione tribunale Firenze n. 5266 del 15 aprile 2003 -•Proprietà Fondazione Professione Architetto dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Firenze e dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Corservatori della Provincia di Prato. -•Prezzo di copertina numero singolo € 10,00 numero monografico € 10,00 arretrati € 10,00 Abbonamento annuale (Italia) (4+1 numero monografico) € 40,00 Abbonamento annuale (estero) € 70,00 -•Garanzia di riservatezza per gli abbonati. L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione.

redazione Fabio Fabbrizzi Ginevra Grasso Michele Londino Cristiano Lucchi Marcello Marchesini Tommaso Rossi Fioravanti Antonella Serra Graziella Sini (segreteria) Davide Virdis direzione artistica D’Apostrophe, Firenze

-•Realizzazione editoriale e stampa

Pacini Editore via A. Gherardesca 56121 Ospedaletto (Pisa) www.pacinieditore.it -•Spazi pubblicitari rivista mfinotti@pacinieditore.it -•Copyright ©2013 Fondazione Professione Architetto -•Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti.


di diverse riviste scientifiche internazionali, e collabora con l’Istituto Russo di Ricerca Culturale. Fra i suoi libri: Introduzione all’antropologia culturale, Etnicità e potere, Antropologia urbana e relazioni interetniche, Manuale di antropologia visuale, Frontiere del bambino, Ebrei e Antropologi, Antropologia della libertà e Didattica della visualità. Giulia Efisi Nata nel 1971 è fotografo da qualche anno. Ha esposto presso alcune Gallerie d’Arte in Italia. Le piace pensare di poter ancora camminare molto e “in-contrare” molte cose sul suo cammino. Justin Mallia Architetto australiano, è insegnante, critico e conferenziere in design presso Monash University, University of Melbourne, Royal Melbourne Institute of Technology e The Royal Australian Institute of Architects. Oltre a lavorare nel uno studio privato è stato, per oltre dieci anni, un associato dello studio di architettura e progettazione urbana Peter Elliott. Le sue opere hanno vinto numerosi premi di architettura e sono state oggetto di pubblicazioni ed esposizioni a livello internazionale. Sara Naldoni Architetto, si laurea nel 2010 discutendo una tesi in progettazione ambientale dal titolo “Organismo urbano: sviluppo sostenibile a Santiago del Cile” presso il Dipartimento di Tecnologia di Firenze. L’in‑ teresse per la sostenibilità la porta a Lima (Perù)

dove collabora, con il Centro ABITA, a progetti di cooperazione internazionale, formazione rivolta ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni locali, pianificazione territoriale e progettazione architettonica ecosostenibile. Vive a Firenze, dove svolge attività di ricerca con l’università sui temi legati alla smart city ed al suo disegno urbano. Alessandra Rinaldi Architetto e designer, svolge attività di ricerca per il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, sui temi del design di prodotto e di interni, pubblicando numerosi saggi e volumi.Come libero professionista si occupa di progettazione e innovazione per importanti brand nazionali e internazionali, spaziando dall’interior design al product design. Recentemente ha progettato e diretto l’allestimento degli interni della sede del Design Campus dell’Università di Firenze. Eugenio Pandolfini Architetto, si occupa della relazione tra architettura, nuove tecnologie e percezione. Dal 2003 collabora con l’Università di Firenze come cultore della materia e professore a contratto (Facoltà di Architettura e di Scienze della Formazione). Nel 2007 lavora con il professor Gonçalo Byrne sul tema del recupero urbano presso la Facoltà di Architettura di Alghero. Nel 2010 consegue il Master in Progettazione Architettonica Avanzata presso la Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Madrid (ETSAM), dove dal 2011

frequenta la scuola di dottorato lavorando sul tema della percezione distratta come strumento di analisi privilegiato nell’ambito del progetto di architettura contemporanea. Elisa Poli Critica e storica dell’architettura indaga nel suo percorso di studi le complesse relazioni tra arte contemporanea, architettura e urbanistica. “Dottore di ricerca” in “Storia dell’architettura” presso l’Université de Paris 1 Pantheon-Sorbonne, si interessa di temi legati alla storiografia del modernismo architettonico e alla teoria dell’architettura. Insegna “Storia dell’architettura contemporanea” presso lo IUAV di Venezia e svolge attività didattica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara e all’Accademia di Belle arti di Bologna. Collabora con diverse riviste di architettura tra cui “Domus”, “Arch’it”, “AND”, “Abitare” e “Archphoto”. In copertina Guido Scarabottolo Nato a Sesto San Giovanni nel 1947, dopo la laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano, ha lavorato come illustratore e grafico. Tra le collaborazioni più durature quella con “L’Europeo” e quella con Italo Lupi, per “Abitare”. Attualmente i suoi disegni appaiono regolarmente su “Internazionale” e sul domenicale de “Il Sole 24 Ore”, e, irregolarmente, sul “New York Times” e il “New Yorker”. Dal 2002 progetta e illustra molte delle copertine “Guanda”. Vive e lavora a Milano.


1 2 RICERCHE

EPICENTRI

15

Vicino più vicino progetto di Giovanni DʼAngelo, Luca Ponsi, Olivia Giorgi, Paolo Gaeta con Nicola Tuan, Riccardo Canalicchio, Simone Gori

Radical mapping Justin Mallia traduzione di Michele Londino

18

5

23

26

Software x casalinghe Roberto Bottazzi Stefania Boccaletti

Edilizia residenziale pubblica Un’occasione per trasformare la città Sara Naldoni

20

La casa Da luogo a non-luogo? Paolo Chiozzi

PROJECTS

62

BORÉAL Tetrarc /// Nantes, Francia

6

28

Monte Uliveto di Giulia Efisi

ALTRE ARCHITETTURE

69

RUCKSACK HOUSE ORT Stefan Eberstadt /// Lipsia - Colonia Bamberga, Germania

61

Domestic City Eugenio Pandolfini

75

MONTERREY HOUSING Elemental /// Constitución Región del Maule, Cile

81

Abitare con il corpo Marcello Marchesini


3

PROGETTI

4

34

Abitare Conversazione con Fabrizio Rossi Prodi Fabio Fabbrizzi

40

QUARTIERE SPAVENTA Designo /// Milano

57

Il nomade vive nel villaggio? Vespe e orchidee e venditori ambulanti di spazio Michele Londino

7 8 9 33

DESIGN

47

Note sull始abitare Elisa Poli

50

ALLOGGI LOW-COST StudioStudio /// Prato

Mediocri-city Giovanni Avosani

FOCUS

44

MAISONDUMONDE 36 via Padova 36, Milano

MISCELLANEA

APPUNTI DI VIAGGIO

94

La casa Emiliano Gucci

86

Sottocasa Combattere la crisi convertendo spazi abitativi Antonella Serra

92

Dallo spazio cucina liquido alla cucina condivisa Nuovi modelli abitativi efficienti, sostenibili e inclusivi Alessandra Rinaldini

Compendio letterario

95


EDITORIALE

Guido Incerti Nel 1972 Emilio Ambasz curò, presso la Sezione Sperimentale del Moma di New York, una delle mostre che più hanno segnato il nostro successivo scenario di architetti italiani, Italy: the new domestic landscape1. In quella famosa mostra Ambasz coinvolse coloro che allora erano giovani e freschi progettisti italiani — molti dei quali facenti parte del denominato “movimento radicale “che si sviluppò tra Firenze, Pistoia e Milano — per mettere in mostra il rinnovato “paesaggio domestico” italiano — fatto di nuovi rituali e abitudini — che si stava innescando tramite il fresco e audace industrial design italiano che stava allora sorgendo. Ambasz riuscì ad accordare gli ambienti, gli arredi e gli oggetti che gli allora emergenti Mario Bellini, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Joe Colombo, Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Archizoom, Superstudio, Ugo La Pietra, Gruppo Strum e 9999 realizzarono, in un cross over innovativo fatto di “cose” ma anche di filmati e progetti multimediali che permise loro di superare i confini disciplinari e ripensare e mostrare l’ambiente domestico per quello che era secondo la loro visione, il campo della sperimentazione sociale e formale (oggi tutto quel materiale è conservato presso il MoMa e gli archivi italiani di Firenze, Milano, Parma e Torino). Di fatto quelli che poi sarebbero divenuti alcuni dei maestri riconosciuti dell’architettura e del design italiano, mostrarono il carattere visionario che da sempre è legato alle possibilità dell’abitare e del progettare. Un aspetto

oggi apparentemente debole per la sopravvenuta Crisi ma ancor più per una pietrificazione accademica in atto in molte facoltà di architettura e design italiane, che hanno smesso di scommettere sulla capacità di progettare futuro. Non ultima quella fiorentina dove il movimento radicale ebbe uno dei suoi canali più fertili. Ho appena accennato alla Crisi, in quanto tale. Se alcuni di voi hanno infatti letto i precedenti editoriali dovrebbero avere capito che per “Opere” la Crisi che da anni stiamo vivendo — e che è entrata a fare parte della nostra visione collettiva — non è una “semplice” crisi ma è la Krisis, l’attimo del cambiamento e della trasformazione. Il momento in cui la crisalide — generalmente un insetto non proprio attraente — si trasforma in quella farfalla che nell’immaginario dei più rappresenta un ideale di bellezza e leggerezza. Se infatti Italy: the new domestic landscapes rappresentò il riconoscimento di un nuovo Rinascimento — e va dato merito a Ambasz di averlo pienamente colto, assieme a quel gruppo di progettisti che si identificarono come i “global tools”2 di quel cambiamento che di li a poco si verificò nella società e nell’industria e del quale ancora portiamo addosso le tracce — oggi dobbiamo riuscire a leggere nuovamente tra le pieghe di questo attimo storico, che ai più appare solo sorgente di depressione psicologica ed economica, mentre nella realtà è possibilmente gioioso, nonché carico di aspettative tanto quanto poteva esserlo il 1972 per dei giovani architetti, visionari, ma con gli occhi ben aperti sul mondo che li circondava. Almeno se crediamo — e personalmente ci credo — nella teoria delle onde di Kondrat’ev3. Nel nostro piccolo ambito locale, che poi tanto piccolo non è, nel 2007 Alberto Breschi (già facente parte dei Radicali fiorentini e forse proprio per questo) ci provò con una mostra intitolata Florence Exit nella quale aveva individuato una serie di progettisti — ventuno tra gruppi e non allora alquanto giovani — che immaginava potessero ripercorrere almeno in parte il percorso che Ambasz

aveva voluto mostrare agli occhi del mondo. Purtroppo la sua perspicace “visione” ebbe una battuta d’arresto dovuta ad alcuni dei gruppi stessi, che nel frattempo si sono sfarinati, e al sistema Italia che pareva non avere troppa fiducia nei giovani, giovani che a sette anni di distanza sono oggi visti come l’ultima speranza del paese. E quest’ultima frase deve fare riflettere perché, per l’appunto in questi ultimi sette anni molte cose sono cambiate nel mondo. La Krisis sta infatti scalzando vecchie mentalità ed abitudini che solo pochi anni fa sembravano apparire tradizioni consolidate. E una moltitudine di persone si è trovata ad affrontare nuovi panorami, o meglio nuovi paesaggi che hanno stimolato l’inventiva della civiltà umana e il suo spirito di adattamento ai cambiamenti del sistema. Sono nate così forti spinte per progettare nuovi paesaggi naturali ed infrastrutturali, nuovi paesaggi economici, sociali, virtuali, industriali, assistenziali e non ultimo, e di nuovo come quaranta anni fa, rinnovati paesaggi domestici. Nuovi modi di vivere e convivere lo spazio abitativo, uno spazio nel quale la tradizione e i miti sono fortissimi ma dove da sempre si sono sviluppate nuove invenzioni e nuovi scenari. E con essi possibilità di rinnovare e di costruire vecchi e nuovi patrimoni edilizi. Nuove case insomma, che fanno tornare il pensiero ad un “linguaggio” modernista fatto da “maker“ e da spazi a “bassa definizione“. In cui però il moderno — o ciò che ci appare moderno oggi ma che domani non lo sarà più — si possa fondere con una tradizione linguistica che ovunque ci faccia sentire a casa. Quel luogo la cui origine, simbologia e forma, ricorrono da sempre in tutti i miti globali che si trovano alle radici della cultura. Le tende nere in Afghanistan ad esempio — spesso ricorrenti nell’antico testamento4 — o la costruzione delle case polinesiane, occasione di cerimonia in cui vi partecipano ancor oggi sacerdoti/costruttori, per giungere alle case contemporanee mobili o immobili. insomma quei “paesaggi domestici”


che da sempre sono alla base della tradizione tanto quanto il perno su cui, quando la tradizione va in Krisis, si fondano le rinnovate società urbane. Le future Domestic Cities.

✒ Emilio Ambasz. Italy: the new domestic landscape. Achievement and problems of italian design. Moma, NYC, 1972. 2 “Casabella”, 377, maggio, 1973. 3 “All’inzio degli anni ’20 un economista russo, N. D. Kondrat’ev, poi vittima del terrore staliniano, individuò un modello di sviluppo economico valido a partire dalla fine del Settecento e contraddistinto da una serie di onde lunghe della durata di circa 50/60 anni, sebbene ne lui ne altri dopo di lui potessero dare una spiegazione soddisfacente di questi movimenti e anzi esperti di statistica, con il consueto scetticismo, ne abbiano negato persino l’esistenza, queste fluttuazioni sono conosciute nella letteratura specialistica sotto il nome di “onde di Kondrat’ev”». In Hobsbawn E.J., Il secolo breve, Bur, Milano 1997, p. 109. 4 Nel Cantico dei cantici, i.5 troviamo: “O figliole di Gerusalemme, io son bruna ma bella, come le tende di Chedar...». E nell’Esodo troviamo molte descrizioni del tabernacolo ( la forma leggendaria delle tenda) piene di colori, xxxvi 14; “Fai ancora alla tenda una coverta di pelli di montone, tinte in rosso, e un’altra una coverta di pelli di tasso di sopra». E xxvi.36: “fa eziandio, per l’entrata del tabernacolo, un tappeto di violato, e di porpora, e di scarlatto, e di fin lino ritorto, di lavoro di ricamatore». C.G. Peilberg, Le Tente Noire, in “Note sulla sintesi della forma”, Il Saggiatore, Verona 1967, p. 238. 1

✺ Immagini dalla mostra Italy: the new domestic landscape. Achievement and problems of italian design > Gae Aulenti, Environment plan and section e Ugo La Pietra, A Domicile Cell: A Microstructure within the Information and Communications Systems. [www.arkdes.se]


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RICERCHE


Radical mapping Justin Mallia

In this Victoria, our dear land, The first that dared be free, To show the world what freedom meant In new lands ʻcross the sea. Ode to the Eight Hours’ Pioneers, Hamilton Mackinnon, April 21 1896. ---------------------Nei primi anni dell’Ottocento la rivoluzione industriale ha modificato profondamente la vita lavorativa delle persone. Le attività manuali, praticate da sempre, sono state improvvisamente sostituite dalle macchine, e le persone, che prima svolgevano il loro lavoro in piccoli opifici, sono costrette a svolgere la loro attività in grandi fabbriche nelle quali le ore di lavoro e le condizioni di vita sono rigidamente regolamentate. Questa trasformazione, sociale e culturale, ha prodotto notevoli conseguenze nella società di allora, e gli effetti si sono ben presto manifestati sulla qualità della salute, sul benessere delle popolazioni e quindi sul morale delle persone stesse. Nel 1810 il britannico e socialista Robert Owen, coniò lo slogan: Otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di svago, e con questo motto ha creato un movimento mondiale che è ben presto diventato un simbolo di libertà e di diritti dei lavoratori. Oggi i luoghi e gli spazi in cui le persone vivono e lavorano sono profondamente cambiati, ma molte persone continuano ancora a

lavorare con sistemi di arretratezza e soprattutto disattendendo quel principio di libertà introdotto da Owen. Nella società contemporanea, internet, insieme ai nuovi modi di comunicare, ha favorito un altro cambiamento: il mutamento dell’informazione. Ha posto cioè le basi per una nuova coscienza rivolta al bene immateriale qual è l’informazione e una rinnovata consapevolezza di come questo bene è distribuito, condiviso e infine utilizzato. Stiamo vivendo una radicale trasformazione culturale, nella quale internet è il motore dinamico di questo processo. In breve tempo, questo strumento ha ridotto la dipendenza della società dai mass media, unica fonte primaria d’informazione fino a qualche decennio fa. Il modello verticale dell’informazione osservato e studiato, peraltro, dai sociologi svedesi Alexander Bard e Jan Söderqvist è cambiato a favore di un modello che predilige uno scambio orizzontale e soprattutto bidirezionale all’interno della società, con sempre meno necessità di un unico potere decisionale e senza una figura di mediazione. La rete internet fornisce una piattaforma di scambio che è in gran parte senza censure e inedito nel modo di agire. In tale contesto gli individui agiscono dal suo interno e possono più facilmente condividere e scam-

traduzione di Michele Londino

biarsi le informazioni. Abbiamo a disposizione, quindi, più strumenti di comunicazione, che si sviluppano a prescindere dalla geografia, dalla ricchezza, e dalle percezioni tradizionali del potere. Negli ultimi anni abbiamo assistito a numerose rivolte di movimenti sociali e politici che hanno utilizzato come piattaforma di coordinamento i social network e attraverso questi, hanno divulgato e condiviso documenti riguardanti le loro azioni. Nel 2012 la campagna di sensibilizzazione coordinata dal leader africano Joseph Kony, è diventata secondo la rivista Time, una specie di epidemia che si è propagata con una velocità mai vista sulla rete, e sui canali video YouTube. Il movimento “Kony 2012” ha attirato oltre cento milioni di visitatori in appena sei giorni ed è stata organizzata attraverso sistemi multimediali multipli tra cui advertising, graphic design e cinema. Indipendentemente dalle opinioni espresse e dai contenuti, questa campagna è stata un chiaro esempio delle potenzialità dei mezzi di comunicazione basati su internet nel raggiungere moltissime persone. Naturalmente non è l’unico; il movimento Occupy, per esempio e la cosiddetta primavera araba, sono state due manifestazioni altrettanto importanti. È nel campo della musica, trasmessa in video su YouTu-

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be, che si è verificato il più grande evento di condivisione mediatico a livello planetario grazie alla canzone “Gangnam Style” di Psy, che ha registrato 1,8 miliardi di visualizzazioni. La possibilità e la capacità di lavorare azzerando lo spazio e il tempo è ora più che mai possibile anche in termini di creazione, produzione e fabbricazione. Siti web di stampa 3d permettono di progettare oggetti in un luogo e modellarli in un altro e persino venderli on-line. Wikihouse estende il principio nel campo dell’architettura, e ne dimostra la facilità di assemblaggio di una casa, per esempio, in un posto del mondo lontano dal luogo in cui i vari elementi sono stati progettati. Con l’uso del computer, la delimitazione tra il lavoro e il tempo libero è meno definita. Il rapporto tra gli hobby, gli interessi e il lavoro è diventato sempre più importante. Il termine “Start up” è un sostantivo ampiamente utilizzato nel linguaggio contemporaneo. Duecento anni dopo Robert Owen, la possibilità di lavorare da qualsiasi computer portatile o smart phone ha definitivamente superato il motto di libertà da lui stesso coniato. La rete internet e i nuovi modi di comunicare hanno cambiato i modelli di vita delle persone e soprattutto la loro maniera di lavorare e abitare nelle città. Sta cambiando anche l’ap-


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proccio alla progettazione dello spazio urbano. Allora dobbiamo chiederci che cosa è oggi il progetto architettonico, e che cosa vuol dire essere un architetto in uno scenario in continua evoluzione. Sembra che gli architetti si pongano, oramai da qualche tempo, queste domande e la riprova di questo è stata una costante alla Biennale di Architettura 2012 di Venezia. Anthony Burke e Gerard Reinmuth nel loro saggio dal titolo “Formations: The plasticity of architecture”, fanno riferimento alla duttilità intrinseca della pratica architettonica, e alla capacità di riorganizzarsi dal proprio interno. Gli studiosi Burke e Reinmuth, affermano che l’emergere di nuove forme di professionalità è dovuto, da una parte ai cambiamenti culturali interni alla società, dall’altra dalla capacità di riformulare il pensiero architettonico in una situazione completamente nuova. Il Padiglione Usa, “Spontaneous Interventions” ha indagato progetti architettonici non convenzionali, nel senso che tali progetti non sono stati proposti da governi o clienti facoltosi ma, promossi e sviluppati attraverso nuove opportunità e in conformità a reali bisogni delle singole comunità. È importante, allora, rilevare come queste azioni che creano nuove opportunità e riconoscono diverse necessità e nuovi bisogni,

sono da ritenersi atti creativi. Un esempio di questo tipo di approccio è in corso in Newcastle, in Australia. Per più di un decennio la città ha subito un pesante declino economico dovuto principalmente alla chiusura di un grande numero d’industrie che costituivano l’ossatura principale della sua economia, e alla quale la città era particolarmente, o se vogliamo, tradizionalmente legata. Ciò ha comportato l’abbandono di parti centrali della città, con il risultato evidente di edifici vuoti e in attesa di un diverso destino. Nonostante le buone prospettive di riconversione del centro della città, soprattutto riqualificazioni di lungo termine, molti siti sono ancora chiusi e spesso transennati. In altri, l’incuria e l’opera di vandalizzazione, li hanno resi oggetti in decomposizione. Rinnova Newcastle è un progetto che punta alla rivitalizzazione della città attraverso l’uso creativo dello spazio vuoto. L’impegno è stato preso dalla comunità locale, e il primo atto è stato quello di ripulire e rendere agibili gli edifici abbandonati per un immediato riutilizzato da parte della città. Il programma Renew Newcastle, presuppone un continuo processo di ricerca da parte di artisti, di una continua proposta culturale e il lavoro assiduo di gruppi che utilizzano e gestiscono gli edifici vuoti fino a farli diventare

commercialmente vantaggiosi e quindi riconvertibili. Il fondatore Marcus Westbury non è un architetto. La sua formazione il suo background ha come riferimento i media creativi tra cui festival d’arte, giornali, radio e televisione. Quando parla del suo progetto, Westbury alle parole vandalismo, graffiti, declino, degrado, contrappone le espressioni, risorsa, opportunità, attività, interessi. Fin dalla sua istituzione nel 2008, il progetto ha funzionato come volano, e i risultati incoraggianti l’hanno replicato in altre cinque città. I nuovi modi di abitare la città, la percezione dello spazio urbano dei suoi nuovi abitanti, le risposte progettuali e infine il ruolo dei progettisti, sono tutti legati da un unico processo dinamico. Le incertezze ma anche le opportunità si sviluppano e si arricchiscono con l’accrescere della consapevolezza di nuovi modi di agire, anche attraverso un rinnovato approccio progettuale. Quali sono, allora, oggi le competenze di un architetto. Quali esperienze riusciranno ad attraversare indenni i nuovi parametri posti dai cambiamenti, dai nuovi equilibri, e nelle differenti situazioni disciplinari? Che cosa vuol dire essere un architetto all’interno di questo nuovo scenario, se una città può essere progettata da chiunque, da qualsiasi luogo? Su quali basi teoriche questo

può verificarsi? Nel suo saggio “The Agency of Mapping: speculazione, Critica e Invenzione”, il paesaggista James Corner propone una nuova percezione dello spazio urbano. Questa nuova percezione, secondo l’autore deve passare obbligatoriamente attraverso l’uso della mappatura come strumento di riconoscimento delle dimensioni sociali, creative e critiche. Egli descrive la mappatura come un progetto culturale immaginativo, capace di reinventare il territorio oltre che descriverlo. Si tratta quindi di considerazioni sulla mappa in rapporto con la realtà e la natura mutevole delle relazioni sociali e spazio-temporali. Su queste basi del tutto innovative, le pratiche di mappatura possono svolgere un ruolo attivo e modificare la cultura, lo spazio e il paesaggio urbano. Il ruolo della mappatura può rintracciare e descrivere spazi già noti, e può, nello stesso tempo, inventarne nuovi territori. La mappatura, come modo di appropriazione, può essere visto come uno strumento di emancipazione, in grado di liberare le potenzialità dalle convenzioni e dalle abitudini. Negli ultimi mesi a Prato, un gruppo di studenti del corso di architettura della Monash University, provenienti dall’Australia, ha utilizzato questi processi creativi di mapping in una serie di ambienti, e in diverse discipline e


Radical mapping diagrams.

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soprattutto in differenti luoghi della città, con l’intento di attuare una nuova comprensione delle situazioni in atto e attivare reali proposte architettoniche. L’esplorazione creativa di mappatura è stata utilizzata come base metodologica per la progettazione in un ambiente estraneo agli operatori. Il lavoro, dal titolo “Radical Mapping”, guidato dalla professoressa del corso, Nicole Kalms, è stato organizzato intorno all’uso di tecniche di mappatura creative divisa per fasi: la mappatura delle precedenti opere di altri artisti e architetti, tra cui una visita alla Biennale d’Arte di Venezia 2013; la mappatura delle specifiche ubicazioni e delle sedi di allestimento all’interno della città di Prato; la progettazione e costruzione degli allestimenti temporanei nei differenti spazi urbani. Il lavoro è stato realizzato attraverso l’u-

tilizzo di strumenti tradizionali dell’architetto: il righello, la penna, la carta, ma anche e soprattutto con l’intera strumentazione digitale a disposizione. Ciascuno studente ha presentato il lavoro attraverso il proprio sito web, una pagina Facebook e Pinterest. Hanno dato un contributo notevole alla ricerca moltissimi scambi di opinione sui blog, Instagram, YouTube e Vimeo. Il progetto riunisce e condivide, perciò, contributi e informazioni provenienti da varie parti del mondo. A questi processi e metodi si è aggiunta e si è molto impegnata la comunità locale. Le installazioni architettoniche temporanee sono state costruite in luoghi significativi della città da Porta Frascati, Piazza dell’Università, i Giardini della Stazione, le corti della Biblioteca Lazzerini e del Museo del Tessuto. L’installazione realizzata negli

spazi esterni del Museo del Tessuto e della Biblioteca Lazzerini, è stata particolarmente interessante sia dal punto di vista progettuale che per la capacità di coinvolgimento della comunità locale e soprattutto nel coinvolgimento dei bambini delle scuole e dei laboratori della biblioteca stessa. Ogni partecipante, in sostanza, ha costruito un pezzo dell’installazione attraverso la disposizione casuale di un nastro di tessuto colorato e legato nella struttura predisposta dal progettista. La posizione di ogni nastro ha coinciso, dunque, con un atto individuale ma è diventata nel contesto un’azione capace di generare un comportamento collettivo in grado di costruire e modificare uno spazio condiviso. Un esempio di come la combinazione dell’arte, il design, la ricerca e l’azione collettiva possano generare comunità e ridisegnare

lo spazio pubblico. Il progetto propone un chiaro riferimento al lavoro dell’artista giapponese Yayoi Kusama, dal titolo “The Room Obliteration” del 2001 realizzato per il Queensland Art Gallery, Apt 2002: Asia Pacific Triennale d’Arte Contemporanea e al lavoro di Polyglot Theatre dal titolo, “tangle (Groviglio)”. In entrambi i progetti, l’interattività fra oggetti realizzati e soggetti diventa una componente importante. I successi nel campo delle tecnologie e i cambiamenti nei modi nuovi di comunicare, incidono sul nostro modo di vivere, e quindi sui sistemi attraverso i quali interagiamo e progettiamo l’ambiente costruito. La città da sempre è stata un luogo di scambio, di connessioni e di diversità. E sembra che tutte queste caratteristiche intrinseche sono destinate a continuare nel tempo.


Software X Casalinghe 18

Roberto Bottazzi

«Voglio un software disegnato da e per casalinghe. Voglio, in altre parole, un computer che mi consenta di poter usare tutto il mio corpo non soltanto le mie dita. I computer sono diventati interamente vittime della propria storia: sono semplicemente calcolatori che analizzano numeri e testo, macchine astratte che non coinvolgono i nostri sensi. Dobbiamo superare questa concezione». Così Brian Eno illustra con vis polemica ed ironia la relazione fra computer, vita quotidiana e creatività. Una relazione che lui auspica essere più ibrida, aperta ad altre modalità d’uso al di là di quelle strettamente legate alla cultura scientifica. L’orizzonte tracciato dall’artista inglese appare tuttavia ancora lontano dai reali sviluppi della domotica — la disciplina deputata all’integrazione dei sistemi informatici negli ambienti domestici. La relazione fra questi due elementi ha rappresentato uno dei primi settori emersi dall’applicazione della tecnologia digitale all’architettura a piccola scala. Pur essendo iniziata nella prima parte del ventesimo secolo con l’introduzione dell’elettricità nelle case (essenzialmente negli Usa), la definizione contemporanea di domotica — che prevede l’integrazione di informatica e e telematica — deve la sua attuale forma al significativo sviluppo che negli ultimi venti anni la tecnologia digitale ha attraversato e che ha permesso di im-

maginare un modo diverso di abitare la casa. L’elenco degli esperimenti in questo settore è lunghissimo e di alto profilo: praticamente tutte le più importanti aziende di elettrodomestici hanno ricerche al riguardo, fino a progetti più integrali e, di ambizioni più radicali, ad opere di grandi multinazionali quali Philips e Microsoft. Nonostante gli innegabili progressi tecnologici, questi progetti hanno però incontrato profonde difficoltà nell’alterare l’uso quotidiano degli spazi domestici. La promessa mancata della domotica è oggi facilmente verificabile attraverso una veloce ricerca Internet. Basta infatti immettere questa parola in un motore di ricerca per vedere decine di siti commerciali in cui si vendono gadget elettronici (spesso piuttosto costosi) per espletare comuni funzioni domestiche. L’apparato tecnologico che viene introdotto nell’ambiente domestico non è quindi altro che uno strato sottile che viene aggiunto senza intaccare la forma degli spazi o i comportamenti dei loro abitanti. L’utente immaginato all’interno questa casa domotica è ancora quello del corpo taylorista, meccanizzato che aveva inspirato la celebre Cucina di Francoforte progettata da Margarete Schutte-Lihotzky nel 1926 e che aveva sancito l’ingresso del Modernismo nell’ambiente domestico: il Movimento Moderno per casalinghe, parafrasando Eno. La tecnolo-

Stefania Boccaletti

gia odierna ancora una volta si vanta di essere efficiente, vuole apparire come un’ulteriore razionalizzazione delle funzioni domestiche, senza fornire reali possibilità di vivere lo spazio in modo diverso. Stiamo parlando della differenza che corre tra innovazioni che hanno realmente cambiato le case — come ad esempio l’invenzione del frigorifero che ha finito per rinconfigurare perfino le nostre città — e una serie di elettrodomestici che ci forniscono con grande accuratezza informazioni piuttosto dozzinali quali pesi, temperature, orari, etc. che però ben poco modificano della nostra relazione come, ad esempio, l’atto di cucinare o l’uso della cucina stessa. Si tratta quindi di una visione tecnocratica più che tecnologica. Le tecnologie intelligenti appaiono così fine a se stesse, chiarendo come in questo settore la tecnologia sia in sintonia con le logiche di mercato, ma rimanga fondementalmente estranea alla cultura del dibattito architettonico: insomma, l’immagine della casa prodotta dalla domotica è una versione più costosa ma fondamentalmente uguale a quella della casa odierna. Come quindi integrare il potenziale fornito dalle tecnologie digitali e la progettazione dello spazio domestico? Le tecnologie digitali devono anch’esse essere progettate; devono cioè essere inserite nel progetto fin dall’inizio e non essere posticciamente aggiun-

te ad un prodotto finito. Solo attraverso una progettazione più integrata queste tecnologie potranno influenzare sia la forma che l’uso dello spazio. Il dibattito però si fa più complesso quando si affronta il problema concreto di come questa integrazione si possa manifestare e ancora una volta la conversazione si fa molto vicina — almeno per la terminologia adottata — al mondo della cultura digitale. La relazione fra spazio e tecnologia è descritta attraverso i termini hardware e software: il primo è l’elemento fisso, un’infrastruttura, mentre il secondo è intercambiabile, customizzato su esigenze più specifiche. La trasposizione di questo dibattito all’interno dell’architettura si è manifestato attraverso la formazione di due posizioni: quella dei “generici” e quella degli “espressivi”. La posizione generica — capitanata da Rem Koolhass — propone un’architettura più neutra, semplice, uno fondale scenico su cui le mutevoli possibilità della tecnologia possano liberamente cambiare. La posizione espressiva — sostenuta dagli architetti “digitali” quali Greg Lynn — riconosce invece alle nuove tecnologie la capacità di generare nuovi spazi più complessi e sofisticati. Una possibile linea di ricerca per superare la tensione dialettica tra le due posizioni è quella avanzata dalla cosiddetto movimento Open Source Software. Ormai presente


Progetto dello studente RCA Master Giles Smith in cui il servizio postale inglese è ri-immaginato come istituzione Open Source.

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da circa vent’anni nel mondo della cultura digitale — da cui proviene — i fondamenti dell’Open Source possono essere criticamente adattati al dibattito odierno per quanto riguarda il ruolo della tecnologia digitale negli ambienti domestici. L’Open Source propone la condivisione dei software, i cui codici non sono protetti da diritti d’autore e quindi possono essere liberamente appropriati e modificati. Al di là della semplice passione condivisa per i computer, questo movimento è andato ben oltre riuscendo a cambiare aspetti dell’industria informatica, come il caso del sistema operativo Linux ben dimostra con ben 65.000 progetti generati attraverso la sua piattaforma digitale. Alla base di questa cultura risiede il valore fondamentale della condivisione, della trasparenza fra prodotto, produttore, e consumatore che — almeno dal punto di vista teorico — si possono fondere in un’unica figura. Vi sono già esempi interessanti nel campo architettonico che utilizzano alcuni principi dell’Open Source: il fenomeno dell’auto-costruzione — ad esempio in Germania — è un esempio. L’abitazione disegnata secondo alcuni dettami dell’Open Source prevede un incremento degli spazi comuni in cui attività collettive quali quelle che ruotano intorno alla cultura del tempo libero e del cibo — dalla conservazione, alla preparazione e con-

sumo — che trovano spazi a loro dedicati. Come possiamo pensare questi recenti esempi all’interno di una casa in cui gli abitanti sono circondati da dati? Saskia Sassen spiega in modo molto convincente come la trasparenza della cultura Open Source possa essere applicata all’architettura — sia a scala domestica che urbana — attraverso il diretto accesso da parte dei suoi abitanti ai dati raccolti dai vari sistemi digitali. La prima mossa è quindi quella di trattenere i dati nel luogo stesso in cui sono generati, annullando completamente, o almeno minimizzando, la distanza fra dati e utenti. Il problema diviene rapidamente un problema progettuale. Se pensiamo alla capacità che queste tecnologie hanno nel monitorare, controllare e facilitare la produzione di energia, si ca-

pisce subito quali possibilità si prefigurano per gli architetti. La casa Open Source si trasforma nelle forme, materiali, e prestazioni in un unico ambiente in cui consumo e produzione di dati (ed esempio, sul consumo energetico) si fondono: oggetto e processo architettonico convergono. Non è più quindi un problema solamente stilistico, ma, riprendendo Eno, più profondo in cui cultura, performance e progettazione cercano un nuovo equilibrio. Questa interpretazione della domotica rimanda ad esempio alla nozione di Spime proposta da Bruce Sterling nel suo Shaping Things. Coniata dalla fusione di spazio (space) e tempo (time), gli Spime sono oggetti che possiedono sia una presenza fisica che digitale; hanno cioè un indirizzo internet che permette di conoscere tutte le informazioni

riguardanti il loro contenuto e la loro storia (proprio come una pagina internet). Le ramificazioni della cultura Open Source sono molto ampie fino a proporre modelli economici e legislativi diversi da quelli attuali. Tuttavia qui utilizziamo alcuni dei suoi dettami in maniera “infrastrutturale”. La condivisione e l’integrazione dei dati digitali con gli spazi reali è una pre-condizione necessaria per l’emergere di una diversa interpretazione della casa digitale. Una volta superato l’orizzonte tracciato dalla versione della domotica attuale, possiamo iniziare ad immaginare una relazione tra digitale e domestico non soltanto più profonda, ma soprattutto di carattere trasformativo, in grado cioè di ripensare un modo diverso di abitare. Insomma un software per casalinghe.


LA CASA 20

Il processo di sgretolamento culturale ed identitario sembra ormai non risparmiare nessuno degli elementi costitutivi della cultura di un popolo, e dunque dell’identità — sia di quella collettiva sia di quella individuale. Allo sguardo antropologico moltissimi sono i segni rivelatori di quel processo in atto, del quale appare problematico cogliere l’insieme — o, meglio, dare un senso logico alle infinite scomposte tessere di un mosaico che si sta progressivamente scomponendo. L’unica via possibile, forse, è quella di individuarne, nel risultante totale caos segnico, una possibile chiave di lettura. In altre parole quello che Marcel Mauss chiamerebbe un fatto sociale totale o, adottando il linguaggio di Georges

DA LUOGO A NON-LUOGO?

Balandier, un revélateur social, un indicatore sociale. La Casa potrebbe esserlo? “Abitare significa, fin dai primordi, delimitare uno spazio di sicurezza, scelto e non subìto, un rifugio, così da creare un ordine nel pericoloso disordine del mondo esterno”, si legge in un bel libro di Antonella Tarpino. In questo senso si comportava anche l’aborigeno australiano che, fermandosi al tramonto in un punto da lui scelto, innanzi tutto tracciava con il suo bastone un segno circolare nella sabbia del deserto, entro il quale si accampava sicuro che quel “confine” avrebbe protetto durante la notte sé e la sua famiglia. Egli definiva, sia pure provvisoriamente, un confine (la propria casa, il proprio luogo) che

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poi, al mattino, avrebbe cancellato per ridisegnarlo/ricrearlo la sera in un altro posto. In ben altro contesto storico-culturale, gli abitanti della medievale città murata al tramonto chiudevano le porte della città dopo averne fatto uscire tutti gli estranei, i non-cittadini, poiché — come scrive Friedrich Nietzsche nel suo Così parlò Zarathustra — di notte «i (loro) passi risuonano troppo solitari per le loro strade. E come quando di notte, dai loro letti, odono camminare un uomo prima del levar del sole, si chiederanno: dove va quel ladro?». Questo perché, come aveva sottolineato Georg Simmel, «non è la forma di una vicinanza o distanza spaziale a creare i fenomeni particolari del vicinato o

Paolo Chiozzi

dell’estraneità […] questi sono fatti prodotti unicamente da contenuti psichici». A cominciare dal sentimento di una comunanza naturale dato dalla unione di abitazioni sotto la protezione comune delle mura. La linea che separa Noi dagli Altri, che si tratti di un segno tracciato nella sabbia, delle mura (con le loro porte) erette attorno alla città — oppure della porta di casa — non è mai un fatto spaziale con effetti sociologici (e psicologici), bensì un fatto psico-sociologico che si dà una forma spaziale. La porta. La porta di casa, per la precisione. È essa che ci permette di comprendere il senso odierno della parola “casa” — persino quando ha preso il posto di un’antica porta della città (foto 1).

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1-2 Foto di Mario Chieffo 3-4 Foto di Simona Galbiati

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In latino la porta è Ianua, protetta dal Dio Ianus (Giano), la divinità Bifronte, rivolta al dentro ed al fuori, al passato ed al futuro. Insomma alla certezza ed all’incertezza; al noto ed all’ignoto. Mi chiedo tuttavia se oggi sia ancora davvero così… se Giano abbia ancora il suo ruolo ambiguo eppure positivo. Quella ambiguità che è data, come osservava Simmel, dal fatto che la porta “si apre o si chiude”, sottintendendo che è colui che abita nella casa a decidere se e quando aprirla o chiuderla. La porta è punto di intersezione, di “passaggio” o di “esclusione”. È innegabile che oggi, in contesti urbani, prevale la tendenza a chiuderla, sia quando usciamo sia (anzi soprattutto) quando entria-

mo, proprio per creare quello “spazio di sicurezza” a cui fa riferimento Tarpino. Con la differenza che ora si tratta di uno spazio chiuso subìto ma non sempre liberamente scelto. La città “aperta” a lungo andare ha visto corrodersi, nel bene e nel male, il suo carattere di luogo antropologico. Ed il “cittadino” sempre meno si riconosce in esso, percependolo come pericoloso non-luogo, di conseguenza chiudendo la propria porta alla ricerca di un isolamento protettivo — che ricorda l’azione (magica) compiuta un tempo dall’aborigeno — nell’illusione di una sicurezza che manca anche all’interno di un edificio impersonale e promiscuo delle periferie urbane, dove sarebbe più corretto parlare di

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tana piuttosto che di casa (foto 2). Metafora per alludere alla perdita del senso di Communitas proprio dell’esistenza contemporanea? In effetti credo sia proprio questo l’elemento disumanizzante del nostro tempo, dove si sono perse insieme la comuni-tà e la comuni-cazione, di entrambe le quali la porta-di-casa era un tempo espressione, grazie appunto alla sua ambiguità semantica. Con malcelata angoscia guardo le immagini antropologicamente non-significanti scattate da Mario Chieffo a Prato, sebbene egli non abbia voluto ritrarre ben più inquietanti edifici che vengono paradossalmente definiti “residenziali”. Con un po’ di invidiosa malinconia le comparo a quelle che

Simona Galbiati ha realizzato in un campo rom nei pressi della stazione ferroviaria di Tirana, dove un baracca — pur nella visualizzazione di una condizione per noi oggettivamente “umile” se non addirittura inumana — esprime ancora la (per noi perduta) duplice funzione della porta — chiusa ed aperta (foto 3 e 4). Aperta anche allo sguardo alieno (che costituisce oggettivamente sempre un’intrusione) di una fotografa-antropologa italiana; un fatto in sé rivelatore, giacché è tutt’altro che scontata l’accoglienza offerta, senza una preventiva e spesso dura “negoziazione”, ai visitatori curiosi da parte di comunità etniche altre, come spesso leggiamo nella letteratura antropologico-visuale.

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EPICENTRI


VICINO PIù VICINO progetto di Giovanni DʼAngelo, Luca Ponsi, Olivia Giorgi, Paolo Gaeta con Nicola Tuan, Riccardo Canalicchio, Simone Gori

2013 Lisbon Architecture Triennale Associated Project VICINO, PIù VICINO 27.10.2013 – 02.11.2013 - Castelo de São Jorge, Praça das Armas, Lisboa - Palazzo Vecchio Cortile dell’Anagrafe, Firenze ---------------------“Close, Closer” è il titolo della terza edizione della Triennale di Architettura di Lisbona che si è svolto nella capitale Portoghese dal 12 Settembre al 15 Dicembre 2013. La prospettiva proposta quest’anno, come ha spiegato il Presidente della manifestazione Josè Mateus, guarda all’Architettura non solo come disciplina tecnica ma soprattutto come un mezzo di indagine culturale e sociale, come uno strumento in grado di esplorare le costruzioni del pensiero. Il tema “Close, Closer” in questo senso si apre al concetto di globalizzazione, di perdita di identità di alcuni popoli, ma anche alla grande facilitazione della comunicazione. ”Come gli innamorati, che da sempre per non percepire la reciproca assenza guardano la stessa luna, le scatole comunicanti permetteranno ai visitatori di interagire con lo spazio, di diventarne protagonisti e di modificare il progetto stesso attraverso il proprio corpo”. È racchiusa in queste romantiche righe, che si possono leggere nel testo di presentazione, la

sintesi del progetto Vicino, più vicino.Concettualmente mettere in comunicazione le città di Firenze e Lisbona significa far si che due capitali storiche unite in passato da una forte cultura e dalla tradizione esploratrice tornino a dialogare mediante un contatto epistemologico, attivato dal movimento del corpo,innescando con i propri movimenti corporei luci e suoni come un linguaggio primigenio, comprensibile e afferrabile da chiunque entri nei padiglioni. Percepire la presenza diretta di una persona all’interno del padiglione gemello fa si che le grandi distanze del passato si riducano a un immediato confronto. Il Progetto Associato “Vicino, più Vicino” ideato dagli architetti Giovanni D’Angelo, Luca Ponsi, Olivia Giorgi e Paolo Gaeta, in collaborazione con Nicola Tuan, Simone Gori e Riccardo Canalicchio, ingegnere che ha realizzato il software, è stato selezionato dalla giuria della Triennale di Lisbona. I periodi di studio e lavoro all’estero, che hanno permesso al gruppo di pensare al concetto di spazio in modo trasversale, sono stati l’input per capire che la nozione di vicinanza (o, al contrario, di lontananza) è dominata essenzialmente dalle sensazioni. Da qui nasce l’idea di costruire due strutture temporanee formalmente identiche, composte da tubi innocenti e rivesti-

te da tessuto, da porre rispettivamente a Lisbona e a Firenze. I tubi innocenti che rappresentano lo scheletro strutturale dell’architettura, diventano manifesto di quella progettazione che ha fatto della semplicità la propria scienza e che ha promosso una composizione dominata dall’essenzialità. Pensando a queste strutture la prima immagine che viene in mente è la chiarezza compositiva della griglia conferendo razionalità alla temporaneità delle costruzioni in fieri. Entrambe le strutture ricoperte da una stoffa bianca, colore comune sia alla cultura portoghese che a quella toscana conferirà un simbolo di purezza che caratterizza il progetto. È invece all’interno della struttura che il carattere distinto e identitario delle diverse culture si contraddistingue mediante due immagini simboliche delle due città: la voluta in marmo verde e bianca della facciata di Santa Maria Novella dell’Alberti in rappresentanza di Firenze, e la Rosa dei Venti di Belem, per Lisbona. L’idea del progetto è stata quella di collegare idealmente e virtualmente le due città. I visitatori all’interno del padiglione fiorentino sono catapultati in un clima portoghese, di luci e suoni della capitale. Questo dovrebbe dar vita ad un dialogo tra le due città e suscitare l’interesse e curiosità delle persone all’interno, verso mon-

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di e culture lontane. I visitatori che entreranno nella struttura temporanea posta a Lisbona non avranno soltanto le stesse percezioni visive dei visitatori di Firenze, ma saranno strettamente connessi attraverso i movimenti nello spazio:i movimenti dei visitatori che interagiranno con la struttura di Lisbona saranno trasformati, attraverso l’uso di sensori in suoni (ideati da Tru West-Marmo Music) che verranno emessi nella struttura di Firenze, e viceversa. Utenti distanti, visitando le strutture temporanee spazialmente lontane, avranno temporaneamente la sensazione di trovarsi vicini. L’architettura è immaginazione, affermano gli architetti, il nostro obiettivo è quello di creare nuovi spazi attraverso un approccio collaborativo ed interattivo. In questo senso lo spazio diventa un elemento plasmabile da chi lo vive, dalle intenzioni in cui tutti possono partecipare e modificarne la forma. Di fatto l’architettura diventa il risultato delle modalità di relazione di chi lo “usa” assumendo l’immagine delle intenzioni. In questo senso è quindi interessante il ruolo che lo spazio, il colore ma anche la sensibilità dello spettatore che diventa utente, svolgono in questo gioco interattivo. ---------------------www.vicinopiuvicino.eu


LUCI / Firenze Il movimento delle persone a Firenze, ripreso dalle telecamere poste all’interno del padiglione accende le luci di colore verde, rispettivamente a Firenze e Lisbona.

© Tommaso Ferri

SUONI / Firenze-Lisbona I suoni attivitati dalle persone che si muovono all’interno del padiglione si ispirano ai rumori delle due città e vengono riprodotti contemporaneamente a Firenze e a Lisbona.

FIRENZE


LISBONA

Š Fabio Salvo Photographer

LUCI / Lisbona Il movimento delle persone a Lisbona, ripreso dalle telecamere poste all’interno del padiglione accende le luci di colore blu, rispettivamente a Lisbona e Firenze.


Residenziale PUBBLICA

EDILIZIA 26

Un’occasione per trasformare la città

Le pubbliche amministrazioni, alle quali è demandata la gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, hanno l’opportunità di applicare una strategia interdisciplinare e sistemica di progettazione, realizzazione e gestione della casa, in grado di trasformare le città e la società in maniera profonda. La casa infatti, elemento base del sistema urbano, è il luogo all’interno del quale, a scala ridotta, concorrono e si relazionano varie tematiche: inclusione sociale, innovazione tecnologica, risparmio energetico, gestione delle utilities, solo per citarne alcune. Casa, inoltre, come patrimonio edilizio della città, come diritto per rispondere ad uno dei bisogni primari dell’uomo, come luogo dell’abitare, dove si sviluppano le dinamiche relazionali che originano l’identità di una società. In Toscana è Casa Spa, società partecipata da 33 Comuni dell’area fiorentina, ad occuparsi di circa 12.000 unità abitative Erp. Al suo Presidente, Luca Talluri, abbiamo rivolto alcune domande per capire quale visione d’insieme guidi i processi decisionali. In questo periodo di crisi economica è sempre più alta la richiesta di alloggi a basso costo in risposta all’emergenza abitativa mentre, d’altra parte, si hanno numerosi edifici inutilizzati da riqualificare in una logica di rigenerazione urbana, anche in considerazione dell’obiettivo “volumi zero” presente nel Piano Struttura-

le di Firenze. Quali strategie e quali progetti futuri per assicurare il diritto alla casa? Purtroppo le risorse messe a disposizione per la casa non sono sufficienti. Soprattutto negli ultimi dieci anni la politica, in primis quella regionale alla quale è stata demandata la gestione del tema casa con la riforma della Costituzione, ha manifestato altre priorità di finanziamento quali la pubblica istruzione, il trasporto pubblico locale e la sanità. Il 72-75% degli italiani ha infatti un’abitazione di proprietà ed è quindi maggiormente interessato a questi servizi. L’acuirsi del problema è dovuto al fatto che mentre la crisi fa lievitare la domanda di alloggi a basso costo non aumentano proporzionalmente i fondi a loro dedicati. In questo panorama complessivo c’è comunque la volontà dei Comuni e delle Aziende per la casa di investire nella riqualificazione degli spazi inutilizzati. Casa Spa ha in corso numerosi interventi su edifici ed aree che avevano destinazioni differenti, convertite in alloggi per l’edilizia popolare. è il caso, ad esempio, dell’area ex Sime, nella zona di Scandicci, con 100 alloggi da consegnare nel 2015, dell’ex Pegna, dell’ex area Longinotti, dove a inizio 2015 verranno consegnati 45 alloggi. Speriamo inoltre che in futuro vengano “sbloccate” e convertite in alloggi anche le caserme, come quella dei Lupi di Toscana. Mentre l’emergenza abitativa si aggrava esistono appartamenti occupati da una persona sola,

spesso rimasta senza il coniuge, sovradimensionati per le sue necessità. Come è possibile ottimizzare gli spazi adeguandoli alle modifiche dei nuclei familiari? Casa Spa potrebbe promuovere progetti sperimentali basati, ad esempio, sulla convivenza e sul mutuo soccorso? Il metodo per ottimizzare gli spazi è chiamato mobilità: una volta che le necessità della famiglia variano questa viene spostata in un altro appartamento più idoneo. Il trasloco può comportare un disagio per l’inquilino ma permette di dare una risposta ad un altro nucleo familiare e rispetta il principio secondo il quale la casa popolare non è di proprietà. Applicare questa regola è un atto di coraggio che un assessore o un’Azienda per la casa devono saper fare, soprattutto nei piccoli centri dove i rapporti personali sono molto stretti, perché così si pratica l’equità e la giustizia. Non è da escludere però che a questo principio base possano essere affiancati progetti innovativi di convivenza in grado di sviluppare il senso di comunità, realizzabili a patto che i soggetti coinvolti vengano seguiti da personale competente in grado di monitorare l’andamento delle relazioni. Questo perchè non si creino problemi che invece di fornire un servizio alla città vadano a lederne l’equilibrio. La casa non è solo muri ma anche relazioni, abitudini, conoscenza immateriale, determinate da chi la abita e dove. Casa Spa

Sara Naldoni

applica strategie che favoriscano l’integrazione, ad esempio attraverso un processo di matching preventivo tra i futuri inquilini, e controllino l’insorgenza di criticità nelle dinamiche relazionali? Secondo quali criteri vengono progettati gli spazi comuni e che margine di autonomia hanno i residenti nella loro gestione? I meccanismi decisionali si basano principalmente sulla graduatoria Erp, cioè sul punteggio che ogni nucleo familiare raggiunge secondo precisi criteri di valutazione, in secondo luogo sulla disponibilità di alloggi all’interno dei condomini. Ogni alloggio ha un numero diverso di ambienti adatto ad ospitare vari tipi di famiglie che si troveranno a vivere fianco a fianco, garantendo così il mix sociale. Ad esempio, i nuclei familiari numerosi, tendenzialmente formati da persone giovani e spesso extracomunitarie, si relazioneranno con le piccole famiglie che sono di norma coppie di anziani. Il nostro obiettivo è quello di costruire condomini e lottizzazioni all’interno dei quali possano convivere diverse tipologie di persone. Per quello che riguarda la progettazione degli spazi comuni l’Italia purtroppo è meno sviluppata di altri paesi del nord Europa, dove le case popolari ospitano, ad esempio, asili interni e lavanderie condivise. Noi dobbiamo fare i conti con una realtà, delle abitudini ed un senso civico che spesso non permettono di realizzare grandi progetti. Nono-


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stante questo Casa Spa preme perché si creino spazi polifunzionali comuni, come è successo alle Piagge, dove sono state realizzate aree aggregative nella sede dell’autogestione, in seguito ad un’iniziativa portata avanti dai suoi rappresentanti. L’autogestione è infatti il modo attraverso il quale gli inquilini delle case popolari, rappresentati da un presidente democraticamente eletto, possono prendere decisioni autonome ad esempio sulla gestione degli spazi comuni o sulle piccole manutenzioni ordinarie, utilizzando un budget messo a disposizione dalla nostra Azienda. L’autogestione funge inoltre da step intermedio nella soluzione di eventuali problematiche sociali e relazionali perché permette di rilevare le criticità e di comunicarle al nostro Ufficio Utenze, che se ne occupa internamente prima di rivolgersi alle autorità competenti, quando necessario. Il patrimonio edilizio popolare è costituito in grande misura da edifici che risalgono a più di 30 anni fa, caratterizzati da bassa efficienza energetica ed alti costi d’utenza. Quali sono gli interventi possibili per migliorarne le prestazioni energetiche e per sensibilizzare gli inquilini ad un uso più intelligente della casa? è possibile pensare ad un coinvolgimento di altri soggetti, come le società partecipate del Comune di Firenze che si occupano di energia ed utilities, per condividere capitali e strategie

al fine di rendere la casa, e quindi la città, più sostenibile? Da una serie di analisi sul patrimonio edilizio esistente è emerso che gli interventi di manutenzione straordinaria più produttivi da realizzare in una logica di riqualificazione energetica riguardano la sostituzione della caldaia, degli infissi e l’introduzione del cappotto isolante. Con un investimento non impegnativo, si potrebbero avere enormi vantaggi a livello economico ed ambientale. In mancanza della volontà regionale di stanziare fondi per questo tipo di operazione sarebbe risolutivo se del problema si interessasse direttamente il governo, finanziando un Piano Casa nazionale. Con circa 300-400 milioni di euro sarebbe possibile riqualificare 600 mila immobili nel giro di tre anni, promuovendo un’operazione capace di far ripartire l’economia, specialmente quel segmento riguardante le aziende produttrici di componenti caratterizzati da tecnologie avanzate. In una logica di sostenibilità è altresì molto importante che la casa venga vissuta in maniera intelligente da chi la abita. Per questo abbiamo consegnato agli inquilini delle nuove case popolari un kit chiamato “Abitare Consapevolmente” contenente un manuale con le istruzioni su come ridurre al minimo gli sprechi energetici, una bottiglia da riempire con l’acqua del rubinetto, un termometro ed altra oggettistica, con lo scopo di favorire i comportamenti virtuosi. Il progetto è stato realizzato in sinergia con alcune società partecipate

quali Pubbliacqua Spa, Quadrifoglio, Banca Popolare Etica Scpa e Mukki Centrale del Latte di Firenze, di Pistoia e di Livorno Spa. Collaborare ad altri progetti con queste società, condividendo un obiettivo comune ed una visione d’insieme, porterebbe sicuri vantaggi alla città. Ognuna di esse ha però delle priorità aziendali ed una mission specifica da assolvere ed in queste tende ad esaurire tutti i propri capitali. Che ruolo può avere la casa, e nello specifico il patrimonio di edilizia residenziale pubblica, nella costruzione di una città più inclusiva, intelligente, sostenibile, comunemente definita Smart City? Cosa può fare Casa Spa in questa direzione? è necessaria una prima riflessione sulla dislocazione delle case popolari, che non devono essere relegate in aree marginali e periferiche ma devono essere disposte a “ macchia di leopardo” nella città, in modo da assicurare il mix sociale in ogni quartiere. L’obiettivo è che non si ripetano esperienze come quella delle Piagge o di Rocca Tedalda, dove l’alta concentrazione di condomini di case popolari, la loro localizzazione decentrata, la mancata predisposizione di strutture e servizi alle residenze, hanno creato quasi dei ghetti. Inoltre è importante che venga assicurata un’alta qualità dell’offerta abitativa, anche rispetto agli alloggi privati. Mi riferisco ad esempio alla dotazione impiantistica, alle prestazioni energetiche degli edifici,

all’adeguato dimensionamento degli spazi pubblici e privati ed a tutte quelle caratteristiche che devono connotare le case popolari affinchè queste non risultino alloggi di serie B ma siano invece una dimostrazione di efficienza ed equità sociale. Anche l’autogestione è uno strumento potente per costruire una città più smart e soprattutto per “fare comunità”. In una realtà che tende a spersonalizzarsi, nella quale è difficile avere tempo ed occasioni d’incontro, l’autogestione mette un argine all’annullamento delle relazioni ed innesca un meccanismo di appartenenza da cui scaturisce un grande senso di condivisione. Può quindi essere un elemento che riverbera attorno a sé una positività della quale va a beneficiare la comunità di tutto il quartiere. Per questo cerchiamo di promuoverla mentre in altre parti d’Italia e della Toscana viene ancora osteggiata. Mi piacerebbe inoltre che ci fossero le risorse sufficienti per mettere a sistema quelli che oggi sono degli esperimenti o delle pratiche non comuni, ad esempio il progetto Abitare Temporaneo, che consente di riqualificare il patrimonio edilizio esistente permettendo agli inquilini di rimanere vicino al loro quartiere, oppure il monitoraggio energetico degli alloggi, applicato non solo su campioni ma con soluzioni studiate ad hoc per i casi specifici. Questi potrebbero essere programmaticamente riproposti apportando consistenti vantaggi non solo agli inquilini delle case popolari ma a tutta la città.



↑ © Giulia Efisi > Monte Uliveto


↓ © Giulia Efisi > Monte Uliveto



↓ © Giulia Efisi > Monte Uliveto


PROGETTI Giovanni Avosani

Mediocri-city

L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuti si è allontanato in una rappresentazione. La società dello spettacolo G. Debord

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Utilizzare il filtro proposto da Guy Debord nell’analisi della città contemporanea, pervasa da fenomeni di estrema contraddittorietà, in equilibrio instabile da premesse mai realizzate ed un paesaggio costruito squallido e decadente, permette di strutturare un parallelo efficace con il mondo della televisione. Trasmissioni mediocri, dove non professionisti si celano dietro alla presunta autorevolezza del mezzo di comunicazione, tanto da sostituire coloro che per quel mestiere o quella professione hanno studiato, lavorato ed innovato. Così il fenomeno di delegittimazione delle professioni, che tanto gli architetti conoscono, passa anche attraverso un sistema di rappresentazione che pone gli attori del processo edilizio alla pari: il cliente alla stregua del professionista, il barista all’allenatore della nazionale. La nascita ed affermazione delle villette geometrili, rientra in assoluto nella premessa, un fenomeno dove il costante abbassamento delle premesse culturali rimanda inevitabilmente alla banalità del mediocre. Il panorama edilizio ed abitativo è definito solo attraverso una perenne campagna elettorale che pervade la quotidianità ruotando costantemente intorno al perno della casa, una volgarizzazione del tema ridotto alla sola tassazione. La mediocrità culturale definisce il tema in maniera univoca, superficiale e banale riprendendo un format televisivo, attento al presenzialismo e disattento ai contenuti. La città manifesta, nella forma e nei contenuti sociali che palesa, lo spirito del proprio tempo, in quest’ottica parlare di residenza implica una seria riflessione sul sistema casa ed il processo edilizio nel nostro paese e come questo rifletta una condizione culturale di

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profonda arretratezza. Una città diventata mediocre, incapace di esprimere alcun contenuto, incapace di sedimentarsi, legata a logiche di superficiale arrivismo economico. Il patrimonio residenziale pubblico italiano dimostra una profonda discontinuità rispetto al contesto europeo (Housing Sociale media Eu 16%, Italia <4%) coerentemente alla inefficace politica abitativa che ha avuto un solo episodio strutturato e realmente efficace nei due settenni Ina-Casa. Sin dal 2005, ovvero due anni prima della crisi immobiliare, il numero delle concessioni edilizie ha iniziato una progressiva inflessione dovuta non tanto alla “crisi” quanto ad una evidente sovrapproduzione ed eccesso di offerta in un mercato già saturo. Il soggetto pubblico, sottrattosi al governo dalle dinamiche edilizie, ha portato un liberismo economico efficace nella affermazione del soggetto privato come unico attore del processo edilizio. Progetti La situazione frammentata e disomogenea del patrimonio edilizio italiano costringe a cercare frammenti di qualità in ambiti geografici, culturali e processuali estremamente lontani. La scelta di rappresentare tre progetti derivati da processi di gestione, committenti ed in condizioni urbanistiche differenti è una conseguenza del sistema o meglio del mancato sistema casa pubblica. L’eccellenza degli esempi all’interno della mediocri-city, permette di evidenziare le problematiche del sistema casa-città, proponendo invece modelli di intervento programmatici coerenti e perfettamente inseriti nelle frange di limite del costruire architettura nel nostro paese.


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S T U DIO S T U DIO

testo di Giovanni Avosani

P R A TO

Il progressivo inurbamento delle campagne, segno caratteristico del territorio italiano, elemento unificante della disciplina urbanistica, ha contribuito a definire un ampio palinsesto di occasioni per gli architetti. Alla costante ricerca di strutture urbane ed architettoniche per la ricucitura delle frange periferiche, gli architetti Elisa Palazzo e Bruno Pelucca individuano un sistema chiaro ed univoco di definizione e misura dello spazio. La necessità di segnare un limite tra i luoghi dell’abitare ed il quartiere artigianale confinante con il lotto di progetto, ha portato a scegliere il muro

quale elemento di separazione tra spazi e funzioni. Il progetto di edilizia sociale a basso costo si basa sul principio della misura dello spazio declinando due ambiti adiacenti la residenza: il giardino privato, lo spazio veicolare. Ottimizzando il sistema di accesso alle case a schiera, si liberano spazi minimi ma ricchi di personalizzazioni, come i ballatoi luoghi dell’incontro e delle relazioni sociali rimandi alla tradizione comunitaria dei centri storici, nella visione di costruire case da abitare e non solo dormitori. La scelta tipologica unisce le caratteristiche della “villetta” come: il giardino, il posto auto coperto,


↓© Bruno Pelucca



↑© Bruno Pelucca


↑© Bruno Pelucca


↓© Margherita Stacchi

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gli accessi indipendenti, con la densità abitativa del condominio. L’architettura costruita presenta una forte personalità legata a codici formali condivisi, semplicità e linearità rimandano ad immagini di architetture portoghesi così l’uso dell’intonaco bianco e la pietra in gabbioni metallici. Lo studio tipologico avvicina il nuovo complesso alle più recenti sperimentazioni nord-europee, dove il garage aperto sul giardino diventa uno spazio flessibile e mutabile, il ballatoio un luogo di incontro e relazioni ed i balconi affacci sulla vita comune degli abitanti. Le abitazioni presentano piante con un alto grado

di personalizzazione, pochi elementi a servizio lasciano spazi continui e facilmente personalizzabili dalle nuove famiglie. La zona giorno connessa con il giardino privato attraverso una semplice scala metallica, si apre verso lo spazio dell’incontro, il percorso pedonale. Il complesso presenta caratteristiche di interesse se si pensa all’equilibrato inserimento dell’automobile nel sistema dei percorsi, dove rimane una componente mai principale dando priorità all’uso dei percorsi pedonali e ciclabili, verso una nuova forma di appropriazione degli spazi pubblici e collettivi.


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DE S I G N O MILANO

testo di Giovanni Avosani

Il progetto di recupero abitativo del quartiere Spaventa a Milano, racconta una storia di ordinaria attualità nel processo edilizio, soprattutto in area italiana, dove tempistiche autorizzative e certezza realizzativa si dilatano ad occupare due decenni. La volontà di recupero del patrimonio pubblico milanese da parte dell’Aler (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale) nasce nel 1993 attraverso il concorso Europan dal titolo “A casa in città, urbanizzare i quartieri residenziali”, dove il progetto vincitore degli architetti Cattoli e Gaiani diventa linea guida per i futuri programmi di riqualificazione. Solo

nell’anno 2004, dopo un lungo processo di finanziamento operato attraverso i contratti di quartiere iniziano i lavori; integrando completamente le premesse emerse nel concorso. Il quartiere Spaventa, uno dei primi progetti di edilizia residenziale sociale a Milano, è un complesso storico di elevata qualità architettonica, le palazzine in stile “liberty” erano considerate come “lussuose” nel 1910 (anno di realizzazione dei primi edifici). Il progetto architettonico rimanda ad una metodologia che enfatizza il ricorso al vocabolario esigenziale; si trovano blocchi funzione, rivisitati



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come invarianti per liberare le piante degli appartamenti e migliorare la fruizione di un’utenza già residente in loco. La scelta di sintetizzare il progetto in pochi elementi strutturali come blocchi - cucina, armadiature, scale e bagno - ne permette un inserimento attento, capace di valorizzare gli spazi esistenti e tutelare le superfici di pregio come i pavimenti in formelle di cotto. Configurazioni e personalizzazioni dei nuovi appartamenti sono appannaggio degli abitanti, molti di essi anziani già residenti nei palazzi invogliati dalla motivazione d’intraprendere uno spostamento con la certezza finale di ritrovare il proprio “ambiente” al quale sono abituati ormai da decenni. Questo processo di razionalizzazione dei residenti è stato possibile da un lungo ed intenso percorso partecipato, dove gli architetti si sono assunti il compito di ricostruire i nuovi ambienti in base alle esigenze di ogni utente. Il tema del recupero di edilizia di pregio ha in questa declinazione progettuale un esempio di assoluto interesse perché capace di realizzare edifici mantenendone le caratteristiche ed il portato storico; enfatizzando il ruolo del soggetto pubblico nella promozione e valorizzazione di architetture d’indubbio interesse estetico. Il progetto anche alla luce delle attuali normative antisismiche ed energetiche propone un modo di operare pragmatico ma contestualmente attento all’architettura in cui si inserisce, superando il solo adeguamento e contribuendo invece a migliorarne la qualità fruitiva.


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via Padova 36 MILANO

testo di Giovanni Avosani

ll progetto di risanamento conservativo Maisondumonde 36 è realizzato dal Fondo Immobiliare di Lombardia, e vede Polaris Real Estate Sgr come società di gestione del fondo e Fondazione Housing Sociale come advisor tecnico e sociale. L’intervento si inserisce, nel panorama italiano dell’housing sociale, come primigenio esempio di una politica abitativa legata al recupero del patrimonio esistente, sfruttando la possibilità offerta dalla legge 133/2009. L’edificio esistente si inserisce in una cortina urbana tipica del palinsesto residenziale, che non ne permette modificazioni o alterazioni. Il progetto

architettonico si rivela attento a mantenere inalterate le caratteristiche principali dell’edificio storico, il valore testimoniale conservato e valorizzato. Enfatizzando l’idea tipologica di corte, di lunga tradizione milanese, il progetto affidato a Tekne Spa, palesa la volontà di recuperare lo spazio aperto del complesso residenziale ed il fronte strada, migliorando l’utilizzo degli spazi semi pubblici, tipici della conformazione urbana meneghina al fine di renderli luoghi di vita quotidiana per i residenti e gli ospiti. L’integrazione di nuove unità abitative nel sottotetto — effettuata con metodologie prefabbricate in


Š Davide Fiorica


↑© Davide Fiorica ↑© Davide Fiorica

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legno — diventa un caso best practice nella soluzione dei problemi derivanti dall’intervento in edifici datati e poco performanti termicamente. Pochi elementi strutturali ed impiantistici permettono il recupero ad uso abitativo di spazi non sempre adeguati incrementando la superfici abitabile senza alcuna modifica sostanziale delle volumetrie esistenti. L’adeguamento tecnologico ha coinvolto tutti gli aspetti dell’edificio, introducendo gli ascensori nei vani scala e migliorando le caratteristiche tecniche e termiche raggiungendo la classe B Cened, così da permettere un utilizzo allargato

degli alloggi, nella logica di integrazione sociale dei residenti. Il carattere sociale che deve sempre mantenere il progetto residenziale trova una forma di perfetto equilibrio nell’utilizzo della corte come hub sociale, uno spazio ricco di prospettive capace di significare il senso dell’abitare condiviso nel nostro tempo. Il costante rimando alla vita “comune”, presupposto intrinseco nei progetti di housing, trova nell’inserimento di spazi commerciali ed uffici, il primo passo con la volontà di enfatizzare pratiche sociali e comunitarie anche attraverso il coinvolgimento di utenze allargate.


FOCUS

4 Elisa Poli

N OTE S U L L ’ A B IT A RE

Noi domandiamo: 1. Che cos’è l’abitare 2. In che misura il costruire rientra nell’abitare? Martin Heidegger, Costruire, Abitare, Pensare

Notizie dall’interno Nel gennaio del 1977 esce il primo numero di “Casabella“ diretto da Tomás Maldonado il quale aveva commissionato a Gabriele Basilico, allora giovane fotografo dallo sguardo lucido e severo, un servizio presso il quartiere Matteotti di Terni, complesso residenziale progettato da Giancarlo De Carlo attraverso un lungo processo partecipativo che, all’epoca, risultava del tutto inedito nel panorama italiano. Su richiesta del direttore e per volere dello stesso Basilico — che avrebbe raccontato molti anni dopo questa vicenda sulle pagine di “Abitare“ all’interno del suo ciclo di lezioni sulla fotografia — le immagini non dovevano documentare soltanto l’architettura ma anche, fatto davvero raro, gli abitanti all’interno delle singole abitazioni. Le ragioni di tale scelta risultano evidenti sfogliando le pagine del numero della rivista, il 421, che contiene il lungo servizio: alle molte fotografie, alternate tra il bianco e nero e un gruppo a colori, che rivelano con infallibile precisione di dettaglio il valore compositivo e simbolico del calcestruzzo a vista, distintivo di questo progetto, si alternano quelle che incorniciano ritratti d’interni, salotti di “nonna Speranza“ e coniugi compostamente adagiati sul bordo di un letto che stride con evidente clamore rispetto all’ossatura scarna e meravigliosa pensata da De Carlo. Pizzi, vecchie dispense, divani in velluto leggermente lisi sui braccioli, ninnoli, giocattoli, sedie scricchiolanti, riempiono come oggetti di scena in un teatro di posa lo spazio brutalista di quest’architettura, rendendo evidente — forse per la prima volta in una rivista di settore — lo sforzo compiuto da ogni residente per colmare quel senso di estraneità al luogo che il nuovo sempre ci propone. L’architettura, triangolata dal lavoro

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partecipativo di De Carlo, dalle fotografie di Basilico e dall’inedito angolo visuale offerto su “Casabella“, si trasforma, sotto il potere di una sensibilità alta, in abitazione, riportando all’attenzione del pubblico una questione che riguarda il senso del luogo progettato dall’uomo per l’uomo. E il potere autoriale dell’architetto-creatore cede il passo alla negoziazione con un universo emozionale che scompagina il calcolo esatto della struttura: costruire e abitare divengono azioni non riconducibili ad un’unica radice logica. L’essere e l’avere Nel suo breve saggio Costruire, Abitare, Pensare Martin Heidegger compie un’attenta riflessione intorno all’etimologia germanica di questi tre vocaboli, attribuendo alla radice buan/bauen (costruire) l’origine di un processo d’acquisizione di senso che può essere spiegato, nella storia industriale e tecnologica novecentesca , con il modo che ciascun uomo ha di stare sulla Terra. Il costruire e l’abitare sarebbero, seguendo questa interpretazione, fortemente connessi al progetto che ogni individuo — in maniera più o meno sofisticata — sviluppa rispetto alle proprie radici e al proprio luogo d’appartenenza. L’abitazione avrebbe dunque pari valore rispetto alla lingua, alla politica, alle leggi che formano la coscienza critica di un soggetto e, anzi, sarebbe un esempio tangibile del sistema di pensiero stesso. Non è un caso che anche il francese, con il suo “chez sois“ e l’inglese, attraverso l’espressione “to my place“ sottolineino il legame tra uomo e luogo progettato attraverso il rimando all’abitazione: cosa è “casa”? L’home o l’house? Nella lingua italiana questa sottile distinzione si perde ma possiamo ritrovarla in altre espressioni culturali, a volte molto elaborate, che


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qualificano il nostro sguardo quotidiano. Se nella lettura fornita da Heidegger, l’abitare è strettamente connesso al verbo essere — buan/beo/bin — l’etimo latino habitare deriva dal verbo habere e si contrappone quindi con quanto sostenuto dal filosofo: per la lingua tedesca “il tratto fondamentale dell’abitare è l’avere cura“ ovvero l’essere in un luogo — essere come soggetto — mentre per quella italiana l’abitare è una “consuetudine al luogo“ — un avere come oggetto — che disvela l’abitazione nel suo significato di apparato scenico: abito un luogo dunque ho un potere su di esso, lo determino poiché ne sono il padrone. Costruisco per possedere. Genius loci Nella più nota tra le Novelle Rusticane, Giovanni Verga scriveva “- Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —“. L’incipit de La roba, è una sterminata sequenza di luoghi, un viaggio nella Sicilia laboriosa e fruttifera di fine Ottocento, una tassonomia dell’avere rispetto all’essere. Il protagonista del racconto non abita in un luogo ma ha il luogo, determina, attraverso i suoi possedimenti, un paesaggio finemente

progettato, uno spazio saldamente delimitato e riconoscibile non attraverso la toponomastica ma grazie al suo stesso nome: questa è roba di Mazzarò. La casa, hortus conclusus della nostra tradizione abitativa — dalla domus romana fino alla palazzina borghese — cede il passo ad un fenomeno più impalpabile ed interessante: si abita ciò che si ha, se si ha molto si abita un luogo molto esteso. Habitare ed habere sono, in questo caso, verbi perfettamente sovrapponibili nel loro senso primario: Mazzarò è l’abitante di una terra, la sua terra, che copre un lungo lembo della Sicilia sud-orientale. Il luogo e il suo proprietario coincidono in un paradosso intrigante: un solo uomo è il legittimo abitante di un territorio vastissimo e, chiunque altro lo popoli, né è suddito, oggetto, estensione. L’unità di misura per rappresentare questo territorio, la sua mappa linguistica, si chiama Mazzarò e il suo abitare si vanifica nel momento in cui il protagonista s’accorge che la roba non può seguirlo nell’altro mondo. L’avere produce un’incongruenza: il luogo del racconto è un’abitazione priva di costruzione di senso e Mazzarò perisce sotto il peso di ciò che non può essere ma è costretto ad avere. La città che sale Una Lancia Aurelia B24 percorre a grande velocità il quartiere romano della Balduina: via Luigi Rizzo, terminata per i giochi olimpici del 1960, via Ugo Bartolomei, via Appiano, via Quinto Fabio Pittore, via Eutropio, via Ugo de Carolis, largo Damiano Chiesa, via Giuseppe Rosso. È il 15 agosto 1962 e il quartiere residenziale dei “nouveaux riches“ capitolini, filmato da Dino Risi nell’incipit de Il sorpasso, appare deserto come la Milano attraversata due anni prima da Jean Moreau ne La notte, di Michelangelo Antonioni. La città si disvela attraverso il proprio costruito

recente, per mostrare al pubblico quel boom economico che ha modificato in maniera tanto profonda l’estetica del paesaggio urbano. Abitare è costruire e i cosiddetti “palazzinari“ sono, insieme alla gente di spettacolo e agli imprenditori i protagonisti indiscussi di questa trasformazione rapidissima. I quartieri storici diventano appannaggio di un turismo intento a recuperare nell’Italia in cartolina quei valori classici, quelle regole di gusto e di costume, che le ferie d’agosto e il weekend fuori porta contribuiscono a cancellare, mentre una cascata di calcestruzzo e vetro satura le zone ancora libere delle città: nuovi miti e nuovi riti si sostituiscono ai precedenti cercando di proporre una familiarità che permetta loro di diventare, con il tempo, regola. Non è un caso se cinque anni prima, nel 1957, Roland Barthes aveva pubblicato un saggio in cui indicava quali sarebbero state le Mitologie del XX Secolo attraverso una selezione eclatante e acutissima nella sua ovvietà: le riviste popolari come nuove bibbie del sapere contemporaneo, gli attori descritti come nuovi eroi e le guide turistiche mostrate come surrogato del viaggio. La riconoscibilità dell’essere all’interno delle pratiche di massa — evoluzione non banale e pop degli antichi costumi liturgici — si coniuga perfettamente con la sua aberrazione: il concetto di novità diviene sinonimo di bellezza tanto che, nell’evidente riproducibilità delle scelte collettive, vi è l’implicito tentativo di un’estrema differenziazione. Conformismo e originalità si fondono nell’immagine dell’abitazione moderna: appartamenti “tutti uguali“ in edifici spesso progettati con grande intelligenza. Il piano Ina Casa ne è l’esempio più fulgido: qualità e quantità sono due rette destinate a divergere, divise da quel principio di possesso del luogo che coincide sempre più violentemente


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con la necessità di costruire. E nel caso qualcuno ancora vi si opponesse, cinema e letteratura insistono sulla metabolizzazione di questo fatto, tanto che il Neorealismo è il dispositivo dentro cui si cela la celebrazione dell’estetica del brutto. Ma ciò che viene mostrato in modo critico attraverso numerose, celebri, pellicole, è assimilato senza alcuna riflessione da chi realmente popola le scenografie dei film. La casa è il condensato per questa riduzione di senso: l’apparenza vince sullo spazio e, progressivamente, i buoni progetti sembrano essere abbandonati in virtù di una speculazione che vede protagonisti tanti, osceni Mazzarò. Utopie sprecate “Credo — scrive Barthes in Mitologie — che l’automobile sia oggi l’equivalente esatto di ciò che furono le cattedrali gotiche: una grande creazione dell’epoca, pensata appassionatamente da artigiani anonimi, consumata nella sua immagine piuttosto che nel suo uso da un popolo intero che la considera come una creazione magica“. La Citroën Ds, descritta in questo saggio, sta alla cultura francese come la Lancia Aurelia a quella italiana — non per una possibile comparazione progettuale ma, piuttosto, per il mito che entrambe le vetture incarnano — tanto che, seguendo questa metafora, l’abitazione si riduce nello spazio per acquisire un valore sino a quel momento sconosciuto: la libertà dello spostamento. In risposta al costruito come struttura fisica, all’architettura di cemento, la generazione cresciuta proprio negli anni Cinquanta e Sessanta propone una smaterializzazione della sedentarietà del luogo aprendo la mente ad un affascinante arcipelago di possibilità: Non-Stop city, Plug-in city, Walking city, Instant city, Monumento Continuo, sono alcuni nomi che riportano

alla mente le sperimentazioni dei gruppi radicali, impegnati nel tentativo di svincolare l’uomo dalla dittatura dell’abitare statico e, dunque, del costruire il luogo. L’infrastruttura — a volte effimera a volte “mega“ — sposta l’attenzione dal desiderio del singolo al potere della massa e regala, al pubblico dei lettori attenti, alcuni impareggiabili momenti. La stessa rivista “Casabella”, su cui pochi anni dopo sarebbe stato pubblicato il progetto di De Carlo, diviene luogo di totale sperimentazione sotto la guida di Alessandro Mendini (e l’ausilio di gruppi come Superstudio e Archizoom) tanto che i progetti si fanno teorici e sublimi per offrire al pubblico un’esperienza di abitazione totalmente rivoluzionaria. Flussi e tecnologie sostituiscono materia e costi: il nomadismo si sposa perfettamente con i principi sociali sottesi a questi progetti utopici. Eppure, il lirismo di tali proposizioni non sembra bastare a frenare l’ingorda corsa verso l’edificazione ad oltranza tanto che, quarant’anni dopo, il quantitativo di alloggi disponibili in Italia, supera per più di un milione di unità le effettive richieste di mercato. L’avere, sembrano ricordarci i numeri statistici, sovrasta i bisogni dell’essere e la cura per il luogo si è ormai definitivamente infranta contro un destino che vede nel rituale costruttivo l’unica rassicurazione contro l’ipotesi di un radicale cambiamento: proprio quello che aveva inizialmente sostentato il mito moderno dell’edificato di massa. Costruire senza edificare: il futuro dell’abitare Quando, nel 1977 viene pubblicato il progetto del villaggio Matteotti, il principio — forse un po’ obsoleto e impreciso — di avanguardia si risolve, in parte, nella capacità dimostrata dal progettista di sottoporre ad un pubblico non esperto le

proprie idee architettoniche e di negoziare con questo una possibile soluzione applicativa. Abitare il nuovo è, a partire dagli anni Cinquanta, espressione di una riuscita sociale, di un’evoluzione rispetto agli anni bui e affamati delle due guerre mondiali e ciascun soggetto vede nella propria abitazione il luogo di espressione del mutamento: cambiare casa è, per conseguenza, cambiare vita. Eppure le immagini di Basilico, di cui solo alcune vengono pubblicate su “Casabella”, rimandano ad un prezioso cortocircuito: il nuovo, ostentatamente assimilato al bello, viene vissuto dagli abitanti con il giusto sospetto della poca familiarità. La casa, ambiente deputato alla costruzione di un’intimità, pretende la riproposizione di quegli stilemi, di quelle azioni e di quelle consuetudini che la rendevano, prima, luogo d’affezione. E le affascinanti poetiche radicali, il progetto di un mondo in perpetuo movimento, le maquette di Constant e Yona Friedman, non hanno comunque cancellato il desiderio, tutto umano, per un nido permanente. La contraddizione tra nuovo e familiare è ancora oggi presente ad indicarci come l’assenza di un’educazione estetica (che se ben organizzata è spesso anche etica) provochi ferite non rimarginabili nel tessuto fisico, politico ed economico di ciascun paese. Gli esempi che accompagnano questo breve saggio sono dimostrazione di una possibilità di presa di coscienza, sono fatti concreti che ci indicano una via alternativa e percorribile verso una pratica architettonica capace di riconciliare i due termini dialettici di costruire e abitare. Lo fanno attraverso il superamento del binomio nuovo/bello, modificando l’assunto novecentesco che vede l’architetto come un creatore. Ma il loro numero esiguo indica che, per ora, troppi pochi stanno scegliendo questa strada.


A B IT A RE conversazione con Fabrizio Rossi Prodi Fabio Fabbrizzi

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Fabio Fabbrizzi (FF) / 30 10 2013 _ Caro Fabrizio, ho spesso “viaggiato” nella tua architettura apprezzando quella sua capacità di suggerire oltre l’immanenza delle forme, anche la presenza di un ragionamento molto più complesso. Una visione del mondo, l’ho chiamata a suo tempo, quando ho scritto il saggio di presentazione a quella che non voleva essere una tua biografia, ma semplicemente un momento di ricognizione all’interno del tuo lavoro. A distanza di sei anni esatti da quello scritto, posso osservare come quei nuclei essenziali su cui allora, come ora, si muove la tua progettualità, si siano ulteriormente arricchiti di nuovi vettori e di nuove acquisizioni, rafforzando però l’armatura portante delle tue riflessioni, prima fra tutte, il lasciare che i linguaggi condivisi siano contaminati dalle modificazioni, affidando all’idea del dialogo la sola possibilità di tenere insieme la regola e la sua rottura. Da sempre, infatti, la tua architettura percorre quello spazio di soglia contenuto nel colloquio tra la tradizione e la contemporaneità, intendendo quest’ultima come una qualità portatrice di possibilità, capace di contenere le leve di un progresso che non travolge le regole ma che, semplicemente, le forza per legittimarle nuovamente all’interno di un inedito sistema di riferimento. Nella tua visione del mondo, ho sempre percepito forte l’idea che prima dell’architettura contino le relazioni in essa sottese. Come un’attualissima declinazione di quella variabilità michelucciana, per la quale il processo di genesi formale è completamente subordinato alle infinite e variabili vocazioni dell’uomo e della sua esistenza, il tuo itinerario compositivo pare indagare l’essenza

stessa dell’esistenza. Un’esistenza che amplifica il proprio senso in virtù di quel suo sentirsi parte di un’appartenenza generale, nella quale il valore secolare delle istituzioni si fonde a quello ampio della comunità. Dove in definitiva, fare architettura significa pensarsi uomini tra gli uomini. A mio giudizio, tra i molti temi progettuali da te percorsi, questi nuclei essenziali che compongono alcuni tra i molti aspetti della tua poetica, vengono espressi al meglio all’interno di uno dei versanti progettuali da te maggiormente praticati, ovvero quello dell’abitare. Fabrizio Rossi Prodi (FRP) / 05 11 2013 _ Credo si debba essere umili, come tu hai detto: uomo fra gli uomini. Ascoltare, farsi piccoli per poter meglio penetrare e comprendere le cose, allearsi con gli ostacoli. Almeno predisporsi ad accogliere, a ricevere. La sensibilità è un tratto fondamentale e comune a tutti noi architetti. Occorre esercitarsi, ancor più che nel disegno, e farla lavorare. Ecco, questa passione per la vita degli uomini e per il loro mistero, in questa fase della mia esistenza, mi interroga sempre di più. E mi conduce ad abbandonare i rassicuranti lidi delle certezze culturali, accademiche, teoriche, per spingermi verso qualche sperimentazione. Beninteso, l’Educazione è fondamentale, e credo sia indispensabile passare almeno venti anni della propria formazione a stratificare conoscenze, metodi, tecniche, tipi, apparati, figure, insomma dedicarsi a completare il proprio apprendistato artistico per impadronirsi dei principi e delle regole che possano guidare saldamente le nostre intuizioni e le nostre scelte, o almeno che possano aiutarci a discernere le idee giuste da quelle sbagliate. Ma poi, nel mestiere, occorre tradurre tutti questi apparati

teorici e culturali in scenari che possano parlare alla sensibilità delle persone, che destino i loro sentimenti. E questo è un po’ più complicato: perché significa passare ad esempio da progettare una chiesa al tema della fede, da progettare un insediamento residenziale agli affetti familiari, da progettare una sede universitaria al tema dell’ascolto e della libertà di pensiero. Qui occorre qualcosa in più della competenza tecnica, bisogna sapersi emozionare un po’, richiamare le proprie esperienze feconde e incarnarle nelle forme e nelle figure dell’architettura. Non bastano logica, razionalità e conoscenza. Infatti mi torna sempre in mente Schinkel, che smette di scrivere il suo Lehrbuch, perché si rende conto che, anche nell’insegnamento, il cuore del problema non è la tecnica, ma un’educazione sentimentale. (FF) / 06 11 2013 _ Questa questione dell’emozione è un nodo fondamentale della “vera” architettura. Oggi che la verità ha sostituito la bellezza, credo infatti, che un’architettura per essere giudicata tale, debba mostrare, oltre il tratto certo e visibile dei suoi molti statuti, anche l’ala più incerta di una dimensione emotiva che è qualcosa di diverso dalla sola la capacità di emozionare. Non è solo il “farsi seri” di Loos di fronte al tumulo di terra scoperto per caso nel bosco, ma la capacità di comunicare un valore che va oltre il visibile, ovvero quella rara sensazione di aver stabilito un nesso tra un proprio universo personale e il mondo di tutti. Un ponte che genera appartenenza, un legame che innesca relazione, un pretesto che inizia un dialogo. Insomma, un sentirsi felicemente consapevoli all’interno di un flusso. Per questo, quando guardo le immagini che


Le immagini a corredo dell’intervista si riferiscono all’inaugurazione del complesso abitativo di via Cenni a Milano, opera dello studio Rossiprodi Associati. (Foto di Tommaso Rafanelli e Andrea Distefano)

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produci per narrare i tuoi progetti, non posso fare a meno di trovare questa verità. La vedo non solo nelle forme delle loro composizioni ma anche negli uomini, nelle donne, nei bambini e negli anziani che le abiteranno. Così come negli alberi, nei fiori, nella luce; ovvero in quell’intrecciarsi di traiettorie che si misurano tra gli spazi che prefiguri, come se l’architettura in fondo ne fosse solo il fondale, quasi un pretesto per ragionare ancora sull’Uomo e sulla vita. Contrariamente a quella tendenza imperante di far parlare l’architettura come un monumento, tu dai voce agli infiniti e variabili stimoli che in essa si accendono. Da tutti e in ogni momento. Scegli di mostrarla al mondo attraverso la complessità, piuttosto che tramite l’astrazione. Soprattutto quando racconti l’architettura dell’abitare, la “sporchi” di vita, della sua pulsazione, della sua inarrestabile forza. In particolare, mi sembra che nell’affrontare questo tema, tu sia solito progettare case e non abitazioni, residenze, condomini, ma case, anche quando sono torri di nove piani come a Milano. Da molto tempo mancava nell’architettura, la visione di un ideale comunitario a monte della progettualità. Mi sembra invece che per te, questo sia chiaro, nuovamente definito, magari attraverso nuovi e inediti parametri, ma nuovamente presente a legittimare le scelte di progetto. Quindi, per me, quelle che tu progetti e realizzi sono vere case dove l’uomo possa riconoscersi, vere case dove ciascuno possa continuare ad avere chiara la percezione della propria dignità, vere case dove si possa vivere quella quotidiana emozione di sentirsi parte di un insieme che potremo chiamare umanità, società, comunità, gruppo, famiglia, o come più ci piace.


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(FRP) / 11 11 2013 _ Individuo, comunità. Sono due categorie dell’altro secolo. Si sono combattute a lungo e gli ultimi trenta anni hanno visto prevalere l’individuo, inaridendo tutti i domini pubblici; ora invece sembra che si stia riaffacciando il valore della comunità. Ma l’area è grigia, incerta. E i due termini non mi piacciono, evocano atmosfere un po’ cupe. Io penso sia meglio parlare di condivisione e poi di capacità, come ne parla la Nussbaum, e puntare a infrastrutture spaziali che ne consentano la crescita. Forse queste potranno essere le categorie dei nostri anni. Del resto costruire spazi esattamente calati sui diagrammi delle persone e delle loro relazioni era già stato codificato dal razionalismo, come invece la solitudine dell’individualismo ha portato a identificare le ricerche compositive con il solipsismo dello star system, della brand architecture e del corporate. Perciò torna la domanda: come facciamo a riportare l’uomo e le sue relazioni dentro al progetto? Esiste una tecnica e delle metodiche con le loro articolazioni? Oppure ci limitiamo a evocare la sensibilità dell’autore? Non ho la risposta, a volte penso a stratigrafie di presenze e a flussi di relazioni, altre volte agli schemi mentali e alle categorie percettive, ai linguaggi e alla ricerca di un codice condiviso. Poi tutto si mescola, perché l’architettura è una materia umida, che ha sì uno scheletro, con dentro logica e ragione, ma poi si ammanta di una forma che è — per me — il vero scenario, come tu dici, per la vita quotidiana, un’offerta all’esperienza delle persone, una porosità in cui si incaglino le interpretazioni degli abitanti e non certo l’esaltazione del mio pensiero o l’imposizione delle mie certezze. Anzi, penso sempre che

l’autore a un certo punto debba saper sparire, e lasciar reagire il progetto nelle sue evoluzioni, perché assuma un’anima propria, perché acquisisca lo statuto della “fidanzata automatica” come sostiene un noto filosofo contemporaneo. Quando l’opera comincia a muovere i suoi primi passi da sola, vuol dire che è nata e sta crescendo bene. (FF) / 14 11 2013 _ Quello che dici è profondamente vero. Un’architettura acquisisce valore proprio quando da mero oggetto finisce per diventare soggetto, ovvero fonte di concordanza e condivisione. Purtroppo succede che molte volte l’oggetto rimanga semplice oggetto o tutt’al più che “finga” di diventare soggetto, un po’ come la “fidanzata automatica” alla Ferraris appunto, ma che in realtà del soggetto ne sia solo la rappresentazione. Una rappresentazione a volte sfacciata e vuota, capace di mettere su un medesimo piano percettivo, critico e divulgativo, le tradizionali dinamiche proprie della progettualità architettonica insieme a quelle più indefinibili degli scenari dell’arte contemporanea. Ontologicamente, invece, Il tema della casa pur essendo uno spazio complesso e variegato viene definito da poche categorie che nell’ambito dell’architettura prestano il fianco in maniera minore di altre, ad ogni possibile velleità di essere qualcosa d’altro. La casa non può essere oggetto, come talvolta può esserlo ad esempio il museo, la biblioteca, il centro culturale e finanche la chiesa, così come nemmeno può fingere di esserlo. La casa è la più “parlante” e come abbiamo già detto la più vera tra tutte le possibilità offerte dall’architettura perché oltre alla sua immanenza, esprime sì una necessità

e un diritto, ma anche una personale promessa di futuro. E’quindi il luogo delle passioni oltre che dei bisogni e proprio perché c’è aspettativa e desiderio, la casa deve essere soggetto e non oggetto, certezza e non rappresentazione. Ma quale futuro contiene oggi la casa e quale aspettativa dare ai suoi abitanti? (FRP) / 16 11 2013 _ Il primo pensiero sulla casa è che essa si trova in città. E il rammarico è che destiniamo sempre poche attenzioni allo spazio pubblico, agli spazi intermedi, a tutto il sistema di luoghi della vita all’aperto, che accompagnano il nostro ritorno a casa e la vita dei nostri figli. Paradossalmente tutto sembra convergere nel restituire valore allo spazio urbano: il nuovo urbanesimo, i programmi di sostenibilità, la contrazione delle superfici residenziali che ci potremo permettere, un ritorno di socialità e di condivisione, l’insostituibilità delle relazioni vere e vive. Eppure non ci occupiamo mai dello spazio pubblico, del vuoto, del niente — che è tutto — che separa una costruzione dall’altra e continuiamo a costruire villettopoli, continuiamo a disegnare — intorno ai nostri volumi — giardinetti e recinzioni, oltre i quali c’è il nulla del nostro disinteresse e il dis-valore di quanto non è privatizzabile e profittevole. Occorre un cambio di questa mentalità: dal disegnare il pieno dei volumi a occuparsi del vuoto delle relazioni. E occorre che la grande scala del progetto urbano (o urbanistico) si fonda con la piccola scala del progetto architettonico, gli urbanisti devono pensare come architetti e gli architetti come urbanisti. Oppure possono farlo insieme. Mi sembra che questa sia la nuova frontiera. Ma, sebbene qua e là compaiano


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comportamenti o soluzioni pregevoli, si tratta di testimonianze isolate, anche eroiche, contro le quali stanno le leggi, i regolamenti, la frammentazione delle procedure e dei poteri autorizzativi, le prassi degli uffici, la mentalità di tutti, politici, amministratori e funzionari. Secondo me dobbiamo chiedere loro: ma che idea di città avete? E quali proposte pratiche potete mettere in campo? Voglio dire che il futuro della casa sta prima di tutto e in gran parte negli spazi esterni, in quelli intermedi, in quelli inter-esterni e in quelli condominiali, insomma in varie scale che possano costruire, con attenzione, un’offerta ricca di spazialità diverse, porose, alcune anche negoziabili, luoghi accoglienti per la libertà di scelta delle pratiche sociali e spaziali, per una offerta di socialità ugualmente ricca. Poi il futuro della casa e degli abitanti riguarda tanti altri aspetti. (FF) / 22 11 2013 _ Mi sembra, infatti, che questo tema della porosità e della reciprocità tra l’edificio e la città, sia molto praticato nei tuoi progetti e nelle tue realizzazioni. Quasi un tema sotteso ad uniformare le intenzioni presenti in declinazioni differenti. Solitamente affidi la forza di questi spazi in-between alla presenza di un verde che funziona sia da vertebra di connessione tra le varie parti dell’intervento, sia da elemento di legame con la città. Attraverso il verde caratterizzi anche i linguaggi dei tuoi edifici, che mostrano luoghi di mediazione tra l’interno e l’esterno, schermature vegetali e coperture a prato, offrendo così una loro precisa caratterizzazione bioclimatica. Per parlare ancora di Milano, nell’appena inaugurato complesso di via Cenni — la più grande realizzazione di social-

housing europea a struttura portante in legno — i centoventitre appartamenti che compongono l’insieme, prospettano sul grande spazio comune a verde. Una “rambla” urbana e che si suddivide in tanti ambiti differenti capaci di coagulare relazione e aggregazione. Su di essa si affacciano gli appartamenti dai tagli anche insoliti pensati per variegate categorie di utenze, come per esempio i giovani e le famiglie solidali, che scelgono di condividere alcuni spazi della casa per una più appagante vita di relazione. Ma su di essa si affacciano anche i piccoli giardini privati e le logge e i balconi, in modo che tutte le case partecipino di questa presenza, allo stesso modo di come lo spazio collettivo partecipa degli spazi della casa. Sperimentando la qualità delle tue architetture, e ampliando un po’ quello che dici, si potrebbe dire che forse proprio attraverso il tema della natura e dell’ambiente si potrebbe pensare di unire in una alleanza molte volte cercata ma mai portata ad un esito soddisfacente e soprattutto diffuso, il destino dell’urbanistica a quello dell’architettura. (FRP) / 30 11 2013 _ Se penso alla piscina di Firenzuola, convengo che l’intersezione fra natura e architettura è l’asse portante del progetto, sia negli alberi che cercano di traforare la copertura, nelle fenditure che la attraversano per portare la luce in basso, come anche in quei tagli del tetto che per me erano una metafora del dilavamento dell’acqua, e ancor prima il racconto dell’azione degli elementi naturali sulla materia. Anche a Milano nell’insediamento di via Cenni il rapporto con l’ambiente e la natura è esplicito, descrittivo, addirittura simbolico, ma poi anche intimo, entra nell’essenza della struttura e trasforma

l’architettura. La relazione, la dialettica mi è sempre sembrata la base della vita e della conoscenza, proprio come elemento dinamico che vivifica, che smuove qualcosa che altrimenti è fermo, morto; per questo nei progetti ho bisogno di solito di due enti che si confrontano, e di un margine che ne registri avanzate e arretramenti. Da qui nasce l’attenzione per la natura e la sua intensa contrattazione con l’architettura. Che poi diventa anche un modo per creare diaframmi, quinte e sequenze che invitano alla scoperta e plasmano i luoghi per l’esperienza: dunque luoghi e non certo naturalizzare l’architettura o nasconderne l’astanza con eccessi di verdolatria. Anche se, in fondo mi rimane il dubbio, che non stia cercando di argomentare razionalmente qualcosa che in verità è molto più autobiografico, che magari deriva da esperienze di meraviglia o dal ricordo giovanile di quando disegnavo alberi e rimanevo affascinato dal continuo alterarsi del fogliame. Certo, nell’insediamento di via Cenni, ma anche in altri progetti, gli alberi e le essenze vengono impiegati per ricreare scale diverse e spazialità intermedie, che tradiscono il desiderio di ricomporre la piccola e la grande scala nel progetto d’architettura e della città o, come tu dici, architettura e urbanistica. Ma qui torniamo a un punto irrisolto della nostra cultura contemporanea e della nostra strumentazione disciplinare. (FF) / 03 12 2013 _ Bella questa cosa dell’astanza che ci riporta dritti ad una delle parole chiave del nostro conversare. Cesare Brandi in fondo aveva ragione; l’arte e quindi l’architettura, può anche assumere tutti i significati che noi le possiamo attribuire, ma tutto questo


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rimane senza importanza, perché l’architettura oltre al proprio essere qui e ora, manifestandosi quale fenomeno, presuppone comunque la presenza di una struttura sottostante. E forse, fenomeno e struttura si superano solo nel proprio offrirsi alla realtà come insieme di quelle relazioni, quindi di differenze reciproche, che sono state fin dall’inizio un po’ il tema unificante del nostro confrontarsi. Ma per scendere da un piano più teorico ad uno maggiormente operativo, come ti muovi solitamente sul piano progettuale per permettere ad un’architettura residenziale di risarcire quella endemica scissione tra la forma dell’edificio e quella della città? (FRP) / 06 12 2013 _ Credo si debba lavorare sul sistema dello spazio pubblico e sugli spazi intermedi e condominiali, molta della qualità si gioca lì. Credo si debba ridefinire con molta attenzione il tema dell’attacco a terra dei nostri nuovi progetti. E questo riguarda anche l’urbanistica. Non ci possiamo più accontentare delle recinzioni e dei giardinetti profondi tre metri; quella terra di nessuno deve tornare ad essere preziosa e non solo la celebrazione della privacy dell’abitante che non dialoga con le istituzioni pubbliche: così si apre tutto un campo di relazioni fra individuo e dominio pubblico da tradurre in sistemi spaziali di varia gradazione, che sono il cuore vero dell’esperienza urbana. Poi c’è un tema legato al precedente, che riguarda gli apparati inter-esterni degli edifici — logge, terrazze, balconi, portici, sistemi di accesso, luoghi al piede della costruzione — che costituiscono il modo in cui un’architettura guarda all’esterno e si relaziona con gli altri insediamenti e gli altri luoghi. Lì si

esercita per me la questione della domesticità, il carattere dell’abitare. Anche il coronamento — vedo che fatico a pronunciare il termine tetto, perché temo subito di cadere nel pittoresco consumistico — è un altro ambito da approfondire, perché costituisce un requisito profondo dell’abitare, proprio sul piano simbolico, e direi che è difficile sentirsi insediati se non si alloggia sotto un “tetto”. C’è poi una questione morfologica, che coinvolge la scala, la dimensione, l’articolazione volumetrica, anche in relazione ai principi istituzionali e domestici e che si innesta sulle scelte tipologiche e soprattutto sulla variazione tipologica, anche all’interno di uno stesso intervento. La varietà — certamente misurata — è una precondizione di tutti gli organismi per la loro sopravvivenza, ma anche un modo per corrispondere al bisogno di individualità sempre diverse da “indossare”, che emerge nella civiltà contemporanea in fuga ormai dalle soluzioni omologate e massificanti. Non occorre ripercorrere il pensiero dei filosofi o dei sociologi degli ultimi dieci anni, basterebbe tornare al concetto di “opera aperta” e di cooperazione testuale. E poi c’è il tema della mixitè funzionale, sociale, dei tagli di alloggio, di età. E poi ancora il tema dell’alloggio con le sue dilatazioni di bagni, soggiorni e terrazze e la sua contrazione generale, anche se le norme attuali in Italia consentono pochissima sperimentazione sul tema dell’alloggio, le cui tipologie sono ferme da circa cinquanta anni. Ma vedo che il colloquio sta diventando una conferenza e quindi mi fermo. (FF) / 09 12 2013 _ Perché fermarsi? Per quanto mi riguarda, credo che in un tempo dove tutto deve essere easy,

smart o light, insistere nell’architettura sul valore delle cose, nominarle, scandirle, analizzarle e poi valutarle criticamente, non possa che aggiungere cultura ad un fare che altrimenti rimarrebbe solo tecnico. E poi questo modo svela l’altro aspetto del tuo essere architetto, ovvero la “felicità”, per usare ancora un termine michelucciano, della trasmissione delle proprie idee attraverso l’insegnamento. Una pratica che ti ha portato in questi ultimi anni a ripensare la progettazione come momento centrale all’interno della Scuola. Un luogo di sintesi tra i vari saperi, le competenze e le conoscenze di una figura che deve essere colta e tecnica allo stesso modo, così come umanistica e scientifica allo stesso tempo, in modo da formare al meglio quei “muratori che hanno studiato il latino” che costituiranno i progettisti di domani. E saranno progettisti —quelli formati sulle molte anomalie di questa nostra Scuola— capaci, mi auguro, non tanto di esportare una riconoscibilità assoluta, quanto piuttosto una sensibilità in grado di declinare i propri nuclei teorici e operativi alle molte diversità dei luoghi, dei loro caratteri e delle loro identità. Questo, in definitiva, è il portato culturale della Scuola Fiorentina; una realtà comunemente intesa nel proprio duplice ruolo di operatore didattico e di operatore culturale, dove in entrambi i casi, l’idea di scuola è legittimata non tanto dall’omologazione dei linguaggi impiegati, che fortunatamente rimangono diversi, quanto piuttosto da una comunanza di temi sottesi che indipendentemente dai linguaggi con i quali si formalizzano, rimangono i nuclei di riferimento essenziali. Come ti piace pensarti in relazione ad essa nel tuo doppio ruolo di insegnante e progettista?


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(FRP) / 11 12 2013 _ Mai pensato che la Scuola abbia avuto un linguaggio unico e omologante. Anzi essa si manifestava con tante posizioni diverse e anche vivacemente contrastanti. Al centro c’è sempre stato il rifiuto di quei Maestri di insegnare con la matita rivolta verso il foglio nelle revisioni agli allievi, proprio per evitare di trasmettere dei modelli. Era stata piuttosto — come ho avuto modo di scrivere — una Scuola di pensiero, di critica un po’ socratica, di libertà. In filigrana nell’opera della seconda metà del secolo scorso, si rileggono alcuni tratti continuamente frequentati dai vari protagonisti, come la passione per la tradizione minore, per i paesaggi, per le complessità spaziali urbane, riassunte nel principio della città variabile, e poi la passione per la modernità, l’invenzione dell’analisi linguistica, ecc. Ma tutto cementava un desiderio di fondazione etica del progetto. Tema oggi difficilissimo e attualissimo (anche se solo da pochi anni), che di solito veniva ricercato nella presenza dell’uomo o della comunità nei luoghi che venivano analizzati o progettati, o nel lavoro corale o, ancora, nel prevalere della cultura materiale. Mi sembrano questi i tratti della mia identità fiorentina. Mi immagino anche che una matrice sia ancora e sempre l’Umanesimo, ma una più recente vada ricercata in quella tensione che aveva animato il Partito d’Azione e l’impegno di Ragghianti. Ecco, forse, quelli erano i valori comuni, la fondazione della Scuola e del suo modo di pensare e di essere. Cosa rimane a noi oggi? Alcune tracce, da riprendere pazientemente e un desiderio di ricostruzione e di impegno — ancora più saldo e più motivato nella crisi che stiamo attraversando — che in alcune aree della Scuola sono oggi anche

forti e stanno producendo dei buoni frutti. E, per venire più precisamente alla domanda, come un altro tratto distintivo della Scuola è sempre stato il continuo, concreto confronto fra il momento teorico e la pratica operativa, non riuscirei proprio a immaginarmi come solo accademico o solo professionista. Ho bisogno di entrambi i ruoli, per alimentare sia un mestiere che l’altro; del resto non sono due ruoli distinti, perché la felicità era anche “lavorare in cento”, era la trasmissione tacita del sapere, era la bottega artigiana come paradigma dell’insegnare agli allievi e lavorare al progetto. Solo nella stupidità degli ordinamenti del nostro paese questi possono essere considerati due mestieri diversi. Anche i saggi del pensiero empirista dimostrano che c’è una circolarità inseparabile fra pratica corporea, abilità manuali, abilità mentali, cultura materiale e linguaggio, che coinvolgono la trasformazione delle reti neuronali e ne plasmano la conformazione; solo così la mente riesce a “stare sulla cosa” e a anticiparla con l’atto creativo. (FF) / 12 12 2013 _ ...insomma, anche se è evidente una tua identità progettuale tutta italiana, anche se rivolta verso episodi a dimensione internazionale — vedi il recente progetto di social housing a Madrid — mi pare di capire che rimane la nostra città, la sua storia, la sua cultura, a fare da imprinting prioritario al tuo essere architetto a tutto tondo… quindi per finire anche con te con una battuta, ti domando… ma oltre a Firenze, dove “abita” Fabrizio Rossi Prodi? (FRP) / 13 12 2013 _ Mi pare di possedere una valigia piena di attrezzi, di macchine

e di programmi — alcuni anche un po’ segreti — a lungo elaborati fin dalla mia origine e per tutto il tempo della mia formazione, in questa città che ha inventato l’architettura. E il radicamento è forte: sono nato, sono cresciuto, ho studiato, ho formato una famiglia, abito, insegno e lavoro pur sempre in un raggio che non supera il chilometro. Un giorno sono spuntate le ruote alla valigia e ha preso a viaggiare. Da allora, tutte le volte che la aprivo, restavo sorpreso, perché i suoi contenuti erano cambiati, le macchine si inceppavano, i programmi avevano dei vuoti. E in quelle lacune si insinuava il mondo, che ne corrompeva gli statuti, ne variava i comportamenti; così mi precipitavo da una parte all’altra a riparare gli ingranaggi, a ricombinare le parti e a resettare i programmi. Dapprima ero disperato, perché il mio mondo sicuro di forme belle e spigolose e di portici infiniti, ne rimaneva profondamente ferito. Finché ho capito che dovevo aprire la valigia e far uscire tutti i suoi apparati, lasciarli liberi di affrontare la realtà, così diversa in tutti i luoghi così diversi, con persone così diverse. E per un po’ è andata bene. Ma in seguito ho cominciato a far finta di dimenticarmi la valigia con le sue macchine e i suoi sistemi, e mi sono sentito più leggero, come fossi assistito da una forza più spirituale, fatta solo dalla mia formazione precedente, da una cultura e un’identità, questa sì, fiorentina e italiana, che non possono essere ridotte o dimenticate. Così ora affronto i viaggi, senza più la valigia, senza tante difese, curioso per il mondo e animato da una volontà di trasformazione, ma anche di ritrovamento. E quando torno dai viaggi mi sento autentico dentro la mia coscienza. Perché lì, credo di abitare.


Il n o ma d e v i v e n e l v i llagg i o ? vespe e orchidee e venditori ambulanti di spazio Michele Londino

Nell’apparente contraddizione fra il nomade e il villaggio è rintracciabile una nuova mappa della metropoli contemporanea. C’è una bella frase di Gilles Deleuze, che racchiude il senso più intimo dell’abitare nomade, la frase è la seguente: il nomade è là, sulla terra, ogniqualvolta si forma uno spazio liscio. Il nomade abita questi luoghi, resta in questi luoghi e li fa crescere; per questo si può constatare che il nomade forma il deserto non meno di quanto il deserto formi lui. Aggiunge il deserto al deserto, la steppa alla steppa1. Nella frase citata è inserito un concetto stimolante, relativo allo “spazio liscio” che deve essere spiegato. Per liscio s’intende uno spazio percorribile in qualunque direzione e secondo differenti velocità. Lo spazio liscio è uno spazio non privo di punti, questi però, segnano una direzione non sono mai la meta di un percorso. Lo spazio liscio, che è tipico dello spirito nomade, è definito dal tragitto sempre modificabile. E nel tragitto è fondamentalmente importante quello che accade fra un punto e l’altro. Sono più rilevanti le relazioni che si creano nel movimento rispetto al traguardo. Scrive Deleuze: Il punto d’acqua è fatto per essere lasciato e ogni punto è un ricambio. Lo spazio liscio è contrapposto allo spazio striato che, invece, rimanda a strutture spaziali predefinite e percorsi già stabiliti. Questo spazio che è definito spazio sedentario, per sua natura, è uno spazio incapace di formarsi in assenza di elementi che lo delimitano e per funzionare ha bisogno di percorsi interni ed esterni alle delimitazioni. È evidente, quindi, che il nomade si distribuisce in uno spazio, lo occupa e lo abita e quindi lo trasforma. Rende liscio lo spazio striato. È se il luogo

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fosse la città? Intesa come superficie striata? È possibile immaginare il paesaggio delle grandi metropoli come il risultato dovuto a una forte influenza del pensiero nomade? Certo, oggi, non si può pensare di dare un’interpretazione univoca dello spazio delle città e soprattutto diventa difficile comprendere le ragioni dei fenomeni che trasformano lo spazio di vita con gli strumenti dell’urbanistica tradizionale che vede in queste interferenze motivi di disordine. Bisogna, in altre parole, separarsi definitivamente dall’idea per cui la città possa essere interpretata come una struttura perennemente in equilibrio statico e, per questo motivo, progettata attraverso criteri legati a concetti come l’immobilità e la permanenza, la forma e il dato statistico dei fenomeni. Dobbiamo allontanarci dall’idea che si possa fare ricorso, ancora, a metodi che generano effetti separati, che tengono conto delle singole funzioni e per giunta slegate fra loro. Forma e funzione sono oramai concetti inafferrabili in un territorio come quello della città contemporanea che opera e si comporta seguendo leggi più adatte ai sistemi organici, agli organismi appunto. Il “pensiero sedentario” propone modelli di riduzione della realtà, e nella pratica di riduzione, di “semplificazione burocratica” si perdono le interferenze, le connessioni con gli elementi che lo compongono. Il modello interpretativo e quello progettuale che abbiamo definito sedentario frantuma lo spazio e dopo assegna agli uomini spazi chiusi, stabilendo per ciascuno la sua parte. Il “pensiero nomade”, invece, è un pensiero che legge nell’indeterminatezza, nella probabilità e nel caos quindi nel divenire dei fenomeni. L’approccio nomade introduce una diversa lettura

della città e nello stesso tempo abitua la città a offrire una nuova interpretazione della propria rappresentazione. Agisce come organo dissipatore e favorisce sistemi di non equilibrio e per questo è in costante interazione col suo intorno. Forse la più bella immagine letteraria dedicata al pensiero nomade è quella che Walter Benjamin fa del flaneur descrivendolo come un “venditore ambulante di spazio”2. In questo contrasto e nell’eterogeneità degli elementi in gioco occorre cercare una nuova chiave di lettura dei fenomeni urbani fra cui l’abitare e oggi più che mai abitare nomade. C’è bisogno dunque di un diverso selettore d’informazioni che svincoli la materia urbanistica dal concetto di fissità e di riduzione a codici. Dovremmo, quindi, attivare nuovi metodi d’indagine. Dotarci di nuovi strumenti capaci di cogliere quegli aspetti immateriali poco percepibili e spesso nascosti dalla valanga di norme, regole e codici, elementi oramai ingombranti e incapaci di offrire una rapida lettura dei fenomeni complessi di modificazione dinamica delle città. Il sistema normativo burocratico della città contemporanea e soprattutto della megalopoli, coglie, per sua natura, soltanto aspetti geometrici, formali e funzionali. Separa la città dal suo paesaggio, anch’esso artificiale nel senso “costruito ad arte”3, e mantiene rispetto alla città e rispetto al paesaggio una distanza che compromette una “vivibilità dell’ecosistema”. Per riuscire a leggere la nuova mappa delle città, costruite da innumerevoli relazioni, bisogna modificare il punto di vista. La città nella sua forma costruita e nella forma abitata è il prodotto, da un lato, di abitudini sedentarie, dall’altro, risente — oggi più di prima — il forte impulso


dovuto alle dinamiche urbane che per molti aspetti sono dovuti ai movimenti da fermo dei nomadi urbani. Questi movimenti e queste relazioni, innescano fenomeni che Riccardo M. Pulselli e Pietro Romano Hanno affrontato nel loro libro dal titolo dinamiche dei sistemi urbani4. In altre parole, la città, subisce l’influenza del pensiero nomade, del movimento e del riposizionamento continuo di nuove parti che si traducono in nuovi rituali e nuove richieste per abitare la città. L’effetto del movimento, insieme all’effetto più ampio del riposizionamento in differenti luoghi è dovuto a flussi informali e a componenti eterogenei. Questo risultato si evidenzia attraverso una rinegoziazione dello spazio della città codificata, del suo territorio e infine del paesaggio di cui la città è parte. La rinegoziazione, in questo caso, prende il significato di conflitto fra un apparato statico e burocratico fatto di regole e codici e nuove — anche se nuove non sono — istanze che si esprimono attraverso processi dinamici. La città è, dunque, il risultato di una mescolanza di tali aspetti apparentemente contraddittori: codici e comportamenti informali. La città è un corpo in incessante trasformazione e in continuo divenire e l’effetto si scopre attraverso il suo ambiente e il suo paesaggio continuamente rimodellato. È interessante allora capire in che modo e che peso ha il fenomeno dinamico o se vogliamo il pensiero nomade nella riprogettazione degli spazi della città. La città, come si è detto, è la somma del pensiero sedentario/codici e del pensiero nomade/flussi. È nello stesso tempo il luogo in cui sono indirizzate nuove istanze di vivibilità. È il luogo in cui nuovi elementi eterogenei vengono in contatto

con le prassi consolidate e dove si sviluppano le loro reciproche relazioni. Il cambio di punto di vista è allora fondamentale. Si deve pensare alla riprogettazione dei paesaggi non soltanto come luoghi di relazione ma, soprattutto le città, devono essere ripensate come strumenti di facilitazione delle dinamiche attraverso cui si generano nuovi spazi e quindi nuove città. Questo può avvenire se si facilita il passaggio dallo spazio striato a quello liscio contemporaneamente al modificarsi delle nuove istanze. Ma cosa s’intende per elementi eterogenei? Per elementi eterogenei bisogna intendere, soprattutto, nuovi modelli educativi e culturali, differenti forme compatibili di economie. Sono nuovi modelli le rinnovate strategie di sviluppo sostenibile, e come afferma Ugo Morelli un nuovo senso del limite e infine nuovi orizzonti di vivibilità5. Nel movimento, nei flussi continui, i diversi componenti oltre a contrapporsi ai codici, costruiscono combinazioni singolari e “non smettono di opporsi nello stesso punto in cui si confondono”6. Sulla base di quest’ultima affermazione possiamo allora pensare che la città si comporti come un organismo, un organismo fatto di organi separati e in continuo movimento: “Vespe e orchidee, neuroni ed elettroni”. Questo principio è stato definito dagli autori di Mille Platteaux Gilles Deleuze e Félix Guattari, principio di connessione dell’eterogeneo7. Chi abita la città, ma si potrebbe benissimo estendere il significato di abitare fino al territorio e persino farlo coincidere col significato più ampio di paesaggio, è soggetto interno all’organismo. A essere sottoposta a critica, afferma ancora Ugo Morelli, è la consuetudine diffusa di intendere il

paesaggio e quindi la città come qualcosa che è “là fuori” qualcosa che circonda la vita degli individui8. Sono allora necessari nuovi strumentini, capaci di descrivere una diversa mappa della città in perenne movimento e abituata a procedere per continue variazioni. Il pensiero nomade è capace di interpretare e ridisegnare nuove rappresentazioni della città? La risposta è sì. Ma come affermano gli autori di Mille Plateaux, il modello nomade deve fare sempre riferimento a una carta che ha un continuo bisogno di essere costruita e ricostruita, smontabile, connettibile e rovesciabile con molteplici entrate e uscite con sempre nuove linee di fuga. Al contrario della pianificazione che applica protocolli chiusi a sistemi complessi qual è oggi la materia urbanistica: un groviglio di problemi e per giunta non separabili. Dopo questa lunga introduzione, ma alcuni aspetti chiedevano una spiegazione, ho pensato di inserire alcuni esempi, che sono anche metodologie capaci di osservare la città e i suoi nuovi modelli di vivibilità attraverso gli strumenti di discipline che apparentemente sembrano distanti e incompatibili con l’architettura della città costruita. L’interessante lavoro dell’antropologo Filip De Boeck e della fotografa Marie Françoise Plissart dal titolo: “La città è il corpo — The City is the Body” Architettura invisibile9, ha messo a fuoco i rapporti e le contraddizioni urbanistiche della capitale della Repubblica Democratica del Congo, Kinshasa, oggetto del loro studio. Fra la città fisica, quindi costruita, e la città informale cioè la città fatta da “luoghi umani”, si fa notare un terzo spazio della città stessa, definito dall’autore “spazio vivente”. A Kinshasa, la forma edificata, non possiamo leggerla come il prodotto


Tremula ribellione ultima alla psicostasia olio, bitume e resina su tela 100 x 70, 2013 L’acceleratore Hindemburg olio, bitume e resina su tela 60 x 30, 2013 L’orco, la buona terra, Fra’ Diavolo olio, bitume e resina su tela 60 x 30, 2013

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intenzionale di una precisa pianificazione dello spazio urbano ma, questa, è l’esito della combinazione di rapporti che scaturiscono con e dallo “spazio vivente”. Cioè dalla combinazione di rapporti eterogenei di differenti percorsi e aspettative all’interno dei luoghi fisici della città. Quando si parla di spazio vivente, s’intende dire lo spazio quale risultato di un aggregato eterogeneo di forme urbane aperte, fatte di frammenti di altri corpi urbani (vespe e orchidee). Si potrebbe dire, prendendo sempre in prestito i concetti del pensiero nomade di Deleuze, che i comportamenti che conducono alla realizzazione di uno spazio non codificato ma funzionante sono legati alla loro capacità d’interconnessione. Questo nuovo spazio è uno spazio liscio, marcato soltanto da tratti che si cancellano e si spostano con il tragitto. I differenti comportamenti e le differenti relazioni creano fusioni, inclusioni, spezzano, frammentano e infine riordinano lo spazio urbano secondo nuove e inaspettate forme di abitare. Le infrastrutture che funzionano meglio a Kinshasa, scrive, Filip De Boeck: sono pressoché totalmente invisibili e immateriali. Sotto gli alberi che definiscono i bordi delle vie principali, si svolgono le più importanti attività eppure nessuna di queste attività è svolta in strutture edificate. Ciò di cui una persona ha bisogno, per esempio, per gestire un garage non è tanto un edificio chiamato garage quanto l’idea del garage. L’unico elemento materiale necessario per trasformare in garage uno spazio aperto è uno pneumatico usato. Una corda tesa fra due alberi su cui si appendono i giornali trasforma lo spazio vuoto in uno spazio di raduno e con questo gesto insediano la propria Agorà mediante un’architettura del linguaggio, la forma

edificata dell’oralità. Definiscono insomma l’infrastruttura della scarsità tanto dell’assenza quanto della presenza materiale. Un altro esempio interessante che proviene dalla cinematografia è il lavoro di Jacques Tati10. Da Playtime del 1967 e ancora prima in Mon Oncle del 1958, Tati esplora la città, i suoi spazi con la tecnica dei campi lunghi, con i campi totali della camera da presa. Tutto deve avvenire nell’inquadratura, come tutto avviene nella città. La città che Tati rappresenta è una città in cui i vari strati, nel sovrapporsi l’uno sull’altro, creano interferenze fra loro. Il regista impone una visione dinamica, dunque, attenta a non far perdere le relazioni che si producono fra i personaggi e il contesto. Invita, nello stesso tempo, ad avere sempre sotto lo sguardo, l’intera scenografia. Tati, in Mon Oncle, realizza un racconto concepito completamente sul movimento anzi, sul corpo in movimento. Utilizza il movimento in senso circolare seguendo un tragitto nomade. Il movimento è tutto concentrato in uno spazio ridotto, costituito da due diverse periferie parigine per di più reinventate: La periferia popolare e ricca di umanità in cui vive monsieur Hulot, interpretato dallo stesso regista, e la nuova periferia in cui il prototipo di abitante è la famiglia Arpel e la loro villa: un concentrato di tecnologia e disumanità. Il tema però non è un contrappunto, non è una critica alla periferia, anche se è chiara la presa di posizione del regista nei confronti di un modello di vita residenziale avulsa dalla vita reale tutta concentrata verso case asettiche e ricche di strumenti tecnologici, che opprimono e relegano il suo abitante in secondo piano quasi fosse la casa a dettare le regole di vita, i

tempi e i movimenti delle persone che l’abitano. L’autore propone una nuova lettura dello spazio, introducendo, appunto, lo spazio dinamico e contraddittorio. Mette in risalto i caratteri del movimento nomade: l’impermanenza, la provvisorietà e il mutamento, contrapponendoli ai caratteri tipici della residenza stabile: permanenza, stabilità, inerzia regole fissate e rigide. I movimenti dei vari personaggi e soprattutto del signor Hulot —Tati nasce come mimo — sono quasi delle coreografie che disegnano lo spazio e lo modellano. Il movimento è senza dubbio un altro personaggio e con le sue traiettorie e il continuo tragitto dal quartiere popolare al nuovo e moderno quartiere della villa Arpel, descrive un nuovo territorio, un “territorio in transito”. In assenza del movimento goffo di monsieur Hulot, lo spazio sarebbe stato uno spazio tipicamente sedentario, chiuso, definito e costretto all’interno della villa Arpel, dotata di tutte le acrobazie della tecnologia e priva di umanità. Nel descrivere lo spazio della periferia, Tati ne inventa uno nuovo attraverso un differenziale di velocità che raccoglie e trattiene frammenti delle due periferie. Porta scompiglio nella quiete statica della villa Arpel, tanto da incrinarne le rigide abitudini costrette da un sistema incapace di adattarsi alla vita dei suoi abitanti. Mette in crisi un modello incapace di trasformazione attraverso istanze scaturite da relazioni non attese e, quindi, impreparato a rispondere con l’accettazione di un cambiamento informale. Monsieur Hulot, nel continuo andare e venire dalla casa della sorella costruisce uno “spazio liscio”, contrapponendolo allo “spazio striato” generato dal nuovo quartiere


Paramirium VI dittico /olio, bitume e resina su tela 140 x 50, 2013

delle case tutte uguali in cui vive il nipote. Ma è in ciò che si costruisce in questo continuo vagare fra un quartiere e l’altro fra spazio liscio e striato e nello stesso tempo entrambe le cose assieme che Tatì afferma e contraddice la distanza fra la casa di Hulot e la villa Arpel. In quel brevissimo segmento definito, peraltro, da un muretto rotto, il regista costruisce tutto il film reinventando un nuovo spazio informale. Nella storia i due punti valgono come contrappunti. Ciò che interessa al regista è il nuovo e diverso paesaggio che si forma attraverso le relazioni inconsuete e dinamiche. Le immagini qui pubblicate, sono state scelte fra le molte opere dell’artista modenese Sergio Padovani, che gentilmente ha messo a disposizione. Le opere pittoriche continuano il testo, secondo il linguaggio proprio dell’arte, come narrazione e non come sfondo né tantomeno come corredo al testo stesso. Raccontano attraverso immagini il principio che regge quel sistema che abbiamo chiamato: principio di connessione dell’eterogeneo. Nell’opera di Padovani il corpo e il paesaggio sono i frammenti eterogenei del processo dinamico. Solo in apparenza c’è fusione; in realtà, l’artista introduce una modifica profonda nella rappresentazione del processo di avvicinamento tra individuo e paesaggio. L’individuo tenta e supera, non senza attrito, i meccanismi che egli stesso produce, qui rappresentate da ruote dentate, cavi in tensione e protesi meccaniche, presenze ed effetti di una condizione statica dell’abitare. Il paesaggio, che è sempre separato dal suolo, è ricomposto e quindi incorporato e portato con sé nel trasferimento, per svelarsi nel viaggio e per “fare spazio”.

✒ Deleuze G. — Guattari F., Sul ritornello, in “Millepiani. Capitalismo e schizofrenia”, Castelvecchi Editore, Roma 1997. 2 Benjamin W., Passagen-werk, Frankfurt am Main 1983. 3 Morelli U., Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 4 Pulselli R.M. — Romano P., Dinamoche dei sistemi urbani. Indagine di un’area metropolitana, Alinea Editrice, Perugia 2009. 5 Morelli U., op. cit. 6 Deleuze G., Divenire molteplice. Saggi su Nietzsche e Foucault, Ombre Corte Editore, Verona 1996. 7 Deleuze G. — Guattari F., Rizoma, in “Millepiani. Capitalismo e schizofrenia”, Castelvecchi Editore, Roma 1997. 8 Morelli U., op. cit. 9 De Boeck F., La città e il corpo — The citys the body, in “Lotus”, I, 124, 2005. 10 Tatischeff J., nome d’arte Tati (19071982). 1


PROJECTS

5 Eugenio Pandolfini

DO M E S TIC CITY

La difficile situazione delle dinamiche economiche globali e la conseguente fragilità sociale che sono tipiche di questo particolare momento storico stanno contribuendo ad indirizzare sempre più l’attenzione di architetti e urbanisti su questioni molto concrete ed essenziali, tra le quali l’abitare torna ad essere una delle principali. In un momento in cui l’economia non appare più come un fenomeno gestibile a livello del singolo paese, le città non si possono più considerare esclusivamente come poli culturali ed economici, o come motori dello sviluppo interno in costante crescita e sviluppo. Il brusco arresto che la crisi sta determinando nelle economie di alcuni paesi europei — lo stesso arresto che ha subito lo sviluppo dell’architettura in Spagna — chiede apertamente l’avvio di una riflessione sugli equilibri e sulle criticità dello sviluppo locale e globale, chiede visioni, chiede idee per nuovi asseti futuri. Le città stesse, che misurano i conflitti dello sviluppo globale sui propri tessuti, chiedono all’architettura una visione per il futuro, un nuovo modello di sviluppo sostenibile che indichi nuovi modi di vivere e di abitare i luoghi, ripartendo proprio da quella che è la funzione base dell’oggetto architettonico: l’abitare. È evidente come temi quali la sostenibilità ambientale e sociale, la rigenerazione urbana, il riuso dei contenitori, l’autocostruzione siano argomenti che si affiancano con sempre maggiore assiduità ed intensità al progetto di housing e da cui questo tipo di architetture non possono più pensare di prescindere in futuro. Al tempo stesso la visione del progetto riveste un ruolo fondamentale

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nell’individuazione di nuovi modi di vivere la città, così come l’apporto che la ricerca architettonica può dare alla definizione di progetti-pilota, di modelli funzionali concreti che possano funzionare come innesco di nuove modalità relazionali. Il valore aggiunto che il progetto di architettura può apportare al processo di rinnovamento in corso è quello di recepire da altri ambiti (per esempio dall’arte, dal mondo della cultura, dalla pratica professionale) idee e progetti per il futuro, che si confrontino in chiave pratica — ma al tempo stesso teorica e creativa — con il tema dei nuovi equilibri da raggiungere. Se l’Europa inizia a rispondere con modelli che tracciano una rotta in questa direzione, sviluppando progetti a cavallo tra varie discipline che aprono interessanti prospettive sulla ricomposizione dei conflitti sociali e ambientali, in altri paesi extra-europei già si strutturano pratiche di autocostruzione che si affiancano alla pianificazione di nuovi insediamenti residenziali, nell’ottica di un coinvolgimento intimo delle comunità locali con i nuovi possibili modelli di sviluppo. I tre progetti raccontati di seguito — molto diversi fra loro, sia per collocazione geografica sia per le teorie che li hanno prodotti — costituiscono una ricognizione, necessariamente parziale, su questi temi. L’intento è quello di iniziare ad indagare nuovi modi di abitare la città, sottolineando la parte attiva che l’abitante può e deve svolgere nel suo vivere la quotidianità: il riscoprire una dimensione attiva che porta a partecipare, condividere, socializzare; in altre parole: ad appropriarsi degli spazi e a riappropriarsi della città.


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5A Tetrarc

F R A N CI A

N A N TE S

testo di Eugenio Pandolfini

Lo studio francese Tetrarc, basato a Nantes, si distingue in particolare per la singolarità di alcuni edifici residenziali realizzati negli ultimi anni. Tali edifici, a causa della complessa articolazione che li contraddistingue, ma al tempo stesso grazie alla leggibilità del progetto realizzato, stabiliscono un dialogo attivo con il tessuto urbano nel quale si vanno ad inserire, e sono capaci di instaurare intense relazioni con l’ambiente circostante — sia esso inteso in senso urbano, sociale o semplicemente naturale — dichiarando apertamente l’attenzione degli architetti a

tematiche come la sostenibilità ambientale e sociale, l’ottimizzazione delle risorse, la ricerca di nuove modalità di abitare. Nel 2011 lo studio completa a Nantes il progetto di social housing Boréal. Ma liquidare questo progetto con la definizione di social housing sarebbe riduttivo: attraverso il progetto Boréal Tetrarc realizza trentanove appartamenti in cui viene perseguita la sostenibilità a tutto tondo: ambientale (bassi consumi, passività) e sociale (spazi e orti per la socializzazione). A livello formale il progetto propone l’archetipo della casa con tetto a


Š Stephane Chalmeau



Š Stephane Chalmeau


↑© Stephane Chalmeau


↓ Pianta piano primo e prospetti

falda, realizzata però con materiali innovativi. Il volume risultante articola una successione di undici case alte e strette, una accanto all’altra, che, grazie ad un leggero disassamento, permette di distinguere due volumi principali: il primo ospita i diciotto appartamenti realizzati per la vendita, mentre il secondo i ventuno destinati all’affitto. Gli appartamenti hanno dimensioni diverse tra loro, e possono occupare più piani, rivolgendosi così ad un target di utenza estremamente diversificato.

La progettazione ottimizza al massimo gli spazi dell’abitare, raggruppando al centro di ogni appartamento un blocco integrato per i servizi: cucina, bagni e scala (nel caso degli appartamenti duplex) sono accorpati e razionalizzati al massimo, liberando di conseguenza più superficie possibile per gli spazi di relazione. Nella stessa ottica di massimizzare le superfici abitabili, gli ingressi sono trattati come spazi esterni: si accede agli appartamenti tramite scale esterne poste sul retro dell’edificio. Tali scale sono contenute

da strutture complesse ed inattese, al tempo stesso funzionali (il reticolo di lamelle di legno scherma i venti) e giocose. Attraverso le scale comuni si raggiungono i vari livelli dai quali — per massimizzare la privacy — si diramano passerelle individuali che collegano ogni appartamento alle zone comuni. La serra che ogni appartamento possiede sul fronte è sicuramente l’elemento caratterizzante il progetto, capace al tempo stesso di connotare iconicamente il progetto


↑© Stephane Chalmeau

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e di costituire un forte elemento di sostenibilità energetica per tutto l’organismo. Seguendo la direzione idealmente tracciata dalle celebri strutture di Lacaton & Vassal, le serre di Tetrarc sono progettate come spazi in continuità con gli interni e costituiscono per gli appartamenti un’estensione spaziale e funzionale notevole (nel caso dei duplex sono trattate addirittura come doppi volumi). Grazie alle serre, che si avvalgono di materiali e di sistemi ad alte prestazioni, ogni appartamento gode di illuminazione diretta e di ventilazione, nonché di uno spazio

ambiguo tra interno ed esterno, uno spazio extra per il gioco, per il lavoro e molto altro. La serra è uno spazio vivo, che l’utente può abitare in modo attivo e connotare attraverso il suo utilizzo, a seconda della stagione o semplicemente della necessità del momento. Oltre alla serra, ogni appartamento gode anche un appezzamento di terreno di fronte all’edificio che può essere utilizzato come giardino o orto dai proprietari e dagli affittuari. Questi spazi verdi, in diretta connessione visiva con gli appartamenti, incoraggiano una produzione

alimentare sostenibile ed indipendente e favoriscono i rapporti di vicinato, contribuendo a connotare il progetto dal punto di vista sociale. Il progetto Boréal può quindi essere visto come un esempio di sviluppo sostenibile sul tema delle abitazioni collettive, che da un lato restituisce una risposta innovativa in termini di performance energetiche attraverso l’uso delle serre, mentre da un altro suggerisce nuove modalità di convivenza, ibridando gli spazi di relazione interna (la casa, la famiglia...) con gli spazi verdi esterni (la comunità, la città...).


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S t e fan L I P S I A Eb e r s t a d t

testo di Eugenio Pandolfini

CO L O N I A

B A M B ER G A

Il progetto Rucksack House (casa zaino) dell’artista Stefan Eberstadt è un’installazione dalle interessanti ricadute spaziali ed architettoniche, e offre interessanti spunti di riflessione per parlare ancora di autocostruzione, ma anche di quei particolari fenomeni in cui l’architettura aggredisce il contesto esistente come un parassita. Il progetto nasce a Lipsia nel 2004: sulla facciata di un edificio storico compare un cubo sospeso, a metà fra architettura e arte, che poi in una sorta di diffusione virale si sposta a Colonia nel 2005 e a Bamberga nel 2011. L’idea alla base del progetto è che questa

G ER M A N I A

piccola struttura, mobile e spostabile come uno zaino, si possa aggiungere a qualsiasi tipo di edificio: con i suoi 9 m2 la Rucksack House rappresenta un’appendice allo spazio principale, una struttura aperta, potenziale ed in attesa di utilizzo e di una funzione da parte dei suoi proprietari. Il cubo è costituito da un’ossatura strutturale in metallo saldato; è rivestito all’esterno in compensato trattato con resina nera, mentre all’interno il legno di betulla, molto leggero, connota tutte le superfici. Lo spazio è libero da connotazioni particolari ed assolutamente



↑© Claus Bach > Rucksack House di Lipsia (2004)

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aperto alle necessità degli utenti: pareti mobili, piani scorrevoli e superfici rotanti possono definire — se necessario — tavoli, piani di appoggio e piattaforme per sdraiarsi, assicurando la necessaria flessibilità interna alla struttura; mentre numerose aperture assicurano viste mozzafiato verso l’esterno e il necessario apporto di luce naturale. L’energia elettrica ed eventualmente la connessione dati vengono assicurate dalla casa ospite, rafforzando l’idea della relazione parassitaria che fa da sfondo concettuale al progetto. La stanza è sospesa attraverso cavi in acciaio ancorati alla struttura esistente, e l’ingresso avviene da una finestra dell’appartamento su cui si innesta la stanza temporanea. Il progetto suggerisce le potenzialità di miglioramento della qualità abitativa realizzabili in maniera autonoma, riattivando la partecipazione diretta degli utenti alla ridefinizione del proprio habitat grazie all’autocostruzione o a sistemi comunque gestibili individualmente: nonostante un livello più alto di ingegnerizzazione e ottimizzazione il concetto alla base della Rucksack House è comunque lo stesso della casa sull’albero, lo stesso dell’intervento anarchico e autocostruito che pone rimedio, in maniera veloce ed essenziale, ad una mancanza, ad un bisogno individuale o condiviso. Come sostiene Sara Marini nel libro Architettura parassita, le sperimentazioni e le realizzazioni che adottano la relazione parassitaria si immettono nel disegno urbano come commento al disegno trovato e come critica alla mancanza di spazi e servizi pubblici, rappresentando


↑→ pianta, prospetto e sezioni di progetto

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Š Francoise Bollack > Rucksack House di Bamberga (2011)


↑© Francoise Bollack > Rucksack House di Bamberga (2011)

un invito a ripensare il legame necessario tra architettura e disegno della città: è altresì vero che progetti come la Rucksack House, realizzati attraverso azioni puntuali e individuali — costituiscono uno stimolo a ripensare la relazione — tradizionalmente passiva — esistente tra utenti, spazio domestico e spazio urbano, favorendo — in mancanza di interventi strutturati ed organizzati — fenomeni di appropriazione e di autocostruzione del proprio habitat, volti al miglioramento delle condizioni di vita legate alla residenza e, più in generale, alla comunità.


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5C

E L E M E N T A L

testo di Eugenio Pandolfini

C o ns t i t u c i ó n R e g i ó n d e l M aul e

CiLE

L’ultimo progetto è della compagnia con fini di lucro e interessi sociali Elemental, fondata da Alejandro Aravena con lo scopo di sviluppare la città in contesti di scarse risorse. Obiettivo di Elemental è tenere insieme le necessità di sviluppo della città con i fini di lucro, difendendo al tempo stesso gli interessi delle categorie sociali deboli. Uno dei temi fondamentali per il gruppo è rappresentato dall’idea che lo sviluppo della città possa essere generatore di uguaglianza sociale. Tratto caratterizzante dei progetti di sviluppo sostenibile di Elemental — e divenuto ormai una vera e propria

caratterizzazione tipologica — è quello di realizzare abitazioni a metà, ovvero gusci strutturali semi completi, che l’abitante, coinvolto come parte attiva del progetto, completerà a sue spese, secondo necessità. Naturalmente i servizi e gli spazi minimi — le parti “difficili” in ogni progetto, che richiedono competenze specializzate — sono garantiti dal progetto: il concetto è che la casa-base di circa 50 m2, dotata di cucina, bagni, camere e salotto, possa espandersi fino a 80 m2 attraverso la personalizzazione ed il lavoro di ogni abitante, chiamato a saturare l’ossatura dell’involucro strutturale, in



↑© Ramiro Ramirez

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una sorta di completamento autonomo, autocostruito ma previsto in fase progettuale. L’edificio progettato da Elemental è poroso, in maniera che l’espansione possa essere contenuta dal frame previsto, e ad esso adattarsi: in termini di risultato questo assicura alle parti autocostruite maggiore solidità, e al tempo stesso un certo controllo a livello urbano, impedendo degenerazioni, addizioni eccessive ed altri fenomeni potenzialmente dannosi per la città. Da un lato quindi i costi risparmiati vengono impiegati per realizzare centri civici per la comunità a supporto dei quartieri residenziali, dall’altro i bassi costi di vendita permettono l’acquisto e quindi l’emancipazione sociale dei tessuti più deboli della collettività. Una parte fondamentale del progetto è inoltre rappresentata dalla ricerca sui materiali e sul tema della prefabbricazione quale chiave per la velocizzazione dei tempi di realizzazione. Nel caso specifico, il primo progetto di Elemental fuori dal Cile è stato realizzato a Santa Catarina, una città di 230.000 abitanti nella parte nord-ovest del Messico. La richiesta del Governo prevedeva di realizzare un gruppo di settanta case nell’ambito di un quartiere residenziale esistente e abitato dalla classe media, con un budget di 20.000 $ per appartamento (più o meno il doppio del budget dei progetti di housing realizzati da Elemental in Cile). Il risultato è un edificio su tre piani coperto da un tetto continuo, con un appartamento al piano terra di 40 m2, espandibile fino a 58,75 m2, ed uno duplex di 40 m2 che occupa il secondo ed il terzo piano, espandibile a 76,60 m2. Entrambe le unità sono realizzate con servizi, impianti e strutture già


↑© Ramiro Ramirez

↑→ Piante e prospetti del complesso

↑ Vista generale

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↓© Ramiro Ramirez


↑© Ramiro Ramirez

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ottimizzate per le case di superficie più ampia, in modo da facilitare la realizzazione delle “parti mancanti”. Il progetto rappresenta la verifica in termini concreti dell’adattabilità a differenti contesti dei prototipi realizzati finora in Cile: rispetto ai progetti cileni, il progetto di Monterrey presenta infatti alcune innovazioni in termini di materiali, soluzioni tecnologiche — quali ad esempio il tetto continuo, necessario per riparare le strutture dalle più frequenti precipitazioni — e distributive

assolutamente inedite. Tutti i progetti di housing di Elemental, da Quinta Monroy (Iquique, Cile), a Monterrey, a Villa Verde (Constitucion, Cile) sono contraddistinti da un minimo comune denominatore che recupera la cultura dell’autocostruzione elevandola a valore sociale condiviso e che riconosce in tale approccio la garanzia di una appropriazione del proprio habitat da parte dei ceti sociali più svantaggiati insieme con i fermenti di un nuovo modo di vivere la città.


ALTREIARCHITETTURE 6 A B IT A RE CO N I L COR P O

Occorre innanzitutto definire alcuni termini fondamentali relativi al tema trattato. Il significato della parola abitazione apre ad una dimensione ampia, quella pubblica, legata alla consuetudine di un luogo e quindi alla complessità urbana: il concetto di abitare è legato a quello di apertura. Quello di alloggio invece è un concetto funzionalista, antiurbano dato che riduce la complessità delle funzioni urbane semplificandole al dormire e al guardare la televisione: il concetto di alloggio è legato a quello di chiusura, di autoreferenzialità. Non a caso abitare è un verbo transitivo, alloggiare invece è un verbo intransitivo1. Esiste poi una dimensione esistenziale dell’abitare magistralmente esaminata da C.N. Schulz nel suo testo omonimo, dove viene introdotto il concetto di “abitare poeticamente”. In questo caso però l’oggetto della discussione riguarda l’uomo e di come esso si relaziona con il luogo nel senso più ampio del termine. C’è una frase, nel suo libro L’abitare, che ritengo essere centrale e meritevole di approfondimento: il significato di un’opera di architettura consiste nella sua capacità di radunare il mondo. Trovo sia un espressione sorprendente che sottolinea bene l’importanza di ricercare sempre non la verità assoluta, ma la profondità del significato delle cose, l’importanza di avere la consapevolezza dell’azione. Radunare il mondo significa non escludere la bellezza e l’armonia, non separare il pubblico dal privato e imparare ad ascoltare anche il silenzio. John Cage (1912-1992) nel 1952 compone l’opera dal titolo 4’ 33”, per qualsiasi strumento. L’opera consiste nel non suonare lo strumento. Il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia alla centralità dell’uomo. Il silenzio non esiste, c’è sempre il suono. Il suono del proprio corpo, i suoni dell’ambiente circostante, i rumori interni ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in un teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle auto in mezzo al traffico. Cage vuole condurre all’ascolto dell’ambiente in cui si vive, all’ascolto del mondo. A proposito di un povero ricco è un testo scritto da Adolf Loos nel 1900 che mette in evidenza l’essenza dell’abitare. Quando Loos scrive questo breve racconto, la società contemporanea è concorde nel riconoscere l’arte come incapace di trasmettere valori positivi: tutto era legato ai capricci della moda e allo stile inteso come solo abbellimento. Il bello era diventato pura ostentazione e non più divulgazione, non più virtù da alimentare per l’armonia delle cose. Proprio come oggi. Oggi infatti, gusto, bellezza e armonia, sono qualità alla deriva, tabù che la contemporaneità ha deciso di non considerare in nome di una ricerca dove la poesia viene soppiantata dalla prosa. La poesia, certo... ma l’architettura è un’altra cosa; l’architettura è più fragile. L’architettura non può permettersi di svincolarsi dal tempo e dalla gravità (il peso), l’architettura non può essere universale. L’architettura deve sempre confrontarsi con la realtà. Il racconto di Loos è la storia di un uomo molto ricco che desiderava per casa, una vera opera d’arte. Pensò allora di rivolgersi ad un famoso architetto offrendogli un budget illimitato: Porti l’arte fra le mie pareti domestiche, non bado a spese. Il risultato fu perfetto, l’architetto aveva pensato a tutto ed ogni più piccolo oggetto era stato studiato nei minimi dettagli. L’architettura era così perfetta che

Marcello Marchesini

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1 I verbi si possono distinguere in transitivi e intransitivi in base al rapporto che stabiliscono con il soggetto e con gli altri elementi della frase. Il verbo si dice transitivo quando l’azione passa direttamente dal soggetto che la compie all’oggetto (persona, animale o cosa) che la riceve o subisce. Pertanto, i verbi transitivi ammettono il complemento oggetto che risponde alla domanda: Chi?, Che cosa? Giovanna stira una camicia. Il verbo si dice intransitivo quando invece l’azione non passa direttamente dal soggetto all’oggetto, ma si esaurisce nel soggetto che la compie. Pertanto, i verbi intransitivi non ammettono il complemento oggetto: Francesco arrossisce ogni volta che qualcuno lo fissa.


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1 / John Cage, 4’ 33”, 1952 2 / Andrea Branzi, Teatro segreto in ambiente domestico, 1969

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nulla poteva essere spostato modificato o aggiunto. Nessun regalo poteva essere accettato: «Com’è possibile che lei arrivi al punto di farsi regalare qualcosa? Non le ho forse disegnato tutto io? Non mi sono forse preoccupato di tutto? Lei non ha più bisogno di nulla. Lei è completo!», protestò l’architetto. Il padrone di casa cadde ben presto in una profonda depressione perché da un lato temeva di rompere gli equilibri di quell’opera d’arte spostando gli oggetti per usarli, dall’altro non poteva acquistare o farsi regalare niente, per non compromettere il lavoro dell’architetto e degli artisti che avevano provveduto alla realizzazione della sua casa e che non perdevano occasione di fargli notare che qualunque tentativo di variante, aggiunta o spostamento avrebbe rotto la perfezione raggiunta. «L’uomo felice si sentì all’improvviso profondamente, infinitamente infelice [...]. Egli intuì: ora avrebbe dovuto imparare ad andarsene in giro con il proprio cadavere. Sì! Era finito! Era completo!». I corruttori della realtà sono avvisati: l’abitare trova l’essenza del suo significato nell’azione di chi la casa la vive e non di chi impone un modello certo, non fondato sull’esperienza e con velleità di compiutezza o perfezione. La certezza è un luogo comune, uno strumento che serve per occultare più che per svelare la realtà2. Ogni progetto deve contenere un grado di indeterminatezza tale da consentirne la possibile definizione in seguito, deve lasciare spazio ad un vuoto da colmare. Questa possibilità non esclude che ad ogni abitazione si possa dover aggiungere una funzione supplementare della quale, al momento della sua progettazione e realizzazione, se ne ignora l’esistenza. È questa la forza dell’abitare: non essere completa! Andrea Branzi, attraverso il progetto Teatro segreto in ambiente domestico, propone di riempire questo vuoto, funzionale e irrazionale al tempo stesso, attraverso un desiderio nascosto, un sogno che diventa realtà che finisce per completare lo spazio destinato ad abitazione. Si tratta di qualcosa di inaspettato, che non poteva essere previsto. La parabola di Loos ci spinge verso una direzione che è quella della verità, ci costringe ad interrogarci sull’architettura e sulla capacità che ha l’uomo, attraverso l’azione del proprio corpo, di influenzarla (e non viceversa). Equilibrio e misura diventano le parole d’ordine per la costruzione, e gli oggetti architettonici tutti, “dal cucchiaio alla città”, vengono subordinati all’uomo, al suo corpo e a come questo si muove e agisce, l’architettura è subordinata alla sua azione! Se si esclude ciò che è stato teorizzato e sperimentato nella prima metà del Novecento, possiamo affermare, con assoluta certezza, che il tema dell’abitazione non è stato oggetto di grandi rivoluzioni. Quelle introdotte con il movimento moderno sono arrivate a noi pressoché intatte. È quindi normale farsi la seguente domanda: c’è una ricerca contemporanea sull’abitazione? La domanda è molto curiosa considerando che il principale terreno di sperimentazione architettonica è, da sempre, associato proprio alla casa. Penso ai numerosi esempi contemporanei oramai diventati dei classici, come quelli di Steven Holl, le Makuhari Housing nella baia di Tokio in Giappone, quelli di Gehry a Francoforte, le Goldestein

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Questo concetto sul tema della certezza venne espresso da Edoardo Persico a Torino la sera del 21 gennaio 1935 in occasione della famosa conferenza Profezia dell’architettura, durante l’apertura del nuovo anno accademico.

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3-5 / Anna Rose Hamilton, A book of the living body, 2011

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Siedlung o ad Amsterdam di West 8, il Borneo Sporenburg e il Wohnungsbau KNSM-Eiland di Hans Kollhoff. Ma se in questi è ancora possibile riconoscere una volontà di ricerca, nei progetti più recenti di Kazuyo Sejima-SANAA, le Motosu Kitagata a Gifu in Giappone, nelle 8 House di BIG a Copenhagen e nelle residenze a Oslo di MAD, tutto ciò non sembra essere confermato. Queste ultime, pur essendo delle bellissime architetture, appaiono più delle operazioni di speculazione edilizia piuttosto che non dei progetti capaci di dare un contributo reale al tema dell’abitazione: ma questa non è una sorpresa. Lo avevamo detto all’inizio...l’architettura deve sempre confrontarsi con la realtà, qualunque essa sia. Le Corbusier paragona la casa ad un piroscafo: «una casa è una macchina da abitare. Bagni, sole, acqua calda, acqua fredda, calore a volontà, conservazione del cibo, igiene, bellezza e proporzione». Lo slogan La maison est une machine à habiter non deve essere frainteso. Le Corbusier sembra buttare alle ortiche storia e stili ma in realtà li proietta sul piano dei valori universali, così come egli proietta ogni idea di contesto sul piano della geografia. Ma purtroppo in architettura i valori universali non sono mai esistiti. Nel 1959 Frederick Kiesler (1890-1965) elabora un progetto che Paul Rudolph non esita a definire «uno dei pochi concetti originali del ventesimo secolo: si tratta della Endless House. La Endless House si basa sull’idea che la casa è un organismo vivente e non soltanto un aggregato di materiali morti […]. La casa è l’epidermide del corpo umano». L’architettura viene quindi assimilata, su basi biologiche, al corpo umano e tale accostamento è inteso come possibilità di riprodurre nell’architettura i processi genetici ed intellettivi della vita stessa. Dalla frequentazione con i surrealisti (Breton, Arp, Duchamp) Kiesler mutua la filosofia del correalismo, ovvero della coesistenza e continuità del tutto, in opposizione alla sclerotica divisione dello spazio dell’architettura funzionalista. Se la correlazione tra le cose del mondo rappresentano l’essenza dell’abitare, la Biotecnica ha il compito di controllare l’ambiente attraverso la tecnologia. Kiesler anticipa di circa trenta anni la sensibilità ambientalista che comincerà a svilupparsi a partire dagli anni settanta. L’abitazione non è più una questione legata alla forma o alla funzione, ma dipende direttamente dalla continua trasformazione ambientale provocata dall’uomo stesso. La finalità ultima che deve essere soddisfatta è il benessere psico-fisico dell’uomo e l’architettura deve ascoltare e seguire il ritmo del corpo umano. Il correalismo rappresenta un primo tentativo di impostare la scienza del progetto come scienza globale di correlazione fra le scienze specialistiche. Di fatto le teorie di Kiesler sul rapporto uomo-ambiente rimandano al sistema organismo-ambiente che per Gregory Bateson costituisce l’unità evolutiva, in contrasto con la teoria evoluzionistica darwiniana. Sentiamo cosa dice Bateson: «È ora chiaro su basi empiriche che la teoria evoluzionistica di Darwin conteneva un grossissimo errore relativo all’identificazione dell’unità di sopravvivenza nel contesto della selezione naturale» rappresentata da un insieme omogeneo di individui dove il più forte vinceva a scapito del più debole. Ma ciò comportava una perdita, una distruzione dell’ecosistema di riferimento e questo non è possibile perché l’organismo che

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distrugge il suo ambiente distrugge anche se stesso. Questo significa che l’unità di sopravvivenza non può essere di tipo autoreferenziale ma deve necessariamente essere un organismo di tipo flessibile che si muove continuamente in relazione all’ambiente che modifica e dal quale viene modificato. Lo stesso George Teyssot ci segnala l’incontestabilità degli «stretti e ininterrotti legami storici, stabiliti in sede teorica, tra architettura e corpo, sia analogici che reali: dagli studi vitruviani, al meccanicismo del ’600, al sensismo del ’700, all’organicismo ottocentesco, fino alle teorie funzionaliste del ’900». Esaminare le varie teorie del corpo è funzionale al fatto di capire come questo possa interagire con l’ambiente costruito che lo circonda. Mentre l’architettura continua ad interrogarsi su come sia possibile assecondare il flusso in divenire della vita dell’uomo che ne consente la sopravvivenza, l’attività artistica capisce l’importanza di “esternalizzare” il significato, di farlo uscire dalla sfera privata. Tali strategie si rinnovano attraverso una numerosa serie di sperimentazioni di artisti: si pensi alle prospettive rovesciate offerte dai tagli di Gordon Matta-Clark di Split House dove l’artista cerca di mettere l’architettura nelle condizioni di parlare e di modificare la percezione dello spazio privato dell’abitare3. Ci sono poi le proiezioni all’esterno di Vito Acconci che con Where We Are Now (Who Are We Anyway) prolunga un tavolo da pranzo fuori dall’edificio per scardinare il rapporto identitario tra spazio pubblico e spazio privato; la rilettura spazio-temporale di Dan Graham attraverso il rivestimento di ambienti e edifici con grandi specchi come Mirror Window Corner Piece o Present-Continuous-Past; le opere di Kate Ericson e Mel Ziegler che esplorano il rapporto tra interno ed esterno tracciando traiettorie che partendo dal giardino penetrano all’interno degli ambienti domestici e invadono ogni spazio funzionale della casa, come Rock Extension; e infine l’installazione di Diller+Scofidio, With Drawing Room, che modifica la percezione dello spazio domestico attraverso un divano che ruota intorno ad una parete. In queste opere i rapporti tradizionali dell’architettura relativi ai binomi internoeterno, pubblico-privato, spazio-tempo e uomo-ambiente, vengono risolti attraverso una lettura che reinterpreta criticamente e creativamente il rapporto tra l’individuo, la società e la realtà. In questo modo l’architettura diventa messaggio. Non si tratta allora di immaginare nuove case ma piuttosto di dare voce a ciò che il nostro corpo ci suggerisce, di lavorare meglio con quello che già abbiamo. L’architettura non dovrebbe modificare la vita delle persone. L’architettura dovrebbe migliorare la vita dell’uomo e l’architetto si trova nella posizione di dare forma a “cose del mondo” dotate di un senso collettivo ed emozionalmente desiderabili. Ricordiamoci però che al mondo non siamo soli e non è detto che la centralità dell’uomo debba avere sempre la precedenza4. Concludo pertanto con una frase di F.L. Wright, uno dei maestri nel progettare abitazioni: «Una casa non deve mai essere su una collina o su qualsiasi altra cosa. Deve essere della collina, appartenerle, in modo tale che collina e casa possano vivere insieme, ciascuna delle due più felice per merito dell’altra».

Riguardo la possibilità di abitare fisicamente, di attraversare sensibilmente e soprattutto di occupare idealmente i vuoti realizzati all’interno delle costruzioni architettoniche, l’artista ha scritto: «Penso ad essi come a qualcosa di potenzialmente funzionale. Non c’è alcun motivo perché una persona non dovrebbe essere in grado di vivere in quel luogo. Sarei molto interessato a realizzare dei tagli in luoghi ancora abitati. Questo potrebbe cambiare la vostra percezione e sicuramente potrebbe alterare molto il concetto di privacy. Potrebbe essere una risposta concreta alla risoluzione di molti problemi spaziali. Attraverso i buchi. Sì, uscite fuori!».

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4 Come nella migliore tradizione dei film horror, non esiste mai un finale, ma l’ultima scena rimanda sempre ad un nuovo inizio che rimette tutto in discussione. Succede così anche nel film di Sam Raimi del 1981 dal titolo, appunto, La casa «dopo una lunga lotta finale contro i mostri che avevano assalito lui e i suoi amici, i demoni vengono distrutti da Ash bruciati nel fuoco. I demoni si consumano in pochi minuti. Ash esce dalla casa e vede sorgere il sole, tutto sembra finito, l’incubo sparito, ma improvvisamente il demone lo aggredisce alle spalle. The End».


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SERVICEIDESIGN Antonella Serra

Nell’aprile del 2011 si inaugura a Levittown, nella periferia newyorkese, un interessante progetto concepito dallo studio Diller Scofidio + Renfro (Ny, Usa) e Droog, collettivo di designers con sede ad Amsterdam. Un progetto di “riqualificazione” di un sobborgo residenziale, depresso dalla crisi economica ed intrappolato da una maglia urbana a bassa densità, con pochi servizi puntuali e schiavo dell’alternanza casalavoro dei suoi abitanti. Architetti, designers ed artisti hanno lavorato sincronicamente e in maniera complementare, ponendosi quale principale obiettivo di progetto quello di generare benessere per gli abitanti. Due sono gli aspetti salienti: — primo, la multidisciplinarietà, che non è rappresentata da una sommatoria di competenze applicate settorialmente o in successione, ma opera in maniera solidale in tutte le fasi di progetto. Una scelta che aumenta il numero di variabili e di

S OTTOC A S A : C o mba t t e r e la c r i s i c o n v e r t e n d o spa z i ab i t a t i v i

criticità affrontate simultaneamente, ma che non sono direttamente proporzionali al livello di complessità ed articolazione finale del progetto, che può delinearsi anche molto snello (tabella 1). Piuttosto, ne consolida gli aspetti, in quanto li rende più relazionati, e moltiplica le possibilità di successo del progetto; — il secondo aspetto è costituito dal fatto che si tratti di progettazione centrata sull’utente (User Centered Design), aderendo ad un approccio progettuale che si basa sulla creazione di artefatti sviluppati a partire dalle caratteristiche e dai bisogni dei loro utilizzatori finali. Per fare questo l’Ucd si serve di strumenti di indagine provenienti dal campo dell’usabilità e degli human factors2, che mettono a fuoco, oltre l’utente, il prodotto, l’attività e il contesto d’uso. L’obiettivo di progetto diventa supportare una microeconomia locale, introducendo attività di cui la comunità

ha bisogno e dando voce alla creatività e all’intraprendenza dei singoli. La scommessa è quella di ridisegnare la mappa di una periferia urbana consolidata modificando il sistema di relazioni tra pubblico e privato e tra la dimensione abitativa del singolo e quella collettiva. La riflessione che accompagna il progetto riguarda le possibilità offerte dall’ intervenire sullo sviluppo dei sobborghi urbani attraverso la combinazione di programmi pubblici e privati. Sono queste le premesse del progetto Open House, case private nelle quali spazi interni od esterni alle abitazioni sono stati adibiti allo svolgimento di attività a servizio del quartiere, valorizzando le capacità, le attitudini e le conoscenze dei loro proprietari. Sono stati proprio questi ultimi che, interagendo con i progettisti, hanno fornito gli elementi necessari per l’ideazione e per lo sviluppo del progetto. Un esempio di co-progettazione con

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Per una definizione di service design vedi: Sangiorgi D., Design dei servizi, in “Glossario tematico: la costruzione del sistema STAR (Sistema Topologico Argomentativo della Ricerca), Me.design, Strategie, strumenti ed operatività del disegno industriale per valorizzare e potenziare le risorse dell’area mediterranea tra locale e globale”, 2003, p. 25. 2 Per una definizione di human factors vedi: Erlhoff M. — Marshall T. (a cura di), Design Di1

ctionary: Perspectives on Design Terminology (Board of International Research in Design), Birkhäuser, Basilea 2008, pag. 228. 3 Per un approfondimento sulla relazione tra progetto e dinamiche sociali innescate da esso, tramite l’utilizzo di gradienti di valutazione, si fa riferimento a: Serra A., Progettare la città a partire dalle dinamiche spazio-utente. Il contributo del design per lo spazio pubblico, Tesi di Dottorato, Università di Genova, marzo 2012.

1. Catalogo spaziale dei servizi offerti dalle House Open di Levittown

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l’utente, che lo ha visto coinvolto in tutte le fasi — preliminari, progettuali e realizzative — quale attore e fruitore del progetto. Il ruolo di attore si riferisce in particolare ai proprietari, la cui attività è motore dell’intervento, nonché componente principale della buona riuscita e della durata del progetto; i fruitori generici sono il gruppo più ampio e si estende ai membri della comunità di Levittown. I proprietari hanno aderito ad una campagna di comunicazione ideata dai soggetti promotori, partecipando ad incontri illustrativi e mettendo a fuoco le opportunità che il progetto offriva loro verificandole attraverso i seguenti punti. La casa. Quali sono gli aspetti peculiari, le caratteristiche degli oggetti presenti in essa ed eventualmente gli spazi sottoutilizzati? Le proprie capacità ed attitudini. Quale attività gli piacerebbe svolgere e per la quale è particolarmente portato? Ha, oppure può attingere alle informazioni

necessarie per iniziarla? La comunità. Quali sono i servizi di cui la comunità ha bisogno e che esprime frequentemente, anche attraverso la richiesta di favori? Da queste valutazioni comincia il percorso di costruzione di ogni singolo intervento.

Tab. 1 Articolazione del progetto Coordinamento tra i soggetti coinvolti e definizione di obiettivi e risorse

Tab. 2 Articolazione del progetto

Analisi dello stato di fatto Individuazione delle problematicità Fase progettuale partecipativa che coinvolge gli abitanti Definizione dei progetti Progettazione degli interventi Evento inaugurale e di inizio attività 2

Come sintetizzato nella tabella 2, i progetti vanno ad intercettare attività legate al tempo libero o a necessità quotidiane. All’interno dello spazio abitativo viene studiata la migliore configurazione che permetta di far coesistere la dimensione privata, legata alla funzione residenziale, con quella pubblica dei servizi. In alcuni casi sono stati utilizzati spazi interni alla casa, adibiti a questa funzione in maniera esclusiva (spazio per la produzione di cartelli pubblicitari nella House of Signs) oppure promiscua (Domesticity Museum, Attention Clinic e Vacation Practice). In altri casi sono stati allestiti spazi esterni alla casa servendosi di strutture leggere

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(House Dress, Porch-Side Lessons e Block Pantry). L’ultima colonna della tabella fa riferimento ad un indice, valutato su tre gradienti, che mette in evidenza il carattere del progetto quantificando il grado di coinvolgimento in l’attività richiesta agli utenti3: grad. 1 — è il proprietario, in qualità di attore del progetto, ad offrire un servizio al fruitore generico grad. 2 — l’attore del progetto richiede una partecipazione ed un coinvolgimento dei restanti fruitori grad. 3 — i fruitori generici diventano essi stessi attori del progetto. Il gradiente 3 indica un progetto che, per sua struttura, è fortemente attivatore del contesto sociale in cui si inserisce. Di contro, sarà un progetto che funzionerà correttamente solamente inserito in un tessuto sufficientemente vivace e reattivo, al quale dovrà offrire risposte adeguate a richieste esplicite o latenti.

progetto

sfera coinvolta

elemento connettore

House Dress

gioco

sala da gioco

Block Pantry

alimentazione

credenza ad uso collettivo

Domesticity Museum

cultura

museo

Bright Dawn Farm

alimentazione

giardino/orto

PS 72: Porch-Side Lessons

cultura

aula

Attention Clinic

personale

spazio accogliente

House of Signs

comunicazione

facciata

Vacation Practice

viaggi

allestimento casa

aree coinvolte indice di tempo libero necessità quotidiane interazione

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House Dress Open House #1 progetto di L.E.FT (Makram El Kadi & Ziad Jamaleddine) Una casa con un vestito su scala urbana, ispirato alle vestaglie degli anni Cinquanta, che la rende misteriosa e capace di incuriosire. La casa è avvolta in un ampio tendaggio che riveste le facciate a tutta altezza, creando una quinta dietro la quale è allestito uno spazio con tavoli da gioco.

☚Visitatori entrano nella Open house #1 © Droog.com, foto di Naho Kubota

Block Pantry Open House #2 progetto di Janette Kim and Erik Carver con Gabriel Fries-Briggs La casa è dotata di una credenza ad uso collettivo — cerniera tra spazio interno ed esterno e tra spazio pubblico e privato — attraverso la quale è possibile scambiarsi generi alimentari o cibi pronti. È possibile, per esempio, mettere a disposizione generi alimentari che potranno essere cucinati da altre persone con le quali condividere il cibo.

☚Open house #2 © Droog.com


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Domesticity Museum Open House #3 progetto di Fake Industries Architectural Agonism (NY, USA) La trasformazione della casa in un museo permette di sostenere il mantenimento dello stile di vita acquisito dai proprietari, grazie alla vendita di biglietti e di souvenir. Come un vero museo, la casa prevede un percorso di visita guidato ed un bookshop.

Open house #3 © Droog.com

Bright Dawn Farm Open House #4 progetto di Freecell (Lauren Crahan & John Hartmann) Il giardino di casa è stato trasformato in un orto, dove è possibile fare un’esperienza di coltivazione oppure comprare piante officinali e/o ad uso alimentare.

Open house #4 © Droog.com


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PS 72: Porch-Side Lessons Open House #5 progetto di Austin + Mergold con Spencer Lapp Dal prolungamento di una veranda è stata ricavata un’aula all’aperto dove è possibile prenotarsi per fare delle lezioni o per assistervi. L’idea dei proprietari, un exinsegnante e la preside di una scuola, parte dal presupposto che tutti hanno qualcosa da insegnare o da imparare. Le lezioni vengono registrate e poi rese disponibili anche on-line.

☚Open house #5

© Droog.com, foto di Spencer Lapp

Attention Clinic Open House #6 progetto di Claudia Linders «Poiché l’attenzione richiede tempo ed il tempo costa danaro, allora anche l’attenzione può essere commercializzata». I proprietari di casa offrono un centro di ascolto per grandi e piccini che vorrebbe sopperire alle mancanze createsi con la disgregazione della famiglia contemporanea.

☚Open house #6

Polly Dwyer di fronte alla sua casa © Droog.com, foto di Naho Kubota


Sitografia

House of Signs Open House #7 progetto di The Living (David Benjamin & Soo-in Yang) e Livia Corona project management di John Locke Il proprietario della casa produce e vende segnaletica, e si propone di intercettare la richiesta che dovrebbe scaturire dalla nascita di nuove attività nel quartiere. L’edificio emerge nel panorama residenziale come forte segnale commerciale, amplificato dall’utilizzo della facciata quale vetrina su scala urbana.

Open house #7 Jim Hudak di fronte alla sua casa © Droog.com, foto di Naho Kubota

Vacation Practice Open House #8 progetto di Alex Schweder La con Jessica Rivera e Adam Bandler Vacance pratice è un’attività che si propone di orientare le persone nello scegliere ed organizzare le loro vacanze, partendo dalla considerazione che normalmente 8 persone su 10 non hanno idee precise a questo proposito. Attraverso allestimenti tematici di spazi della propria casa, i proprietari offrono suggestioni e suggerimenti da sviluppare con i futuri vacanzieri.

Open house #8 © Droog.com, foto di Naho Kubota

Fake Industries Architectural Agonism fakeindustries.org

Open House

openhouse2011.com

Freecell

frcll.com

Diller Scofido + Renfro

dsrny.com

A+M

austin-mergold.com

Droog

droog.com

Claudia Linders

claudialinders.nl

L.E.FT

leftish.net

Alex Schweder

alexschweder.com

Janette Kim

urbanlandscapelab.org

Jessica Rivera

advencedart.org

Erik Carver

ecaver.com

The Living

thelivingnewyork.com

Gabriel Fries-Briggs

theunderdome.net

Livia Corona

liviacorona.com


Dall o spa z i o c u c i na l i q u i d o alla c u c i na c o n d i v i sa nuovi modelli abitativi efficienti, sostenibili e inclusivi Alessandra Rinaldi

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Le trasformazioni attuali in tema di tendenze socio-culturali, stili di vita ed esigenze, dovuti all’emergere di nuovi profili d’utenza e tipologie di abitazione, stanno aprendo nuove visioni e opportunità di innovazione nell’ambito dell’abitare contemporaneo. In particolare si riscontra che la popolazione urbana europea è sempre più multiculturale e sta progressivamente invecchiando, che si sono accentuati i divari economici, e soprattutto che le aree metropolitane consumano un’eccessiva quantità di risorse. Importante è anche il cambiamento dei nuclei familiari tradizionali a favore di nuovi modelli, avvenuto negli ultimi decenni: aumentano le famiglie monocomponente, indipendentemente dall’età, si diversificano le tipologie familiari, si moltiplicano quelle allargate, ma si trovano anche coppie che vivono ognuno a casa dei genitori fino a tarda età e nuove forme di convivenza tra “estranei”. Per non parlare della maggiore mobilità e del nomadismo, richiesti oggi nel lavoro e nell’abitare; sempre maggiore è il numero di chi lavora fuori dalla città dove risiede o deve spostarsi assiduamente, utilizzando case piccole cinque giorni su sette, e torna a casa il weekend per ritrovare famiglia e relazioni sociali. Per quanto riguarda la casa, nelle grandi città le unità abitative sono sempre più spesso di piccole dimensioni. Destrutturazione e flessibilità sono le caratteristiche che emergono dalla domanda di mercato, in particolare quella più giovane: da un lato il superamento dei classici schemi distributivi e della distinzione pubblico-privato, dall’altro la possibilità di riconvertire con facilità le destinazioni d’uso degli spazi o di farli diventare polifunzionali, a seconda dei periodi di vita dell’abitante o delle attività che vi vengono

svolte. Una parte della popolazione urbana preme per poter utilizzare gli spazi pubblici e comuni in forme innovative, che possano fornire risposte alle necessità socio-abitative emergenti, al bisogno di pratiche collettive votate all’integrazione, al sostegno e alla sostenibilità. In questo scenario stiamo assistendo al progressivo passaggio dal consumo conviviale al consumo condiviso: dopo la mobilità, con i car sharing e i bike sharing, dopo lo spazio lavorativo, con i co-working e i fablab, l’economia della condivisione travolge anche il modo di preparare e consumare il cibo. La generazione del nuovo millennio sta rendendo chiaro che non vuole abitare un mondo impoverito di valore e che vuole possedere di meno ed essere più connessa con gli altri, puntando così a ottimizzare risorse economiche ed energetiche e a rafforzare i legami sociali e comunitari. Da un lato nello spazio privato la preparazione del pasto vede alternarsi alla quotidianità, più fast/individuale e ristretta, la preparazione più lunga, articolata e “ingombrante” delle occasioni conviviali in aumento, anche se meno formali rispetto al passato. Tale tendenza aumenta le aspettative in termini di polifunzionalità dell’ambiente cucina, divenuto sempre più ibrido, che tende ad unirsi con la zona living. Lo spazio cucina diventa anch’esso “liquido”, ovvero caratterizzato da grande adattabilità e facilità di smontaggio del sistema, da flessibilità e versatilità per adattarsi a esigenze mutevoli nell’arco della giornata e della settimana, da ampie possibilità di personalizzazione e, in generale, da un miglioramento dell’usabilità di accessori e componenti. Parallelamente, nello spazio urbano si moltiplicano esperienze di partecipazione e di condivisione, si diffondono nuove pratiche sociali che

trasformano la preparazione e il consumo degli alimenti, dal momento della riunione della famiglia a quello d’incontro e conoscenza del vicinato. Dalle singole unità abitative quindi agli spazi urbani: cucine collettive, garden cooking, solar cooking, orti urbani e pratiche come il cohousing e i giardini condivisi. Le tendenze e i cambiamenti emergenti, relativi allo stile di vita della popolazione urbana, descritti, cominciano a trovare risposte nell’ambito dell’interior design, dello urban design e del design dei servizi, a partire da progetti di ricerca sperimentale applicata. Il progetto Kitchen 4.0, sviluppato come tesi di Laurea Magistrale in Design, propone uno scenario innovativo del modo di preparare e consumare cibo. Partendo da un approccio metodologico proprio dell’Ergonomia per il Design, nelle sue componenti più tradizionali degli Human Factors, rivolti allo studio e alla valutazione della caratteristiche e delle capacità umane, e nelle sue componenti più recenti proprie dello User-Centred Design, mirato al benessere dell’Uomo e dell’Ambiente, nasce l’idea di Kitchen 4.0, un servizio di Kitchen sharing, che offre la possibilità di condividere l’atto del cucinare in spazi comuni, lontani dall’ambiente domestico. Il progetto si basa sulla convinzione che cucinare in presenza di altre persone, espone l’individuo a possibili relazioni sociali, e quindi a possibili supporti sociali, favorisce il benessere dell’individuo, riduce notevolmente costi e consumi energetici in ambito domestico e quindi pro-capite, a favore di una gestione centralizzata con caratteristiche performanti sia dal punto di vista delle possibilità di scelta dei prodotti, che dell’educazione alimentare. Prenotare, cucinare condividendo e consumare i cibi preparati sono i tre passaggi fondamentali del servizio.


Kitchen 4.0: servizio di kitchen sharing. Tesi Magistrale in Design, UniversitĂ degli Studi di Firenze, progetto di Daniele Busciantella Ricci

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MISCELLANEA

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--Alison J. - Broyer M.A. - Migayrou F. - Spiller N., Future City, Thames & Hudson, Londra 2007 --Bard A. - Söderqvist J., The Futurica Trilogy, Stockholm Text Publishing AB, Tyresö 2012 --Behrendt H., Contesting Visibility, Transcript Verlag, Bielefeld 2013 --Bouchain P. - David C., Construire en habitat Mètavilla-Mètacité, Actes Sud, Arles 2011 --Burke A. - Reinmuth G., Formations. The plasticity of architecture, 2012 --Carbone N., Top 10 Viral Videos, in “Time”, December 2012 --Cirugeda S., Situaciones urbanas, Editorial Tenov, Barcelona 2007 --Como A., Riflessioni sull’abitare. La casa-giardino a Long Island (1949-50) di Tino Nivola e Bernard Rudofsky, Aracne, Roma 2010 --Corner J., The Agency of Mapping. Speculation, Critique and Invention, 2012 --Diserens C., Gordon Matta-Clark, Phaidon, Koln 2006

CO M P E N DIO L ETTER A RIO

--Gargiani R. - Lampariello B., Superstudio, Laterza, Bari 2010 --Hyde R., Future Practice, 2012 --www.handmakersfactory.com.au --invisiblechildren.com/kony --Marini S., Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Quodlibet Studio, Ascoli Piceno 2009 --Norberg-Schulz C., L’abitare. L’insediamento, lo spazio urbano, la casa, Electa, Milano 1995 --www.occupy.net --Piroddi E., Uso sociale dello spazio pubblico nella società contemporanea, in “Idee di spazio. Lo spazio delle idee. Metropoli con temporanee e spazi pubblici”, Franco Angeli, Milano 2002 --www.polyglot.org.au --www.renewnewcastle.org --Rizzo F., Strategie di codesign, Franco Angeli, Milano 2009

--Rossi C. - Coles A., The Italian AvantGarde 1968-1976, vol. 1, Sternberg Press, Berlino 2013 --Rudofsky B., Architecture Without Architects, Doubleday & Company Inc. Garden City, New York 1964 --Simmel G., Sociologia, Edizioni di Comunità, Torino 1998 --Spiller N., Visionary Architecture. Blueprints of the modern imagination, Thames & Hudson, Londra 2006 --www.spontaneousinterventions.org --Sterling B., Shaping Things, Mit, Boston 2005 --Tarpino A., Geografie della memoria, Einaudi, Torino 2008 --en.videotrine.com --www.wikihouse.cc --www.yayoi-kusama.jp --www.8hourday.org.au --Vitta M., Dell’abitare, Giulio Einaudi, Torino 2008


APPUNTI DI VIAGGI0 9 L a c asa

Emiliano Gucci

«Invece per me la casa dei sogni era quella sull’albero» dice lui, che gioca a far correre dita sulla sua guancia, poi giù sul collo nudo, sul petto, tra i seni. «Alcuni amici avevano costruito un capanno, sopra un albero, legando delle assi e coprendole con un telo verde. Era meraviglioso. Si saliva aggrappandosi ai bozzi, ficcando i piedi nei buchi. Il primo che ci montava sopra, poteva calare una corda perché gli altri si arrampicassero meglio. Ci si stava in quattro, cinque ragazzi. Lì dentro i pomeriggi duravano più a lungo, le stelle erano più vicine. Una volta Gianluca la combinò grossa e suo padre gridò che lo avrebbe ammazzato. Si sentiva il trambusto fin da casa mia. Lui scappò che poi si fece notte e non lo trovavano più. Noi lo sapevamo, dove si era nascosto, ma non dicemmo niente. Dino gli portò delle coperte. E Gianluca passò la notte lì, dentro il capanno, sull’albero, che doveva essere una cosa paurosissima, ma a me sembrava così affascinante e bella, tanto che non ci dormii, sognavo a occhi aperti un albero dieci volte più alto e più grande, per costruirci una casa a tre piani, perfetta per me. Feci anche un disegno, ma non l’ho più trovato». «Invece per me la casa dei sogni era un castello abbandonato» dice lei, che gli blocca la mano e se la porta sulle labbra e la bacia più volte, per poi abbandonarla e tirarsi su, stirarsi, infilarsi una maglietta, alzarsi. «Che avrei scoperto da sola, in uno dei miei viaggi, una di quelle volte che i divieti non frenano la mia curiosità. E che avrei cominciato ad abitare così, per caso, poggiandovi un piccolo fornello, poi una poltrona, poi tutte le mie cose. Io li sognavo di notte, i castelli. Una stanza dopo l’altra, una scoperta senza fine. Per me aprire una porta è un’emozione indescrivibile. Una volta mi capitò di entrare in una specie di villa, disabitata da decenni, con le pareti che si sbriciolavano, i soffitti affrescati che smarrivano i

colori, muffa e piante pestifere dappertutto in quelle sale bellissime, senza tempo. Immaginavo quali fossero state le camere, quali le sale per lavorare o per mangiare, chi ci aveva vissuto, le loro storie. Poi aprii l’ennesima porta e mi ritrovai sulla soglia di un baratro, in un salone con l’impiantito completamente franato, mentre dalla finestra sul lato opposto si vedeva il mare. Quanto avrei voluto affacciarmi, rimanere lì e perdermi nell’andirivieni delle onde. A volte penso che da quel posto non sono più tornata indietro». «Invece per me la casa dei sogni diventò piuttosto una casa normale» dice lui, che a sua volta si alza e comincia a lavarsi. «Una cucina, una camera, un bagno, come l’appartamento in cui sono nato, al quarto piano di un palazzo qualsiasi. Un giorno mi venne in mente che la cosa più importante fosse con chi l’avrei abitata, e nient’altro. Stavo tornando dagli allenamenti, me lo ricordo ancora, avevo le gambe a pezzi e soffiavo nuvole nell’aria gelida e mi sembrò bellissimo tornare in una casa calda, dove qualcuno mi aspettava e preparava cose per me. Mi sembrò bello il portone del condominio, elegante il corrimano di plastica su per le scale; mi lasciai commuovere dalla targhetta posticcia, attaccata sul campanello, con il nostro cognome. Stavo per entrare in una casa stupenda e pensai che da grande, per la mia famiglia, avrei voluto altrettanto. Non lo dissi ai miei genitori. Chissà quanto li avrei fatti felici». «Invece per me la casa dei sogni era improvvisamente un luogo della mente» dice lei, che ha spremuto le arance e adesso prepara il caffè. «Non l’avrei abitata, l’avrei creata insieme alla persona amata. Forse sarebbe stata sopra una nave, forse trascinata da una mongolfiera, forse una sola stanza gigantesca oppure dieci piccolissimi ripostigli».

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«Se ci pensi bene, non facciamo altro da quando ci siamo conosciuti» dice lui, che ha tagliato il pane e lo abbrustolisce e avvicina anche la marmellata, al fuoco, per scaldarla un po’. «Non facciamo che creare spazi e poi adeguarli alla nostra immaginazione». «Ripeschiamo dal passato, arrediamo con oggetti dei secoli scorsi». «Oppure con cose modernissime, che talvolta sono ancora da inventare». «La nostra storia reale non è tanto diversa dai nostri sogni». «Anche quando s’infrange in tuguri come questo». «Non dire così. Io adoro questo posto». «Anch’io, ma non è un tugurio?». «Ci ho riflettuto, sai, credo sia stato progettato proprio per errore. Pensaci: un vano tanto grande, qui, a cosa poteva servire?». «Forse come bunker?». Fanno colazione, seduti di fronte, con estrema calma. «Una volta ho immaginato una casa fatta tutta di tubi. Tubi scoperti, grandi e piccoli, cromati o colorati, che passavano ovunque. Anche sul pavimento». «Comoda. Invece io una volta ho pensato una casa fatta a torre, tutta rivestita di piume, sia all’esterno sia all’interno». «Comoda anche questa. Specialmente in estate». «Tu pensi proprio cha da qui dovremo andare via presto, vero?» «Io non lo penso. Metto in conto che possa succedere». «Proprio adesso che avevamo risolto con il riscaldamento. E l’areazione». «Guarda come stanno bene le nostre piantine. Hanno trovato il loro giardino ideale». «Perché, i pesci rossi? Mai visti così vispi».

«Perché, noi due? Non siamo rifioriti?». Si danno un bacio sulle labbra. Si lavano i denti, finiscono di prepararsi. Spengono tre interruttori, ne accendono un quarto. Escono, chiudono la prima porta ermetica, la seconda con un lucchetto pesante. «Non avrei mai immaginato diventasse un’abitazione così silenziosa, in mezzo a tanto fracasso» dice lui, che accenna al buco da cui si vedono scorrere le quattro corsie di camion e auto e motociclette e veicoli d’ogni tipo, fari bianchi sotto le luci giallastre. «Io non avrei mai immaginato di avere un corridoio tanto lungo» dice lei. Sorridono. Sono migliaia di chilometri. «Passi di giù?». «Sì, vado in paese, faccio un po’ di spesa e poi aspetto l’autobus. Tu?». «Salgo, camminata nel bosco prima di andare al lavoro. Magari trovo l’albero giusto per la prossima casa». Nuovamente si baciano, poi si salutano. Lei s’infila nel corridoio scavato parallelamente alla galleria dove scorre il traffico, e segue le indicazioni di «uscita di sicurezza» per centinaia di metri, finché non giunge al termine e apre la porta tagliafuoco, che dà sulla scarpata. Lui segue il «piano d’evacuazione B» e sale le scalette che trapassano la collina verticalmente, sbucando quasi sull’apice, tra gli alberi. Cammina finché la vista non si apre, aspetta che lei sbuchi piccolissima dalla fine del tunnel, la guarda scavalcare il guard-rail, voltarsi a cercarlo, agitare la mano. Fa altrettanto, poi s’incammina sul crinale. Da lassù l’autostrada è un serpente che si dilegua scintillando sotto i colpi del sole.




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