Bollettino Diocesano Maggio-Giugno 2009

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BOLLETTINO DIOCESANO

l´Odegitria

Atti ufficiali e attività pastorali dell’Arcidiocesi di Bari-Bitonto


BOLLETTINO DIOCESANO

l´Odegitria Atti ufficiali e attività pastorali dell’Arcidiocesi di Bari-Bitonto Registrazione Tribunale di Bari n. 1272 del 26/03/1996 ANNO LXXXV - N. 3 - Maggio - Giugno 2009 Redazione e amministrazione: Curia Arcivescovile Bari-Bitonto P.zza Odegitria - 70122 Bari - Tel. 080/5288211 - Fax 080/5244450 www.arcidiocesibaribitonto.it - e.mail: curia@odegitria.bari.it Direttore responsabile: Vito Marotta Direttore: Gabriella Roncali Redazione: Beppe Di Cagno, Luigi Di Nardi, Angelo Latrofa, Paola Loria, Franco Mastrandrea, Bernardino Simone, Francesco Sportelli Gestione editoriale e stampa: Ecumenica Editrice scrl - 70123 Bari - Tel. 080.5797843 - Fax 080.9190596 www.ecumenicaeditrice.it - info@ecumenicaeditrice.it


SOMMARIO DOCUMENTI DELLA CHIESA UNIVERSALE MAGISTERO PONTIFICIO Lettera per l’indizione dell’anno sacerdotale in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di S. Giovanni Maria Vianney

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DOCUMENTI DELLA CHIESA ITALIANA CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE 59° Settimana nazionale di aggiornamento pastorale (Bari-Bitonto, 22-25 giugno 2009) Comunità cristiana ed educazione. L’“emergenza educativa”: problema e provocazione. Educare nella prospettiva mistagogica della pastorale (V. Angiuli) Un educatore-testimone: Giovanni Modugno (G. Micunco) Annuncio celebrazione testimonianza: unità necessaria per educare alla vita cristiana (M. Falco) La parrocchia-santuario Santi Medici tra territorio e religiosità popolare: una parrocchia “atipica” (F. Savino) Conclusioni e prospettive. Educare il cristiano secondo la misura di Cristo (D. Sigalini) Lettera alla parrocchia

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DOCUMENTI E VITA DELLA CHIESA DI BARI-BITONTO CURIA METROPOLITANA Cancelleria Ordinazioni e decreti

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Ufficio per le cause dei santi Una lapide in Cattedrale per la Beata Elia di San Clemente

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Settore Carità. Ufficio Caritas Un anno in Caritas

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NELLA PACE DEL SIGNORE p. Giulio Doronzo, O.F.M. Cap.

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DIARIO DELL’ARCIVESCOVO Maggio 2009 Giugno 2009

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D OCUMENTI

DELLA

C HIESA U NIVERSALE

MAGISTERO PONTIFICIO Lettera per l’indizione dell’Anno sacerdotale in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney

Cari fratelli nel sacerdozio,

nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato di indire ufficialmente un “Anno sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo. Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si concluderà nella stessa solennità del 2010. «Il Sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù», soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza. Come non sottolineare le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni,

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restano fedeli alla loro vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti e inviati? Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue? Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi pastori, di religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: «Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina». Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: «Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo


MAGISTERO PONTIFICIO alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...». E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo». Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: «Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi». Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: «Non c’è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete». Era, di conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: «[Mio Dio], accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto quello che vorrete per tutto il tempo della mia vita!», fu con questa preghiera che iniziò la sua missione. Alla conversione della sua parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato. Cari fratelli

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nel sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, persona e missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: «Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui», si legge nella prima biografia. L’esagerazione devota del pio agiografo non deve farci trascurare il fatto che il Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio della sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie; organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence” (un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui. Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano «per condurre tutti all’unità della carità, “amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza” (Rm 12,10)». È da ricordare, in questo contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a «riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il


MAGISTERO PONTIFICIO parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei tempi». Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia. «Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare. – spiegava loro il Curato - Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera». Ed esortava: «Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui. È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!». Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che «non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione... Contemplava l’Ostia amorosamente». «Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio», diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!». Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: «Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!». Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni

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modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno. Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”. «La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!», dice il primo biografo. Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: «Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui». «Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto». Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: «Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita». Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: «Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!». A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento fosse “abominevole”: «Piango


MAGISTERO PONTIFICIO perché voi non piangete», diceva. «Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!». Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: «Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è bello!». E insegnava loro a pregare: «Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami». Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell’Amore: Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni Maria Vianney sapeva edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della sua personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle responsabilità del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno. Tuttavia con esemplare obbedienza restò sempre al suo posto, perché lo divorava la passione apostolica per la salvezza delle anime. Cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa: «La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che l’anima si intorpidisce»; ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione. Spiegava ad un confratello sacerdote: «Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai peccatori una penitenza piccola e il resto lo faccio io al loro posto». Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars si sottoponeva, resta comunque valido per

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tutti il nucleo del suo insegnamento: le anime costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro salvezza se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della redenzione. Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Perché non nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: «Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?». Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14) e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli. Fu proprio l’adesione senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri primordia, pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: «Se, per raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana». Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”, alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli «era ricco per dare agli altri ed era


MAGISTERO PONTIFICIO molto povero per se stesso». Spiegava: «Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente». Quando si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: «Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri». Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta serenità: «Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!». Anche la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato. Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio di fuggire «a piangere la sua povera vita, in solitudine». Solo l’obbedienza e la passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se stesso e ai suoi fedeli spiegava: «Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito». La regola d’oro per una vita obbediente gli sembrava questa: «Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio». Nel contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità. «Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo». A questo proposito, vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: «Sapendo discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto moltepli-

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ci forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e fomentarli con diligenza». Tali doni che spingono non pochi a una vita spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi, infatti, può scaturire «un valido impulso per un rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo». Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva. Solo così i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo. L’Anno Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote, totalmente “donato” al suo ministero. «L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva – e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2 Cor 5,14). Ed aggiungeva: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (2 Cor. 5,15). Quale programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad avanzare sulla strada delle perfezione cristiana? Cari sacerdoti, la celebrazione del 150.mo anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: «Poco prima che il Curato d’Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l’immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo


MAGISTERO PONTIFICIO un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle. Egli stesso aveva per l’Immacolata Concezione della Santissima Vergine una vivissima devozione, lui che nel 1836 aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato, e doveva accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854». Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che «Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre». Alla Vergine Santissima affido questo Anno sacerdotale, chiedendole di suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria Vianney alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo: «Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). La fede nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace! Con la mia benedizione. Dal Vaticano, 16 giugno 2009

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D OCUMENTI

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C HIESA I TALIANA

CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE 59a Settimana nazionale di aggiornamento pastorale (Bari-Bitonto, 22-25 giugno 2009)

Comunità cristiana ed educazione

L’“emergenza educativa”: problema e provocazione

Si è svolta nella nostra Arcidiocesi, dal 22 al 25 giugno 2009, la 59° Settimana di aggiornamento pastorale del Centro di Orientamento Pastorale, che ha avuto al centro della sua riflessione e dei suoi dibattiti il tema della “emergenza educativa”. Esso è stato svolto secondo l’intento degli organizzatori come un vero “lavoro seminariale” e non come semplice esposizione di relazioni, come è evidenziato dall’introduzione ai lavori e dall’articolazione del programma. Seguono le relazioni del Provicario generale dell’Arcidiocesi mons. Vito Angiuli su “Educare nella prospettiva mistagogica della pastorale”, del prof. Giuseppe Micunco su “Un educatore-testimone: Giovanni Modugno”, gli interventi di don Mimmo Falco, direttore dell’Ufficio Liturgico nazionale, e di don Francesco Savino, parroco e rettore della parrocchia Santi Medici di Bitonto e presidente della Fondazione “Opera Santi Medici Cosma e Damiano-onlus”; le conclusioni di mons. Domenico Sigalini, presidente del COP, e la “Lettera alla parrocchia”. I lavori si sono svolti presso l’Auditorium “M. De Gennaro” del Santuario dei Santi Medici in Bitonto.

La Settimana intende verificare l’ipotesi che «la frammentazione pastorale» sia l’anello debole dell’azione pastorale e della proposta educativa della parrocchia. La dispersione progettuale e operativa e la mancanza di unità della e nella pastorale rendono l’azione educativa della comunità cristiana generosa, ma poco efficace.

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Le domande fondamentali, che la Settimana intende verificare, sono le seguenti: la parrocchia, oggi, è una comunità educante? L’«emergenza educativa» è un fatto extra-ecclesiale o indica anche una difficoltà della Chiesa a mantenere vivo e alto il suo compito di «madre e maestra»? Qual è il punto debole della proposta cristiana oggi? Come superare la frammentazione pastorale? Come passare dalla constatazione dell’emergenza educativa alla programmazione di proposta educativa cristiana valida per i tempi moderni? La Settimana si caratterizzerà, per quanto è possibile, come un lavoro condiviso tra tutti i partecipanti: relatori e partecipanti. La Settimana dovrebbe essere un vero «lavoro seminariale» e non una semplice esposizione di relazioni: si vorrebbe realizzare un dibattito a più voci tra i relatori collegando e facendo interagire le relazioni con i lavori di gruppo e con il documento finale.

Lunedì 22 giugno ore 14.00-16.00 ore 16.30 ore 17.00 ore 17.15 ore 17.30 ore 18.30 ore 21.30

Arrivo e sistemazione Saluti Celebrazione liturgica Pastorale come educazione GAETANO BONICELLI, arcivescovo emerito di Siena L’emergenza educativa interpella la comunità cristiana LUCA DIOTALLEVI, docente di sociologia all’Università Roma Tre Dibattito Assemblea COP

Martedì 23 giugno

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ore 9.00 ore 9.30 ore 11.00 ore 16.30 ore 17.00

Lodi e meditazione Educare nella prospettiva mistagogica della pastorale VITO ANGIULI, provicario generale dell’Arcidiocesi di Bari-Bitonto Dibattito Un educatore-testimone: Giovanni Modugno GIUSEPPE MICUNCO, direttore dell’Ufficio Laicato dell’Arcidiocesi di Bari-Bitonto Laboratori Formare comunità: adulti e famiglie Introduce ANTONIO MASTANTUONO, assistente centrale per il Movimento di impegno educativo dell’Azione Cattolica


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE

ore 19.30

Conducono i laboratori: STEFANO VILLA, collaboratore parrocchiale, Como GIACOMO PANFILO, parroco di Clusone, Bergamo CARLA VALENTE, suora pastorella, Rieti Visita Cattedrale di Bitonto - Concelebrazione eucaristica

Mercoledì 24 giugno ore 9.00 ore 9.30

ore 11.30 Pomeriggio

Lodi e meditazione Tavola rotonda Annuncio celebrazione, testimonianza: unità necessaria per educare alla vita cristiana GUIDO BENZI, direttore Ufficio catechistico nazionale DOMENICO FALCO, direttore Ufficio liturgico nazionale MARCO TOTI, già delegato regionale Caritas italiana FRANCESCO SAVINO, parroco e rettore Santuario Santi Medici, Bitonto Dibattito Visita Basilica di San Nicola e Cattedrale di Bari Concelebrazione eucaristica presieduta da Francesco Cacucci, arcivescovo di Bari-Bitonto Concerto-meditazione a cura del gruppo “Frammenti di luce”: «Per me vivere è Cristo. Paolo testimone dell’amore»

Giovedì 25 giugno ore 9.00 ore 9.30 ore 11.00 ore 12.00 ore 13.00

Lodi e meditazione Chiesa locale in missione educativa nel territorio GIANCARLO MARIA BREGANTINI, arcivescovo di Campobasso-Boiano Prospettive pastorali DOMENICO SIGALINI, vescovo, presidente del COP Lettera alla parrocchia: ripartire dall’educazione Concelebrazione Pranzo e partenza

Moderatore della Settimana: PIER LUIGI CARMINATI, direttore editoriale di «Orientamenti Pastorali». Animatore spirituale: MARIA GIOVANNA VALENZIANO, abbadessa di S. Cecilia a Roma. Animatore liturgico: MARIO CASTELLANO, direttore dell’Ufficio liturgico dell’arcidiocesi di Bari-Bitonto.

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Vito Angiuli

Educare nella prospettiva mistagogica della pastorale

La Chiesa si è sempre occupata di educazione1. Solo, però, nell’epoca contemporanea, a partire da Pio XI, ha affrontato in modo organico il problema riguardante i costitutivi, le modalità e gli ambiti dell’educazione umana e cristiana2. È, apparsa, infatti, con sempre maggiore evidenza «l’estrema importanza dell’educazione nella vita dell’uomo e la sua incidenza sempre più grande nel progresso sociale contemporaneo»3 tanto che «legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza»4 . Oggi, il compito educativo appare abbastanza arduo e difficile5. Siamo in presenza di una grande “emergenza educativa”6 per la crescente fatica che si incontra nel trasmettere alle nuove generazioni

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1 Per la prassi cristiana antica e il suo rapporto con la paideia greca vedi W. JAEGER, Cristianesimo primitivo e paideia greca, La Nuova Italia, Firenze 1966. A tal proposito J. Ratzinger scrive: «Al nostro concetto di cultura nel mondo greco corrispondeva, molto appropriatamente, il termine paideia, ovvero l’educazione nel senso più alto, in quanto forma l’individuo alla vera umanità. I latini esprimevano la medesima cosa col termine eruditio: l’individuo è come “dirozzato”, rifinito quale perfetto essere umano. In tal senso il vangelo è per sua natura paideia/cultura, e in questa opera di educazione si allea con tutte le forze che convergono a strutturare l’uomo in quanto essere comunitario» (J. RATZINGER, In cammino verso Gesù, San Paolo, Cinisello Balsamo [Mi] 2004, pp. 36-37). 2 Cfr N. GALLI (a cura di), L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Vita e Pensiero, Milano 1992. 3 Gravissimum educationis, Proemio. 4 Gaudium et spes, 31. 5 «Educare non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile» (BENEDETTO XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008). 6 Cfr G. ANGELINI, Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002; G. ANCONE, La paideia introvabile. Lo sguardo pedagogico nella post-modernità, La Scuola, Brescia 2004; SERVIZIO NAZIONALE DELLA CEI PER IL PROGETTO CULTURALE, Le sfide dell’educazione, EDB, Bologna 2007; P. BIGNARDI (a cura di), Educazione: un’emergenza?, La Scuola, Brescia 2008; G. SAVAGNONE - A. BRIGUGLIA, Il coraggio di educare, LDC, Leumann (To) 2009.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE i valori fondamentali dell’esistenza e del retto agire morale; difficoltà che coinvolge la scuola, la famiglia e ogni altro organismo a scopo educativo e che si presenta così rilevante da far ritenere l’impresa non solo difficile, ma addirittura impossibile. La difficoltà di mettere in atto uno stabile e significativo itinerario formativo è pari all’importanza e al dovere di adoperarsi in vista di una sua concreta programmazione perché la posta in gioco è il senso e il valore della vita, la sua bellezza e la sua dignità.

1. L’emergenza educativa nel contesto di una cultura al bivio Per un corretto inquadramento della questione educativa è necessario considerare non solo l’aspetto fenomenico del problema, ma anche il suo sottofondo culturale. Come indica il significato etimologico della parola “emergenza”, ciò a cui stiamo assistendo nel nostro tempo è il manifestarsi in modo sempre più evidente dell’esito di un processo complesso e lungo, definito con nomi diversi e descritto in una pluralità di forme, che si è imposto come un radicale cambiamento nel modo di intendere e valutare la vita e la persona umana. In estrema sintesi, l’emergenza educativa è la punta di un iceberg: la chiara manifestazione della divaricazione tra cristianesimo e cultura occidentale, una separazione che si è consumata, grosso modo, attraverso tre principali fasi storiche. 1.1. La terza morte di Dio La prima fase (XVII-XVIII sec.) corrisponde all’emergere del fenomeno della secolarizzazione. La cultura riconosce ancora l’importanza del riferimento alla fede cristiana e, a suo modo, cerca di evidenziarne il legame e il collegamento veritativo. Hegel è ancora intento a scandagliare la verità cristiana, pur se appare chiaro che il suo pensiero opera uno svuotamento e una subordinazione della fede al trascendimento filosofico. La seconda fase (XIX-XX sec.) coincide con la secolarizzazione della

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cultura e della società. In un primo tempo è l’illuminismo francese ad ingaggiare una critica radicale alla Chiesa e alla fede cristiana, successivamente, la cultura tedesca porta a compimento il disegno di emancipazione e di autonomia da ogni principio trascendente. La “svolta antropologica” e la “trasmutazione di tutti i valori” disegnano la parabola storica della scissione tra fede e cultura in una linea di pensiero che va da Hegel a Nietzsche7. La terza fase (XX- XXI sec.) manifesta la secolarizzazione della stessa vita privata. In questo contesto, sono gli individui ad allontanarsi dalle forme ereditate dal cristianesimo perché queste non incrociano più le loro aspirazioni. «Nel tempo dell’ultramodernità, la società “uscita dalla religione” elimina anche le tracce che questa ha lasciato nella cultura»8. L’Europa è diventata così la porzione del pianeta in cui attualmente si celebra la terza morte di Dio. La prima (storica) è quella narrata nei Vangeli e riferita alla morte in croce di Gesù. La seconda (filosofica) è inaugurata e gestita dai “maestri del sospetto” e dai loro rispettivi discepoli o epigoni. La terza (esistenziale) non avviene più sul Golgota né attraverso libri e pensieri, ma si materializza nella storia attraverso forme di nichilismo spirituale, etico e politico9. Anche nelle sue espressioni letterarie, artistiche e poetiche, questo processo storico-culturale si manifesta come perdita del centro10, eclissi di Dio11, affievolimento del senso del mistero e della profondità dell’essere12. «Il centro non tiene», esclama il poeta W. B Yeats13. In una “società a coriandoli” come la nostra14, l’idea di un

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Cfr K. LÖWITH, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del secolo XIX, Einaudi,Torino 1949. 8 D. HERVIEU-LEGER, Catholicisme, la fin d’un monde, Bayard, Paris 2003, p. 288. 9 Cfr A. GLUCKMANN, La terza morte di Dio. Perché l’Europa è ormai un continente ateo e nel resto del mondo invece si uccide per fede, Fondazione Liberal, Roma 2004. Vedi anche A. MATTEO, Come forestieri. Perché il cristianesimo è divenuto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2008; ID., Presenza infranta. Il disagio postmoderno del cristianesimo, Cittadella, Assisi 20082. 10 Cfr H. SEDLMAYR, Perdita del centro. Le arti figurative dei secoli XIX e XX come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Torino 1983. 11 Cfr M. BUBER, L’eclissi di Dio, Passigli, Città di Castello (Pg) 2000. 12 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia in Europa, 70. 13 W. B. YEATS, The Second Coming, in ID., Selected Poetry, Peguin, London 1991, p. 124. 14 Cfr CENSIS, 41° Rapporto sulla situazione del paese, dicembre 2007.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE referente centrale è messo in questione, anzi diviene sempre più improponibile perché la ragione e la fede sono simultaneamente detronizzate. Non solo non si fa più riferimento esplicito alla fede, ma anche la ragione, esaltata per la sua debolezza, oscilla tra relativismo e fondamentalismo. L’esito finale è una confusione delle lingue15. Per questo Giovanni Paolo II, in Fides et ratio, e Benedetto XVI, nei suoi numerosi interventi di questi primi anni di pontificato, hanno sostenuto la necessità di allargare gli spazi della ragione come condizione perché anche la fede possa esprimere tutte le sue potenzialità. Ciò che occorre oggi – scrive Benedetto XVI – è «vivere una fede che proviene dal Logos, dalla ragione Creatrice, e che è perciò anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale (…). Dovremmo, allora, capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse»16. Nell’attuale situazione di frammentazione è urgente ritrovare un valore centrale e una visione sintetica e condivisa che diano ragione e fondamento alla vita e aiutino a superare quel cambiamento radicale dei parametri di valutazione che ha determinato il crollo delle grandi metanarrazioni17, lo scuotersi delle fondamenta18, la crisi di senso19, l’avvento del nichilismo20. Espressioni come tramonto della cultura occidentale, crisi dei valori, sconfitta delle idee, dissolvimento della morale sono diventate ricorrenti nella cultura alta dell’Occidente per indicare il capovolgimento degli ideali fondamentali dell’esistenza personale e della convivenza sociale e il rea-

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Cfr A. BESANÇON, La confusione delle lingue, Editoriale Nuova, Milano 1981. BENEDETTO XVI, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, pp. 60-63. 17 Cfr J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 199912. 18 Cfr P. TILLICH, Si scuotono le fondamenta, Ubaldini, Roma 1970. 19 GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 81. 20 Cfr K. LÖWITH, Il nichilismo europeo, Laterza, Roma-Bari 1999; N. IRTI, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari 2004; ID., Il salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari 2007. 16

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lizzarsi di una modificazione strutturale dei parametri di riferimento, descritti in termini di assenza più che di individuazione delle promesse di novità21. L’esito di questa rivoluzione culturale si è espresso in una triplice forma di pensiero: ateismo, scientismo, relativismo. Oggi, vi è chi, lucidamente consapevole dell’inconsistenza della realtà, approda a un ateismo senza angoscia, irridente e gaio22. Vi è poi chi esalta il potere della scienza e della tecnica come unico criterio di verità23 o addirittura ritiene che le grandi scoperte della GNR Revolution (genetica, nanotecnologia e robotica) sapranno invadere la sfera fisica e spirituale dell’uomo e costruire un’immortalità terrena24. Infine, vi è chi si attiene a posizioni agnostiche, fondandosi sul principio per il quale “latet omne verum”, cioè sull’idea della inconoscibilità e del nascondimento della verità25. In sostanza, si è fatto strada il «tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio e senza Cristo»26, dimenticando l’avvertimento della Gaudium et spes che sapientemente ammonisce: «La creatura senza il Creatore svanisce (…). Anzi, l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa»27.

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Cfr F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, pp. 348-349; ID., La gaia scienza, Adelphi, Milano 1977, p. 130; E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2002; M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; ID., Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972; O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano 2008. Per una analisi della modernità e della postmodernità cfr G. VATTIMO, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; A. RIZZI, L’Europa e l’altro. Abbozzo di una teologia europea della liberazione, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1991, pp. 13-55; G. LORIZIO, Rivelazione cristiana, modernità, postmodernità, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999. 22 Cfr ad esempio, R. DAWKINS, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007. Sull’ateismo moderno cfr Gaudium et spes, 19-21. Per un’analisi complessiva dell’ateismo vedi H. DE LUBAC, L’ateismo contemporaneo, SEI, Torino 1967-1969; ID., Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1996. Per una critica ai “nuovi atei” vedi J. HAUGHT, Dio e il nuovo ateismo, Queriniana, Brescia 2009. 23 Cfr J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 189-190. 24 Cfr A. VACCARO, L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena, EDB, Bologna 2009. 25 Cfr J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza, cit., pp. 184-186. 26 GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia in Europa, 9. 27 Gaudium et spes, 36. K. Löwith è convinto che l’idea della dignità dell’essere uomo appartenga alla visione cristiana della vita e che «soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità» (ID., Da Hegel a Nietzsche, cit., p. 482).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Così la “questione di Dio”, in questi ultimi decenni, si è trasformata nella “questione dell’uomo”28. Fenomeni come la frantumazione culturale29, il disagio sociale30 e la crisi dell’io31 sono segni evidenti dell’opacità che affligge la stessa idea di uomo; un offuscamento che gli interpreti della società contemporanea descrivono con una molteplicità di metafore. L’immagine del naufragio con spettatore32 evidenzia lo stato di incertezza e di instabilità dell’esistenza e l’atteggiamento dinanzi alla vita e alla storia modulato tra il bisogno di sicurezza e il gusto del rischio, l’estraneità e il coinvolgimento, la contemplazione e l’azione. La figura dello spaesamento33 sottolinea il ripiegamento dell’uomo su di sé, sulla propria esistenza individuale, sul proprio corpo, sui propri bisogni, per l’insorgere della paura del futuro, avvertito come una minaccia incombente; paura che, seppure non sempre confessata, lascia sullo sfondo l’orizzonte delle grandi prospettive e restringe lo sguardo in un campo di azione più limitato e concreto. La categoria della liquidità34 indica una condizione personale e sociale senza un fondamento stabile, una vita costituzionalmente incapace di mantenere invariata la propria forma, un’affettività che si esprime attraverso il moltiplicarsi delle esperienze e delle emozioni in una successione ininterrotta di nuovi inizi dove ciò che conta non è la durata, ma la velocità; un’esistenza vissuta in una

28 Sulla “questione antropologica” si è soffermato più volte il card. C. Ruini nelle sue prolusioni alle riunioni dei vescovi italiani, cfr C. RUINI, Chiesa del nostro tempo III, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2007. 29 Cfr G. MORRA (a cura di), Religione civile, frantumazione sociale, postmodernità. Quali valori comuni tra i giovani del Sud e del Nord Italia, Franco Angeli, Milano 1999. 30 Cfr C. BARALDI, Il disagio della società, Franco Angeli, Milano 1999. 31 Cfr A. DENTONE, La crisi dell’io, oggi, Le Mani Microart’s, Recco (Ge) 2009. 32 Cfr H. BLUMENBERG, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’Occidente, Il Mulino, Bologna 2001. 33 Cfr T. TODOROV, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli, Roma 1997. 34 Cfr Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2000; ID., Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2004, ID., Vita liquida, Laterza, Roma-Bari 2006; ID., Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008.

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condizione di continua incertezza, con la paura di essere colti alla sprovvista e per questo intenta a fruire il tempo presente, a bruciare l’istante, a vivere l’immediato. Infine, l’idea della identità personale pensata come un io minimo35 presenta una micro-identità funzionale alle difficoltà del presente e alla perpetuazione del sistema con una disposizione a concentrarsi sul fruibile e sull’utile senza il richiamo al solido fondamento del vissuto, alla memoria e alle radici di quanto già sperimentato, premessa indispensabile per aprirsi alla novità del futuro. Questa molteplicità di metafore indica che l’interpretazione della nostra società complessa risulta essere un “rompicapo”36 e che il fenomeno della secolarizzazione non è facilmente e compiutamente inquadrabile in uno schema interpretativo di carattere generale perché persistono fenomeni contraddittori: la teorizzazione del valore pubblico della religione37 si accompagna all’insorgere di un “nuovo anticristianesimo”38; la persistenza di una visione scientista non impedisce la riproposizione, su basi nuove, di un nuovo umanesimo e di un dialogo tra scienza e fede39; l’apertura alla religiosità si scontra con la critica alle religioni storiche40; la pratica religiosa si esprime in una diversità di forme non tutte riconoscibili come vere esperienze di fede41.

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Cfr C. LASCH, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 2004. 36 Cfr L. DIOTALLEVI, Il rompicapo della secolarizzazione italiana, Rubettino, Soveria Mannelli (Cz) 2001. 37 Cfr J. RATZINGER- J. HABERMAS, Etica, religione e stato liberale, Morcelliana, Brescia 2004; E.W. BÖCKENFÖRDE, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia 2006; ID., Diritto e secolarizzazione. Dallo stato moderno all’Europa unita, Laterza, Roma-Bari 2007. 38 Cfr R. RÉMOND, Il nuovo anticristianesimo, Lindau, Torino 2007. 39 Cfr R. ONIGA, Contro la post-religione. Per un nuovo umanesimo cristiano, Fede e cultura, Verona 2009; F. AGNOLI, Perché non possiamo essere atei, Piemme, Casale Monferrato 2009; V. AUGELLI-V. ANGIULI (a cura di), Measure and the Infinite. Science Faith Experience, Atti della Conferenza internazionale (Bari, 16-18 maggio 2002), Laterza, Bari 2003; M. HELLER, Nuova fisica e nuova teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2009. 40 Lo stesso R. DAWKINS nel già citato libro L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, muove una serrata critica alle religioni, ma nel primo capitolo (pp. 21-37) sottolinea che la sua critica non riguarda la religiosità, riconoscendosi egli stesso di essere un non credente profondamente religioso. 41 Cfr F. GARELLI, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna 2006; G. MUCCI, Riflettere sul revival religioso, “La Civiltà Cattolica”, 160, 2009, I, pp. 544-549.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE 1.2. Il bivio culturale Guardando in profondità, si può dire che la cultura contemporanea si trova di fronte a un “bivio”42: continuare a ispirarsi alla visione antropologica aperta al mistero o ignorare, se non addirittura opporsi ad essa per costruire un nuovo progetto di esistenza umana fondato sull’autonomia da ogni tipo di fondamento trascendente e sul principio dell’autodeterminazione. J. Ratzinger coglie nel segno quando scrive che «la vera contrapposizione che caratterizza il mondo di oggi non è quella tra diverse culture religiose, ma quella tra la radicale emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, da una parte, e le grandi culture religiose dall’altra. Se si arriverà allo scontro delle culture, non sarà per lo scontro delle grandi religioni (…) ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche»43. A questa divaricazione faceva riferimento Romano Guardini, negli anni ’50. Per il filosofo italo-tedesco il deciso manifestarsi dell’esistenza non cristiana, avvenuto alla fine dell’epoca moderna, comportava, da una parte, l’approfondirsi del divario tra la cultura e la fede e, dall’altra, il manifestarsi in modo sempre più evidente del valore e del significato della visione cristiana della vita. Per Guardini «quanto più decisamente il non credente attua il suo rifiuto della rivelazione e quanto più conseguentemente lo traduce nella pratica, tanto più chiaramente si vedrà che cos’è il cristianesimo. Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare a quell’“usufrutto” che, pur negando la rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato. Deve attuare onestamente la sua vita senza Cristo e senza Dio che Cristo

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C. L. ROSSETTI, L’Europa al bivio tra apostasia e fraternità. Tracollo epocale o crogiuolo di una nuova civiltà? Per un discernimento cristiano sul destino dell’Europa, “Rassegna di Teologia”, 49, 2008, n. 2, pp. 341-356. 43 BENEDETTO XVI, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, cit., pp. 53-54.

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ha rivelato, ed esperimentare che cosa questo sia. Già Nietzsche aveva ammonito che il moderno non-cristiano non aveva ancora compreso che cosa sia essere tale. I vent’anni trascorsi ce ne hanno dato un’idea, e non era che l’inizio»44. A distanza di altri vent’anni, Walter Kasper ha riformulato questa analisi45. A suo giudizio, il nostro tempo si presenta come un “secondo illuminismo”, cioè come uno “svelamento dell’illuminismo a se stesso”, come una “metacritica della critica illuministica” in riferimento alle grandi rivendicazioni dell’illuminismo, la ragione e la libertà, mostrando l’ambiguità di entrambe e il peso di molteplici presupposti su cui esse sono fondate tali da renderle estremamente problematiche. In questa situazione, a giudizio di Kasper, si aprono due possibili strade. L’una consiste nell’attestarsi dell’uomo dentro i propri limiti, ritenendoli invalicabili e rifiutando, come prive di senso, le problematiche religiose e quelle metafisiche; l’altra, invece, nel riconoscere che la limitatezza della persona umana resta aperta agli interrogativi e alle aspirazioni che sono profondamente radicate nel cuore dell’uomo e che, in ultima analisi, corrispondono al suo bisogno di salvezza, all’esigenza di cercare un’esistenza felice, al desiderio di trovare risposte alle domande di senso sull’origine e la fine della vita e del mondo. Recentemente il cardinale Ruini si è mostrato convinto che la «diagnosi di W. Kasper, a suo tempo anticipatrice – basti pensare a quanto diffusa fosse allora la convinzione del primato culturale del marxismo –, a distanza di 35 anni rimane ancora in buona parte valida»46. Di certo, la compresenza nella cultura contemporanea di differenti e contrastanti codici di lettura e di valutazione, senza una precisa gerarchia dei valori, tende ad annullare qualsiasi distinzione e differenza, anche quella sancita dalla natura e dalla fisiologia (si pensi alla dottrina del gender)47, e a richiedere un esercizio della libertà sulla base di una equivalenza di valori. Ciò rende estremamente dif44

R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 200711, p. 102; vedi anche N. A. BERDIAEV, Il senso della storia: saggio di una filosofia del destino umano, Jaca Book, Milano 1971. 45 W. KASPER, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia 19795, pp. 27-31. 46 C. RUINI, Rieducarsi al cristianesimo. Il tempo che stiamo vivendo, Mondadori, Milano 2008, p. 16. 47 Cfr P. VANZAN, “Gender” e rapporto uomo-donna, “La Civiltà Cattolica”, 160, 2009, I, pp. 550-562.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE ficile alle tradizionali “agenzie educative” (scuola, famiglia e comunità ecclesiale) di proporsi come efficaci ambienti educativi, proprio mentre si fa più forte la presenza dell’«ospite inquietante»48 con i suoi effetti devastanti soprattutto tra i giovani. Questi vengono spesso descritti come una generazione di nomadi49 e sono accomunati da «un elemento comune di “perdita”: lo smantellamento dell’espressione, con un appiattimento della distanza tra realtà e apparenza; la perdita della capacità di costruire la dimensione affettiva; la perdita della dimensione e del senso della storicità e del tempo; la perdita o, almeno, la diminuzione della capacità di impegno stabile e incondizionato (…). Sembra trattarsi di una fragilità che si riscontra, secondo modalità diverse ma in modo assai generalizzato, come confusione a livello cognitivo, come una specie di paralisi o di depressione a livello della volontà e come frammentazione e mancanza di coesione a livello affettivo della motivazione nel suo insieme»50.

2. I presupposti dell’azione educativa Pur nella problematicità dell’attuale contesto socio-culturale, il compito educativo rimane un’esigenza imprescindibile. Il passaggio, però, dalla constatazione dell’emergenza alla programmazione di

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Cfr U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007. «Molti giovani non hanno neppure la “grammatica elementare” dell’esistenza, sono dei nomadi: circolano senza fermarsi a livello geografico, affettivo, culturale, religioso, essi “tentano”! In mezzo alla grande quantità e diversità delle informazioni, ma con una povertà di formazione, appaiono dispersi, hanno ansia davanti ad impegni definitivi e si interrogano circa il loro essere. Se da una parte cercano autonomia e indipendenza ad ogni costo, dall’altra, come rifugio, tendono ad essere molto dipendenti dall’ambiente socioculturale e a cercare la gratificazione immediata nei sensi: di ciò che “mi va”, di ciò che “mi fa sentire bene” in un mondo affettivo fatto su misura» (PONTIFICIA OPERA VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 11/c). 50 F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, edizione riveduta e aggiornata, EDB, Bologna 2005, pp. 474-475. 49

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una proposta educativa adatta ai tempi nuovi e alle attuali esigenze della formazione umana e cristiana richiede che si individuino alcuni presupposti perché questo compito possa concretamente essere realizzato. Si tratta di stabilire quale forma di ragione deve sostenere l’azione pedagogica, quale modello di Chiesa deve proporsi come comunità educante e quale paradigma antropologico deve orientare la prassi formativa. In un certo senso, ma con le dovute differenze, si tratta di tenere presente la triade di valori che don Bosco aveva sintetizzato con le parole “ragione, religione, amorevolezza”51. L’educazione, infatti, è certamente una “cosa del cuore”, ma di un cuore pensante che conosce le ragioni dell’amore e le manifesta in un modo ragionevole e condivisibile, senza prevaricazioni e imposizioni. Questo richiamo alla modalità che la ragione deve assumere nel processo educativo è quanto mai urgente e attuale in un tempo, come il nostro, nel quale occorre superare non solo le due forme egemoni che la ragione ha assunto nella modernità (la ragione ideologica e la ragione strumentale), ma anche trascendere la forma debole con cui la ragione si è proposta nella postmodernità52. Più consona alla nostra situazione, invece, è una razionalità né forte né debole, ma umile53, capace di evitare la deriva dell’ideologia e del relativismo, ma anche disponibile al riconoscimento della sua radicale e intrinseca apertura alla trascendenza54. Ugualmente importante è individuare il modello di comunità educante55. Molto attuale risulta il modello di Chiesa descritto nell’Apo-

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Cfr P. BRAIDO, Prevenire, non reprimere. Il metodo educativo di don Bosco, LAS, Roma 2006; ID., (a cura di), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1997; ID., Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, 2 vol., LAS, Roma 2003; AAVV., Rigenerare la società a partire dai giovani. L’arte della relazione educativa. Atti della 1a Convention nazionale sul Sistema Preventivo (Roma 11-12 ottobre 2003), Istituto FMA – Italia, Roma 2003. 52 Cfr M. HORKHEIMER, L’eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1972; G. VATTIMO – P. A. ROVATTI (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983. 53 Cfr R. REPOLE, Pensiero umile, Città Nuova, Roma 2007. 54 Cfr B. J. F. LONERGAN, Insight: a Study of human Understanding, Longmans Green, London 1958, tr. it. S. Muratore, N. Spaccapelo, Insight. Uno studio del comprendere umano, Città Nuova, Roma 2007. 55 Sotto questo aspetto può essere utile la prospettiva ecclesiologica indicata da A. Dulles il quale individua cinque principali modelli: la Chiesa come istituzione, come comunità mistica, come sacramento, come annuncio e come serva; vedi A. DULLES, Modelli di Chiesa, Messaggero, Padova 2005.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE calisse56. In un contesto di persecuzione, di tribolazione e di smarrimento, l’autore sacro presenta la comunità cristiana come un’assemblea, situata tra il “già” e il “non ancora”, che celebra il mistero pasquale di Cristo, discerne i segni dei tempi e testimonia nel mondo la bellezza e la forza della fede cristiana. Riunita nel giorno del Signore, la comunità cristiana incontra il Risorto, si sottopone al suo giudizio e al suo “rimprovero”, accoglie il suo invito alla conversione personale e comunitaria, impara a leggere i segni dei tempi e a dare con coraggio la sua testimonianza nel mondo. La presenza del Risorto è luce per comprendere il disegno di salvezza che Dio attua nel tempo, ammonimento a rimanere saldi nella professione della fede e nell’osservanza del comandamento dell’amore, forza che sorregge la debolezza dell’uomo e infonde vigore e speranza nel cammino. In questa situazione di conversione personale e comunitaria, con una riflessione di tipo sapienziale attuata in un contesto liturgico, la comunità, alla luce della Parola di Dio, si confronta con l’ambiente in cui vive e impara a comprendere il compito che il Risorto le assegna nella storia. Questo modello di Chiesa, costituito dall’intreccio tra orientamento escatologico, inquadramento storico-salvifico e contesto liturgico-sacramentale può assurgere, nel nostro tempo, a punto di riferimento ideale per il costituirsi di una comunità cristiana che sappia rimanere fedele alla sua vocazione e che, conservando intatta la sua identità, sappia radicarsi nel contesto culturale contemporaneo interpretandone le istanze fondamentali, suggerendo possibili soluzioni alle domande emergenti, testimoniando la novità e la verità del vangelo con uno stile di vita sobrio ed esemplare e un annuncio discreto e coraggioso della Parola che salva. Il terzo presupposto riguarda il paradigma antropologico57. Sotto questo profilo si deve notare la chiara intenzione del Concilio

56

Cfr U. VANNI, La struttura letteraria dell’Apocalisse, Diss. Ist. Bibl., Roma 1969; ID., Apocalisse. Una assemblea liturgica interpreta la storia, Queriniana, Brescia 19885. 57 Cfr I. SANNA, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana, Brescia 2001.

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Vaticano II, soprattutto nella Gaudium et spes, di proporre una antropologia cristocentrica fondata sull’idea che solo nel mistero di Cristo trova luce il mistero dell’uomo58. La distinzione tra “mistero” e “problema”, introdotta in campo filosofico da Gabriel Marcel59, si mostra illuminante come fattore di inquadramento dello sviluppo della persona umana. Con il termine sviluppo, infatti, si intende, «il luogo dove il mistero ha preso corpo come una serie di mediazioni, di “come”, di problemi; (…) dove i singoli problemi possono rinchiudersi sul loro carattere di problema, mettendosi effettivamente in opposizione al mistero, oppure possono divenire, dinamicamente, un’incarnazione, una presenza trasparente del mistero, un’occasione di crescita nella manifestazione della realtà del mistero»60. Nella prospettiva di un’antropologia che considera «la persona ontologicamente mistero che, in ultima analisi, si radica nel Mistero, si può pensare, sperare e operare per una riscoperta del fondamento e per un’attuazione del progetto, della realtà della persona nonostante il contesto sfavorevole. Il recupero del mistero nelle sue dimensioni “di altezza, di lunghezza, di larghezza e di profondità” (Ef 3,18) è possibile»61.

3. Il mistero di Cristo centro e punto di forza della pastorale mistagogica Questo auspicio ha trovato una concreta attuazione nella storia contemporanea della Chiesa. I secoli XIX-XX, durante i quali si è consumato il divario tra cristianesimo e cultura moderna, sono 410 58

Cfr Gaudium et spes, 10, 22, 32, 38-39, 40-41, 45. «Un problema è un tutto determinato di fronte al quale io mi trovo, un tutto determinato che io posso circoscrivere e scomporre, mentre un mistero è qualcosa in cui io stesso sono impegnato e che quindi non è concepibile che come una sfera in cui la distinzione fra l’in me e il davanti a me si svuota del suo significato iniziale. Mentre un problema autentico è soggetto ad una determinata competenza e ad una particolare tecnica appropriata in funzione della quale si definisce, un mistero trascende per definizione la possibilità stessa di concepire tecniche adeguate» (G. MARCEL, Il mistero dell’essere, Borla, Torino 1987, p. 193). 60 F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, cit., pp. 13-14. 61 Ibidem, p. 475. 59


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE stati il momento propizio nel quale la Chiesa, con una lunga e articolata riflessione teologica autenticata in modo autorevole nei due concili celebrati in Vaticano, ha recuperato la categoria di mistero e l’ha posta al centro del pensiero teologico, della prassi pastorale, della celebrazione liturgica e dell’azione missionaria. 3.1. La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II Del mistero cristiano, il Concilio Vaticano I ha evidenziato la sua dimensione plurale, la natura essenziale, l’aspetto veritativo. Il suo insegnamento si può riassumere in tre ordini di idee. I misteri stricte dictu, cioè le verità nascoste in Dio, di per sé non fanno parte del patrimonio conoscibile dall’intelligenza creata. Essi sono nettamente diversi dagli enigmi della natura fisica, dai segreti della vita interiore e anche da quelle verità che possono essere conosciute naturalmente (ad es. l’esistenza di Dio). In quanto verità nascoste in Dio e che lui solo conosce, i misteri possono essere conosciuti dall’uomo solo se Dio li rende manifesti. Tuttavia, anche se conosciuti per rivelazione, i misteri non possono essere perfettamente compresi dall’intelligenza creata, ma restano coperti da un velo e quindi rimangono “misteriosi”. In altri termini, soprannaturalità, inaccessibilità e conoscibilità per rivelazione sono le dimensioni essenziali dei misteri cristiani. La dottrina proposta dal Concilio Vaticano I si presenta come una risposta alla visione culturale moderna e postmoderna. Alla modernità che, accentuando il potere della ragione, ritiene che non vi siano limiti all’indagine razionale, il Concilio ricorda che i misteri cristiani hanno una dimensione di assoluta trascendenza rispetto agli altri contenuti dell’indagine razionale. Alla postmodernità che, dubitando della possibilità della ragione di conoscere ciò che è al di sopra di essa, riduce l’orizzonte del suo esercizio, il Concilio ribadisce la sua assoluta fiducia nella forza della ragione di trascendersi e di conoscere qualcosa del mistero rivelato. In definitiva, contro il razionalismo, il semi-razionalismo e l’idealismo, il Vaticano I proclama l’assoluta differenza dei misteri stricte dictu rispetto alle altre

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conoscenze scientifiche, mentre contro il fideismo, il fondamentalismo e il relativismo esalta la possibilità della ragione di conoscere per rivelazione, almeno in parte, i misteri nascosti in Dio. Il Concilio Vaticano II si ricollega a questa riflessione e, rispetto al Vaticano I, utilizza più volte il termine mistero e ne approfondisce il significato mettendo in evidenza alcune dimensioni fondamentali: il carattere cristologico-trinitario, la dimensione liturgico-sacramentale, la relazione antropologico-esistenziale, la funzione storico-escatologica. Se la costituzione dogmatica Dei Filius aveva messo l’accento sul valore veritativo dei misteri e aveva sottolineato la loro dimensione essenziale e la loro pluralità, i documenti del Concilio Vaticano II parlano piuttosto dell’unico mistero di Dio rivelato in Cristo del quale mettono in evidenza la sua dimensione vitale e la sua energia divina a cui l’uomo attinge per esprimere nella sua esistenza l’immagine e la somiglianza con Dio. In estrema sintesi, si può riassumere la dottrina conciliare con le parole di Divo Barsotti: «Il concetto di mistero suppone due termini: Dio e l’uomo. Ma due termini che precisamente si congiungono attraverso un rapporto. Quando si parla del mistero della passione e della risurrezione di Cristo si parla precisamente del compimento di quel disegno divino onde Dio stabilisce questo rapporto, stringe questa alleanza e si unisce all’uomo per vivere con lui. Non vi è mistero senza la presenza dell’uomo, non vi è mistero senza la presenza di Dio; e non vi è mistero se la duplice presenza dell’uomo e di Dio non implica un rapporto di unione»62. Ponendo al centro della riflessione teologica la categoria di mistero, i due Concili delineano una dottrina cristiana su Dio, sul mondo e sull’uomo coerente e armonica nel suo insieme, quasi una grande idea architettonica e progettuale che deve informare la teologia, la prassi pastorale, la celebrazione liturgica, la proposta educativa della Chiesa. «La nostra epoca – scrive Y. Congar – nutrita alle grandi fonti della scrittura, dei Padri e della liturgia, e che ha riscoperto il ruolo del kerigma nella funzione apostolica e docente della Chiesa, è di nuovo convintissima dell’immenso interesse d’una teologia che si costruisca come sintesi intorno al mistero cristiano»63. 62

D. BARSOTTI, Il mistero della Passione - Morte - Risurrezione, “Rivista di Pastorale Liturgica”, 2, 1964, n. 3, pp. 95-96. 63 Y. CONGAR, La tradizione nella vita della Chiesa, Paoline, Roma 1964, p. 130.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE 3.2. Mistero, mistica e mistagogia: per un rinnovamento della pastorale e un confronto con la cultura contemporanea Questa prospettiva misterica si pone come una feconda linea orientativa perché, da una parte, è capace di offrire indicazioni per la riflessione teologica e spirituale e, dall’altra, apre spiragli per un confronto con la cultura contemporanea. Sul versante teologico, la dottrina conciliare propone una linea che va dal mistero alla mistica e dalla mistica alla mistagogia. I termini mistero, mistica e mistagogia hanno la stessa natura semantica e prospettano una visione spirituale che fa leva sull’incontro tra l’uomo e Dio e si radica in un’esperienza di vita. Il mistero è Cristo e la mistica è l’assimilazione a Cristo. «Il mistero e la mistica, così compresi, si integrano, dunque, e si spiegano reciprocamente. In altri termini, il mistico interiorizza continuamente il mistero, a misura e nel grado in cui nella sua esperienza approfondisce il mistero che è dentro di lui e che riceve dall’esterno come enunciato di fede, al quale egli crede fermamente (…). La mistica risulta essere l’interiorità della fede attraverso l’interiorizzazione del mistero: a misura che il mistero è interiorizzato, la fede in esso rinvia il mistico al di là di se stesso»64. La vita cristiana si qualifica, dunque, come vita mistica65, una possibilità offerta a tutti di accogliere il dono di grazia fin dentro la struttura più profonda dell’essere66.

64

L. BORIELLO, Esperienza mistica e teologia mistica, LEV, Roma 2009, pp. 31-32; G. MUCCI, La mistica come crocevia del postmoderno, “La Civiltà Cattolica”, 153, 2002, pp. 3-12. 65 «Attualmente in ambito teologico si va parlando con sempre maggiore insistenza di mistica, nel senso di un’esperienza decisiva della fede, passione che si coinvolge nella realtà e la attraversa. Sotto il profilo teologico, l’ambito della mistica coincide con quell’autentica esperienza di fede, talvolta indicata o definita come impegno metaetico e teologale, esperienza che segna decisamente la differenza rispetto a consolidate abitudini, elemento o, meglio, dinamismo di “rottura” dell’ovvio, non tanto dischiusura sulle novità, ma slancio verso il novum, “un sentire la presenza della realtà intera, anzi di sperimentare l’origine stessa della totalità”. “Mistica” è, allora, la categoria teologica che può essere posta come il nome nuovo dell’ethos credente» (D. SCARAMUZZI, Etica e teologia. Riflessione teologica e domanda filosofica, “Rivista di Scienze Religiose”, 10, 1996, n. 1, pp. 45-70, qui p. 67). 66 Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2014.

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Per coltivare questa vita occorre un accompagnamento mistagogico. La parola “mistagogia” «oggi ha un significato più concreto nell’ambito spirituale: significa l’iniziazione graduale del credente ai misteri della fede, trasmessa e assimilata per via di esperienza interiore e di prassi impegnata, con l’aiuto di un maestro sperimentato. Sono quattro gli elementi che intervengono in questo ordine: il mistero di Dio vivo che si comunica; assimilazione e trasformazione del soggetto che lo riceve; aiuto del maestro; mediazione di dottrina e prassi (…). Il centro di attrazione e di irradiazione sta nel mistero, cioè in Dio vivo che si rivela e si mette in sintonia con il soggetto (…). L’esperienza mistica possiede in se stessa una grande forza mistagogica, in sintonia con l’esperienza di fede»67. Alla vita mistica, di solito, non si perviene da soli, ma accompagnati da un mistagogo, da qualcuno che avendo già fatto l’esperienza del mistero è in grado di introdurre in esso. Il mistagogo «deve insegnare in modo concreto ad essere capaci di restare vicini a questo Dio, a dargli del “tu”, ad avere coraggio di addentrarci nel suo buio silenzioso e a non temere che lo possa perdere chiamandolo per nome (…). Tale mistagogia cristiana deve naturalmente sapere il posto che in essa ha Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto»68. L’accompagnamento mistagogico è un processo dinamico e vitale che dura tutta la vita. Pertanto, il tempo della mistagogia, che propriamente si riferisce al tempo pasquale, abbraccia l’intera esistenza e, per certi versi, si proietta nell’eternità69. La riflessione teologico-pastorale postconciliare ha fatto emergere con maggiore evidenza i limiti di una “teologia antropologizzata”70, soprattutto se con ciò si intende un acritico “volgersi al mondo”71. 414

67

L. BORIELLO, Esperienza mistica e teologia mistica, cit., p. 188. K. RAHNER, Pietà in passato e oggi, in Nuovi Saggi II, Ed. Paoline, Roma, pp. 25-28. 69 «La mistagogia è eterna: durerà per l’eternità, per quanto è infinito il mistero ineffabile, mai del tutto afferrabile» (F. CACUCCI, Catechesi liturgia vita. Una proposta pastorale, EDB, Bologna 2000, p. 86). 70 I due teologi gesuiti della Gregoriana, M. Flick e Z. Alszeghy, mettono in guardia da una teologia antropologizzata: cfr M. FLICK-Z. ALSZEGHY, Antropologia, in G. BARBAGLIO- S. DIANICH, Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Alba 1977, pp. 12-29, qui pp. 25-28. 71 Nei documenti conciliari — scrive H. U. von Balthasar — «il mysterium della Rivelazione come tale è dappertutto presupposto, il che è evidente in innumerevoli punti, senza che venga messo innanzi espressamente e per esteso. Le molte raccomandazioni a sacerdoti, religiosi e laici, di attingere dalla ricchezza della Rivelazione per il loro apostolato, mostrano chiaramente che il Concilio non predica affatto una “nuova spiritualità” che avrebbe il suo punto centrale, poniamo nel 68


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Se, poi, si considera che, in questi ultimi tempi, è insorta prepotentemente la “questione antropologica”72 occorrerà riconsiderare la cosiddetta “svolta antropologica”73 nella direzione di una “svolta mistagogica” che si impone sempre più come una scelta più conso-

‘volgersi al mondo’. Oggi nel popolo della Chiesa, ma particolarmente tra teologi e professori di teologia, vi è una infausta ‘mania del mondo (Weltelei)’ che non presta orecchio attento al Concilio e dà a credere falsamente di navigare sotto la sua bandiera. Contro di essa si deve tenere fermo quale principio interpretativo di tutti i testi conciliari: il Concilio postula nuovi atteggiamenti, affinché il messaggio originario giunga là dove esso vuole e deve arrivare; esso innalza perciò nuove esigenze, di grande portata, che derivano tutte dalla volontà originaria del Dio invisibile uno e trino, che è creatore, redentore e santificatore» (H. U. VON BALTHASAR, Il Concilio dello Spirito Santo, in ID., Spiritus Creator, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 229-226, qui pp. 217-118). 72 Cfr I. SANNA, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Queriniana, Brescia 2006. 73 Per un approccio complessivo al tema della “svolta antropologica” in teologia vedi G. PATTARO, La svolta antropologica. Un momento forte della teologia contemporanea, EDB, Bologna 1990. Andrea Grillo ritiene si debba distinguere tra una “prima” e una “seconda” svolta antropologica. Quest’ultima, «affine alla “prima”, ma diversa per fonti e priorità, recuperava anch’essa il significato antropologico della fede, ma lo faceva riscoprendo il ruolo della esteriorità, della comunità, della alterità, della autorità per la interiorità, per la individualità, per la identità e per la libertà. È anch’essa preoccupata di un raccordo tra “fede” e “ragione”, ma inverte le priorità e cambia le fonti: procede dall’esteriore all’interiore, e si fonda su una tradizione non metafisica, ma orientata dalle nuove scienze umane, religiose e fenomenologiche» (A. GRILLO, Il rinnovamento liturgico tra prima e seconda svolta antropologica. Il presupposto rituale nell’epoca del postmoderno, Quaderni della Rivista di Scienze Religiose dell’Istituto Teologico di Molfetta, Vivere In, Roma 2004, pp. 48-49). Per Michael Kunzler, invece, «c’è da recuperare ciò che è oggettivo nella liturgia, nel suo insieme e nelle singole celebrazioni liturgiche, come insisteva a suo tempo Romano Guardini. Con questo si pone il compito mistagogico: “La liturgia è espressione dell’uomo stesso, appunto di quello che egli dovrebbe essere. Così essa diventa disciplina severa. L’uomo esteriore può percepire facilmente la preghiera liturgica come qualcosa di ‘non sincero’, poiché quell’uomo che parla nella liturgia corrisponde alla sua essenza più profonda. Ma questo rimane nascosto. Quindi la preghiera liturgica deve rimanere per lungo tempo dura disciplina, finché non si risvegli il profondo, si aggiusti l’immagine dell’essere per far parlare finalmente l’essenzialità. Questa trasformazione liturgica finora è stata appena percepita”. Si può dubitare fortemente se questa iniziazione mistagogica dell’uomo alla liturgia, che conduce a una trasformazione nel senso di un’autentica capacità per la liturgia, venga oggi percepita più che nel tempo in cui Guardini scriveva quelle righe. Il compito mistagogico deve agganciarsi a una continuità lontana nel tempo. Bisogna vivificare nuovamente qualcosa che appartiene a ciò che è più grandioso nella storia della teologia: la grande tradizione mistagogica dei padri in Oriente e in Occidente»: M. KUNZLER, La liturgia all’inizio del terzo millennio, in R. FISICHELLA (a cura di), Il Concilio Vaticano II, cit., p. 228.

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na al contesto culturale contemporaneo e più in sintonia con l’intento e lo spirito del Concilio Vaticano II74. A ben vedere, la recezione conciliare si muove in questa direzione. Così scrive Flores Arcas: «Non solo a livello liturgico, ma anche teologico, biblico, storico, la riflessione sul mistero è una caratteristica della teologia e della liturgia che si va sviluppando a oltre quarant’anni dalla Sacrosanctum Concilium e dalla conclusione del Concilio Vaticano II (…). Tanto la Sacrosanctum Concilium che la Dei verbum o la Optatam totius ed anche la Gaudium et spes sottolineano come centro della teologia sia il mistero di Cristo che si fa vicino nella storia della salvezza; mistero che, manifestato e celebrato, richiede che la formazione teologica favorisca un’intima unità con la vita (…). Una riflessione teologica sul secolo XX ci presenta la relazione teologia-mistero e lo sforzo per il recupero della teologia sapienziale. Uno sguardo ai padri e al metodo mistagogico, in concreto nell’ambito liturgico-teologico gli studi di O. Casel, hanno aiutato a reagire contro una teologia e liturgia riduttive. Rahner aveva affermato con forza che una teologia che abbandonasse la dimensione misterica non aiuterebbe in nulla a cogliere ciò che appartiene all’esperienza religioso-cristiana. La teologia misterica, come la mistagogia si definisce per l’esperienza del Dio incomprensibile. Un avvicinamento al mistero intende portarci alle sorgenti stesse della rivelazione e unire teologia ed esperienza di vita, mistero e ministero, perché il mistero è inseparabile dalla teologia come dalla liturgia, vista sempre nella sua dimensione teologica. Il mistero richiede non solo una trasformazione dell’intelletto, ma anche una trasformazione di tutto l’essere, perché il mistero riguarda la vita»75. La validità della prospettiva mistagogica indicata dal Vaticano II non si misura solo in riferimento alla vita interna della Chiesa, ma anche in vista della sua missione nel mondo. Parlare di mistagogia non significa seguire una linea pastorale di ripiegamento della Chiesa su se stessa. Al contrario, vuol dire proporre un rinnovamento della vita cristiana in vista del dialogo e del confronto con le domande e le attese degli uomini del nostro tempo. 74

Cfr V. ANGIULI, La recezione del Concilio Vaticano II e la “svolta mistagogica” della pastorale. Ut mysterium paschale vivendo exprimatur, “Orientamenti pastorali”, 55, 2007, n. 11, pp. 8-44. 75 J.J. FLORES ARCAS, Prefazione a N. BUX - M. LOCONSOLE, I Misteri degli Orientali. I sacramenti bizantini comparati con la liturgia romana e i riti giudaici, Cantagalli, Siena 2006, pp. 7-9.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Questa prospettiva rappresenta un’alternativa alla deriva nichilista della tarda modernità che, attestandosi sul principio dell’autodeterminazione, tende a risolvere le questioni fondamentali dell’esistenza sulla base di un esercizio della libertà senza alcun riferimento a un principio veritativo che la precede e la fonda. La dottrina conciliare, invece, riconoscendo la valenza teologica e antropologica del mistero, sottolinea che il senso ultimo della vita risiede nel suo costituirsi come “dono” e come “valore indisponibile” a qualsiasi strumentalizzazione dello Stato, della società e della singola persona. La verità profonda della vita – afferma mons. Rino Fisichella – «si colloca nell’orizzonte del mistero. Riteniamo che questa categoria debba ritornare al centro della nostra riflessione per permettere di recuperare una ricchezza andata perduta. Senza la presenza del mistero l’esistenza personale è ridotta a una reazione chimica, le domande fondamentali sul “chi sono?”, “dove vado?”, “perché la presenza del male”, “cosa mi attendo dopo la morte?”, vengono evase o vanificate per il subentrare tragico del destino. L’enigmaticità dell’esistenza deve condurre progressivamente a scoprire il mistero di Cristo come una conoscenza nuova e inaspettata che viene offerta per uscire dal labirinto delle ipotesi (…). L’unità del mistero dell’uomo nel mistero di Cristo è condizione di possibilità per porre fine all’insoddisfazione delle ipotesi, anche le più affascinanti, che si pongono dinanzi ai nostri occhi per la realizzazione di se stessi»76.

4. I risvolti pedagogici della struttura del mistero di Cristo Indicata la prospettiva generale, rimane da precisare la “struttura” del mistero di Cristo77. Con questa parola non si intende dire che il 76 R. FISICHELLA, La via della verità. Il mistero dell’uomo nel mistero di Cristo, Paoline, Milano 2003, pp. 10-11. 77 Il mistero può essere considerato sotto un triplice aspetto: come realtà o verità, per essenza o per partecipazione, al singolare o al plurale; vedi A. OLMI, La struttura del mistero,

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mistero è risolvibile in categorie umane o che si possano carpire i segreti di Dio riducendoli a dati e a prospettive contingenti. Vi è, infatti, una differenza radicale tra il mistero “per sé” e il mistero “per noi” e questa differenza è regolata dal principio dell’analogia e dal criterio ermeneutico indicato dal Concilio Lateranense IV secondo cui tra Dio e l’uomo la dissomiglianza è più grande della somiglianza78. La parola “struttura” intende solo mettere in evidenza che il mistero cristiano non è una realtà asettica e immobile, confusa e indecifrabile, ma una vita inesauribile ed eterna che sgorga da una fonte divina e che è regolata al suo interno da rapporti armonici e relazioni comunionali. La radicale dissomiglianza che c’è tra creatore e creatura non impedisce di scoprire alcune “leggi” che regolano la vita intima di Dio e di individuare la “forma” della vita divina, quale paradigma della vita dell’uomo. Nella Sacra Scrittura vi sono quattro parole che caratterizzano il pensiero biblico su Dio: doxa, charis, agape, zoé. La doxa mette in evidenza lo splendore, la forma, la bellezza, la gloria, il logos divino e sottolinea l’attributo della verità. La charis esprime l’amabilità, la bontà, la benevolenza, il dono, la grazia, la gratuità, il ringraziamento nel senso dell’eucaristia. L’agape indica il sentimento, lo zelo, l’amore che discende dall’alto, l’ardore interiore, il dono di sé, la comunione. Zoé è la pienezza della vita, intesa non in senso biologico, bensì nel suo significato ontologico-pneumatico79. Questi attributi del mistero di Dio sono rivelati e compendiati nel mistero

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“Sacra Doctrina”, 53, 2008, n. 4, pp. 313-346. Natale Bussi parla di sei strutture del mistero cristiano: dialogica, cristica, soterica, comunitaria, agapica, escatologica: cfr N. BUSSI, Il mistero cristiano. Breve introduzione allo studio e alla presentazione del cristianesimo, LDC, Leumann (To) 1979. 78 H. DENZINGER – A. SCHÖNMETZER, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Herder, Friburgo 1965, 806. 79 «Come per l’Antico Testamento così anche per il Nuovo, Dio è il “Dio vivo”, colui che governa con sapienza e potenza la storia degli uomini. Il suo carattere personale balza chiaramente in luce proprio attraverso il suo rapporto con la storia umana. Tra i suoi attributi essenziali bisogna menzionare in primo luogo la “gloria”, la rivelazione luminosa e l’irraggiamento maiestatico della sua vita intima. In quanto egli è essenzialmente “verità”, è pure “luce”. In quanto egli è “l’onnipotente”, possiede una potenza illimitata, che però è nello stesso tempo bontà e grazia prodiga. Egli è la stessa bontà, così come è non solamente la fonte della vita, bensì la “vita eterna” medesima» (V. WARNACH, Il Mistero di Cristo. Una sintesi alla luce della teologia dei misteri, Paoline, Roma 1983, pp. 29-30).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE di Cristo 80. Egli è immagine, impronta e sostanza del mistero inaccessibile del Padre e, per l’uomo, è via al mistero, verità nascosta e rivelata, vita divina, offerta e donata. Della struttura mistero di Cristo, due mi sembrano gli aspetti da mettere in rilievo anche in vista della questione educativa sulla quale ci stiamo interrogando: la natura sintetica e la dimensione antinomica. I risvolti pedagogici di queste due “leggi strutturali” del mistero di Cristo sono di notevole portata perché indicano il senso e il contenuto della proposta educativa cristiana e segnalano il suo metodo. 4.1. La dimensione sintetica del mistero Quanto al primo aspetto va rilevato che Cristo è la sintesi di tutti i misteri. In lui si manifesta non solo l’insondabile mistero di amore della Trinità81, ma anche l’altissima vocazione dell’uomo82, chiamato a diventare partecipe della natura divina. Cristo è il mistero che compie tutti i misteri. Egli è il centro, il vertice, la pienezza di tutta la rivelazione, il ricapitolatore e la forza divina che attrae a sé ogni cosa. In tal modo, il mistero di Cristo diventa l’anima della riflessione teologica, il fondamento ultimo della vita della Chiesa, il senso della storia, la sorgente inesauribile di ragioni di vita e di speranza per tutta l’umanità83. 80

Sul concetto biblico di mistero cfr G. BORNKAMM, Mysterion, in K. KITTEL-G. FRIEDERICH, Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. VII, Brescia 1971, coll. 645-716; R. PENNA, Il “Mysterion” paolino. Traiettoria e costituzione, Paideia, Brescia 1978. 81 Lumen gentium, 3. 82 Gaudium et spes, 22. 83 «Al centro e al cuore di un approccio teologico meglio adeguato agli interrogativi del tempo che sta davanti a noi rimane, a mio parere, quella forma di teologia radicalmente cristologica e cristocentrica, e proprio perciò altrettanto radicalmente teologica e antropologica, che è implicitamente proposta nella Gaudium et spes 22» (C. RUINI, Rieducarsi al cristianesimo, cit., p. 24). Sul cristocentrismo cfr G. MOIOLI, Cristocentrismo. L’acquisizione del tema nella riflessione teologica recente e il suo significato, in ID., La teologia italiana oggi, La Scuola - Morcelliana, Brescia 1979, pp. 129-148; G. BIFFI, Approccio al cristocentrismo, Jaca Book, Milano 1993.

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Il carattere sintetico aiuta a comprendere che la frammentazione, intesa come fenomeno culturale e come limite personale, può essere superata e ricondotta all’unità se il frammento non si chiude in se stesso considerandosi come il tutto, ma si apre alla trascendenza, all’accoglienza del tutto come Altro-da-sé che, senza annullare l’ontologica differenza qualitativa, può offrirgli quel senso e quel fondamento che non può trovare in se stesso, ma che può accogliere come dono. A ben vedere, la modernità e la postmodernità sono «accomunate da un identico atteggiamento postcristiano (…): se la modernità hegelianamente intesa si è appropriata del tutto della rivelazione cristiana, la postmodernità se ne appropria il frammento, ma entrambe lo fanno sempre a partire dalla sovranità di un soggetto mai rimessa veramente in discussione»84. Qui si potrebbe collocare il pericolo denunciato dal cardinale J. Ratzinger della «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie»85. L’originalità della posizione cristiana, invece, consiste nel considerare il tutto nel frammento86, cioè nel distinguere, e nello stesso tempo, nel mantenere costantemente uniti il tutto e il frammento. In Gesù di Nazaret, il frammento diventa il luogo della presenza del tutto e ciò influisce positivamente nella comprensione del frammento stesso. Esso non dovrà essere necessariamente pensato come l’impossibile manifestarsi della verità totale, ma proprio nella sua ineliminabile finitezza, si caratterizzerà come la porta di accesso a quel tutto che rimane Totalmente-Altro rispetto al frammento, ma che non disdegna di rendersi presente in esso. 420

4.2. La dimensione antinomica del mistero L’altro aspetto riguarda il carattere antinomico del mistero87, in virtù

84

Cfr M. IMPERATORI, “Tutto” moderno e “frammento” postmoderno? Una provocazione balthasariana, “Rassegna di Teologia”, 46, 2005, n. 5, pp. 719-733, qui pp. 732-733. 85 J. RATZINGER, Omelia del 18 aprile 2005, in occasione della Messa Pro Eligendo Romano Pontifice. 86 Cfr H. U. VON BALTHASAR, Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1990. 87 «È innegabile che in tutto l’insegnamento, come nella sensibilità del Concilio, i valori


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE del “principio calcedonese” secondo il quale Cristo è, nello stesso tempo, vero Dio e vero uomo, senza confusione e senza separazione, senza mescolanza e senza divisione. Questa dottrina del Concilio di Calcedonia propone un criterio di conoscenza generale del mistero a tutti i livelli (ontologico, antropologico, cosmologico, teologico, filosofico, storico) e costituisce «il paradigma generale della soluzione dell’universale bipolarismo antinomico». Non vi è, infatti, «niente di più dannoso di un fanatico aut…aut, quando invece ci vuole un et…et, nello spirito e quindi nei limiti della prospettiva di Calcedonia»88. Il carattere antinomico del mistero evidenzia il principio basilare del pensiero cristiano in ambito filosofico, teologico e pedagogico. Molti autori hanno fatto di questo principio un punto fondamentale della loro visione dell’uomo e del mondo. Basti pensare alla dottrina della coincidentia oppositorum di Cusano, alla professione dei due contrari di Pascal, all’unità delle virtù contrarie di Newman, all’idea dell’opposizione polare di Guardini, all’antinomia della realtà di Ricoeur, alla teoria dei doppi pensieri di Mancini89. Una particolare importanza riveste la riflessione di R. Guardini per il rilievo che, nell’analisi del sistema degli opposti, egli attribuisce alla proposta pedagogica di Förster. «Verrà il giorno – egli scrive – in cui si dovrà riconoscere ai meriti di Friederich Wilhelm Förster

antitetici sono continuamente intrecciati, caratterizzandone la globalità. Trascendenza e umanesimo, comunità e individuo, tempo ed eternità, terra e cielo: non sono che rapide enunciazioni che affiorano continuamente in una specie di associazione di contraddizioni, o meglio, di realtà che sembrano contraddittorie e non lo sono, ma che vengono presentate vitalmente armonizzate, vitalmente dinamiche, in una comunione che esprime l’opera di Dio» (A. BALLESTRERO, Perché il Concilio diventi vita, Ecumenica, Bari 1977, pp. 15-16). 88 G. VAGAGGINI, Teologia, in G. BARBAGLIO E S. DIANICH, Nuovo Dizionario di Teologia, cit., pp. 1597-1711, qui pp. 1659-1660. 89 Cfr N. CUSANO, La dotta ignoranza, Città Nuova, Roma 1998; B. PASCAL, Pensieri e altri scritti, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 199010, fr. 865, p. 448; J. H. NEWMAN, Grammatica dell’assenso, Jaca Book, Milano 2005; R. GUARDINI L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, in ID., Scritti filosofici, a cura di G. Sommavilla, vol. I, Fratelli Fabbri, Milano 1964, pp. 133-272; P. RICOEUR, L’antinomie de la réalité humaine et le problème de l’anthropologie philosophique, “Il Pensiero”, 5, 1960, 3, pp. 273-290; I. MANCINI, Teologia dei doppi pensieri, in

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d’aver espresso una simile esigenza in teorie fondamentali, non solo, ma di averle elaborate concretamente in forma pedagogica e messe in pratica»90. Alla visione pedagogica di Förster si ispira la riflessione e la pratica pedagogica di Giovanni Modugno91. Sulla scia del pedagogista tedesco, egli perviene a una teoria della formazione umana e cristiana intesa come “scienza della vita”92 e fonda l’arte educativa sul principio cristologico dell’«armonia delle antinomie» e della «sintesi degli opposti»93. «La concezione cristiana della vita – egli scrive – è sintesi armonica di antitesi le quali, prese isolatamente, rimangono funeste unilateralità»94. Per questo il vero educatore deve saper scorgere gli aspetti estremi della stessa verità e deve cercare con gradualità quella conciliazione che rende vitale la sintesi. Per una esemplificazione della visione pedagogica di G. Modugno vale la pena di riportare una lunga citazione. Così egli scrive: «Essendo il cristianesimo la riconciliazione di tutti gli esclusivismi e, in particolar modo, l’unità delle virtù contrarie, l’insegnante deve saper scorgere gli aspetti estremi della stessa verità, a ciascuno dei quali darà, secondo dei casi, maggior risalto cercando accortamen-

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Essere teologi oggi. Dieci storie, Marietti, Casale Monferrato 1986; ID., Teologia e filosofia. I doppi pensieri e la logica della fede, in “Asprenas”, 36, 1989, n. 1, pp. 5-21. 90 R. GUARDINI, L’opposizione polare, cit., p. 223. Sull’importanza di questo saggio di Guardini per comprendere l’unità tra liturgia, cristologia e filosofia cfr J. RATZINGER, Dalla liturgia alla cristologia. Il principio teologico di Romano Guardini e la sua forza asseverativa, in J. RATZINGER-PAPA BENEDETTO XVI, Perché siamo ancora nella Chiesa, Rizzoli, Milano 2008, pp. 239-264, in modo particolare pp. 253-261. 91 Cfr G. MODUGNO, F. W. Förster e la crisi dell’anima contemporanea, Laterza, Bari 2005, ristampa dell’edizione del 1931. Per una conoscenza della vita e del pensiero di Giovanni Modugno vedi G. MICUNCO, La bella battaglia. Santità e laicità in Giovanni Modugno (18801957), Stilo, Bari 2006; D. SARACINO, Giovanni Modugno. Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Stilo, Bari 2006. Sul pensiero pedagogico di G. Modugno cfr V. CAPORALE, Giovanni Modugno. Un pedagogista del Sud, Cacucci, Bari 1995; ID., Giovanni Modugno. Pedagogia scienza della vita, Cacucci, Bari 1996; ID., Pedagogia e politica in Giovanni Modugno, Cacucci, Bari 1999. In questi ultimi tre testi è riportata un’ampia bibliografia degli scritti e degli studi su Modugno. 92 Cfr V. ANGIULI, Giovanni Modugno, un’esistenza a servizio della“scienza della vita”, in A. STAGLIANÒ (a cura di), L’identità meridionale. Percorsi di riflessione teologica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, pp. 103-119. 93 M. SPINELLI MODUGNO, Giovanni Modugno. Io cerco l’eterno, Universitaria, Bari 1967, p. 193. 94 G. MODUGNO, Religione e vita, La Scuola, Brescia 1957, p. 10.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE te la conciliazione, che rende vitale la sintesi. Tra i vari aspetti della verità egli comincerà a mettere più in rilievo quelli che sono più adatti all’indole e allo sviluppo psicologico degli alunni, senza però trascurare di integrare gradualmente quegli aspetti cogli opposti, per evitare – ripeto – il pericolo di dare un’idea unilaterale della religione cristiana. Per esempio: il cristianesimo ci presenta da una parte l’aspetto dell’amore, della mitezza, della delicatezza, della compassione; dall’altra, l’aspetto della incrollabile fortezza, dell’inesorabile coerenza, dell’invitto coraggio contro ogni debolezza e contro ogni confusione, dell’eroica risolutezza di fronte al dolore, alle avversità, alla morte. Se l’educatore non tenesse presente che tali elementi debbono essere presentati con accorto chiaroscuro, secondo dei casi, cercando di fonderli armonicamente, non solo non darebbe un’idea compiuta del cristianesimo, ma non saprebbe foggiare un carattere veramente armonico, qual è il carattere cristiano; anzi potrebbe, senza saperlo, allontanare i suoi alunni da Cristo. Qualcosa di simile si può dire circa altre antinomie del cristianesimo (…). Con abile chiaroscuro e senso di opportunità bisogna del cristianesimo mettere in luce la croce e la risurrezione, la sofferenza e la beatitudine, mettendo però in risalto la consolante verità che nel cristianesimo la beatitudine vince la sofferenza, la vita vince la morte. Lo stesso possiamo osservare di un’altra antinomia, sulla quale non si richiamerà mai abbastanza l’attenzione degli educatori: mentre cioè un punto essenziale del cristianesimo è che lo scopo ultimo della vita trascende la nostra esistenza terrena, la quale è una realtà limitata e transeunte, tuttavia l’esistenza terrena, essendo un dramma, il cui scioglimento si compie nell’al di là, ha anch’essa la sua grande importanza e il suo profondo significato; e gli innumerevoli doveri, che impone, hanno la funzione di costruire la vita futura. Quindi, per giungere all’armonica sintesi, occorre convincere l’alunno dell’importanza della meta ultraterrena e, nello stesso tempo, fare in modo che il valore dell’al di là non annulli quello della vita terrena e non turbi la serenità nell’adempimento dei doveri della vita quotidiana, per rendere il cristianesimo repellente alle giovani anime, avide di vita e di azione. Se infine

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l’educatore trascurasse l’azione divina, facendo assegnamento solo sulla volontà umana, seguirebbe un metodo in contrasto col cristianesimo cattolico; ma in un errore simile cadrebbe anche se tendesse a sopprimere, nella prassi educativa, l’attività umana per non lasciar posto che all’azione divina, dimenticando che la grazia non distrugge la natura, ma la eleva e la perfeziona, e quindi la presuppone»95. Per Modugno, il Vangelo è l’infallibile antidoto per vincere tutti i particolarismi e le accentuazioni unilaterali96. Compito dell’educatore è far sì che la religione diventi vita attraverso un metodo pedagogico che, superando le secche del verbalismo e dell’astrattismo, si proponga come “attivismo cristiano”, cioè come pratica educativa che, attingendo i valori di riferimento dal Vangelo, li coniughi in modo da toccare la vita del giovane coinvolgendolo in un cammino di formazione integrale ed esaltando le sue qualità umane e la pratica delle virtù cristiane, in modo da rendere la sua persona capace di portate frutti positivi nella società e nella Chiesa97. Su questa impostazione di integrazione delle antinomie, sviluppata filosoficamente da Guardini e tradotta in termini pedagogici da Förster e da Modugno, si sviluppa la proposta psico-pedagogica di Franco Imoda la cui originalità consiste nella «capacità di saldare la lettura intrapsichica del complesso mondo interiore umano con l’indicazione fondamentale pedagogica (…) che non rimane esterna a quella lettura, come fosse una tecnica puramente applicativa magari basata su un sistema di rinforzi, ma al contrario ne è come una concretizzazione, che la rende visibile nel soggetto e alla lunga godibile dal soggetto stesso. (…) Imoda fa una lettura rigorosamente psicologica dell’uomo come mistero, come abitato da polarità apparentemente contrapposte e costituito nell’essere da realtà ambivalenti, e dunque avverte l’esigenza di proporre subito e allo stesso livello un cammino che tenga conto di questa realtà ontologica per renderla occasione di crescita e non ostacolo da cui difendersi o negatività da annullare. Non è vantaggio da poco, questo, nella dina-

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ID., Religione e morale nella scuola e nella vita del fanciullo, La Scuola, Brescia 1940, pp. 11-13. Cfr ID., La missione educativa. Corrispondenza 1903-1956, a cura di D. Saracino, Stilo, Bari 2009, pp. 206 e 208-209. 97 Cfr ID., Religione e morale nella scuola e nella vita del fanciullo, cit., pp. 13-15. 96


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE mica educativa, ove troppo spesso ancora visioni antropologiche pur corrette non trovano adeguata traduzione pedagogica, ove continuiamo a soffrire pericolose schizofrenie tra la teoria e il metodo, ovvero a formare persone incapaci di lasciarsi formare dalla vita»98.

5. Le ragioni di convenienza della pastorale mistagogica Questa impostazione pedagogica, sviluppata sulla base di un’antropologia-cristocentrica, riguarda l’intera azione pastorale della Chiesa. Gli ultimi due Convegni ecclesiali nazionali hanno sottolineato la necessità di conferire una maggiore consapevolezza educativa a tutta la pastorale99; una scelta, questa, avvalorata dal magistero di Benedetto XVI che al Convegno di Verona ha parlato dell’impegno in campo educativo come della «questione fondamentale e decisiva» dell’azione pastorale della Chiesa nel nostro tempo100. Ed è esattamente in questa linea educativa che si pone la “pastorale mistagogica”. Essa, ricollegandosi alla pedagogia dell’Ecclesia Mater101, punto di forza della mistagogia patristica102, intende pro-

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A. CENCINI, Psicologia e mistero: un rapporto inedito e fecondo, in A. MANENTI – S. GUARINELLI – H. ZOLLNER (a cura di), Persona e formazione, EDB, Bologna 2007, pp. 238-239. 99 Cfr CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Con il dono della carità dentro la storia, 19; EAD., «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo, 17. Sulla dimensione educativa della pastorale mons. Luigi Sartori scrive: «Non è sufficiente che la pedagogia sia presente con onore e con frutto nella Chiesa; deve coinvolgere la Chiesa in se stessa, nelle sue funzioni e nelle sue strutture (…). In ogni caso la pedagogia cristiana è costitutivamente una questione ecclesiale perché radicalmente è una questione cristologica e trinitaria» (L. SARTORI, Presentazione a A. FALLICO, Pedagogia pastorale. Questa conosciuta, Chiesa-Mondo, Catania 2000, pp. 5-8). 100 BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea del Convegno, in CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, Atti del 4° Convegno ecclesiale nazionale (Verona, 16-20 ottobre 2006), EDB, Bologna 2008, p. 57. 101 Cfr K. DELAHAYE, Per un rinnovamento della pastorale. La comunità, madre dei credenti negli scritti dei Padri della Chiesa primitiva, Ecumenica, Bari 1974. 102 Cfr. E. MAZZA, La mistagogia. Le catechesi liturgiche della fine del quarto secolo e il loro metodo, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 1996.

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porre un cammino di formazione permanente per risvegliare l’esperienza di Dio nell’uomo di oggi103, favorire la sintesi tra Parola, liturgia e vita e consentire un discernimento comunitario che aiuti la comunità cristiana a comprendere le sfide del momento presente e a rispondere alla luce del mistero di Cristo, creduto, celebrato e vissuto104. «Di fronte alla dilagante cultura della frammentazione e del relativismo, – scrive Natalino Valentini – è urgente ritrovare il coraggio di proporre l’unità dell’atto educativo, che nella coscienza delle persone e delle istituzioni consenta di tenere insieme, in una continuità dinamica e creativa, fede, cultura e vita. Questo presuppone la pazienza di ritessere un legame vitale con la tradizione, con quella memoria viva dalla quale scaturisce la cultura, la sapienza di vita, l’educazione delle persona. Occorre ripensare globalmente e profondamente il “senso dell’educazione”, non come richiamo moralistico e astratto, ma per rispondere a un criterio testimoniale dell’esperienza di fede, attenta ai mutamenti sociali e culturali in atto (…). L’educazione, qui intesa in senso mistagogico, implica dunque la delicata, accorta, premurosa attenzione e guida di veri maestri che siano anzitutto autentici testimoni della speranza evangelica»105. Certo, la parola “mistagogia”, benché sia un neologismo cristiano106, può dare adito a qualche difficoltà di comprensione, tanto che qualcuno ha suggerito di usare questo termine con grande cautela perché ai più può risultare ostico107 o può richiamare

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Cfr AA.VV., Risvegliare l’esperienza di Dio nell’uomo, LEV, Roma 2004. La prospettiva mistagogica è l’orientamento pastorale fondamentale della Chiesa di Bari-Bitonto, vedi F. CACUCCI, La Mistagogia. Una scelta pastorale, EDB, Bologna 2006. Per una comprensione di questo indirizzo pastorale vedi V. ANGIULI, Evangelizzazione, testimonianza e mistagogia. Il cammino pastorale postconciliare della Chiesa italiana e della Chiesa di Bari-Bitonto, “Odegitria”, 14, 2007, pp. 79-116; ID., Credere, celebrare e vivere il mistero di Cristo, Introduzione a F. CACUCCI, Colligite fragmenta. Genesi e sviluppo della scelta mistagogica, Levante, Bari 2007, pp. 15-46. 105 N. VALENTINI, Premessa. Una speranza affidabile, in P. TRIANI-N. VALENTINI (a cura di), L’arte di educare nella fede. Le sfide culturali del presente, Messaggero, Padova 2008, pp. 6-7. 106 Mistagogia «è un termine tardo, inesistente nel greco classico, praticamente cristiano» (G. MICUNCO, Mistero della fede. Strumenti per una catechesi mistagogica, Stilo, Bari 2008, p. 61). 107 «Mistagogia è un termine del gergo liturgico da non usare normalmente, se non si vuole andare incontro a un rifiuto assicurato! Ma riveste grande interesse» (P. DE CLERCK, Liturgia viva, Qiqajon, Magnano [BI] 2008, p. 115). 104

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CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE soltanto una prassi della Chiesa antica, non più attuale nel nostro tempo. Questa reale difficoltà linguistica, tuttavia, non sminuisce la convinzione che vi siano ragioni di convenienza per la ripresa di una pastorale di tipo mistagogico. La prima ragione risiede nella stessa natura della fede cristiana. Essa non è adesione a una grande idea né si esprime compiutamente in una decisione o in un comportamento etico. La fede si qualifica come avvenimento, come incontro reale e vivo con Cristo che dà all’esistenza un nuovo orizzonte di valori e un nuovo orientamento pratico108. Fare mistagogia significa precisamente questo: introdurre il credente in maniera progressiva e sempre più intima nella conoscenza e nell’esperienza del mistero di Cristo109. Il secondo motivo di convenienza si riferisce all’attuale contesto socio-religioso caratterizzato da una forte tendenza al sincretismo e dal sorgere di una “nuova” spiritualità di tipo olistico110, aperta all’esperienza mistica cosmica111. Questa sensibilità spirituale rappresenta una forte sfida al cristianesimo perché si sviluppa sul piano dell’esperienza religiosa piuttosto che sulla conoscenza dei contenuti di fede. A questa sfida occorre dare una risposta sul piano teorico-pratico. In altri termini, oggi appare urgente definire il proprium dell’esperienza mistica cristiana, riscoprendo innanzitutto un autentico comportamento liturgico attraverso un diverso modo di rapportar-

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Cfr BENEDETTO XVI, Deus caritas est, 1. «Il cammino di fede non è solo apertura dell’intelligenza a Cristo, ma è ingresso progressivo nel mistero della salvezza. Di qui la “mistagogia” dei Padri: il mistagogo è colui che prende per mano i fratelli e, per il sentiero della fede, li introduce nel mistero, cioè li porta ad incontrarsi vitalmente con Cristo. In qualche modo tutta la pastorale è “pastorale di iniziazione”. Si potrebbe dire più plasticamente: pastorale dell’incontro. Se non avviene l’incontro con Cristo, è tutto tempo ed energie perdute» (M. MAGRASSI, L’urgenza dell’ora: evangelizzare tutti, in ID., Magistero episcopale, La Scala, Noci 1988, p. 151). 110 Cfr F. LENOIR, Le metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale, Garzanti, Milano 2005. 111 Cfr C. MACCARI, La “mistica cosmica” del New Age, “Religioni e sette nel mondo”, 2, 1996, n. 2, pp. 16-36. 109

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si con la realtà. La liturgia, infatti, «non riguarda la conoscenza, ma la realtà (…). La liturgia per se stessa non è pura conoscenza, ma piuttosto piena realtà, che, accanto al conoscere, comprende anche molto d’altro: un fare, un ordinare, un essere (…). Bisogna che singolo e comunità siano educati a quel particolare modo di comportamento religioso cultuale quale appunto è richiesto dalla natura della vita liturgica»112. D’altra parte, l’idea «secondo la quale, in un certo senso, siamo anche Dei, è una questione che merita di essere approfondita. Tutto dipende certamente dalla propria definizione di realtà. A tutti i livelli dell’educazione, della formazione e della predicazione cattoliche è necessario rafforzare un sano approccio all’epistemologia e alla psicologia»113. A ben vedere, si notano sforzi tesi a comporre un’alleanza tra la teologia e la spiritualità e le attuali teorie della formazione e tra l’antropologia cristiana e le culture psicologiche moderne114, pur se non mancano elementi di critica, soprattutto quando queste si presentano non più come teorie psicologiche di carattere scientifico-sperimentale, ma danno origine a culture con vere e proprie dimensioni etico-religiose115. La categoria di mistero si pone come punto di incontro tra queste diverse scienze, perché può essere inteso secondo un’accezione specificamente teologica, ma anche in senso antropologico e cosmologico116. Considerato secondo le scienze umane, mistero indica non solo la radicale apertura dell’uomo alla trascendenza, ma la strut-

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R. GUARDINI, Formazione liturgica, Morcelliana, Brescia 2008, p. 45. PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA-PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul “New Age”, 6.1. 114 Cfr AA.VV. Teologia e psicologia. Un confronto inevitabile e arduo, numero monografico di “Teologia”, 22, 2003, pp. 235-398; F. IMODA, Antropologia interdisciplinare e formazione, EDB, Bologna 1997; ID., Aspetti del dialogo tra le scienze umane e pedagogiche e la dimensione teologica, “Seminarium”, 34, 1994, n. 1, pp. 89-108; G. CUCCI, Esperienza religiosa e psicologia, LDC, Leumann (To) 2009; A. MANENTI, Vocazione, psicologia e grazia. prospettive di integrazione, EDB, Bologna 1997; ID., Teologia e psicologia: il metodo interdisciplinare, “Rivista di Teologia Morale”, 19, 1987, n. 76/4, pp. 71-82; ibidem, 20, 1988, n. 77, 1, pp. 87-97; C. NANNI, Pedagogia e teologia: il possibile dialogo per la cultura educativa contemporanea, “Salesianum”, 66, 2004, n. 2, pp. 343-364. 115 Per questo aspetto cfr D. S. BROWNING–T. D. COOPER, Il pensiero religioso e le psicologie moderne, EDB, Bologna 2007. 116 La categoria mistero «offre alla teologia un terreno di dialogo non solo con le scienze umane, ma in certa misura anche con le scienze naturali. In pochi ambiti della sua esperienza scientifica, infatti, l’uomo percepisce il mondo come qualcosa di dato, di “donato”, 113

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CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE tura essenziale della persona umana. L’uomo non solo è aperto al mistero, ma è mistero in se stesso. Osservando il comportamento della persona, la psicologia risale alla sua piscodinamica, alla spiegazione del suo comportamento, e poiché le operazioni psichiche denotano qualcosa di essenziale presente nel fenomeno, quasi un indizio di carattere ontologico, l’indagine sul vivere e sull’agire diventa indagine sull’essere dell’uomo117. Sullo sfondo di questa concezione di persona intesa come mistero è possibile stabilire una relazione tra teologia e psicologia e proporre una pedagogia «come cammino di integrazione a partire dal Mistero e attorno ad esso»118. Il terzo fattore di convenienza riguarda l’urgenza di superare la frattura tra vangelo e cultura119 e di contribuire a risolvere la vexata quaestio del rapporto tra fede e vita, tra fede creduta e fede testimoniata attraverso uno stretto legame con la fede celebrata. L’affermazione conciliare che la liturgia, pur se non «esaurisce tutta l’azione della Chiesa (…), è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia»120 è una indicazione di metodo da cui la teologia, la pastorale e la prassi educativa non possono prescindere. qualcosa la cui razionalità e bellezza fanno appello alla sua ragione e al suo spirito, e sono dunque capaci di rimandare ultimamente all’esistenza di un “mistero” di cui l’uomo non possiede le chiavi. Va certamente precisato che la nozione di mistero è qui impiegata in modo analogico, perché Dio, l’uomo e il mondo non sono mistero nello stesso senso; eppure abbiamo a che fare con livelli di realtà fra loro connessi, le cui modalità di comprensione sono gerarchicamente ordinate e si aprono verso livelli progressivamente superiori» (G. TANZELLA-NITTI, Teologia e scienza. Le ragioni di un dialogo, Paoline, Milano 2003, p. 10). Dello stesso autore vedi la voce Mistero in G. TANZELLA-NITTI-A. STRUMIA, Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbaniana University Press, vol. I, Città Nuova, Roma 2002, pp. 978-990. 117 Cfr A. MANENTI, Il pensare psicologico. Pretese e prospettive, EDB, Bologna 1996; A. CENCINI, Psicologia e Teologia: le polarità del mistero, in T. CANTELMI, S. PALUZZI, E. LUPARIA (a cura di), Gli dei morti son diventati malattie, Atti del I Convegno nazionale di AIPPC, SODEC, Roma 2002. 118 A. CENCINI, Psicologia e mistero: un rapporto inedito e fecondo, in A. MANENTI–S. GUARINELLI–H. ZOLLNER, Persona e formazione, cit., p. 236. Punto di riferimento di questa prospettiva psicopedagogica è quella indicata nella già citata opera di F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero. 119 «La rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 20). 120 Sacrosanctum Concilium, 9-10.

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«Fede, culto ed ethos – scrive Benedetto XVI – si compenetrano a vicenda come un’unica realtà che si configura nell’incontro con l’agape di Dio»121. In questa triade, la lex orandi si pone come ponte e anello di congiunzione tra la lex credendi e la lex vivendi, tra verità e storia, tra pensiero e azione e si presenta come luogo generatore di vita e di cultura122. La liturgia, infatti, «nasconde una concezione dell’uomo che potrebbe rivelarsi particolarmente utile al giorno d’oggi; essa offre, inoltre, un’interpretazione della storia e dei suoi problemi, della vita morale e delle sue possibilità che, a quanto pare, dovrebbe essere particolarmente sottolineata ai nostri giorni»123. Per questo è significativo che nel nostro tempo molti scoprono nuovamente la spiritualità liturgica come una dimensione confacente alle loro più profonde aspirazioni124. In definitiva, le ragioni di convenienza fin qui richiamate giustificano la ripresa dell’orientamento mistagogico, un indirizzo pasto-

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121 BENEDETTO XVI, Deus caritas est, 14. «L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyría), celebrazione dei sacramenti (leitourghía), servizio della carità (diakonía). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (ibidem, 25). «La forza che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è consistita nella sua sintesi tra ragione, fede e vita: è precisamente questa sintesi che è raccolta nell’espressione religio vera» (ID., Fede Verità Tolleranza, cit., p. 184). 122 «Il Sinodo dei Vescovi ha riflettuto molto sulla relazione intrinseca tra fede eucaristica e celebrazione, mettendo in evidenza il nesso tra lex orandi e lex credendi, e sottolineando il primato dell’azione liturgica» (BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, 34). «È dalla leitourghia celebrata e vissuta come fonte di tutto l’essere ecclesiale che è originata innanzitutto la koinonía, quella comunione con Cristo-capo in un solo corpo di membra diverse, che è la Chiesa, la quale attraverso la martyría, testimonianza, e la diakonía, servizio al mondo, cammina pellegrina nella storia verso il Regno. L’ordo della vita cristiana va rispettato: dalla leitourghía la koinonía, dalla koinonía la martyría e la diakonía!» (E. BIANCHI, «Celebrare per rendere ragione della speranza che è in noi», in CENTRO DI AZIONE LITURGICA [a cura di], Liturgia epifania del mistero, CLV- Edizioni Liturgiche, Roma 2003, p. 120). 123 I. ZIZIOULAS, La vision eucharistique du monde et l’homme contemporain, “Contacts”, 19, 1967, pp. 83-92, qui p. 84. 124 «Aspirazioni all’essenzialità, che è nello stesso tempo considerazione dei singoli valori nella loro oggettività unitaria e gerarchicamente relativa e un certo andare diretto al nucleo centrale delle cose; aspirazione alla comunitarietà e all’inquadramento dell’individuo nell’organicità dell’insieme da cui dipende e che a sua volta vivifica; aspirazione al contatto immediato con le sorgenti prime della vita cristiana, in specie con la vita ecclesiale in atto e con il mondo della Bibbia con il colore e le sfumature proprie che ha nella Bibbia stessa; aspirazione all’unità tra vita spirituale, biblica, teologica, apostolato» (C. VAGAGGINI, Il senso teologico della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo [Mi] 19996, p. 694).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE rale teso a favorire un’esperienza personale del mistero di Cristo operando una sintesi tra le dimensioni fondamentali della vita cristiana. Sono queste le ragioni per le quali il Concilio Vaticano II ha ripreso questa metodologia dell’esperienza di fede125; una prospettiva pastorale che sta riscuotendo un interesse sempre maggiore nel postconcilio126.

6. L’educazione cristiana come accompagnamento mistagogico Stabilite le ragioni di convenienza della pastorale mistagogica, occorre mostrare la sua valenza educativa. Per questo è opportuno riferirsi alla definizione di educazione proposta dal documento conciliare Gravissimum educationis. Essa così recita: «Tutti i cristiani, in quanto rigenerati da acqua e Spirito Santo sono diventati nuova creatura e quindi sono di nome e di fatto figli di Dio, hanno diritto all’educazione cristiana. Essa non comporta solo quella maturità propria dell’umana persona (…), tende soprattutto a far sì che i battezzati, iniziati gradualmente alla conoscenza del mistero della salvezza, prendano sempre maggiore coscienza del dono della fede, che hanno ricevuto; imparino ad adorare Dio Padre in spirito e verità (cfr Gv 4,23) specialmente attraverso l’azione liturgica; si preparino a vivere la propria vita secondo l’uomo nuovo nella giustizia e

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«La riforma liturgica introdotta dal Concilio Vaticano II è stata una “ripresa” della tradizione, che si riallaccia alla mistagogia patristica come iniziazione globale al mistero di Cristo» (E. CATTANEO, La traditio liturgica nella Chiesa: uno strumento vivo, “Rivista liturgica”, 95, 2008, n. 1, pp. 19-34, qui p. 32); vedi anche E. MAZZA, Mistagogia, in M. SODI - A. M. TRIACA (a cura di), Dizionario di Omiletica, LDC – Velar, Leumann (To)-Gorle (Bg) 1998, pp. 972-976. 126 Sono molti i documenti magisteriali postconciliari che richiamano l’importanza della mistagogia. Indico quelli più recenti: GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia in Europa, 70-73; BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, 64; PONTIFICIA OPERA VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, Nuove vocazioni per una nuova Europa, 8; CONFERENZA EPISCOPALE FRANCESE, Proporre la fede nella società attuale. Lettera ai cattolici, LDC, Leumann (To) 1998, in particolare pp. 25-29: Per Clodovis Boff, il Documento di Aparecida propone un «preciso itinerario formativo che ha il suo cuore pulsante nella mistagogia, cioè nella prima iniziazione alla vita cristiana» (C. BOFF, Ritorno al fondamento, “Il Regno Documenti” 53, 2002, n. 17, p. 564).

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nella santità della verità (cfr Ef 4,22-24) e così raggiungano l’uomo perfetto, la statura della pienezza di Cristo (cfr Ef 4,13), e diano il loro apporto all’aumento del suo corpo mistico. Essi inoltre, consapevoli della loro vocazione, devono addestrarsi sia a testimoniare quella speranza che è in loro (cfr 1Pt 3,15), sia a promuovere la elevazione in senso cristiano del mondo, per cui i valori naturali, inquadrati nella considerazione completa dell’uomo redento da Cristo, giovino al bene di tutta la società»127. Questa definizione conciliare esprime in modo sintetico i tratti fondamentali dell’educazione in chiave mistagogica, perché si caratterizza come esperienza del mistero di Dio e si propone come un tentativo di risvegliare e introdurre il credente in una relazione, si potrebbe dire in un “contatto” personale, con il mistero nascosto da sempre nel Padre ed ora rivelato nel Verbo Incarnato. Il punto di partenza dell’accompagnamento mistagogico è costituito dalla nuova identità e dignità del cristiano, cioè dal suo essere “battezzato”, inserito sacramentalmente nel mistero pasquale di Cristo128. Iniziato alla vita divina dalla grazia sacramentale, il cristiano progredisce secondo diverse fasi: dalla nascita al pieno sviluppo, dal primo germe al frutto maturo, dall’esistere all’operare di Cristo. Il suo «unico contributo alla vita consiste nell’aver cura dei doni, custodire le grazie e non gettare via la corona che Dio ha intrecciata per noi a prezzo di molte fatiche e sudori. Questa è la vita in Cristo: i divini misteri la formano, ma anche l’umana cura vi ha qualche parte»129. In altri termini, la grazia genera la vita nuova, 127

Gravissimum educationis, 2. «Battezzati in Cristo e rivestiti di Cristo, siete divenuti conformi al Figlio di Dio. Infatti, avendoci predestinati all’adozione a figli, Dio ci rese conformi al corpo glorioso di Cristo. Divenuti quindi partecipi di Cristo, siete giustamente chiamati cristi e di voi Dio disse: Non toccate i miei cristi. Siete certo divenuti cristi ricevendo l’impronta dello Spirito Santo, ma tutto si è compiuto in voi a modo di immagine, poiché siete l’immagine di Cristo» (GIOVANNI DI GERUSALEMME, Catechesi mistagogiche, 3,1). «Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo capo e di quale corpo sei membro. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo» (SAN LEONE MAGNO, Discorsi 1 per il Natale, 3; PL 54,193). 129 N. CABASILAS, La vita in Cristo, Città Nuova, Roma 20024, 520 cd, pp. 98-99. 128

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CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE l’educazione favorisce l’azione della grazia in vista del raggiungimento della piena maturità in Cristo. 6.1. L’unità dell’atto educativo e la formazione integrale della persona L’espressione della Gravissimum educationis mette in evidenza due esigenze del processo mistagogico: l’unità dell’atto educativo e la formazione integrale della persona130. Maturazione umana e crescita cristiana vanno intese come «due componenti distinte, ma non separabili di un unico processo educativo; un processo di maturazione umano-cristiana, riguardante non solo la persona singola, ma anche le comunità ecclesiali, perché è solo all’interno di queste ultime e mediante la loro capacità educativo-formativa che le persone singole possono crescere e maturare umanamente e cristianamente»131. L’educazione è un processo complesso nel quale si compenetrano aspetti umani ed elementi divini, componenti personali e interventi ecclesiali, dinamismi e processi di maturazione umana non disgiunti dall’azione misteriosa, ma reale della grazia divina. Al fondo vi è la convinzione della validità, anche in campo educativo, del principio cristologico dell’unità nella distinzione tra umano e divino e dell’interazione tra il mistero di Cristo e il mistero dell’uomo. L’educazione «deve mirare alla perfezione integrale della

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«Nel contesto culturale odierno è urgente chiedersi come attivare le migliori condizioni per garantire l’unità dell’atto educativo che, nella coscienza della persona e nelle istituzioni, permetta di porre in rapporto di continuità dinamica e critica le dimensioni della fede, quelle della cultura e quelle della vita» (C. RUINI, Educare oggi. Sfide e compiti della Chiesa alla luce dell’antropologia cristiana, Prolusione al Convegno Nazionale Le sfide dell’educazione, 12-14 febbraio 2004, in Quaderni della Segreteria Generale CEI, X, 2006, 20, pp. 29-38). Punto di riferimento per una teoria pedagogica in chiave personalista è quella di R. GUARDINI, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, La Scuola, Brescia 1987; ID., Lettere sull’autoformazione, Morcelliana, Brescia 1994; ID., L’educazione, in Etica, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 881-910. Per un’introduzione alla teoria pedagogica di R. Guardini vedi A. ASCENZI, Lo spirito dell’educazione. Saggio sulla pedagogia di Romano Guardini, Vita e Pensiero, Milano 2003. 131 G. GROPPO, Educazione cristiana, in M. SODI-A. M. TRIACA (a cura di ), Dizionario di Omiletica, cit., pp. 419-425, qui p. 422.

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persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale»132. Il principio dell’integrazione delle diverse dimensioni della persona umana è uno dei capisaldi della proposta educativa cristiana. Seguendo la riflessione e gli studi di Bernard Lonergan, si può affermare che la coscienza dell’uomo è un insieme strutturato e dinamico di operazioni consce e intenzionali (sperimentare, comprendere, giudicare, scegliere, amare)133 che devono concorrere insieme al raggiungimento del pieno sviluppo della persona. La formazione integrale chiede che siano attivate l’esperienzialità, la creatività, l’affettività, l’intersoggettività, la capacità di comprensione, di giudizio, di decisione, di azione senza che nessuno di questi elementi vada a discapito degli altri, cosa che avrebbe come logica conseguenza uno sviluppo incompleto e carente della persona. «Infatti se ci si limita al far fare esperienze si ha l’esperienzialismo; se si sottolinea solo il comprendere si ha l’intellettualismo; se si danno solo giudizi invitando le persone ad assumerli come veri si ha il moralismo; se si insiste solo sulla scelta si ha il volontarismo; se si opera enfatizzando il livello dell’amore, separato dagli altri, si ha il sentimentalismo»134. Non è però sufficiente che i dinamismi e i processi coscienziali siano promossi. Occorre che l’uomo se ne appropri. È, infatti, attraverso un processo di auto-appropriazione che «il soggetto può conoscere in modo più profondo se stesso e il mondo e così risignificarsi più intensamente; è attraverso questa strada che il soggetto può passare da una formazione subita a una formazione “scelta”». L’auto-appropriazione mantiene viva la tensione formativa e – come insegna Lonergan – aiuta il soggetto a scoprire che «oltre all’uomo che egli è, c’è anche l’uomo che egli è impegnato a essere»135.

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Gaudium et spes, 59. Cfr P. TRIANI, Il dinamismo della coscienza e la formazione. Il contributo di Bernard Lonergan ad una “filosofia” della formazione, Vita e Pensiero, Milano 1998. 134 ID., Che cosa significa educare?, “Servizio della Parola”, 330, settembre 2001, p. 21. 135 B. LONERGAN, Comprendere ed essere, Città Nuova, Roma 1993, pp. 237-238. 133


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE La differenza tra ciò che si è e ciò che si è chiamati ad essere rivela la presenza di un dinamismo di autotrascendenza che, secondo Lonergan, è di carattere intellettuale, morale e affettivo e che spinge l’uomo al vero, al bene, all’amabile. Il processo di autotrascendimento non si attua automaticamente perché vi sono ostacoli da superare ed errori da evitare. Il suo esplicarsi richiede una triplice conversione: intellettuale, morale e religiosa136. La conversione «è intellettuale in quanto riguarda il nostro orientamento verso l’intelligibile e il vero. È morale in quanto riguarda il nostro orientamento verso il bene. È religiosa in quanto riguarda il nostro orientamento verso Dio»137. Ognuna di queste operazioni comporta un cambiamento dei dinamismi coscienziali. La conversione intellettuale chiede il superamento della confusione tra il “vedere” e il “capire”, tra i criteri dell’immediatezza e quelli del significato. La conversione morale esige un agire motivato non solo dal bene individuale, ma dal riferimento ai valori. La conversione religiosa consiste «nell’essere presi da ciò che tocca assolutamente. È innamorarsi in maniera ultramondana. È consegnarsi totalmente e sempre senza condizioni, restrizioni, riserve»138.

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Lo studioso tedesco W. Jaeger sostiene che il tema dell’educazione, intesa come “conversione”, sia il punto di contatto tra la filosofia greca e il pensiero cristiano. «La natura dell’educazione filosofica è veramente conversione (periagoghe) nel significato spaziale (“volgersi”, “voltarsi”) originario di questa parola. Essa è il “voltarsi” di “tutta l’anima” alla luce dell’idea del Bene, cioè all’origine del Tutto. Questo processo da un lato è diverso dall’esperienza di fede del cristiano, alla quale il concetto filosofico di conversione fu più tardi trasferito, e la differenza consiste nell’essere la conoscenza del filosofo ancorata a un essere obbiettivo. Ma d’altro canto questo processo, così come Platone lo intende, è anche del tutto esente da quell’intellettualismo, che a torto gli si rimprovera (…). La parola usata da Platone è periagoghe, ma non è espressione fissa. Si trovano anche metastrophe e i verbi peristrephestai e metastrephestai. Tutte queste espressioni tendono a dare la stessa immagine sensibile, l’immagine di chi volge la testa e drizza gli occhi al bene divino (…). Quando si ponga il problema non già del fenomeno ‘conversione’ come tale, ma dell’origine del concetto cristiano di conversione, si deve riconoscere in Platone l’autore primo di questo concetto. Il trasferimento di questo vocabolo all’esperienza religiosa cristiana ebbe luogo sul terreno del primitivo platonismo cristiano» (W. JAEGER, Paideia, La Nuova Italia, Firenze 1967, vol. II, pp. 512-514). 137 B. LONERGAN, Il pluralismo dottrinale, Paoline, Catania 1977, p. 45. 138 ID., Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975, p. 271.

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Questo triplice processo di conversione della coscienza umana rappresenta un importante punto di riferimento dell’impegno educativo della comunità cristiana e trova nell’unità tra Parola, liturgia e vita, cioè nella prassi mistagogica, il contesto più idoneo per la sua attuazione. 6.2. Le principali tappe della mistagogia La definizione di educazione proposta dalla Gravissimum educationis segnala anche le tappe del processo mistagogico. Esse si possono identificare in quattro gradi o passaggi: attrazione, iniziazione, conformazione, irradiazione.

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a) L’attrazione Il punto di partenza dell’educazione in chiave mistagogica non è di carattere antropologico, ma teologico. Come ha sottolineato il cardinale Martini, è Dio che educa il suo popolo: «Dio è in mezzo a noi. Dio ha educato ciascuno di noi e tutti noi. Dio continua a educare. Noi educatori siamo suoi alleati; l’opera educativa non è nostra, è sua. Noi impariamo da lui, lo seguiamo, gli facciamo fiducia ed egli ci guida e ci conduce»139. L’educazione prima di essere una strategia, è una forza attrattiva. È il mistero divino che attira! Su questo aspetto, che è di fondamentale importanza perché scioglie ogni pretesa “pelagiana” dell’educazione, vi è la piena concordanza tra la Scrittura, la liturgia e l’insegnamento dei santi. Gesù, nel vangelo di Giovanni afferma: «Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non lo attira» (Gv 6, 44)140. Non avviene nessun incontro con Cristo senza che il Padre, attraverso il suo

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C. M. MARTINI, Dio educa il suo popolo, in ID., Parola alla Chiesa, parola alla Città, EDB, Bologna 2002, p. 402. 140 A tal proposito Pavel Florenskij scrive: «Non sono l’intuizione e la discorsività a dare la conoscenza della verità: essa nasce nell’anima per una rivelazione libera della stessa verità triipostatica, per una graziosa visita fatta all’anima dallo Spirito santo. Alla base di questa visita sta un atto volitivo di fede, assolutamente impossibile per l’aseità umana “se non l’attira il Padre” (Gv 6,44)» (P. A. FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento, Rusconi, Milano 1974, p. 137, citato in N. VALENTINI [a cura di], Cristianesimo e bellezza tra Oriente e Occidente, Paoline, Milano 2002, p. 182).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Spirito, agisca interiormente nell’anima facendo scoprire i tesori di grazia nascosti nel Figlio. Anche la liturgia insegna a rivolgere al Signore la seguente preghiera: «Signore onnipotente e misericordioso attira verso di te i nostri cuori poiché senza di te non possiamo piacere a te»141. Ugualmente significativa è la testimonianza dei santi. Santa Teresa di Lisieux, ad esempio, in un fondamentale passo della sua Autobiografia, confessa a madre Maria di Gonzaga che il segreto della “piccola via” consiste nel lasciarsi attrarre142. Questa intima attrazione viene descritta dai mistici come una “ferita d’amore”143. Il teologo bizantino Nicola Cabasilas, rifacendosi alla dottrina platonica dell’estasi dell’anima di fronte all’amore divino, parla di un “dardo”, di una “divina mania” che invade l’anima attratta dalla bellezza della manifestazione divina144. Il rapimento interiore avviene attraverso una molteplicità di “vie” le quali, in parte, seguono un percorso oggettivo, esterno e comune a tutti e, in parte, procedono lungo un tracciato più personale e più intimo.

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MESSALE ROMANO, Colletta, Sabato I Settimana di Quaresima. «Cos’è dunque chiedere di essere attirati se non di unirsi in modo intimo a ciò che capta il cuore? Se il fuoco e il ferro avessero intelligenza, e quest’ultimo dicesse all’altro: attirami, non proverebbe che desidera identificarsi col fuoco, in modo che esso lo compenetri e lo intrida con la sua essenza bruciante, e sembri diventare tutt’uno con lui? Madre cara, ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nel fuoco del suo amore, di unirmi a lui così strettamente che in me viva e agisca lui. Sento che, quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò “Attirami”, tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo detrito di ferro inutile, se mi allontanassi dalla fornace divina), correranno anch’esse rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato, poiché un’anima infiammata di amore non sa rimanere inattiva» (S. TERESA DI GESÙ BAMBINO, Scritto autobiografico C, in Gli scritti, OCD, Roma 1998, p. 306). 143 Cfr S. GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico spirituale B, 1.19, in Opere, OCD, Roma 1985, p. 517. 144 «Coloro cui fu dato ardore da essere tratti fuori dalla propria natura e indotti a desiderare e a poter compiere opere maggiori di quelle che gli uomini possono concepire furono feriti direttamente dallo sposo, fu lui a infondere un raggio della sua bellezza nei loro occhi: la grandezza della ferita indica la freccia, l’ardore svela il feritore» (N. CABASILAS, La vita in Cristo, cit., II, 553a, pp. 142-143). Per un commento a questo testo cfr J. RATZINGER, In cammino verso Gesù, cit, pp. 27-34. 142

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I segni più evidenti di questa attrazione interiore si manifestano nell’adesione a Cristo e alla Chiesa. Innalzato sulla croce, Cristo attira a sé ogni cosa (cfr Gv 12,32). E da quel momento egli rimane il polo di attrazione per tutti coloro che cercano la via per incontrare il mistero ineffabile di Dio. Non si può rimanere insensibili di fronte allo splendore che promana dal suo volto, alla profondità della sua parola, alla sublimità del suo esempio di vita, al fascino della sua persona, alla esemplarità delle sue virtù, alla verità del suo insegnamento e della sua dottrina, alla forza e all’eccedenza del suo amore vissuto “fino alla fine”, fino al dono supremo della vita. Anche la Chiesa, nonostante il suo peccato e la sua debolezza, è posta come «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»145. E, in virtù della sua intima unione con Cristo, diventa lei stessa forza attrattiva per la bellezza della celebrazione liturgica, la santità della vita dei suoi membri, la molteplicità di forme di comunione, l’impegno di molti suoi figli in vista della promozione integrale dell’uomo. Insieme a questi due segni teologici, vi sono numerose vie antropologiche, attraverso le quali si apre l’orizzonte del mistero e Dio si rende presente nell’animo umano. Queste vie sono “forme dell’amore implicito di Dio”, e nel loro insieme possono essere considerate come una propedeutica all’incontro con l’amore personale di Dio. Esse «non scompaiono quando nell’anima sorge l’amore di Dio propriamente detto; solo diventano infinitamente più forti, e tutti insieme formano un unico amore. Ma questa forma non manifesta dell’amore viene necessariamente per prima, e spesso regna sola nell’anima per lunghissimo tempo, in molti forse sino alla morte. Questo amore non manifesto può raggiungere un grado molto elevato di purezza e di forza. Ognuna delle forme che tale amore può assumere nel momento in cui tocca l’anima, ha la virtù di un sacramento»146. b) L’iniziazione Punto di partenza del processo educativo di tipo mistagogico è dunque l’attrazione interiore. Da questo momento si spalanca un

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Lumen Gentium, 1. S. WEIL, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1984, pp. 102-103.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE cammino di avvicinamento personale al mistero che è reso possibile dalla presenza e dall’opera di un mistagogo, di un maestro-testimone il quale, sulla base dell’esperienza personale, può fare da guida nel cammino di ricerca e di incontro con il mistero di Dio147. Si tratta di un compito delicatissimo, che non deve sostituirsi all’azione divina che muove la persona dall’interno, ma deve esprimersi come uno aiuto esterno per riconoscere la voce del Maestro interiore e seguire le sue intime mozioni, secondo un itinerario confacente alla singola persona, ma comune a tutti nelle tappe fondamentali da percorrere. Forse, nessun altro, meglio di sant’Agostino, è stato capace di spiegare questo compito. La celebre immagine del Maestro interiore sottolinea che Dio si manifesta segretamente nell’anima come forza attrattiva, amore vincente e avvincente, che lascia l’uomo libero di aderire pur attirandolo dolcemente verso di sé. Le innumerevoli sfaccettature di questo tema vanno dalla profondità della visione filosofica alla riflessione più propriamente teologica, dalle applicazioni in campo pedagogico all’impegno ascetico fino alle ascensioni della mistica. Filosoficamente parlando, il Maestro interiore significa che la verità è così unita alla mente umana che questa non può ignorarla perché a insegnarla è Dio, che è più intimo di quanto lo sia l’uomo a se stesso148. Teologicamente, il tema insiste sul fatto che l’immagine di Dio è impressa «in modo indelebile nella sostanza immortale dell’anima»149 tanto che nulla, nemmeno il peccato, può cancellarla del tutto. Pedagogicamente, l’immagine del Maestro interiore indica, a chi vuol progredire nella sapienza, la necessità di percorre-

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« Mistagogo è colui che, avendo fatto l’esperienza di Dio, è in grado di comunicarla agli altri. Più che dare consigli e norme di vita, il suo aiuto consiste nel porre gli altri dinanzi a Dio che per sua natura si comunica, lasciando che egli stesso entri in comunione con chi vuole fare l’esperienza di Dio e stabilisca le modalità dell’incontro» (L. BORRIELLO, Esperienza mistica e teologia, cit., p. 189). 148 Cfr SANT’AGOSTINO, Le Confessioni, 3, 6.11. 149 ID., La Trinità, 14,4.6.

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re la via dell’interiorità, del tornare in se stesso e mettersi alla scuola di questo Maestro150, imparando direttamente da lui, più che dai maestri esterni151. Per far questo occorre un grande raccoglimento dello spirito, condizione indispensabile per salire i gradini della contemplazione del mistero di Dio. Più che una scoperta della riflessione intellettuale o un’acquisizione attraverso l’insegnamento di un maestro esterno, la verità è attinta dalla testimonianza viva del “Maestro interiore”, il quale, nell’intimo dell’anima, illumina la mente e muove la volontà ad aderire ad essa in modo libero e responsabile. È la stessa verità a mostrare la sua bellezza e ad attirare a sé l’anima umana con la forza della sua trasparenza e della sua luminosità. Prende forma così il cammino di iniziazione cristiana152. Esso, partendo dal dono sacramentale, conduce a una progressiva conoscenza nel mistero attraverso tappe, passaggi, impegni, decisioni che portano ad acquisire un nuovo orientamento di vita. Non si tratta di una conoscenza intellettualistica della verità, ma di un’esperienza che coinvolge la persona in modo permanente, stabile e duraturo. Iniziazione è una conoscenza per esperienza: si comprende ciò che si ama, si impara ad amare attraverso il contatto personale con il mistero, si esperisce il mistero lasciandosi condurre da mani esperte dentro di esso. Si tratta di un ingresso progressivo, sempre nuovo e più profondo per «comprendere la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, e così riempirsi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3, 18-19). 150

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«Non uscire fuori, torna in te stesso: è nell’uomo interiore che abita la verità. E se avrai trovato mutabile la tua natura, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando ti trascendi, che trascendi un’anima che ragiona. Dirigiti dunque laddove viene accesa la luce stessa della ragione» (ID., La vera religione, 39,72). 151 «Anche se potrai imparare da me qualcosa di utile alla salvezza, ti sarà maestro solo colui che è il maestro interiore dell’uomo interiore, il quale nella tua mente ti mostra che è vero ciò che viene insegnato» (ID., Lettere, 166, 4.9). 152 «Il termine ‘iniziazione’ è il corrispondente latino del greco ‘mistagogia’. Deriva dal verbo inire (composto da in e dal verbo ire ‘andare’) che significa ‘entrare dentro’; iniziare (qualcuno) significa, come ‘mistagogia’ appunto,‘far entrare’, ‘condurre dentro’, introdurre nei riti religiosi, nei ‘misteri’, che i latini chiamavano appunto initia, riti cioè in cui può entrare solo chi accetta di essere iniziato, di diventare un fedele di quei determinati riti (…). I sacramenti dell’iniziazione sono dunque quei sacramenti che introducono nella vita cristiana e ai quali può accedere solo chi intende diventare cristiano e accetta di fare il cammino, appunto, di iniziazione, o mistagogico» (G. MICUNCO, Mistero della fede, cit., p. 62).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE c) La conformazione Il fine dell’iniziazione cristiana è la progressiva conformazione a Cristo. San Paolo nella Lettera ai Romani scrive che Dio Padre «ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29). Educare, pertanto, non significa acquisire uno “schema”, che è segno di staticità e di passività, quanto assumere una “forma”, che è segno di dinamismo e di vitalità (cfr Rm 12,1-2). La conformazione è una trasmissione di vita che coinvolge tutte le dimensioni della persona: il pensiero, i sentimenti e l’azione. Il cristiano, infatti, è colui che ha «il pensiero» (1Cor 2,16) e «gli stessi sentimenti di Cristo» (Fil 2,5) e «deve comportarsi come lui si è comportato» (1Gv 2,6). Il Rinnovamento della catechesi sottolinea che il fine della catechesi è «educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede»153. Nella vita reale questi aspetti non sono acquisiti in modo lineare, ma si compenetrano a vicenda e si susseguono secondo uno schema di interdipendenza. In questa prospettiva, l’educazione cristiana si realizza attraverso una pastorale di accompagnamento più che di inquadramento. Questa seconda modalità si svolge nella logica del controllo perché tenta di configurare la realtà secondo uno schema e una strategia messa a punto dalla capacità di analisi e di progettazione. La pastorale di inquadramento (d’encadrement) – avverte André Fossion – «può essere attuata altrettanto bene sia dentro un orizzonte nostalgico di restaurazione del passato, sia in uno spirito progressista per una Chiesa nuova. In entrambi i casi è uno stesso immaginario d’impresa che agisce; tutto sembra dipendere dal dispiegarsi della nostra azione. In entrambi i casi si è condotti o all’attivismo secondo il quale non si è fatto mai abbastanza, o al sentimento di impotenza, al disfattismo e alla depressione quando le resistenze incon-

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il Rinnovamento della catechesi, 38.

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trate sono troppo forti. Attivismo e disfattismo sono, a questo riguardo, atteggiamenti gemelli: sono tutti e due tributari di una stessa volontà di potenza»154. Diversa, invece, è la prospettiva di una pastorale di accompagnamento (d’engendrement). Essa ha come suo proposito quello di mettersi a servizio della vita che sta nascendo accompagnando la sua maturazione con discernimento e competenza, con cura e materna sollecitudine. Accompagnare ciò che nasce e germoglia vuol dire discernere le aspirazioni, pesare le cose, prendere il tempo necessario per lo sviluppo, accogliere le domande, lanciare progetti contando su fattori che non sono tutti sotto il controllo umano, ma facendo credito e confidando su una forza esterna che scende all’alto. Una pastorale di accompagnamento – scrive ancora Fossion – «accetta la condizione di ogni nascita; per prima cosa, noi non siamo all’origine della vita e della crescita. Poi, si genera sempre qualcosa che è altro da sé. I genitori lo sperimentano; i figli non sono mai l’esatto prolungamento del loro desiderio o del loro sogno. Quel che nasce è sempre diverso da sé. Anche per la trasmissione della fede è così. Non appartiene all’ordine della riproduzione o della clonazione. È sempre dell’ordine dell’avvento. In questa pastorale si parte dal principio che l’essere umano è “capace di Dio”. Non dobbiamo produrre in lui questa capacità. Non abbiamo nemmeno il potere di comunicare la fede. Non si fabbricano nuovi cristiani come si fabbricano pagnotte o pneumatici Michelin. La fede di un nuovo credente sarà sempre una sorpresa e non il frutto dei nostri sforzi. Il risultato di un’impresa. Certo, la fede non si trasmette senza di noi. Ciononostante, non abbiamo il potere di comunicarla. Il nostro compito è di vegliare sulle condizioni che la rendono possibile, comprensibile, praticabile e desiderabile. La pastorale lavora sulle condizioni. Il resto è questione di grazia e libertà»155. d) L’irradiazione Il risultato di questa progressiva configurazione a Cristo consiste nella capacità di irradiare la luce interiore ricevuta in dono. Come il 154

A. FOSSION, Evangelizzare in modo evangelico. Piccola grammatica spirituale per una pastorale di accompagnamento (d’engendrement), “Quaderni della Segreteria della CEI”, 12, 2008, n. 34, p. 42. 155 Ibidem, p. 43.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Figlio è «irradiazione della gloria e impronta della sostanza divina» (Eb 1,3) così il battezzato è un “illuminato” chiamato a far risplendere nel mondo la luce di Cristo. La beata Elisabetta della Trinità esprime in modo incomparabile l’invocazione che ogni cristiano dovrebbe rivolgere al Signore: «Ti chiedo di “rivestirmi di te”, di identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua anima, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita non sia che un’irradiazione della tua»156. Per questo, se è vero che si evangelizza in molti modi, è altrettanto vero che, come ricordava Giovanni Paolo II, «prima ancora di essere azione, la missione è testimonianza e irradiazione»157. La missione avviene certamente per la proclamazione del Vangelo in una forma pubblica (cfr Mc 1,14-15) o privata (cfr Gv 4; Lc 24). Si esprime anche nella modalità di una convocazione (cfr Mt 22,9) o di una lievitazione cioè in un modo meno appariscente, più lento e nascosto, come «il lievito che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti» (Mt 13,33). Di certo, però, essa deve sempre caratterizzarsi come irradiazione: come la lampada sul candeliere o la città sul monte «perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16), o «come una lampada che arde e risplende», alla cui luce ci si rallegra (cfr Gv 5,35). Si evangelizza con una condotta irreprensibile tra i pagani, perché «al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel giorno del giudizio» (1 Pt 2,12). Questa irradiazione ha una forza di attrazione che agisce per contagio, come una lampada si accende da un’altra lampada e un sorriso genera un altro sorriso. Può avvenire da persona a persona, da gruppo a gruppo, da gruppo a persone singole che sono contagiate dalla fede gioiosa di una comunità. In tal modo, «anche se alcuni si rifiutano di credere alla Parola» possono «senza bisogno di parole essere conquistati considerando la vostra condotta» (1 Pt 3,1-2). 156 ELISABETTA DELLA TRINITÀ, O mio Dio, Trinità che adoro, in Opere, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, p. 777. 157 GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, 26.

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Giovanni Paolo II, nella Redemptoris missio sottolinea che, all’interno dell’unica missione della Chiesa, vi sono diverse attività secondo le circostanze in cui essa si svolge. Vi è l’attività missionaria, propriamente detta, che si rivolge ai popoli e ai contesti socio-culturali in cui Cristo non è ancora conosciuto. Esiste una situazione “intermedia”, dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede. In questi casi c’è bisogno di una nuova evangelizzazione o ri-evangelizzazione. Vi è, infine, la testimonianza del Vangelo irradiata da comunità cristiane già ferventi158. In concreto questi diversi modi di realizzare la missione non si distinguono sempre adeguatamente e spesso si integrano a vicenda, creando così un potenziale di comunicazione del Vangelo che difficilmente può essere sintetizzato in un’unica esperienza o un’unica azione. Per questo l’azione pastorale e, in particolare, la catechesi devono «sforzarsi non soltanto di nutrire e di insegnare la fede, ma di suscitarla incessantemente con l’aiuto della grazia, di aprire i cuori, di convertire, di preparare un’adesione globale a Gesù Cristo per coloro che (anche se già esteriormente membri e magari da tempo della comunità cristiana) sono ancora alle soglie della fede»159. 6.3. La duplice forma di mistagogia

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Queste tappe del cammino mistagogico indicano alcuni aspetti qualificanti l’educazione cristiana: il primato dell’iniziativa libera e gratuita della grazia divina; la scansione di un itinerario dinamico e progressivo di conversione e di maturazione della fede; la necessità di un accompagnamento che duri l’intero arco della vita perché i doni ricevuti possano fruttificare e giungere alla piena maturazione. L’educazione si qualifica, dunque, come accoglimento del mistero e disponibilità a lasciarsi interpellare da esso operando un confronto sincero con le dinamiche più profonde dell’animo umano. A seconda che si consideri il mistero in senso teologico o antropologico si sviluppa una differente azione mistagogica: una di tipo liturgicosacramentale, secondo un senso più specifico del termine codificato

158 159

Cfr ibidem, 33. ID., Catechesi tradendae, 19.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE dalla prassi patristica e messo in auge dal Concilio Vaticano II; un’altra di tipo esistenziale-vitale, intesa secondo un senso più ampio in riferimento alla stessa dinamica della vita quotidiana e al conseguente accompagnamento psicologico e spirituale che si avvale anche del contributo delle scienze umane. Queste due forme di mistagogia manifestano due esigenze: la prima sottolinea il primato e la centralità della liturgia nella vita del cristiano; la seconda richiama lo sviluppo dell’azione liturgica in una molteplicità di cammini spirituali e in una serie diversificata di percorsi e di proposte educative che tengono conto dei soggetti e dei cambiamenti di sensibilità che avvengono lungo il corso della storia160. a) La mistagogia come esperienza liturgico-sacramentale del mistero L’esperienza liturgico-sacramentale fa appello al mistero nella sua valenza storico-salvifica, manifestata compiutamente e pienamente nel mistero di Cristo ed espressa, nel tempo, attraverso l’azione liturgica e sacramentale della Chiesa161. «I misteri della vita di Cristo costituiscono i fondamenti di ciò che, ora, Cristo dispensa nei sacramenti mediante i ministri della sua Chiesa perché “ciò che era visibile nel nostro Signore è passato nei suoi misteri”»162. J. Daniélou propone una definizione articolata e sintetica di questa prospettiva quando afferma che «la fede cristiana ha un solo oggetto, il mistero di Cristo morto e risorto. Ma questo unico mistero

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Per una storia del pensiero pedagogico cristiano vedi AA.VV., Nuove questioni di storia della pedagogia, vol. I, La Scuola, Brescia 1977; H.-I. MARROU, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 1978; C. XODO, Cultura e pedagogia nel monachesimo alto medioevale, La Scuola, Brescia 1980; AA.VV., La pedagogia cristiana nel Novecento tra critica e progetto, La Scuola, Brescia 1999; AA.VV., L’educazione cristiana alle soglie del nuovo millennio, La Scuola, Brescia 2000; AA.VV., Educazione cristiana e trasformazioni religiose, La Scuola, Brescia 2003. Per un riferimento alla realtà italiana vedi G. CHIOSSO, Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia (XIX e XX secolo), La Scuola, Brescia 2001. 161 Cfr E. MAZZA, La portata teologica del termine “mistero”, “Rivista Liturgica”, 3, 1987, pp. 321-338; K. RAHNER, Sul concetto di mistero nella teologia cattolica, in ID., Saggi teologici, Paoline, Roma 1965, pp. 391-465. 162 Catechismo della Chiesa Cattolica, 1115.

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sussiste in differenti modi: è prefigurato nell’Antico Testamento, è storicamente compiuto nella vita terrena di Cristo, è contenuto in mistero nei sacramenti, è misticamente vissuto nelle anime, è socialmente compiuto nella Chiesa, è consumato escatologicamente nel regno dei cieli. Così il cristiano ha tra le mani molti registri, un simbolismo multidimensionale, per esprimere quest’unica realtà. L’intera cultura cristiana consiste nel tenere strette le connessioni che esistono tra Bibbia e liturgia, vangelo ed escatologia, misticismo e liturgia. L’applicazione di questo metodo alla Scrittura è chiamato esegesi; applicato alla liturgia è chiamato mistagogia. Si tratta di leggere nei riti il mistero di Cristo, e di contemplare al di sotto dei simboli la realtà invisibile»163. In questa prima accezione, mistagogia significa sia il «compimento di un’azione sacra e in particolare la celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione» sia la «spiegazione orale o scritta del mistero nascosto nella Scrittura e celebrato nella liturgia»164. Celebrando i divini misteri, la liturgia inizia ai misteri. In questo senso la liturgia si qualifica come azione teologale cioè come azione di Dio (opus Dei). Al tempo stesso, la mistagogia è conoscenza del mistero contenuto nelle Scritture e nella liturgia. «Come le Scritture nascondono sotto la scorza della graphé, della scrittura un senso spirituale, così la liturgia nasconde sotto la scorza dell’érgon, dell’azione, del gesto, del rito un senso spirituale. Il rito è per la liturgia ciò che la lettera è per le Scritture. Per questo la liturgia, al pari delle Scritture, richiede un’intelligenza spirituale, una penetrazione in profondità (...). Pertanto la conoscenza a cui la liturgia introduce non è meramente intellettuale, celebrale, ma è una “conoscenza integrale”, è un’esperienza che investe tutte le facoltà conoscitive dell’uomo. Nella liturgia si conosce ascoltando, si conosce dicendo, si conosce vedendo, odorando, toccando»165.

163

J. DANIÉLOU, Le symbolisme des rites baptismaux, “Dieu vivant”, 1, 1845, p. 17. R. BORNERT, Les commentaires byzantins de la Divine liturgie du VIe au XVe siècle, Archives de l’Orient chrétien 9, Paris 1966, p. 29. 165 G. BOSELLI, La mistagogia per entrare nel mistero, in CENTRO DI AZIONE LITURGICA (a cura di), Liturgia epifania del mistero, cit., p. 97. 164


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE b) La mistagogia come esperienza esistenziale-vitale del mistero A questa forma classica di mistagogia si affianca l’altra, quella che abbiamo chiamato esistenziale-vitale166. Essa è orientata a percepire la presenza di Dio nella vita quotidiana contribuendo così a una formazione integrale della persona attraverso un’interazione tra i dati antropologici e i contributi che possono venire dalle scienze umane, in primo luogo dalla psicologia167.

166

A questa forma si può ricollegare la proposta mistagogica di K. Rahner secondo il quale «colui che chiamiamo Dio è già da sempre là come offerta infinita, come amore silente, come futuro assoluto e che anzi è già da sempre accolto ovunque un uomo ha infranto con la fedeltà alla propria coscienza le mura carcerarie del proprio egoismo» (K. RAHNER, Sulla teologia del culto divino, in ID., Sollecitudine per la Chiesa, Nuovi Saggi VIII, Paoline, Roma 1982, pp. 271-283, qui 281-282). Sul pensiero rahneriano vedi P. M. ZULEHNER, Pastorale mistagogica, in ID., Ci previeni con la grazia. A colloquio con Karl Rahner per una teologia della pastorale, Città Nuova, Roma 1987, pp. 41-120. W. Kasper ritiene che la prospettiva mistagogica sia il punto di partenza dell’evangelizzazione. «La nuova evangelizzazione – egli afferma – deve partire di qui. La sua prima preoccupazione deve essere quella che Karl Rahner ha chiamato mistagogia e considerato l’idea guida della pastorale. Mistagogia significa accompagnamento a scoprire il mistero già presente in ogni esperienza di vita, per cercare Dio, che si aggiunge per così dire dall’esterno e come completamento alla nostra vita, ma è già presente in essa, pur restando sempre colui che deve venire. Si tratta quindi di introdurre a un’interiorità e alla percezione di “qualcosa” che è meraviglioso, venerando e santo, che è in definitiva incomprensibile e inesprimibile in e “dietro” tutto ciò che si può comprendere ed esprimere, che quindi è trascendente nel cuore della vita» (W. KASPER, Tornare al primo annuncio, “Il Regno-Documenti”, 54, 2009. n. 11, pp. 336-343, qui p. 340). 167 «Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti a una più pura e più matura vita di fede» (Gaudium et spes, 62). In linea con questa indicazione conciliare, va sorgendo nella Chiesa una riflessione che, appellandosi all’insegnamento dei Padri della Chiesa e dei santi, affronta il tema delle “malattie spirituali”. Per questo vedi L. J. GONZÁLEZ, Terapia spirituale. Guarigione umana e spirituale delle malattie dell’anima, LEV, Roma 2000; J.-C. LARCHET, Terapia delle malattie spirituali. Un’introduzione alla tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003. Allo stesso tempo si va sviluppando una ricerca interdisciplinare tra liturgia e psicologia. Per questo vedi A. N. TERRIN (a cura di), Liturgia e terapia. La sacramentalità a servizio dell’uomo nella sua interezza, Messaggero, Padova 1994; A. N. TERRIN (a cura di), Liturgia e incarnazione, Messaggero, Padova 1997; G. SOVERNIGO, Rito e persona. Simbolismo e celebrazione liturgica: aspetti psicologici, Messaggero, Padova 1998; ASSOCIAZIONE PROFESSORI DI LITURGIA, Liturgia e scienze umane, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2002.

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Sempre più frequentemente, il termine “mistero” viene usato in antropologia, pur se con accezioni diversificate. Vi è chi se ne serve per indicare una pluralità di realtà (mistero dell’io, dell’amore, della sessualità) facendone quasi un contenitore buono per ogni evenienza; vi è chi lo usa in riferimento all’inconscio per significare che vi è una parte della realtà profonda dell’uomo destinata a rimanere oscura e impenetrabile; vi è chi lo identifica con quella zona non ben definita della psiche umana ove la dimensione spirituale si apre al trascendente; vi è infine chi coltiva la vecchia idea che mistero sia qualcosa di inaccessibile per le nostre limitate facoltà mentali. In sostanza, mistero viene inteso in un’accezione plurale: come qualcosa di indefinito, un enigma, l’inconscio, l’apertura al trascendente. Queste differenti interpretazioni originano una pluralità di visioni antropologiche non tutte armonizzabili con la visione cristiana dell’uomo. E pur se si deve riconoscere che «molte antropologie di matrice non cristiana costituiscono un valido aiuto per la crescita nella dimensione naturale di sviluppo umano» nondimeno si deve riaffermare che «una formazione orientata da un’autotrascendenza teocentrica rimane un’antropologia appropriata alla chiamata cristiana»168. Sulla scia della riflessione di Franco Imoda si può ritenere che mistero non si riferisca solo a un aspetto dell’apparato psichico, ma in primo luogo indichi la stessa realtà intima dell’io, ciò che lo costituisce come persona, rilevabile nelle stesse operazioni psichiche. Mistero richiama l’apertura dell’io a un orizzonte trascendente-religioso che gli fornisce il senso ultimo di sé e del reale. Con questo si intende dire che l’essere umano non solo è aperto al mistero, è mistero in se stesso. In altri termini l’uomo è mistero già a livello di rilevamento psicologico poiché la sua stessa struttura personale è qualificabile come mistero. In questo senso, mistero non indica solo l’inconoscibile o la sua dimensione religiosa, ma richiama tutto ciò che definisce la persona umana. L’io come mistero è anche quello che comunemente si definisce come “l’io psicologico”, ma che non può essere ridotto

168 T. CANTELMI-P. LASELVA-S. PALUZZI, Psicologia e teologia in dialogo. Aspetti tematici per la pastorale odierna, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004, pp. 15-16.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE solo alla dimensione psicologica. Si tratta sempre dello stesso io, inteso però in modo più ampio fino a comprendere la dimensione religiosa e l’apertura al trascendente169. Si dà, pertanto, una esperienza esistenziale-vitale del mistero e, sotto questo profilo, «la pedagogia può e deve essere considerata come “mistagogia” o introduzione, educazione e formazione al mistero»170. A differenza della forma liturgico-sacramentale, questa seconda modalità di accompagnamento mistagogico consiste nel tenere insieme le polarità contrapposte del mondo psichico e spirituale, facendole interagire tra loro. Il luogo educativo è la vita stessa nel pieno dispiegarsi di tutte le sue funzioni e non solo rappresentata da situazioni particolari riferibili esclusivamente ad alcune età dello sviluppo. Il punto di forza di questa esperienza del mistero consiste nel dare senso alle polarità dell’esistenza sciogliendo le molteplici contraddizioni di cui essa è costellata o, quanto meno, ponendole in dialogo tra loro e con il centro stesso della persona. I parametri fondamentali dello sviluppo sono l’alterità, la temporalità e l’evo-

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Cfr A. CENCINI, Psicologia e mistero: un rapporto inedito e fecondo, cit., pp. 231-235. F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, cit., p. 484. In questa prospettiva, un metodo sul quale oggi si insiste è quello narrativo-autobiografico. Pio Zuppa ritiene che, se applicato «alla vita cristiana, l’approccio narrativo-autobiografico ci offre strumenti e percorsi concreti per mettere in atto quell’importante (ma tanto disattesa) funzione mistagogica che, da sempre, la Chiesa è chiamata a realizzare, sia pure con modalità e in forme diverse, per accompagnare nella fede i cristiani di tutti i tempi. In questo senso – senza escludere altre funzioni – si tratta di una metodologia orientata a consolidare e rafforzare il credere, proprio perché, in linea con le precedenti implicanze autoformative, in sostanza favorisce l’apprendere dalla vita, e in particolare dalla propria esperienza di vita» (P. ZUPPA, Comunità che [si] raccontano. Autobiografia e formazione ecclesiale: verso un “nuovo” orientamento teorico/pratico in teologia pastorale/scienze della formazione ecclesiale, in P. ZUPPA-S. RAMIREZ, [a cura di], Autobiografia e formazione ecclesiale, Atti del Seminario di Studi, Fasano, 12 marzo 2005, in collaborazione con l’Associazione Italiana Catechesi e Libera Università di Anghiari, Vivere In, Roma 2006, pp. 63-87, qui pp. 83-84). Dello stesso autore vedi anche Raccontarsi. Narrazione e autobiografia come formazione: tra andragogia e mistagogia, in AICa, Catechesi e formazione. Verso quale formazione a servizio della fede?, a cura di S. Calabrese, LDC, Leumann (To) 2004, pp. 139-148; Raccontarsi per raccontare: perché. Verso “nuovi” orizzonti per la formazione ecclesiale/1, “Catechesi”, 77, 2007-2008, n. 4, pp. 26-41; Raccontarsi per raccontare: la prospettiva autobiografica, “Catechesi, 77, 2007-2008, n. 5, pp. 56-69. 170

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lutività, fattori che possono diventare elementi di crescita attraverso precise condizioni di sviluppo.

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c) La distinzione e la complementarietà tra le due forme di mistagogia Queste due forme di mistagogia si rapportano tra loro secondo il principio dell’unità nella distinzione. Esse implicano un’esperienza del mistero diversa, ma complementare. La prima, infatti, si riferisce all’aspetto oggettivo, cristologico-ecclesiale del mistero, mentre la seconda riguarda la dimensione soggettiva, psicologico-spirituale della persona. A tal proposito Romano Guardini così scrive: «La liturgia rigorosa è quella forma del comportamento religioso nel quale l’oggettivo si manifesta nel modo più intenso. A esso si contrappone, come polo opposto, l’altra forma che viene retta da una proporzione massima d’atteggiamento soggettivo: l’immersione nel religioso personale, l’espressione della propria esperienza vissuta, peculiari attitudini, bisogni e destini. Tra le due forme vi è una serie continua di passaggi: il grande numero di esercizi religiosi e devozioni popolari formate da una lunga tradizione»171. La loro azione, pertanto, non va confusa. Bisogna distinguere la funzione e l’apporto specifico che ognuna di esse può dare in vista della crescita della persona, senza pretendere di «dare soluzioni spirituali a disturbi di natura psicologica e, viceversa, di dare soluzioni psicologiche a problemi di natura spirituale»172. Le due prospettive, tuttavia, non corrono su binari paralleli, ma interagiscono tra loro perché il mistero è uno, pur se si manifesta in modi differenti, e perché entrambe hanno come fine la crescita umana e cristiana della persona. Anche da un punto di vista metodologico, esse sono correlate l’una con l’altra perché entrambe, a livelli diversi, si propongono di realizzare l’unità della persona attraverso la corrispondenza tra ortodossia, ortoprassi e ortopatia. Ortodossia, in senso stretto, vuol dire rispetto della verità, come credenza o dogma. In senso lato, indica il corretto funzionamento del conoscere umano come funzione di oggettività e di trascendenza. Ciò può venire applicato anche ai criteri psi-

171 172

R. GUARDINI, Formazione liturgica, cit. p. 130. T. CANTELMI.- P. LASELVA - S. PALUZZI, Psicologia e teologia in dialogo, cit., p. 140.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE cologici, alle leggi di funzionamento e di sviluppo, senza il rispetto dei quali la funzione cognitiva tende a diventare un ostacolo allo sviluppo e all’attuazione delle potenzialità del soggetto. L’ortoprassi si riferisce alla corretta attuazione dei valori di riferimento come elementi regolativi delle scelte, delle decisioni e delle azioni. L’ortopatia è il corretto funzionamento dell’area affettiva. Il pathos costituisce un irrinunciabile legame tra il bios, inteso come senso vitale, il corporeo, e il logos, la componente cognitiva e razionale. Il pieno sviluppo della persona «richiede dunque – oltre a certe disposizioni “all’ortodossia”, intesa come rispetto del vero, e “all’ortoprassi”, intesa come rispetto del bene da attuare – anche disposizioni “all’ortopatia”, intesa come corretto modo di sentire, di vivere l’affetto. Ed è nel corso dello sviluppo che queste disposizioni, queste mediazioni hanno preso corpo come eventuale ostacolo o come espressione di mistero»173. In questa relazione prendo in esame solo la prima forma di mistagogia, rimandando ad altra occasione l’esame della seconda.

7. La mistagogia come esperienza liturgico-sacramentale del mistero Va innanzitutto sottolineato che nella vita cristiana il primato spetta alla liturgia perché essa è la via oggettiva che introduce nel mistero e, per mezzo degli elementi sensibili, fa accedere alla vita di Cristo risorto174. La liturgia è la porta di accesso al mistero, anzi è epifania del

173

F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, cit., p. 455. «Il valore della liturgia non risiede innanzitutto nell’intensità soggettiva del legame che crea tra i partecipanti, e neppure nel sentimento di fervore che provoca, ma in un dono per noi che precede ogni sensibilità (…). La liturgia cristiana è quel “culto ragionevole” di cui parla l’apostolo Paolo (cfr Rm 12,1) che coinvolge in modo unificato tutte le nostre facoltà stabilendo una comunione tra i fedeli, nella misura in cui ciascuno personalmente partecipa con tutto il suo essere al dono unico che gli è fatto» (M. GITTON, Iniziazione alla liturgia romana, Qiqajon, Magnano [Bi] 2008, pp. 13-14). 174

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mistero. «Ecco – scrive J. Corbon – che cos’è la liturgia: questa potenza inaudita del fiume di vita nell’umanità di Cristo risorto. In essa tutte le promesse del Padre trovano compimento (cfr At 13,32). Da allora, la comunione della santa Trinità si diffonde incessantemente nel nostro mondo e inonda il nostro tempo con la sua pienezza. Ormai l’economia della salvezza è diventata liturgia»175. 7.1. La dimensione rivelativa ed educativa della liturgia Sotto questo profilo, la liturgia può realmente considerarsi come il «luogo educativo e rivelativo» del mistero176. Essa è la pienezza della vita divina che si diffonde nel tempo e progressivamente trasforma e trasfigura la vita dell’uomo. L’intreccio tra le due dimensioni (rivelativa ed educativa) costituisce la vera ricchezza della liturgia e il contributo specifico che essa offre alla formazione cristiana. La liturgia è e-ducazione in quanto è ri-velazione. Rivelando il mistero, essa educa al mistero cioè introduce sempre più nella vita divina, modellando la vita del cristiano secondo la forma di Cristo. A sua volta, educando, la liturgia svela le molteplici dimensioni del mistero, aiuta a comprendere l’inesauribile sovrabbondanza dell’amore di Cristo e introduce nella verità della vita. Ri-velare non è solo svelare, ma è anche velare. La liturgia, infatti, illumina secondo la limitata possibilità umana di vedere il mistero. Così tutto si rimette continuamente in moto. L’intelligenza è invitata a comprendere in modo sempre nuovo e la volontà è stimolata

175

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J. CORBON, Liturgia alla sorgente, Qiqajon, Magnano (Bi) 2003, p. 52. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49. Su questo aspetto vedi F. TRUDU, L’evento liturgico come luogo di evangelizzazione. Una verifica negli orientamenti pastorali della CEI, “Teologica & Historica”, 16, 2007, pp. 157-186, in particolare pp. 159-163. A proposito del valore pedagogico della liturgia, Giovanni Modugno così scrive: «La liturgia è un meraviglioso monumento di sapienza pedagogica, mediante il quale l’insegnamento di religione è reso vivo, intuitivo e fattivo, giacché il gesto, la parola, il simbolo sono strumenti magistrali ed infallibili per fare apprendere e rivivere le principali verità della religione. Se la verità dell’insegnamento è una grammatica della grande lingua della vita, la verità della liturgia è la stessa lingua, ma parlata e vissuta; e se una lingua imparata sulla grammatica si può dimenticare, una lingua vissuta, cantata, impregnata della totalità dei sentimenti della vita, resta indelebilmente nello spirito» (G. MODUGNO, Religione e vita, cit., p. 228). 176


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE ad aderire senza la pretesa di esaurire la ricchezza del mistero. La liturgia è una fonte che disseta tutti e non si esaurisce, rimanendo sempre disponibile per chi desidera penetrare l’ineffabilità del mistero. Il primato, però, spetta alla dimensione rivelativa, all’essere sull’agire, al Logos più che all’ethos. Rivelando, la liturgia ristabilisce il primato della verità sulla libertà e, in tal modo, mantiene l’accordo con le leggi immutabili della vita. «Nella liturgia – scrive Romano Guardini – il Lógos ha la preminenza, che gli spetta, sulla volontà. Di qui la sua mirabile placidità, la sua calma profonda. Di qui s’intende com’essa sembri totalmente evolversi in contemplazione, adorazione, esaltazione della verità divina. Di qui la sua apparente indifferenza alle piccole miserie quotidiane. Di qui la sua scarsa preoccupazione di “educare” immediatamente e di insegnare la virtù. La liturgia ha in sé qualcosa che fa pensare alle stelle, al loro corso eternamente uguale, alle loro leggi inviolabili, al loro profondo silenzio, all’ampiezza infinita in cui si trovano. Sembra, però, soltanto che la liturgia si preoccupi così poco delle azioni e delle aspirazioni, e della condizione morale degli uomini. Poiché in realtà essa sa assai bene provvedervi: chi infatti vive realmente in essa, si assicura la verità, la santità, la pace nell’intimo dell’essere»177.

177 R. GUARDINI, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Morcelliana, Brescia 200510, p. 110. Così Giovanni Modugno commenta questa espressione: «La liturgia, come osservava il Guardini, non ha rapporti immediati con la vita reale di ogni giorno, con quella vita cioè che si svolge nelle officine, nei campi sportivi; ma resta nell’ambito solenne e sempre alquanto appartato dal mondo, che è proprio del Santuario. Sfugge perciò a molti che appunto per la sua profonda calma, per la sua mirabile placidità, per il suo abbandonarsi all’adorazione della gloria di Dio, per il suo richiamo al raccoglimento interiore, la liturgia rappresenta un salutare rimedio per guarire l’uomo moderno dalla febbre, che lo divora sia nell’estenuante e affannoso lavoro sia nello snervante svago, che spesso è un’altra forma di fatica e di dissipazione. Ma non basta. La liturgia, in quanto fa rivivere i principi fondamentali della religione, in quanto richiama la creatura all’adempimento dei doveri verso il Creatore e dona la santità e la pace soprannaturale, è anche la migliore preparazione alla vita quotidiana, perché infatti, quando sarà il momento dell’azione, il fedele deve saper conformare i suoi atti ai sentimenti che gli sono stati suscitati nel tempio, dalla liturgia» (G. MODUGNO, Religione e vita, cit., p. 229).

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Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di questa qualità della liturgia e del valore che essa riveste nel nostro tempo dominato dal primato della libertà sulla verità e dalla conseguente frammentazione tra sentimento e ragione. Un’immagine emblematica di questo squilibrio è possibile riscontrarla nella cultura giovanile nella quale viene esaltata «la notte come spazio del mistero, dell’avventura del possibile, contrapposta al giorno come spazio del mondo adulto. Emerge però anche una accesa sete di senso (più che una attiva ricerca della verità) e il bisogno di una religione di consolazione più che di responsabilità. Sta di fatto che la sensibilità spirituale e la disponibilità a lasciarsi educare (la docilitas) appare nettamente più alta rispetto alle generazioni precedenti»178. Considerando questo dato culturale non si può fare a meno di rilevare il suo sbilanciamento su alcuni valori a discapito di altri: la notte contrapposta al giorno, la ricerca di senso rispetto alla ricerca della verità, la voglia di essere consolati piuttosto che di essere richiamati alla responsabilità, la disponibilità ad accogliere i suggerimenti e a lasciarsi orientare nel cammino formativo senza accettare il rischio di mettersi in discussione e di assumere in proprio la fatica della crescita e dello sviluppo personale. In questa situazione, la liturgia si presenta come una vera palestra di vita perché è capace di far interagire e di integrare valori contrapposti, ristabilendo tra loro un ordine gerarchico. Essa conosce il valore della notte, ma rinvia continuamente all’azione vissuta in pieno giorno; comprende l’urgenza di offrire un senso alla vita, ma riafferma anche la necessità di non smettere di cercare la verità; non disdegna di qualificarsi per la sua dimensione consolatoria, ma rinvia il singolo e la comunità a sentirsi personalmente responsabili di quanto avviene nel mondo; apprezza la virtù della docilitas, ma chiede anche che si integri con la docilibitas, ossia con il coinvolgimento attivo nel processo educativo, con un atteggiamento di gratitudine verso la propria storia e di fiducia verso gli altri e con la libertà interiore di lasciarsi istruire da ogni frammento di verità e di bellezza che si incontra nella relazione con gli altri179. 178 F. LAMBIASI, Introduzione. Le sfide odierne dell’educazione, in P. TRIANI-N. VALENTINI (a cura di), L’arte di educare nella fede, cit., pp. 9-21, qui p. 11. 179 Su questo aspetto vedi A. CENCINI, Il respiro della vita. La grazia della formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo, (Mi) 2002, pp. 34-37.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Si tratta, ancora una volta, – afferma Mary Grey – di fare appello a «una spiritualità mistica. È stato Karl Rahner a dire che, se ci doveva essere, un cristiano sarebbe un mistico o non sarebbe stato affatto. Il significato di questo misticismo è la contemplazione dei misteri, i misteri di Dio e questo è il cuore della liturgia. Ma la liturgia è espressione di una più ampia realtà: la sacramentalità è l’esperienza di una vita tutta intera permeata dalla grazia, anche nel dolore e nella violenza. L’obiettivo della relazione mistica con Dio è la restaurazione della totalità, o dell’unione, dove c’è frammentazione e disgregazione, una situazione a volte chiamata “Notte oscura”»180. 7.2. Le principali caratteristiche della mistagogia liturgica La mistagogia propone all’uomo del nostro tempo di uscire da questa “Notte oscura”, offrendo quello di cui egli ha un disperato bisogno: ritrovare un centro. Essa celebra il mistero pasquale di Cristo come centro della vita e vertice della storia della salvezza. Accaduto “una volta per tutte”, l’avvenimento pasquale si realizza “ogni volta” nella celebrazione eucaristica181 e così la dialettica tra l’ephapax e l’hosakis, tra “una volta” e “ogni volta”, esprime la dinamica essenziale dell’azione educativa promossa della liturgia.

180

M. GREY, Dalle “fondamenta scosse” ad una diversa integrità. La spiritualità come risposta alla frammentazione, “Concilium”, 42, 2006, 2, pp. 272-283, qui p. 280. La stessa Grey spiega il senso della cultura contemporanea come “Notte oscura”: «La Notte oscura include un livello molto più profondo di alienazione e di disperazione. È una oscurità nata dalla mancanza di nutrimento nella liturgia, nella vita di preghiera e nella dottrina […]. È la sofferenza di simboli distorti e rituali senza vita […]. È ridurre i misteri del Cristo a qualcosa che non ha relazione con il vivere umano e il loro controllo da parte di una élite clericale […]; è il non avere una forma di preghiera che si colleghi con l’esperienza della propria vita; è avere la vita dello spirito soffocata e abortita […]. La totale oscurità della notte, l’esperienza di essere resi muti e inarticolati – non nel silenzio della contemplazione amorosa, bensì perché il linguaggio che serve non è ancora nato – scende con scioccante immediatezza» (M. GREY, Redeeming the Dream. Feminism, Redemption and Christian Tradition, SPCK, London 1991, pp. 75-77). 181 Cfr SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Th., III, q. 73, a 3c; Presbyterorum ordinis, 5.

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a) Cristo, vero mistagogo e pedagogo La sua principale caratteristica è legata alla presenza reale di Cristo nel mysterium eucharisticum182. Nel sacramento dell’eucaristia, il Cristo glorificato si rende contemporaneo ad ogni uomo ed esercita la funzione di mistagogo del mistero di Dio. «Porre come primo punto la comprensione della mistagogia come azione eminentemente cristologica significa anzitutto affermare che solo il mistero può svelare pienamente il mistero; il mistero si rivela da sé. E affermare questo significa riconoscere una verità essenziale dell’esperienza di fede ebraico-cristiana: l’uomo conosce il Nome di Dio perché è Dio che ha gratuitamente rivelato il suo Nome all’uomo. Sì, la rivelazione del mistero di Dio è un atto di Dio stesso»183. Viene ancora una volta ribadita l’idea che, nell’azione liturgica e soprattutto nella celebrazione eucaristica, è Cristo, con la forza del suo Spirito, a esercitare la funzione di pedagogo. Nel sacramento egli si rende presente alla comunità dei suoi discepoli, si prende personalmente cura di loro, li rincuora e li incoraggia con la sua presenza, li illumina con la sua parola, li nutre con il suo corpo e il suo sangue, li sostiene nelle prove della vita e a tutti indica la meta ultima del pellegrinaggio terreno. I cristiani sono così chiamati a camminare sulle orme che egli ha lasciato e a intessere una profonda relazione con lui, che è maestro e modello di vita.

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b) La trasformazione dell’io Seguendo questo divino pedagogo il credente realizza una progressiva e profonda trasformazione del suo essere. L’educazione cristiana non è informazione, ma trasformazione, non è un riferirsi a degli ideali e a dei valori che devono orientare la vita, ma è un incontro con una Persona che trasforma la vita. Benedetto XVI al Convegno di Verona riprendendo la formula paolina di Gal 3,28 ha sottolineato che l’incontro sacramentale con Cristo cambia «la mia identità essenziale, tramite il battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in

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Il Triduum paschale «è come raccolto, anticipato e concentrato per sempre nel dono eucaristico. In questo dono Gesù Cristo consegnava alla Chiesa l’attualizzazione perenne del mistero pasquale. Con esso istituiva una misteriosa “contemporaneità” tra il Triduum e lo scorrere di tutti i secoli» (GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia de Eucharistia, 5). 183 G. BOSELLI, La mistagogia per entrare nel mistero, cit., pp. 90-91.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza (…). “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata sul battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo»184. c) Il radicamento nella comunità L’incontro con Cristo si radica in una esperienza di comunione e di vita comunitaria. La comunità cristiana, infatti, è condizione della fede185. Questa affermazione va intesa in un duplice senso. Innanzitutto nel senso che la comunità è il luogo in cui avviene l’educazione. Come la generazione fisica necessita di un grembo materno affinché il germe di vita possa crescere così l’educazione ha bisogno di un ambiente vitale perché l’esperienza di fede possa giungere a maturazione. Vi è però un altro significato. E cioè che la stessa comunità cresce attraverso l’opera educativa nel senso che, celebrando l’eucaristia, viene essa stessa continuamente edificata dalla grazia. e, generando nuovi membri alla vita divina, progredisce nella conoscenza della fede e nell’esperienza del mistero. «Dicendo che Dio educa il suo popolo – afferma il cardinale Martini – si vuol dire che Dio è educatore di ciascuno di noi, di ogni uomo e donna che vengono in questo mondo, ma sempre nel quadro di un cammino di popolo, di una comunità di credenti; Dio educa un popolo nel suo insieme, con attenzione privilegiata per il cammino di ciascuno»186.

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BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea del Convegno, in CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo, cit., p. 51. 185 Cfr F. SANTORO, La comunità, condizione della fede, Jaca Book, Milano 1977; V. ORLANDO–M. PACUCCI, La Chiesa come comunità educante. La qualità educativa della comunità cristiana, EDB, Bologna 2008. 186 C.M. MARTINI, Dio educa il suo popolo, cit., p. 413.

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Non basta, tuttavia, la sinassi liturgica per costruire la comunità, occorre anche programmare incontri comunitari che consentano una comunione effettiva e affettiva. Contro ogni forma di individualismo e di inserimento parziale nella vita della Chiesa, occorre sottolineare che la comunità è luogo di appartenenza, contesto relazionale a cui ci si affeziona, ambiente di vita nel quale si esprime la propria responsabilità personale. La celebrazione eucaristica è punto di arrivo e punto di partenza di un itinerario di fede che può crescere attraverso le relazioni interpersonali. Per questo occorre incontrarsi, conoscersi, stimarsi, incoraggiarsi, programmare l’azione pastorale, verificare insieme il cammino compiuto. «In un contesto sociale frammentato e disperso, la comunità cristiana avverte come proprio compito anche quello di contribuire a generare stili di incontro e di comunicazione. Lo fa anzitutto al proprio interno, attraverso relazioni interpersonali attente a ogni persona. Impegnata a non sacrificare la qualità del rapporto personale all’efficienza dei programmi, la comunità ecclesiale considera una testimonianza all’amore di Dio il promuovere relazioni mature, capaci di ascolto e di reciprocità»187. Soprattutto occorre creare occasioni di dialogo e di condivisione tra le generazioni perché tutti, giovani e adulti, siano aiutati a progredire nell’esperienza della fede. «La disponibilità degli adulti a condividere con i giovani l’apprendistato dell’esistenza (anche gli adulti hanno bisogno di imparare a essere nella società attuale) e la promozione di un “benessere educativo” nel territorio sono due prospettive che possono facilitare a giovani e adulti un modo nuovo di vivere una cittadinanza partecipe e responsabile, e dare efficacia all’impegno di costruzione della loro specifica identità»188. 458

d) L’ “ordo temporis” Il cammino di fede personale e comunitario è scandito dal ritmo del tempo liturgico. La liturgia «riscatta» (Ef 5,16) e mette ordine nel tempo stabilendo una relazione profonda tra il tempo che scorre

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, cit., p. 37. V. ORLANDO, L’universo giovanile in mondo che cambia, “Note di pastorale giovanile” , 2003, n. 3, p. 29.

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CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE (kronos) e il tempo che dura (kairos). Essa «ordina il tempo, lo organizza, lo suddivide, lo riempie di significato. La liturgia richiede il nostro tempo, anzi verrebbe quasi da dire che se lo prende tutto: in realtà essa lo restituisce a colui che ne è l’unico. La liturgia ci occupa – cioè occupa il nostro tempo – con Cristo. La liturgia è il tempo completamente ricolmato da Cristo, dalle sue “imperscrutabili ricchezze” (Ef 3,8), dal suo mistero “multiforme” (polypoíkilos, cfr Ef 3,10). Infatti noi non ci possiamo occupare di tutto il mistero di Cristo in una volta sola e ci vuole del tempo per esaminarlo in tutti i suoi aspetti: è appunto questo l’intento pedagogico del ciclo liturgico che dispiega in successione davanti a noi le diverse tappe dell’economia della salvezza. Ricolmato del mistero di Cristo (…) il tempo assume per noi un orientamento: è portatore del Mistero e ci porta verso di esso»189. Il tempo, nella configurazione che assume nell’anno liturgico, è “dono e mistero”; un dono con una sua intrinseca valenza formativa perché mettendo la persona in relazione con il mistero sostiene la crescita personale in sintonia con l’età spirituale e non solo con quella anagrafica. In ogni età della vita, i frammenti di tempo possono essere abitati dal mistero pasquale di Cristo e modellati secondo la sua inesauribile ricchezza e, senza perdere la loro dimensione di caducità e di precarietà, sono proiettati nell’orizzonte dell’eternità. Trasfigurato secondo i ritmi e i tempi liturgici, il tempo diventa il luogo per vivere una esperienza di eternità: non fuori o al di là del tempo, non in opposizione o nonostante il tempo, ma precisamente mentre si è immersi nel tempo. In questa prospettiva, si comprende il valore educativo dei tempi fissi. La liturgia dà senso al tempo perché lo ritualizza e lo santifica, rendendolo pieno della presenza di Dio. E così la sequenza temporale non è più scandita dallo scorrere anonimo dei giorni, l’uno che rotola sull’altro, ma è riempita di sacro, della bellezza del volto di Cristo «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45,3), che con la sua

189

F. CASSINGENA-TRÉVEDY, La bellezza della liturgia, Qiqajon, Magnano (Bi) 2003, pp. 77-78.

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presenza affranca la successione dei giorni dalla loro insignificanza e stabilisce tempi fissi per l’incontro tra il fragile mistero dell’uomo e il mistero assoluto del Dio vivente190.

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e) La ripetizione La liturgia è il tempo della festa tra l’uomo e Dio; una festa regolata dalla legge della ripetizione o della ripresa191. Infatti «non c’è una festa celebrata una volta per tutte. Appartiene alla natura della festa il ripetersi nel tempo a intervalli regolari. Ma la tonalità della festa è ogni volta differente: i testi letti, i gesti posti sono carichi di un senso permanente (il ne varietur) e, nel contempo, variabile dovuto alle circostanze storiche»192. La festa liturgica attraverso la ripetizione del rito e la ripresentazione sacramentale del mistero consente all’uomo di attingere, di volta in volta, all’inesauribile e sovrabbondante ricchezza del mistero. La necessità della ripetizione è connessa non solo alla sproporzione che esiste tra l’infinita maestà e santità di Dio e la piccolezza dell’uomo, ma anche alla struttura psicologica dell’animo umano. L’uomo apprende per gradi, perché la sua capacità di comprendere avviene in parte per via intuitiva e in parte per via discorsiva. Per questo egli ha bisogno di tempo per assimilare quanto è entrato a far parte della sua esperienza. Il ricordo, la memoria e la ripetizione di quanto già vissuto sono indispensabili per una comprensione più piena degli eventi e delle persone incontrate. Le esperienze profondamente umane chiedono che non si dileguino nell’attimo, ma siano riprese attraverso la loro ripresentazione nel tempo e nello spazio. Questo criterio vale ancora di più quando si tratta del rapporto tra uomo e Dio. Se non basta ascoltare una sinfonia una sola volta, ma si ha bisogno di riascoltarla più volte per comprendere e scoprire la sua bellezza, quanto più si ha bisogno di ritornare a frequentare il mistero assoluto di Dio per poter esperire qualcosa della sua infinita grandezza. 190

Cfr M. SALVATI, La teologia del tempo e il valore dei giorni fissi, in Quaderni della Segreteria della CEI, AA. VV., Il giorno del risorto. Vita per le Chiese e pace per il mondo, 9, 2005, n. 2, pp. 25-36. 191 «La ripresa è la realtà della vita, è la serietà della vita» anche se «soltanto nell’eternità possiamo attenderci la sola vera ripresa» (S. KIERKEGAARD, Timore e tremore, Comunità, Milano 19734, pp. 159 e 251). 192 P. MIQUEL, La liturgia un’opera d’arte. L’“opera di Dio” celebrata dal suo popolo, Qiqajon, Magnano (Bi) 2008, pp. 130-131.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Per questo la liturgia fa uso di un linguaggio simbolico, attraverso il quale stabilisce «una congiunzione del mistero (sovra-razionale) e del simbolo (infra-razionale), due potenze dell’essere umano così difficili da regolare»193. Il simbolo rinvia sempre al mistero e crea una relazione con ciò che non è direttamente accessibile, collegando la parte visibile con quella che rimane nascosta. Il simbolo “evoca” il mistero, rende possibile accostarsi ad esso senza togliere il suo aspetto misterioso, “convoca” il soggetto nel luogo in cui il mistero appare e lo pone davanti alla sua manifestazione194. La distanza che esiste tra il segno e il contenuto simbolico determina lo spazio per la ripetizione dei gesti e delle parole. La ripetizione, pertanto, non è una semplice ripetitività delle cose o un ritorno sul medesimo, ma rappresenta la possibilità di approdare alla ricchezza totale nascosta nel simbolo. Non si tratta di una semplice variazione sul tema, ma di un accedere in modo sempre più profondo nella conoscenza del contenuto simbolico. Non è una “tattica”, ma un’esigenza dell’animo umano, un autentico bisogno del cuore dell’uomo. La ripetizione liturgica è «il luogo della intensificazione. Attraverso un identico segno cresce l’intesa e il simbolo si offre sempre più nella sua sconfinata valenza. E nasce la vera novità e, quindi, il vero stupore che sono quelli interiori: l’abisso chiama l’abisso. La ridondanza del simbolo genera la ridondanza della ripetizione. Siamo

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M.-D. CHENU, Anthropologie et liturgie, “La Maison Dieu”, 12, 1947, p. 54. «Il simbolo non ci si presenta più allora come un che di appiccicato alle cose, e neppure come qualcosa di sognato, per loro tramite, in chissà quale mundus imaginalis. Il Cristo riconcilia Platone ed Aristotele, gli orientali e gli occidentali. Il simbolo è la cosa stessa nella sua densità trasparente. Nella storia, esso prima annuncia e poi esprime l’unione in Cristo delle due nature, senza separazione e senza confusione, là dove la luce della natura divina compenetra la natura creata, come è stato sottolineato dalla cristologia alessandrina e dal V Concilio ecumenico. Irraggiamento energetico che trasfigura l’umano e il cosmico e, per ciò stesso, ne garantisce la verità: l’uomo e il mondo, infatti, non sono veramente se stessi, non trovano la loro bellezza autentica se non attraverso questa partecipazione cristica alla bellezza di Dio. Il simbolo cristiano indica quindi lo scambio delle vite, la pericoresi deificante che si realizza in Cristo, il soffio dello Spirito nel cuore della divino-umanità» (O. CLÉMENT, I Visionari. Saggio sul superamento del nichilismo, Jaca Book, Milano 1987, pp. 215-216). 194

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nel regno della “esuberanza” del simbolo e della sua esperienza. Possiamo dire che anche il simbolo è come il lievito che fermenta tutta l’esistenza dell’uomo e la sua realtà personale»195.

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f) La responsorialità Attratto e interpellato dal mistero di Dio, l’uomo è chiamato a corrispondervi. E poiché il Dio della rivelazione cristiana non è “muto”, ma è Verbo, Logos, Parola, Amore che si dona, necessariamente l’uomo è posto di fronte alla responsabilità di ascoltare l’incessante richiamo che viene dall’Eterno, rispondendo in modo adeguato alla Voce che lo interpella. Certo, la risposta è implicita nella chiamata divina perché solo il mistero rende l’uomo capace di ricevere il mistero. Tuttavia spetta all’uomo l’onere di non lasciare cadere nel vuoto i continui appelli che vengono dall’esterno e dall’interno della sua coscienza e la responsabilità a non disperdere, ma a far fruttificare, per quanto dipende da lui, i doni ricevuti. La liturgia immette il cristiano nella dialettica tra traditio e redditio, tra il dono ricevuto e la responsabilità di accoglierlo e di trasmetterlo ad altri. In tal modo, essa non solo esprime la natura della rivelazione e della celebrazione, ma svela anche la struttura responsoriale dell’uomo. «Responsorialità è tensione all’altro, attenzione all’altro, capacità di corrispondere all’altro: l’esperienza è appunto apertura al riconoscimento dell’alterità. Senza riferimento ad altro (se personale o storico o naturale o assoluto, qui non interessa direttamente) non si dà alcun experire»196. Attraverso la mediazione dell’altro, l’uomo è inserito in una storia, in una tradizione dalla quale riceve in dono la vita, la fede e ogni altro elargizione naturale e soprannaturale. A questa tradizione egli deve mantenersi fedele, accogliendola come dono immeritato, impegnandosi a riconsegnare ogni cosa nella stessa forma con la quale l’ha ricevuta, abbellita dalla sua abilità creativa. La responsorialità, cioè il nesso tra traditio e redditio, tra dono e responsabilità, tra accoglienza e trasmissione, consente al cristiano di rimanere fedele al dato rivelato non come un “atto statico”, ma in

195 196

G. MAZZANTI, I sacramenti simbolo e teologia 1. Introduzione generale, EDB, Bologna 1997, p. 89. D. SCARAMUZZI, Etica e teologia, cit., p. 69.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE un continuo dinamismo tra tradizione e attualizzazione del dono ricevuto. Soprattutto, nel nostro contesto culturale, consente di individuare un criterio oggettivo di riferimento etico che sia capace di porre in atto un serrato confronto con alcune posizioni radicali di negazione dell’etica, sia in riferimento alle varie versioni deterministiche di stampo marxista e freudiano, sia in relazione a quelle teorizzazioni etiche secondo cui ogni azione è determinata dall’interesse del soggetto e dall’economia dell’utile e del guadagno, sia, infine, in confronto al riduzionismo esperienziale operato dall’empirismo e del relativismo etico. g) Il rendimento di grazie Il punto culminane di tutta l’azione liturgica e dell’intera vita della Chiesa è l’eucaristia, sacramento dei sacramenti e cuore della vita cristiana. Da essa tutto promana e ad essa tutto ritorna. L’eucaristia è tutto il mistero di Dio e tutto il mistero dell’uomo e della creazione. Essa trasforma la vita in un grande rendimento di grazie. Per questo l’apostolo Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi scrive: «In ogni cosa fate eucaristia» (1 Ts 5,18). Rendere grazie non indica il semplice atteggiamento di ringraziamento e di riconoscenza, ma, secondo il suo significato etimologico, implica un atteggiamento confessante. Il verbo latino gratias agere richiama il corrispettivo greco eucharisteîn. Questo termine, a sua volta, traduce il verbo ebraico jadah che significa “confessare la fedeltà di Dio” e, insieme, “confessare le infedeltà dell’uomo”: due confessioni distinte, ma che si implicano vicendevolmente. La duplice valenza del verbo confessare svela la profondità teologica della preghiera liturgica. Essa è riconoscimento della grandezza dell’opera che Dio ha compiuto e continua a compiere nella storia. La creazione, la redenzione e la santificazione del mondo e dell’uomo sono le grandi meraviglie di Dio (magnalia Dei). Di fronte ad esse, l’uomo non può far altro che riconoscere la sua indegnità e confessare la magnificenza della divina misericordia. Confessare cioè rendere grazie non è soltanto un atto di buona educazione, ma è attestazione della necessità della grazia divina e della continua attesa di redenzione da parte dell’uomo.

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In questo senso, il rendimento di grazie, da una parte, esprime l’incapacità, anzi l’impossibilità per l’uomo di dare con le sue forze un senso alla sua vita e, dall’altra, vuol dire elevare una supplica e un’invocazione al Signore perché sia lui a dare significato all’esistenza. La vita non è una proprietà personale di cui si può disporre secondo la propria volontà e i propri desideri, ma è un dono divino, splendido e fragile nello stesso tempo, del quale occorre rendere continuamente grazie al Signore e a tutti coloro che l’hanno reso possibile con il loro amore. «L’accoglienza della vita è frutto di questi atteggiamenti: lo stupore per la presenza di esistenze diverse, dotata ciascuna di un nome e di un volto proprio, di una propria identità irripetibile e di un proprio destino, sollecita un senso di profondo rispetto, persino di venerazione. La sacralità della vita – se di ‘sacralità’ si può parlare – sta tutta qui: ogni vita è un frammento della storia del mondo che deve essere custodito; è un germoglio che va aiutato a crescere e sul quale non si deve esercitare alcuna forma di dominio»197. 7.3. Il metodo e i mezzi propri

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Il documento conciliare Gravissimum educationis non sottolinea soltanto il significato e il valore della mistagogia, ma richiama anche i mezzi necessari per attuarla. «Nell’assolvere il suo compito educativo – si legge nel documento – la Chiesa utilizza tutti i mezzi idonei, ma si preoccupa soprattutto di quelli che sono i mezzi suoi propri. Primo tra questi è l’istruzione catechetica che dà luce e forza alla fede, nutre la vita secondo lo spirito di Cristo, porta a partecipare in maniera consapevole e attiva al mistero liturgico, ed è stimolo all’azione apostolica»198. a) La catechesi mistagogica Il primo mezzo proprio è, dunque, la catechesi mistagogica. Essa consiste nel mantenere l’unità tra la lex orandi, la lex credendi e la lex vivendi. Questo adagio che, con tutta probabilità, si deve attribuire

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G. PIANA, Liberiamo la vita!, “Presbyteri”, 43, 2009, n. 1, p. 16. Gravissimum educationis, 4.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE a Prospero d’Aquitania, segretario del papa Leone Magno, viene sempre più spesso ripetuto, anche se talvolta anche documenti ufficiali operano un capovolgimento del rapporto tra liturgia e teologia199. All’origine esso intendeva dire che la liturgia veicola il dato della fede nella misura in cui essa è fondata sulla Scrittura ed è universalmente celebrata. Nella sua sinteticità, l’espressione contiene un triplice significato (dottrinale, spirituale, ecclesiale) che è opportuno evidenziare200. In primo luogo, esso mette in evidenza che la liturgia è regola e norma della fede, perché in essa si trova espresso «ciò che la Chiesa crede e ciò che la Chiesa spera»201. Nella preghiera rituale e, soprattutto nei sacramenti, si alimenta e si esprime il contenuto della fede e si costruisce l’atto della fede. In secondo luogo, questa formula sottolinea che la fede non è solo un atto (actus), ma anche un’attitudine persistente della libertà (habitus), un incessante rinnovamento di atti, un “atteggiamento costante” dell’esistenza. La liturgia, pertanto, segna non solo l’atto della fede, ma l’intera vita del credente e l’infinita serie di emozioni, di linguaggi e di atteggiamenti che la costellano. In terzo luogo, l’adagio sottolinea che l’intreccio tra atto di fede e atteggiamento di fede è reso possibile in un contesto vitale: la comunità cristiana. La preghiera liturgica è l’ambiente in cui il cristiano viene educato alla vita della Chiesa, perché impari a pensare la fede e a viverla cum Ecclesia e in Ecclesia. La catechesi mistagogica promuovendo l’unità tra la fede celebrata, professata e vissuta, ossia tra l’atto di fede, l’attitudine alla fede e il contesto ecclesiale, risulta essere il mezzo più appropriato per promuovere un’educa-

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Cfr PIO XII, Mediator Dei, 3, Enchiridion delle encicliche VI, EDB, Bologna 1995, pp. 478479, n. 475; CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Ordinamento generale del Messale romano, 2; GIOVANNI PAOLO II, Vicesimus quintus annus, 3,10, Enchiridion Vaticanum, XI, EDB, Bologna 1991, pp. 992-993, n. 1581. 200 Cfr F. G. BRAMBILLA, Nella lex orandi la lex credendi della Chiesa, in CENTRO DI AZIONE LITURGICA, Liturgia epifania del mistero, cit., pp. 71-88. 201 Dei Verbum, 8.

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zione che disponga i fedeli a vivere personalmente il mistero di Cristo. Il n. 64 di Sacramentum caritatis richiama sinteticamente i tre elementi principali di cui la catechesi mistagogica è composta: «a) Si tratta innanzitutto della interpretazione dei riti alla luce degli eventi salvifici, in conformità con la tradizione viva della Chiesa. In effetti, la celebrazione dell’Eucaristia, nella sua infinita ricchezza, contiene continui riferimenti alla storia della salvezza. In Cristo crocifisso e risorto ci è dato di celebrare davvero il centro ricapitolatore di tutta la realtà (cfr Ef 1,10). Fin dall’inizio la comunità cristiana ha letto gli avvenimenti della vita di Gesù, ed in particolare del mistero pasquale, in relazione a tutto il percorso veterotestamentario. b) La catechesi mistagogica si dovrà preoccupare, inoltre, di introdurre al senso dei segni contenuti nei riti. Questo compito è particolarmente urgente in un’epoca fortemente tecnicizzata come l’attuale, in cui c’è il rischio di perdere la capacità percettiva in relazione ai segni e ai simboli. Più che informare, la catechesi mistagogica dovrà risvegliare ed educare la sensibilità dei fedeli per il linguaggio dei segni e dei gesti che, uniti alla parola, costituiscono il rito. c) Infine, la catechesi mistagogica deve preoccuparsi di mostrare il significato dei riti in relazione alla vita cristiana in tutte le sue dimensioni, di lavoro e di impegno, di pensieri e di affetti, di attività e di riposo. È parte dell’itinerario mistagogico porre in evidenza il nesso dei misteri celebrati nel rito con la responsabilità missionaria dei fedeli. In tal senso, l’esito maturo della mistagogia è la consapevolezza che la propria esistenza viene progressivamente trasformata dai santi Misteri celebrati. Scopo di tutta l’educazione cristiana, del resto, è di formare il fedele, come “uomo nuovo”, ad una fede adulta, che lo renda capace di testimoniare nel proprio ambiente la speranza cristiana da cui è animato»202. c) L’omelia Il secondo mezzo proprio dell’educazione cristiana è l’omelia. Il Concilio Vaticano II, riprendendo la tradizione più genuina della Chiesa, ha sottolineato che, più di ogni altra forma di predicazione,

202

BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, 64.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE l’omelia è «annuncio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo (...) sempre presente ed operante in noi, soprattutto nelle celebrazioni liturgiche»203. Essa è «parte dell’azione liturgica»204 e seguendo lo svolgimento dell’anno liturgico, muove dai testi biblici e liturgici della Messa per introdurre i fedeli nel mistero celebrato e guidarli a tradurlo e testimoniarlo nella vita205. Forse nessun documento meglio del Rinnovamento della Catechesi riassume i compiti dell’omelia. Questa «è parte integrante dell’azione liturgica, di cui assume i movimenti e le caratteristiche. Con l’omelia, il ministro competente annuncia, spiega e loda il mistero cristiano che si celebra, perché i fedeli lo accolgano intimamente nella loro vita e a loro volta si dispongano a testimoniarlo nel mondo. L’omelia deriva i suoi temi e i suoi motivi soprattutto dalla sacra Scrittura e dai testi liturgici della Messa o del sacramento che si celebra. Nel corso dell’anno liturgico, l’omelia illustra i misteri della fede e le norme della vita cristiana, riferendoli sempre alla pasqua di Cristo; essa tiene in debito conto l’azione liturgica che si sta svolgendo e assume una accentuata tonalità cherigmatica, dottrinale, morale o apologetica, secondo le particolari esigenze dei fedeli presenti. La fede e la speranza di chi si fa ministro della parola devono trasparire nel momento dell’omelia, di modo che chi ascolta possa cogliere la perenne attualità del mistero della salvezza, voglia assumerlo come norma di vita e perseveri in una convinzione operosa»206. Le funzioni dell’omelia sono molteplici207. Esse si possono ricon-

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Sacrosanctum Concilium, 35. Ordinamento Generale del Messale Romano, 29; cfr Sacrosanctum Concilium, 7, 33, 52. 205 Cfr Ordinamento Generale del Messale Romano, 41-42. 206 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il Rinnovamento della Catechesi, 29. 207 Su questo aspetto vedi M. MAGRASSI, L’omelia prolungamento della Parola, introduzione al mistero, in ID., Vivere la Parola, La Scala, Noci 1980, pp. 135-160; M. PATERNOSTER, Come dire con parole umane la parola di Dio. Riflessioni ed indicazioni liturgico-pastorali sull’omelia, LAS, Roma 2007; C. BISCONTIN, Predicare bene, Messaggero, Padova 2008. 204

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durre a quattro fondamentali: la funzione apostolica ossia l’annuncio kerigmatico che risveglia la fede; la funzione catechetica o didascalica che consiste nel considerare l’intera storia della salvezza; la funzione profetica o parenetica che orienta le scelte di vita alla luce della Parola; la funzione sacerdotale o mistagogica che consiste nel prendere per mano e condurre all’incontro con Cristo presente nel mistero celebrato. L’omelia si fonda sulla forza dell’oralità. È noto che già Platone aveva tessuto l’elogio della parola per la sua forza persuasiva e per la sua capacità di mettere in relazione il maestro e il discepolo sulle “questioni di maggior valore” che non si possono affidare allo scritto, pena il travisamento del loro significato. Anche nella nostra società dell’immagine, la parola mantiene il suo valore magico208. Essa suscita l’ascolto e consente di tessere relazioni profonde, perché portatrice non solo di un contenuto noetico, ma di una carica affettiva ed emotiva che nessun altro mezzo di comunicazione è capace di riprodurre con la stessa intensità. La parola provoca le emozioni, risveglia i sentimenti, rianima i ricordi, dà nuovo vigore alle passioni, stimola la volontà, arricchisce la mente. A questa forza intrinseca della parola, l’omelia aggiunge la forza divina impressa nel rito. Per questo, se ben preparata e vissuta secondo le norme prescritte, essa sarà capace di stimolare l’intelligenza, scuotere la volontà, dare forza ai sentimenti, risvegliare la fede, indurre alla conversione del cuore, sollecitare un profondo rinnovamento della vita. 7.4. I principali guadagni educativi 468

Quanto fin qui è stato detto ha fatto emergere l’importanza della mistagogia. In questo ultimo paragrafo intendo ulteriormente mettere in rilievo i guadagni che derivano da questa metodologia della fede per la sua capacità di «cogliere in maniera efficace le domande profonde delle persone: soprattutto quella di unità, accentuata dalla frammentazione del contesto culturale»209.

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Cfr P. A. FLORENSKIJ, Il valore magico della Parola, Medusa, Milano 2001. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, cit., p. 36.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE a) In riferimento alla persona Un primo guadagno si riferisce all’aiuto che la mistagogia offre alla persona perché ritrovi la sua unità sempre più minacciata da troppi fenomeni disgreganti. E questo sotto diversi aspetti. Innanzitutto, nella direzione di una corretta percezione del tempo. Oggi, il tempo è esperito in una molteplicità di forme210. Spesso è vissuto come merce da consumare, attimo da godere, vuoto insignificante. La successione è appiattita sul presente, sulla funzionalità del momento, vissuto senza alcun legame con il passato e senza prospettive di un futuro. Tutto è raccolto nel qui e ora, in un semplice gioco di emozioni, secondo quella visione antropologica neoradicale che paragona la condizione esistenziale dell’uomo al rizoma, a un vegetale senza radici e senza fusto211. Nella liturgia, invece, il tempo si mostra come lo splendore di Dio, il riflesso della Gloria divina sulle creature. «È nella dimensione del tempo che l’uomo incontra Dio e diventa cosciente che ogni istante è un atto di creazione, un Inizio che schiude nuove vie per le realizzazioni ultime. Il tempo è la presenza di Dio nello spazio, ed è nel tempo che noi possiamo sentire l’unità di tutti gli esseri (…). Assistere all’eterna meraviglia della creazione del mondo, significa sentire in ciò che è dato la presenza del Donatore, significa comprendere che la sorgente del tempo è l’eternità; che il segreto dell’essere è l’eterno che è nel tempo»212. Cristo è l’eterno che si è fatto tempo e che ha proiettato il tempo nell’eternità, riscattandolo dalla sua caducità e dalla sua fragile inconsistenza. Celebrare il suo mistero significa vivere la salvezza nel e del tempo, in una sintesi armonica tra la commemorazione delle cose passate (signum rememorativum passionis), la dimostrazione delle presenti (signum demonstrativum gratiae), l’annunzio delle future (signum prognosticum gloriae). 210

Cfr R. TONELLI-J.M. GARCIA (a cura di), Giovani e tempo. Tra crisi, nostalgie e speranza, LAS, Roma 2000. 211 Cfr G. DELEUZE–F. GUATTARI, Rizoma, Pratiche, Parma-Lucca 1977. 212 A. HESCHEL, Il Sabato, Rusconi, Milano 1987, p. 148.

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Un secondo guadagno si riferisce all’integrazione tra la sensibilità, l’intelligenza e la volontà. La scissione tra queste dimensioni fondamentali della persona pone una grave questione educativa. «Nella sensibilità giovanile attuale prevale l’affettivo, il relazionale, la socialità ristretta, l’immaginario: il primato viene dato all’emozione e alla relazione. La loro cultura rispecchia un modo di essere e di vivere. Il ragionamento non è lineare, causale (…) avviene a partire da un’immagine, da una vibrazione, da un’impressione, da una sollecitazione dei sensi»213. Questa situazione culturale richiede un’attenta considerazione da parte dell’educatore perché il suo compito principale consiste nell’aiutare l’educando a integrare le dimensioni fondamentali della sua persona. «Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, – afferma Benedetto XVI – senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà»214. Il contributo che viene dalla liturgia all’integrazione delle dimensioni costitutive della persona è di notevole portata dal momento che «non c’è nulla di autenticamente umano – pensieri ed affetti, parole ed opere – che non trovi nel sacramento dell’eucaristia la forma adeguata per essere vissuto in pienezza. Qui emerge tutto il valore antropologico della novità radicale portata da Cristo con l’eucaristia: il culto a Dio nell’esistenza umana non è relegabile ad un momento particolare e privato, ma per natura sua tende a pervadere ogni aspetto della realtà dell’individuo. Il culto gradito a Dio

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V. ORLANDO, L’universo giovanile in mondo che cambia, cit., p. 23. BENEDETTO XVI, Discorso all’assemblea del Convegno, cit., p. 57.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE diviene così un nuovo modo di vivere tutte le circostanze dell’esistenza in cui ogni particolare viene esaltato, in quanto vissuto dentro il rapporto con Cristo e come offerta a Dio»215. La strategia della celebrazione sacramentale è quella di attivare tutti i sensi, interni ed esterni, di esaltare il ruolo della facoltà intellettiva che deve cimentarsi con il mistero e di risvegliare il compito della volontà e del desiderio nella ricerca del bene e nell’aspirazione alla felicità. Con i suoi riti, la sua capacità evocativa, il suo linguaggio simbolico la liturgia parla al cuore e alla mente216 e se viene vissuta con una actuosa participatio, non solo non mortifica l’uomo, ma esalta la sua dimensione corporale e spirituale, perché per mezzo degli elementi sensibili lo mette in contatto con la vita di Cristo risorto. La mistagogia è un’azione appoggiata su una pedagogia sensoriale217 dal momento che ricorre a gesti, oggetti, suoni, immagini, colori. Tutto questo costituisce un legame prezioso con il mistero divino proprio grazie alla dimensione corporea. Lungi, però, dall’essere la traduzione simbolica di una realtà che possediamo, la mistagogia, attraverso i segni liturgici, intende far cogliere qualcosa dell’imperscrutabile ricchezza del mistero di Cristo, che precede e supera ogni conoscenza. I segni liturgici non sono enigmi indecifrabili, ma parole che, illuminate dalla Parola, dischiudono la intelligenza alla

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ID., Sacramentum caritatis, 71. «La percezione della vita come “mistero da accogliere” è possibile soltanto laddove l’accostamento ad essa avviene nel segno di un modello di razionalità ‘simbolica’ nella quale la differenza è pienamente assunta – il simbolo è per definizione costituito dalla messa in comune del diverso, persino del contrario – e dove la spinta è tuttavia ad andare ‘oltre’ non nella ricerca di una sintesi logico-formale, ma di una apertura permanente al non-ancora, a ciò che non può mai essere compiutamente definito. Il simbolo non tende infatti a dimostrare, ma a mostrare; fa uso di un linguaggio allusivo, evocativo, che descrive la realtà senza pretendere di circoscriverla; un linguaggio che rinvia, in una parola, a ciò che non può mai essere perfettamente razionalizzato né dominato, perché sfugge per definizione a ogni classificazione come a ogni esercizio del potere» (G. PIANA, Liberiamo la vita!, “Presbyteri”, 43, 2009, n. 1, p. 15). 217 Cfr R. GUARDINI, La funzione della sensibilità nella conoscenza liturgica, in ID., Scritti filosofici, vol. II, Fabbri Editori, Milano 1964, pp. 137-190; G. BONACCORSO, La sensibilità umana e la celebrazione liturgica, “La Rivista del clero italiano”, 78, 1997, nn. 7-8, pp. 488-498. 216

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sovrabbondanza di senso del mistero e quasi propongono una grammatica e una sapienza della vita, che, nella nostra società contemporanea, caratterizzata dalla frenesia del movimento e del cambiamento, rischiano di essere dimenticate e di andare perdute. La liturgia evoca la bellezza del riunirsi, dello stare insieme, del dialogare con l’altro in un reciproco esercizio di ascolto; invita a scoprire la fecondità del silenzio; richiama la forza liberante dell’adorazione; propone la potenza liberatrice della comune invocazione; allarga i confini del desiderio e della speranza; fa esplodere il cuore in un canto di gioia per la percezione del Totalmente Altro. La liturgia, però, non è legata solo all’evolversi soggettivo dei sentimenti, ma è relazionata agli avvenimenti esterni: al lavoro, alle situazioni economiche e sociali, alla sofferenza, alla malattia e alla morte. Essa raccoglie ogni frammento di vita e lo mette in relazione con il mistero di Cristo. Un terzo fattore educativo promosso dall’azione mistagogica è la proposta di una vita bella, buona e beata. Il sacramento contiene in sé un’etica, uno stile, un comportamento virtuoso, «un dinamismo che ne fa principio di vita nuova in noi e forma dell’esistenza cristiana. Comunicando al Corpo e al Sangue di Gesù Cristo, infatti, veniamo resi partecipi della vita divina in modo sempre più adulto e consapevole. Vale anche qui quanto sant’Agostino, nelle sue Confessioni, dice del Logos eterno, cibo dell’anima: mettendo in rilievo il carattere paradossale di questo cibo, il santo Dottore immagina di sentirsi dire: “Sono il cibo dei grandi: cresci e mi mangerai. E non io sarò assimilato a te come cibo della tua carne, ma tu sarai assimilato a me”. Infatti non è l’alimento eucaristico che si trasforma in noi, ma siamo noi che veniamo da esso misteriosamente cambiati. Cristo ci nutre unendoci a sé; “ci attira dentro di sé”»218. Anche sotto il profilo della proposta etica e dell’esercizio delle virtù si deve constatare che, nel nostro tempo, serpeggia un senso di smarrimento e di incertezza. Tra i diversi aspetti problematici, uno mi sembra particolarmente attuale: la dicotomia tra la proclamazione di un’etica solidarista sul piano sociale e la rivendicazione di un’etica radicale sul piano personale. Siamo di fronte a un uomo

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BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, 70.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE che sul versante etico assomiglia a un “Giano bifronte”: solidale e, insieme, radicale; individualista sul piano delle scelte personali e solidarista circa i comportamenti sociali. Si richiede pertanto un cambiamento di parametri e un riferimento etico valido per la vita personale e la convivenza civile. Soprattutto occorre superare l’attuale desertificazione delle virtù attraverso la riproposizione di una «prospettiva pedagogica, che è l’unica capace di ripartire dalle esigenze fondamentali dei giovani e di indicare atteggiamenti e valori che ricadano nell’ambito delle loro concrete possibilità. È importante che i ragazzi si rendano conto che nessuno vuole imporre loro nulla. La virtù nasce da un’invocazione interiore, che pian piano evolve in disponibilità personale: ognuno è chiamato innanzitutto a costruire le qualità che avverte come più consone alla propria sensibilità e al contesto storico in cui è inserito. Dopo questo primo passo, è ovviamente necessario accettare il confronto con gli altri, non soltanto per chiarire la validità di ciò che si cerca di costruire, ma anche per arricchire il proprio patrimonio valoriale. Le vere virtù sono un po’ come le ciliegie: una tira l’altra, nella tensione alla progressiva armonizzazione delle diverse componenti della personalità. Non guasta, infine, la capacità di andare un po’ controcorrente. Alcune virtù rischiano di passare di moda perché troppo esigenti o dissonanti con i tempi; altre hanno successo semplicemente perché trovano dei testimonial nel mondo dello sport o dello spettacolo. I giovani devono imparare a diffidare di questa tentazione sociale di quotare anche la morale. La verità, la giustizia, il bene non sono esperienze da mettere all’asta»219. b) In riferimento alla comunità parrocchiale La prospettiva mistagogica rivela la sua attualità anche in riferimento alla comunità parrocchiale, sempre più soffocata da una molteplicità di iniziative che spesso fanno smarrire l’unità dell’indirizzo pastorale. La generosità dell’impegno, in non pochi casi, ha

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M. PACUCCI, Dizionario dell’educazione, EDB, Bologna 2005, pp. 442-443.

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un effetto contrario alle aspettative, perché favorisce la frammentazione tra le diverse esperienze pastorali e asseconda una certa autoreferenzialità dei soggetti che le propongono. A onor del vero, si deve anche registrare la crescita del desiderio di convergere su temi comuni per uscire dalla settorialità e avviarsi verso una pastorale sempre più “integrata”. Ed è in questa linea che si muove la pastorale mistagogica. Essa intende aiutare la comunità cristiana a superare la frammentazione pastorale attraverso una riconversione all’essenziale, una semplificazione progettuale, una programmazione più convergente su obiettivi comuni. Questo sarà possibile se la domenica e l’anno liturgico costituiranno l’asse portante del progetto pastorale220. «Come Dio, nel suo rivelarsi, incontra l’uomo nel tempo, così l’educazione alla fede lo introduce passo dopo passo alla pienezza del mistero e si fa itinerario. Il primo itinerario da valorizzare è quello comune a tutto il popolo di Dio, l’anno liturgico, scandito dalla domenica, giorno del Signore e giorno della Chiesa, della Parola, dell’eucaristia, della carità»221. L’imperativo fondamentale del cristiano è di vivere secondo la domenica222. Con questa espressione, sant’Ignazio di Antiochia intendeva mettere in luce il nesso tra l’eucaristia e la vita quotidiana. Questa deve assumere una forma eucaristica e rendere visibile, nelle scelte concrete della vita, la grazia che si è attinta dal sacramento. In altri termini significa, «vivere nella consapevolezza della liberazio-

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Sulla domenica vedi AA.VV., Domenica il signore dei giorni, Ecumenica, Bari 1980; E. BIANCHI, Vivere la domenica, Rizzoli, Milano 2005; F. CACUCCI., La domenica, Pasqua settimanale. Per un cammino mistagogico nell’anno liturgico, Ciclo/A, LEV, Città del Vaticano 2004; CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE, La domenica novità e provocazione per la cultura contemporanea, EDB, Bologna 2003; M. MAGRASSI - T. RADCLIFFE, L’anima della domenica, EDB, Bologna, 2005; S. PALESE (a cura di), Il giorno del Signore. Prospettive bibliche e patristiche, Vivere In, Roma 2005; P. TARCHI- C. MAZZA, La domenica e i giorni dell’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2005; U. NERI, Il giorno del Signore, EDB, Bologna 1994; SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE, Il tempo della festa. Dieci voci per riscoprire la domenica, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2005. Circa l’anno liturgico vedi D. BARSOTTI, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 20062; F. CACUCCI, Cristo meta del nostro cammino. L’anno liturgico come itinerario di fede, in AA.VV., Cristo ieri, oggi e sempre. L’Anno liturgico e la sua spiritualità, Ecumenica, Bari 1979, pp. 85-114; A. CENCINI, Il respiro della vita, cit., pp. 157-245. 221 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Col dono della carità dentro la storia, 14. Sul valore pedagogico dell’anno liturgico vedi il capitolo intitolato L’anno liturgico e la vita dell’educando in GIOVANNI MODUGNO, Religione e vita, cit., pp. 233-253. 222 IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Epistola ai Magnesiani, 9, 1.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE ne portata da Cristo e svolgere la propria esistenza come offerta di se stessi a Dio, perché la sua vittoria si manifesti pienamente a tutti gli uomini attraverso una condotta intimamente rinnovata (…). Un tale giorno, pertanto, si manifesta come festa primordiale, nella quale ogni fedele, nell’ambiente in cui vive, può farsi annunziatore e custode del senso del tempo. Da questo giorno, in effetti, scaturisce il senso cristiano dell’esistenza ed un nuovo modo di vivere il tempo, le relazioni, il lavoro, la vita e la morte»223. Un secondo aspetto riguarda il metodo pastorale. Di solito, ci si ispira al criterio del vedere-giudicare-agire. La prospettiva mistagogica, invece, propone un altro criterio che si può riassumere con questi verbi: celebrare - discernere – testimoniare. A ben vedere, questa metodologia riflette la descrizione dell’esperienza cristiana proposta dall’Apo-calisse. Il punto di partenza è la celebrazione del mistero di Cristo nel giorno a lui consacrato. L’eucaristica domenicale è il cuore pulsante della vita cristiana, il momento più alto dell’educazione alla fede, il contesto idoneo per apprendere i criteri di fede secondo i quali orientare le scelte concrete della vita. Lasciandosi illuminare dalla Parola proclamata nella liturgia, la comunità cristiana e i fedeli laici, in modo particolare, acquistano progressivamente la capacità di discernere e di valutare gli avvenimenti della storia alla luce del vangelo224. «Il discernimento comunitario è vitale per il singolo fedele e per l’intera comunità. (…). Compito della comunità cristiana è discernere pazientemente e attentamente come l’opera dello Spirito vivifica e costruisce la Chiesa nel mondo. Per suo tramite, la comunità cristiana potrà essere attenta a cogliere le sfide e le continue sollecitazioni, che provengono dalla storia, e a sapervi rispondere alla luce del vangelo»225.

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BENEDETTO XVI, Sacramentum caritatis, 72-73. «Riconoscere l’originale valore della vocazione laicale significa, all’interno di prassi di corresponsabilità, rendere i laici protagonisti di un discernimento attento e coraggioso, capace di valutazioni e di iniziativa nella realtà secolare, impegno non meno rilevante di quello rivolto all’azione più strettamente pastorale» (CONFERENZA EPISCOPALE PUGLIESE, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, cit., 40). 225 F. CACUCCI, La Mistagogia, cit., p. 94. 224

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Partendo dal primato della celebrazione ed esercitandosi in un continuo discernimento comunitario, il singolo cristiano e l’intera comunità si proiettano in una testimonianza di vita. Questa non consiste in una semplice narrazione dei fatti, ma diventa piuttosto linguaggio performativo che, per sua stessa natura, richiede al testimone di arrivare fino alle estreme conseguenze; fino al dono della propria vita per attestare la verità di ciò che testimonia226. Il testimone è colui che comunica quanto è stato oggetto della sua esperienza. Egli è chiamato a rendere presente davanti al mondo il mistero di Cristo con una varietà di forme attraverso le quali deve «emergere soprattutto quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza»227. c) In riferimento al compito educativo della famiglia e della scuola Un ultimo aspetto da prendere in considerazione riguarda il compito educativo della famiglia e della scuola. Non è questo il luogo per richiamare le molteplici difficoltà in cui esse si dibattono. Preme soprattutto sottolineare che, il più delle volte, l’abdicazione «alla loro missione educativa non nasce dalla mancanza di convinzione del dover educare. Nasce dallo scoraggiamento: educare è diventato impossibile. Trattasi di un sentimento di sconfitta di fronte a forze ritenute invincibili e con le quali è meglio “venire a patti” (per es. i mass media). Dobbiamo liberare completamente il nostro cuore da questo senso di impotenza: esso non ha fondamento»228. 476 226

Sul concetto di testimonianza in senso biblico e filosofico vedi I. DE LA POTTERIE, La notion de témoignage dans s. Jean, “Sacra Pagina” II, Paris 1959, pp. 192-208; D. MOLLAT, Giovanni, maestro spirituale, Borla, Roma 1980; N. COTUGNO, La testimonianza della vita del popolo di Dio, segno di rivelazione, alla luce del Concilio Vaticano II, in R. FISICHELLA (a cura di), Gesù rivelatore, Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 227-240; E. CASTELLI (a cura di), La testimonianza, Istituto Italiano di Studi Filosofici, Roma 1972, pp. 35-61. 227 BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea del Convegno, in CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo, cit., pp. 53-54. 228 C. CAFFARRA, Famiglia ed educazione, Incontro con i genitori dei cresimati di Bologna, 28 marzo 2004, in www. cafarra.it.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE L’educazione sembra oggi impossibile, perché ancora prima è stata resa impensabile. Negata la possibilità di poter trovare il significato della realtà, nel senso che non è possibile pronunciare nessun giudizio veritativo, diventa impossibile anche l’educazione. Come è già stato detto precedentemente, uno dei tratti distintivi della postmodernità è il congedo da ogni fondamento e, al limite, dall’idea stessa di persona, di umanesimo, di educazione. Non deve perciò meravigliare se la dissoluzione del giudizio veritativo sulla realtà e la conseguente difficoltà dell’esercizio della libertà generino un senso di stanchezza spirituale e di tristezza del cuore. In realtà, il desiderio di verità, di bontà, di bellezza, è presente nel cuore di ogni persona e attesta che è ragionevole e proporzionato al bene dell’uomo cercare di dare vita a una proposta educativa capace di indirizzare l’intelligenza e la libertà “verso l’oltre”. La stessa possibilità di costruire nella famiglia, nella scuola e nella società qualcosa di comune in un contesto multiculturale e pluralistico verrebbe vanificato se ciascuno rimane imprigionato nel relativismo e mette in dubbio il fondamentale legame tra verità e libertà. Spetta innanzitutto alla famiglia creare la giusta atmosfera educativa. Nonostante le sue molteplici ferite, essa rimane il primo soggetto educativo nel quale la persona umana viene costruita nelle sue fondamenta, tanto che, anche se volesse, non potrebbe mai abdicare alla sua missione educativa, poiché il suo compito è insostituibile e il suo diritto è inalienabile. La famiglia è icona del mistero e per questo è l’ambiente educativo più appropriato per la proposta valoriale e la trasmissione della fede229. Essa è il luogo della presenza del mistero già nella sua costituzione naturale. L’amore e la relazione tra l’uomo e la donna sono valori sanciti dalla volontà creatrice di Dio ed inscritti come elementi costitutivi della loro realtà personale. La grazia sacramentale sug-

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Cfr A. PANZETTA, La famiglia icona del mistero. L’illuminazione reciproca tra la realtà familiare e il mistero di Dio, Quaderni della Rivista di Scienza Religiose dell’Istituto Teologico Pugliese (Molfetta), vol. VII, Vivere In, Roma 2005.

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gella il patto coniugale, lo rende immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa conferendo ai coniugi il carisma dell’educazione, ossia una speciale capacità di essere la prima scuola di vita, di preghiera e di introduzione all’esperienza della fede. Questa missione costitutiva della famiglia, però, potrà realizzarsi se saranno rispettate alcune condizioni. Innanzitutto, si richiede che i genitori vivano la grazia sacramentale ricevuta con la celebrazione del loro matrimonio. Per loro si deve applicare lo stesso principio che vale per ogni cristiano: la grazia sacramentale fonda e sostiene la specifica vocazione di ogni credente in Cristo. Ad essa bisogna rimanere fedeli, perché l’amore coniugale diventi la “dimora” nella quale la persona viene educata: quello che è l’utero della donna per il concepimento fisico e il primo formarsi del bambino è l’amore coniugale per l’educazione cristiana. La seconda condizione è che i coniugi mantengano un rapporto sereno col futuro, si protendano all’avvenire con sguardo fiducioso, vivano l’apertura alla speranza230. Non si può educare, se manca un orizzonte di valori da indicare e da promuovere. Vi è, però, un aspetto più profondo legato alla capacità dei genitori di aprirsi al riconoscimento e alla ricerca della verità. Ciò che blocca la trasmissione dei valori tra le generazioni non è tanto l’incoerenza pratica, la contraddizione tra il pensare e l’agire, retaggio della fragilità umana, ma la sfiducia nelle possibilità di aderire alla verità. Come giustamente afferma Benedetto XVI, «alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita»231. In questa situazione diventa difficile educare perché si percepisce che la vita è fondata sul nulla, sul vuoto, sull’assenza di significato, che essa è in contraddizione con se stessa e che tutto sia fondato sulla menzogna. Educare non consiste solo nel dovere di mostrare una

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Cfr «L’anima dell’educazione può essere solo una speranza affidabile» (BENEDETTO XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione). Vedi anche G. CATALFAMO, Fondamenti di una pedagogia della speranza, La Scuola, Brescia 1986; P. FREIRE, La pedagogia della speranza, EGA, Torino 2008. 231 BENEDETTO XVI, Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. «A fondamento di tutto però deve esserci la fiducia. Persino ciò che non è bene deve essere inserito in essa. Altrimenti, le cose semplicemente non vanno» (R. GUARDINI, L’educazione, in ID., Etica, cit., p. 899).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE coerenza tra la parola e la vita, ma soprattutto nel far percepire che la vita è un bene assoluto e incommensurabile. Si tratta di un compito arduo che oggi la famiglia da sola non può reggere, per questo occorre stabilire un patto educativo, una sinergia tra la famiglia e la comunità cristiana. Se, infatti, la famiglia si limiterà a una pratica religiosa puramente rituale e se la Chiesa non si preoccuperà di accompagnare i genitori nella loro missione, l’opera educativa delle nuove generazioni risulterà molto difficile. Da qui l’urgenza che la famiglia diventi una vera “chiesa domestica” e la comunità cristiana metta in atto un serio accompagnamento mistagogico che coinvolga l’intero nucleo familiare. Ugualmente importante è il ruolo educativo della scuola. Certo, anche in essa, come nella famiglia, si avverte un forte senso di disagio232. La sua vocazione ad essere una palestra di vita non è venuta meno, pur se in questi anni si è offuscata la sua capacità educativa. Ad essa spetta di pensare e di progettare l’educazione secondo un nuovo modello non più ripiegato su apprendimenti formali di lettura (l’arte di imparare ad imparare), ma aperto a ricercare il proprium ontologico della persona, a procedere secondo una trasmissione ricca di memoria, a fondare un ethos civico colmo di significati. Se, infatti, per educazione si intende un progetto totale di vita comprendente le forme culturali, i mezzi e il metodo adatti per attuarlo lungo il corso dell’esistenza, la prima preoccupazione non deve essere quella di fornire delle conoscenze, ma quella di orientare al senso della vita, all’accoglienza delle domande fondamentali presenti nel cuore dell’uomo, alla scoperta della vita come mistero. In questo senso un ruolo strategico riveste l’insegnante di religione, nella sua qualità di uomo della sintesi233. Spetta a lui richiamare il

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Cfr G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2001; F. CAMBI-M. G. DELL’ORFANELLO–S. LANDI (a cura di), Il disagio giovanile nella scuola del terzo millennio. Proposte e intervento, Armando, Roma 2008. 233 «Professionista della scuola e riconosciuto idoneo dalla Chiesa, il docente di religione si trova sul crinale di rapporti che esigono continua ricerca di sintesi e di unità. Egli è uomo della sintesi innanzitutto sul piano della mediazione culturale, propria del suo ser-

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valore di una razionalità aperta al mistero234 quale fondamentale condizione per elaborare una progettualità educativa finalizzata ad apprendere il “mestiere di uomo”, superando quella forma di razionalità debole e rinunciataria, generatrice di un’etica individualistica. Per questo si richiede che egli viva una spiritualità mistagogica e cristocentrica235. Sotto questo profilo, è interessante notare la posizione assunta da Norberto Bobbio, in un suo articolo che è quasi il suo testamento spirituale, nel quale egli scrive: «Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però, distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità significa per me, semplicemente avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro (…) è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi.

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vizio educativo. Egli deve favorire la sintesi tra fede e cultura, tra vangelo e storia, tra i bisogni degli alunni e le loro aspirazioni profonde. Il suo insegnamento esige, pertanto, una continua capacità di verificare e di armonizzare i diversi e complementari piani: teologico, culturale, pedagogico, didattico. L’opera educativa del docente di religione tende infatti a far acquisire ai giovani la capacità di accogliere criticamente i messaggi religiosi, morali e culturali che la realtà offre, aiutandoli a coglierne il senso per la vita. Egli è chiamato a fare sintesi anche sul piano del rapporto con gli alunni. L’IRC si rivolge a tutti coloro che intendono avvalersene, senza alcuna limitazione o preclusione a priori. Ciò comporta che il docente di religione debba saper favorire un dialogo e un confronto aperti e costruttivi tra gli alunni e con gli alunni, per promuovere, nel rispetto della coscienza di ciascuno, la ricerca e l’apertura al senso religioso; e nello stesso tempo che egli sappia proporre quei punti di riferimento che permettono agli alunni una comprensione unitaria e sintetica dei contenuti e dei valori della religione cattolica, in vista di scelte libere e responsabili. Infine il docente di religione è chiamato a un lavoro di sintesi sul piano del rapporto tra la comunità ecclesiale e la comunità scolastica: promuoverà dentro la scuola progetti educativi rispettosi della integrale formazione dell’uomo; si rivolgerà anche agli altri docenti e operatori scolastici, alle famiglie e agli alunni; sarà cosciente che per molti dei suoi alunni l’IRC si completa nell’esperienza catechistica e si confronta con essa (Conferenza Episcopale Italiana, Insegnare religione cattolica, oggi, 23). 234 Cfr V. BORTOLIN, La religiosità come mistero, “Studia Patavina”, 55, 2008, pp. 573-617. 235 Cfr M. P. MANELLO, Tratti di spiritualità mistagogica, cristocentrica e mariana del catechista e dell’insegnante di religione, “Rivista di Scienze dell’Educazione”, 41, 2003, n. 3, pp. 464-479.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Resta però fondamentale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità»236. La prospettiva indicata da Norberto Bobbio necessita di qualche precisazione circa il concetto di fede e di religione. Essa, tuttavia, suggerisce di partire dal senso del mistero come dato fondamentale sul quale tutti, credenti e non credenti, possono convergere e ritrovarsi e, su questa base, costruire un progetto educativo che dia ragioni di vita e di speranza e sia segno d’amore all’uomo e al suo futuro237; un progetto educativo nel quale le domande fondamentali non sia eluse, il primato della verità sia riaffermato, la relazione tra verità e libertà sia mantenuta e la vita umana sia valutata nel suo essenziale radicamento nel mistero.

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236

N. BOBBIO, Religione e religiosità, “Micromega”, 2, 2000, p. 7. L’educazione «è il punto in cui si decide se amiamo abbastanza il mondo per assumerne la responsabilità, e in più per salvarlo da quella che sarebbe una rovina inevitabile senza questo rinnovamento e senza questo arrivo di giovani e di nuovi venuti» (H. ARENDT, La crise de l’éducation, in La crise de la culture, Gallimard, Paris 1972, pp. 251-252. 237


Giuseppe Micunco

Un educatore-testimone: Giovanni Modugno 1. Testimone e maestro di umanesimo integrale: Modugno, Montini e Maritain

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È diventata giustamente celebre l’affermazione di Paolo VI «Il nostro tempo ha più bisogno di testimoni che di maestri» (Evangelii nuntiandi, 41). Giovanni Modugno è stato sia un testimone che un maestro, maestro perché testimone, e testimone, fondamentalmente, di un umanesimo integrale, negli anni difficili dell’Italia giolittiana, delle due guerre mondiali, del fascismo, della nascita della Repubblica e della nuova Costituzione. Un umanesimo integrale, che «non è altro che un Cristianesimo integrale» (P. Viotto1), che Maritain definiva «Umanesimo dell’Incarnazione»2, in cui «la religione – scrive Modugno in una lettera del 1947, in cui non a caso fa diretto riferimento a Jacques Maritain – diventi vita in tutti i settori, e specialmente nel campo sociale, civile, internazionale»3. Con il filosofo francese Modugno è stato in corrispondenza. Abbiamo una sua lettera autografa a Maritain (del settembre 1936) che attesta uno scambio di libri e di riflessioni, proprio sul ‘Cristianesimo integrale’, una lettera che bene attesta peraltro un reciproco rapporto di stima e di affetto4. Qualche mese prima (novembre 1935) Modugno aveva pubblicato Religione e vita, il suo capolavoro pedagogico, si può dire il suo ‘manifesto’, in cui chiara appare la convergenza col filosofo france-

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J. MARITAIN, Umanesimo integrale, trad. it. Borla, Torino 1962, Presentazione di Piero Viotto, p. 10. 2 J. MARITAIN, Le docteur angélique, Desclée De Brouwer, Paris 1930, p. 28. 3 G. MODUGNO, La missione educativa. Corrispondenza 1903-1956 (a cura di D. Saracino), Stilo editrice, Bari 2009, p. 252. 4 Lettera di G. Modugno a J. Maritain del 3 settembre 1936, riportata in D. SARACINO, Giovanni Modugno. Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Stilo editrice, Bari 2006, p. 139.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE se. Della validità di questo testo si era ben reso conto un altro estimatore di Maritain, Giovan Battista Montini (che di Maritain aveva già tradotto, nel 1928, per la Morcelliana I tre riformatori), il quale in una lettera a don Tedeschi, un collaboratore dell’Editrice La Scuola di Brescia, si rammaricava del fatto che del libro di Modugno Religione e vita fosse stata data solo una breve nota sull’Osservatore Romano: «A mia insaputa, ieri, l’“Osservatore” ha pubblicato una noticina sul libro del Modugno. Meritava assai di più. Spero di far riparlare il giornale di quest’opera che anch’io trovo bellissima»5. Montini, già nella Segreteria di Stato dal 1924, aveva da poco (1933) lasciato l’incarico di Assistente nazionale della FUCI, e aveva anche lui guardato al pensiero di Maritain per formare coscienze capaci di forte testimonianza cristiana in un tempo dominato dal totalitarismo fascista; aveva per questo apprezzato anche il libro di Giovanni Modugno. Se a queste due testimonianze, di Maritain e di Montini, aggiungiamo il rapporto con il pedagogista tedesco Wilhelm Förster, a cui ha fatto già riferimento mons. Angiuli nella sua relazione, e su cui non mi soffermo, comprendiamo di aver a che fare con un intellettuale di statura europea. Giovanni Modugno è stato inscindibilmente insieme maestro e testimone. In lui l’opera educativa era anche impegno politico, politico in senso lato, per l’uomo, per tutto l’uomo, per l’umana società, per la comunità cristiana. Né vi fu mai alcuna sua attività, scelta di vita, atto, che non fosse al tempo stesso educativo nel senso più alto del termine. Entrava in gioco anche, e quanto, la sua vita privata. Per rimanere a Religione e vita, quest’opera non è solo il frutto di un ripensamento scientifico teorico, e nemmeno soltanto politico, nel senso di un progetto educativo per arginare i guasti pedagogici del fascismo, ma è anche una risposta a gravi interrogativi esistenziali personali che il Professore si era posti all’indomani della perdita, a soli ventuno anni, dell’unica figlia Pinuccia, una

5

G.B. MONTINI, Lettera a don Tedeschi del 21 dicembre 1935, riportata in SARACINO, cit. p. 68.

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ragazza straordinaria per doti umane e cristiane, per il suo impegno nell’A.C., per sensibilità culturale: ne è rimasta splendida testimonianza nel diario pubblicato dai suoi genitori col titolo Ascesa, un’opera anche questa, non a caso, di alto valore pedagogico, oltre che umano e cristiano; nella citata lettera a Maritain Modugno si era scusato del ritardo nella risposta, proprio perché attendeva la pubblicazione di Ascesa che intendeva inviargli. Attesta la moglie di Giovanni, Maria Spinelli: «Per rispondere a queste domande, Giovanni non si chiuse in se stesso, ma iniziò fervido il colloquio con l’Invisibile e l’Onnipotente: intensificò le sue meditazioni, avvicinò i grandi autori che hanno studiato i massimi problemi dell’esistenza, riprese con mirabile calma ed efficacia le sue lezioni nell’Istituto Magistrale; e a un anno dalla scomparsa della figliuola, presentò a ‘La Scuola Editrice’ il manoscritto di Religione e vita. In questo libro, che chiamerei ‘il libro della fiducia in Dio’, Giovanni espone la ferma convinzione che la vera vita è quella che comincia dopo la vita terrena, perché l’anima è immortale»6. Anche la vita privata diventa occasione di insegnamento educativo, e di quale insegnamento.

2. La vita di Giovanni Modugno

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Nasce a Bitonto il 21 febbraio 1880 da famiglia agiata e religiosa: ha uno zio prete e una zia monaca. A quindici anni (1895) lascia la scuola (la IV ginnasiale) perché scontento dei contenuti culturali e dei metodi educativi. Studia da autodidatta e consegue privatamente la maturità classica presso il Regio Liceo di Bari. Intanto costituisce con altri coetanei un gruppo politico-culturale, la Pleiade, con prevalenti interessi filosofici, soprattutto Platone (filosofia e politica). Segue con interesse attivo il movimento socialista da poco sorto a Bitonto: si impegna per contadini e operai, scrive articoli; prende le distanze dalla Chiesa istituzione, perché troppo legata ai padroni,

6

M. SPINELLI MODUGNO, Giovanni Modugno. “Io cerco l’eterno”, Editoriale Universitaria, Bari 1967, p. 142.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE ai proprietari terrieri, all’intelligentia politica, che non esitava a ricorrere anche a mazzieri prezzolati. Si iscrive all’Università di Napoli (1900), dove si laurea dapprima in Scienze naturali (1905), quindi in Filosofia (1911), in una linea coerente, ma che non tutti riescono a capire, di ricerca del bello, della sapienza, di umanesimo, di amore per la verità al servizio dell’uomo. Tornato a Bitonto si dedica alla scuola, in provincia di Bari, poi a Bari stessa, dove si trasferisce con la famiglia (si è intanto sposato e ha una figlia): insegnerà filosofia e pedagogia presso l’Istituto magistrale di Bari fino alla pensione (1947), con passione, profondamente convinto della grandezza della sua missione di educatore, rinunciando anche a prestigiosi incarichi accademici, amministrativi e politici. Ha continuato sia negli anni dell’Università, che dopo essere tornato a casa, nel suo impegno politico: è candidato alle elezioni amministrative (1913), sostiene soprattutto la candidatura del socialista amico molfettese, Gaetano Salvemini (1919). Comprende che non è fatto per la politica attiva, ma per educare alla politica. Socialista e laico, ma in realtà sempre profondamente cristiano nell’animo, negli ideali di giustizia e di rispetto della dignità umana, ritorna pienamente, alla fine degli anni venti (1929), alla fede cristiana, alla vita sacramentale e alla Chiesa cattolica. Continuerà senza soluzione di continuità la sua battaglia politica ed educativa, negli anni difficili del primo dopoguerra, del fascismo, della seconda guerra mondiale, della nascita della repubblica. Scrive moltissimo, soprattutto sulla scuola e per la scuola, in contatto e corrispondenza con grandi intellettuali e politici del suo tempo (Tommaso Fiore, Lombardo-Radice, Giustino Fortunato...), anche fuori d’Italia (Förster, Maritain...), con realtà del mondo cattolico, nazionale (l’Azione Cattolica di Armida Barelli, di Carlo Carretto, il giornale “Adesso” di don Primo Mazzolari, l’opera di don Sturzo...) e locale (l’Arcivescovo di Bari mons. Mimmi7, il Seminario regionale di Molfetta, la San Vincenzo...).

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Sulla collaborazione di Modugno con l’attività catechistica promossa in diocesi di Bari

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La serenità della vita familiare è gravemente turbata, nel 1934, come si è già detto, dalla prematura morte, a soli ventuno anni, della diletta figlia Pinuccia. La sua casa a Bari, in via Cardassi, diventa un ‘cenacolo’, meta di un ininterrotto pellegrinaggio, di giovani soprattutto, che vogliono incontrare il maestro di vita, cercare insieme con lui la luce della verità. Giovanni Modugno muore, a Bari, nel marzo del 1957, lasciando tra gli amici e nella comunità cristiana una larga e indiscussa fama di santità. La sua causa di beatificazione, avviata dalla Chiesa di Bari-Bitonto, è già all’esame della Congregazione romana per le cause dei santi. La Chiesa di Puglia lo ha proposto tra i testimoni di santità laicale al Convegno ecclesiale di Verona. Per una biografia completa e articolata rimando al testo curato dal prof. Saracino8.

3. La ‘missione educativa’: una straordinaria coerenza di tutta la vita a. Le lotte giovanili: lontano dalla Chiesa, socialista, ma non anticristiano

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La cosa che più colpisce in Giovanni Modugno è una straordinaria coerenza durata tutta la vita, da ragazzo fino agli ultimi anni. Sia quando era socialista e lontano dalla Chiesa (ma non da Cristo), sia quando è ritornato alla fede e alla comunità cristiana, non ha mai smesso di lottare per i valori ideali di verità e di giustizia, ha sempre tenuto fede a quella che è stata giustamente chiamata la sua ‘missione educativa’. Una missione che in Modugno si manifesta molto precocemente. Ancora bambino – la testimonianza è della moglie Maria Spinelli9 – prova un senso di simpatia e fratellanza per la

dall’Arcivescovo Marcello Mimmi, cfr V. ANGIULI, La catechesi nella Diocesi di Bari. Dagli inizi dell’800 al Vaticano II (1823-1962), Edipuglia, Bari 1997. 8 D. SARACINO, Giovanni Modugno. Politica, cultura e spiritualità in un cercatore di Cristo, Stilo Editrice, Bari 2006. 9 M. SPINELLI, Appunti per una biografia, in Pedagogia e vita di G. Modugno, a cura di Matteo Perrini, La Scuola, Brescia 1961.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE gente umile, i contadini, gli operai, i pescatori. Le battaglie elettorali, i congressi e i dibattiti lo incuriosivano a tal punto che a dodici anni assisté al I congresso dei socialisti bitontini. Prende parte al suo primo corteo per la festa del 1° maggio. Scrive Biancastella Antonino: «Era una vera missione educativa quella che il giovane Modugno, propagandista del nuovo verbo socialista, intraprese, ma lo scopo era profondamente politico, in quanto mirava non solo alla emancipazione delle classi diseredate, ma anche alla liberazione dai pregiudizi antisocialisti che la propaganda clericale aveva radicato negli strati popolari»10. Anticlericale, ma non antireligiosa o anticristiana, anzi. Interessantissimo sotto questo aspetto è un articolo che, diciottenne, Modugno scrive su un giornaletto di Bitonto11, in cui fa la lezione a un prete, un giovane quaresimalista, che se l’è presa con i socialisti, e gli cita il Vangelo e i Padri della Chiesa: «Sentiamo il dovere di mettere in guardia i nostri lavoratori verso le prediche del quaresimalista, un giovanotto che, passi pure per tutte le scempiaggini che mette fuori senza sale né pepe intorno alle scienze moderne, di cui tutti quegli ascoltatori non intendono nulla, ma ha pure la goffa pretenzione di voler combattere il socialismo; e magari lo facesse con argomenti seri, ma con una ignoranza e una malafede uniche, ripetendo a quei buoni lavoratori quanto malamente ha imparato in seminario e appreso da qualche giornalucolo clericale, mette fuori tali e tante fandonie, tali e tante villanie, abusando del luogo ove si trova, da avere tutta la figura di un ciarlatano di piazza, il quale è contento di sconclusionare e di andare di palo in frasca, pur di tener sospesa l’attenzione degli uditori fino all’ultimo, allorquando con un certo modulamento di voce dirà: “Acquistate quindi la mia merce”. E come il ciarlatano che, mentre vuol parlare di medicina è

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B. ANTONINO, Giovanni Modugno. Attività e scritti politici 1895-1920, Bitonto 1981, p. 19. Si tratta di un giornale fondato nel 1897 dai socialisti di Bitonto, “La Vigilia. Difesa settimanale dei lavoratori”; con questo articolo ( “La Vigilia”, anno II, n. 9, Bari 6.3.1898) Modugno fece il suo debutto giornalistico, e che debutto...!

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proprio quella che ha dimenticato di studiare, così il nostro pretonzolo, volendo parlare di religione pare che la vera religione di Cristo non ha mai pensato a studiare. Infatti il detto predicatore non ricorda che fu Cristo il più grande proclamatore della fratellanza e della uguaglianza, e che giudicava cosa ingiusta e dannosa l’esistenza del ricco, che vive oziosamente alle spalle del povero lavoratore, da sentenziare: “Essere più facile che un cammello entri per la cruna di un ago che il ricco in paradiso”? Ignora forse il dotto quaresimalista San Paolo “Chi non lavora non mangia” e San Clemente “Dio ha creato tutte le cose perché il profitto fosse comune a tutti; la natura ha creato dunque il diritto di comunità, ed è l’usurpazione che ha creato il diritto di proprietà”. E San Gregorio Magno: “La terra è comune a tutti gli uomini: invano si credono innocenti coloro che si appropriano delle cose che Dio ha reso comuni”. E Pelagio Monaco: “Quando si vorrà comprendere che i più sono nella miseria perché alcuni posseggono il superfluo? Basta l’esistenza di un piccolo numero di ricchi per creare una moltitudine di poveri”. E potremmo citare ancora identiche affermazioni di S. Agostino, S. Giovanni Crisostomo, di S. Girolamo fino a Leone XIII che disse: “Tutti i beni della natura, tutti i tesori della grazia appartengono in comune e indistintamente a tutto il genere umano”. Non sono queste, o illustre predicatore, affermazioni, se ci permette l’anacronismo, addirittura socialiste? E se a voi non sono note, abbiamo noi il diritto e il dovere di chiamarvi mistificatore? […]. Intendano dunque una buona volta i miseri e sfruttati lavoratori che non solamente è falso che il socialismo vuole distruggere la Religione, essendo questa un affare privato, ma la Religione è a favore delle nostre idee, quando però si consideri la vera Religione di Cristo non mistificata da chi se ne fa arma per mantenere il popolo nell’abbrutimento e nel servaggio».

Sarà utile e interessante notare come tali riferimenti alla dottrina sociale, in realtà evangelica, dei Padri, si ritrovi nelle parole del Concilio, con qualche espressione che avrebbe fatto particolarmente piacere a Modugno e che non trovo granché ripresa nella ordinaria predicazione: «A tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Così pensavano


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE i Padri e i dottori della Chiesa, i quali hanno insegnato che gli uomini hanno l’obbligo di aiutare i poveri e non solo con il loro superfluo. Colui che si trova in estremo bisogno ha diritto di procurarsi il necessario dalle ricchezze altrui»12. In questa sede è importante notare come, diciottenne, Giovanni Modugno, più ancora che di fare politica, sia preoccupato di educare, di fare la lezione, e non solo al malcapitato ‘pretonzolo’. b. La riflessione matura: nella Chiesa, ma con gli ideali di sempre Con il suo ritorno alla Chiesa cattolica Modugno continua in questa coerenza educativa: «Noi volevamo – scrive – come sempre vogliamo e vorremmo, il trionfo della giustizia e dell’amore tra gli uomini; ma per lunghi anni, purtroppo!, non avevamo compreso che la giustizia e l’amore non sono possibili senza la luce di Cristo. Eravamo cercatori di Cristo e non ce ne accorgevamo»13. Sono gli anni difficili del fascismo, della difficoltà di parlare apertamente. Modugno, che si sente in piena sintonia con il Magistero del Papa14, scrive a don Tedeschi (aprile 1937), che sente il bisogno

12 Il Concilio (Gaudium et spes 69) cita, tra gli altri, anche sant’Agostino e san Gregorio Magno, citati da Modugno; Paolo VI, nella Populorum progressio, n. 23 (1967), partendo proprio dal n. 69 della Gaudium et spes, cita anche il De Nabuthae historia (12, 53; P.L. 14, 747) di sant’Ambrogio: «Non è del tuo avere, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Quel che è dato in comune per l’uso di tutti è quel che tu usurpi. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi». Sul testo, mi permetto di rimandare a G. MICUNCO, La terra è di Dio, “Invigilata lucernis”, 20, 1998, pp. 179-189. Sull’ultima affermazione, il Concilio (cit., nota 11) precisa in nota: «Vale in questo caso l’antico principio: “in extrema necessitate omnia sunt communicanda”. D’altra parte, in ciò che concerne l’estensione e le modalità secondo le quali questo principio si applica nel testo, oltre gli autori moderni “probati”, cfr S. Tommaso, Summa Theol. II-II, q. 66, a. 7. È chiaro che, per una esatta applicazione di questo principio si devono adempiere tutte le condizioni oralmente richieste». 13 Riportato in D. SARACINO, cit. p. 3; cfr MODUGNO, Appunti, cit., p. 178. 14 Modugno (lett. 33) si riferisce alle Encicliche di Pio XI Divini Redemptoris e Mit brennender Sorge, con cui il papa condannava ateismo e razzismo; il testo in G. MODUGNO, La missione educativa. Corrispondenza 1903-1956 (a cura di D. Saracino), Stilo Editrice, Bari 2009, p. 114.

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di occuparsi «di certi argomenti attualissimi», «Ma so che debbo – scrive – prima assolvere il compito da lei assegnatomi di preparare il testo di religione, e prego Iddio di assolverlo non solo bene, ma anche presto». Nel contesto culturale neopagano del fascismo e del nazismo, il compito più importante che Modugno ritiene di doversi assumere, oltre a continuare nell’insegnamento, è quello di scriver libri per la scuola, per gli insegnanti (la necessità di ‘educare gli educatori’), e per i ragazzi, di religione, di lettura, per le classi elementari e medie, per arginare, alla luce del vangelo, che egli ritiene e definisce il “vero antidoto”, una cultura radicalmente anticristiana: punti di riferimento sono l’umanesimo integrale di Maritain, il personalismo di Mounier, la ‘scienza della vita’ di Förster; il metodo è quello ‘preventivo’ di san Giovanni Bosco. Degli elementi pagani e anticristiani della cultura fascista, di ogni cultura totalitarista, molti ‘sinceri’ cattolici non si accorgono, preoccupati solo di un superficiale moralismo. Aveva conosciuto anni prima «uno tra i più sinceri, colti e fervidi professori cattolici», scrive all’amico Chizzolini (6 dicembre 1938)15:

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«Avendolo riveduto dopo vari anni, ho notato un fatto oltremodo sintomatico e doloroso, di cui egli – questo è il punto più grave – non si rende conto neppure lontanamente. Egli è assiduo nelle pratiche religiose, irreprensibile, anzi edificante nella sua vita di padre e di marito; ma di fronte a certi argomenti importantissimi – in cui il contrasto tra nazionalismo imperialista da una parte e concezione cristiano-cattolica della vita dall’altra è evidente – la sua coscienza si è come oscurata e nel dare, su dati argomenti, giudizi indiscutibilmente nicciani, non s’accorge di pensare come un profano che ha addirittura dimenticato il Vangelo».

E ancora: «Mentre la sua coscienza nazionale (che risente assai della concezione tedesca nettamente condannata dalla Chiesa) ha straordinaria sensibilità pronta a reagire al minimo eccitamento, la coscienza cattolica invece è stranamente insensibile anche se si tratta di questioni davvero supre15

MODUGNO, La missione, cit., lett. n. 44, p. 131.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE me, che mirano direttamente al centro della vita cattolica. S’è verificata in lui una specie di daltonismo che mentre gli fa scorgere (grazie a Dio) con prontezza ogni più lieve violazione del 6° e del 9° Comandamento, lo rende addirittura cieco di fronte alle violazioni del quinto e del primo (giacché sdrucciola, senza rendersene conto, nell’idolatria) e dei due massimi Comandamenti di Cristo».

Modugno mantiene integra la sua coerenza umana e cristiana di pensiero e di vita anche dopo la fine del secondo conflitto mondiale, negli anni della ricostruzione; mi ha raccontato un amico prete, che lo ha conosciuto ‘sfollato’ negli anni della guerra, che Modugno ebbe a dirgli: «Ora incominciano i guai», quelli, evidentemente, prima di tutto per la comunità cristiana; come erano cominciati dopo le persecuzioni con l’avvento della pace costantiniana... Modugno (che segue e condivide le posizioni di don Sturzo, di don Mazzolari, di Maritain) vede gravissimo il pericolo di una confusione tra azione politica e azione cattolica. Leggiamo in una sua lettera all’amico Isnardi del febbraio del 194716: «Non sempre i cattolici (clero e laicato) sono all’altezza della situazione! E non si accorgono di danneggiare la Chiesa e di fare il giuoco dei malevoli. Ecco qualche esempio, colto dal vero: Un sacerdote difende il Papa con questa predica: ci han tolto il duce, e abbiam lasciato correre; ci han tolto il re, e abbiam lasciato correre; ora vorrebbero toglierci anche il Papa; ma… (il Papa sullo stesso piano del “Duce” e del Re, che han condotto l’Italia alla perdizione!...). E che dire di maestre suore, che alle bambine hanno detto parole severe, e talora ingiuriose, contro i genitori cattolici, perché fautori della Repubblica; e di cattolici, difensori convinti dei qualunquisti, dei liberali, e avversari dei socialisti molto più per ragioni economiche che non per ragioni etico-religiose? Che dire di sacerdoti, che anche sull’Altare e nella Confessione, han fatto

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MODUGNO, La missione, cit., lett. 206, p. 240.

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propaganda monarchica? Più volte, di fronte a questi fatali errori, io ho detto che temevo una ripresa anticlericale; e ora che questa si è scatenata, io credo più che mai che con tatto, con prudenza, con spirito cristiano, dobbiamo cercare di aprire gli occhi dei cattolici, i quali continuano a tenerli chiusi, pur dopo i fatali errori del ventennale filofascismo».

c. I ‘capelli bianchi’, ma ancora un sogno… È sempre lo stesso Modugno degli anni giovanili: gli stessi ideali, la stessa chiarezza di vedute, a cui il Vangelo, la frequenza dei sacramenti, il magistero del papa, hanno aggiunto una luce e una forza in più. Continua ad occuparsi di politica, ma sempre da educatore. Il passare degli anni e l’aggravarsi dello stato di salute (suo e della moglie) non lo cambiano; continua a scrivere e a lottare, per una scuola diversa, per una società e una comunità cristiana diverse. Scrive all’amico Rainaldi (23 gennaio 1950)17: «Come ti accennai nell’ultima mia, desideravo parlarti di tante cose che mi fanno soffrire perché rivelano il doloroso contrasto fra il Vangelo e la vita quotidiana, e volevo dirti che sono d’accordo con Maritain, quando afferma che gli errori del comunismo sono da considerarsi, almeno in parte, come la reazione dei poveri all’egoismo dei ricchi. [...] Ora ho trovato una maniera spiccia per dirti quello che volevo scriverti. Me ne ha dato l’occasione un numero di un giornaletto (“Adesso”), nel quale ho letto con vivo interesse due articoli (uno, del sindaco socialista di Milano e l’altro, di don Mazzolari) su argomenti, che mi stanno a cuore come ci stavano a cuore il 1913. Te lo mando perché, leggendo i due articoli, avrai un’idea di quello che ti avrei scritto: ossia, se i socialisti sinceri e i cattolici sinceri si sforzassero di applicare il Vangelo nella soluzione dei più gravi problemi della crisi contemporanea, sarebbe possibile evitare una terza catastrofe mondiale. Ci vorrebbero ovunque uomini di buona volontà, di assoluta sincerità, di ferrea coerenza!».

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MODUGNO, La missione, cit., lett. 161, p. 324.


CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA Lascia ammirati la coerenza di Modugno con se stesso: dagli anni giovanili, dalle battaglie socialiste, anche dopo il ritorno nella comunità cristiana, anche ora che è in pensione, vecchio e malato, gli ideali di lotta per la giustizia sono sempre gli stessi: e cattolici e socialisti possono lottare insieme perché la passione è la stessa: ma i cattolici devono essere sinceramente cristiani del Vangelo, e i socialisti dei socialisti sinceri. Il mondo sembra non cambiare, ma Modugno non si rassegna: «A proposito, sai che Förster ha ora ottant’anni e non è ancora tornato in Germania? Temo che morrà in esilio! Quanta tristezza! Ma non riesco a rassegnarmi all’idea che, dopo due tragiche esperienze, non si debbano fare tutti gli sforzi possibili per risolvere senza nuovi conflitti gl’ideali della giustizia sociale, della libertà e della pace, ai quali restiamo fedeli nella vecchiaia, come fummo nella nostra giovinezza!».

Sempre con la voglia di lavorare, anzi addirittura di ‘sognare’, anche quando ha «i capelli bianchi» (a Isnardi, 10 maggio 1946)18: «Chiarire questi tragici malintesi a me pare uno dei compiti più importanti dell’ora presente. Riusciremo? Lo voglia Dio! Pur essendo tanto stanco, non so rinunziare a lavorare per questo mio sogno, che mi fa sentir giovane malgrado dei miei capelli bianchi!».

Modugno si rende conto del fatto che di fronte a tante aspettative, a tanto lavoro, a tante speranze, i risultati sembrano essere scarsi: e questo non può non ingenerare qualche tristezza. Ma, non tanto perché potrebbe sembrare di aver faticato invano, ma perché si sarebbero voluti maggiori frutti di ‘conversione’. Cristianamente, evangelicamente, Modugno sa che i discepoli del Vangelo sono «servi inutili», come dice Gesù, che ciò che conta è aver combattuto la «bella battaglia», come dice l’apostolo Paolo. Modugno sa che

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MODUGNO, La missione, cit., lett. 88, p. 209.

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il Signore non guarderà ai risultati ottenuti, non guarderà agli effetti concreti, guarderà al cuore, perciò può scrivere al diletto discepolo Matteo Perrini (31 maggio 1949): «Meno male che il Signore ci giudica dai nostri sforzi e dalle nostre intenzioni!».

4. «Sono troppo educatore per fare della politica» Da quanto abbiamo considerato risulta chiaro come in Giovanni Modugno sia impossibile separare il testimone dall’educatore Ha certamente ragione Vincenzo Robles a dire che Modugno non fu un politico. «E questo semplicemente perché per Modugno la politica non poteva essere ‘l’arte del possibile’, ‘l’arte della mediazione’, oppure, peggio, l’arte del sapere, al momento opportuno, non vedere, non sentire, non parlare! E difatti nel 1919 aveva scritto: “…io mi trovo a disagio, non mi sento uomo di parte, sono troppo educatore per fare della politica”. La politica – dice ancora Robles – per Modugno è stato il tentativo di fornire alla sua città e ai suoi concittadini la possibilità di difendersi da ogni forma di tirannide»19. Al termine di uno dei tanti comizi da lui tenuti nel 1919, quando ancora militava nel partito socialista, ma andava sempre più rendendosi conto che l’«ambiente per me più adatto era la scuola», racconta: «Mentre uscivo, un contadino mi si avvicinò, mi baciò […] dicendo: “Non ci abbandonate!”. […] No - volevo rispondere – io sento il bisogno di non abbandonarvi, perché i miei alunni non mi bastano. Ma io, così come son fatto, posso essere non il vostro condottiero, ma il vostro educatore»20. È la chiara consapevolezza di una vocazione, della ‘missione educativa’, a cui si era sentito da sempre ‘chiamato’. 494 5. Il “rischio del vivere”: una coerenza eroica La scelta educativa non ha significato, peraltro, un tirarsi indietro dai rischi della politica, dai sacrifici che le battaglie sociali e politi19 V. ROBLES, Giovanni Modugno, relazione tenuta a Bari all’assemblea diocesana del 17 aprile 2007. 20 M. SPINELLI MODUGNO, Appunti, cit., p. 146.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE che richiedono, perché Giovanni Modugno ha messo in gioco invece tutta la sua vita, e quella della sua famiglia. Quando era impegnato ancora direttamente in politica, era stato minacciato di morte. Attesta la moglie Maria Spinelli: «Non riporto qui analiticamente gli ignobili ricatti con cui alcuni tentarono di espugnare la nobile fortezza del cuore di Giovanni, richiamandolo… al pensiero della vecchia madre, della bambina e della moglie, verso le quali non poteva dimenticare le gravi responsabilità; non le trascrivo, perché il solo rammentarle mi sconvolge». E Modugno aveva così reagito: «Non mi atterrisce l’idea del mio sacrificio che sarebbe certo un sacrificio fecondo, convinto che la mia uccisione sarebbe l’ultima che si commetterebbe nel Collegio, ove mai più si oserebbero rinnovare simili metodi elettorali». Ma non si tratta solo di entusiasmi giovanili (peraltro nel 1913, Modugno aveva 33 anni, lavoro, moglie e figlia…). La convinzione che si debba dare la vita per i grandi ideali Modugno la ribadisce in una biografia, che stava preparando ed è rimasta inedita, su Teresio Olivelli, il “cristiano ribelle per amore”, ucciso in carcere dai fascisti il 12 gennaio 1945 per i suoi ideali politici di giustizia e di libertà. Modugno, in apertura, riportava queste parole di Platone annotate in un quaderno di citazioni di Olivelli: «Male avvisi se credi che un uomo debba riflettere al rischio del vivere o del morire, quando si tratti di fare anche il più piccolo bene». Modugno così commentava: «Per compiere infatti il suo dovere, Olivelli si sente pronto ad affrontare la morte che non teme, anche perché la morte è per lui quello che è per ogni cristiano convinto: l’inizio di una nuova vita»21. Ed è interessante che il modello proposto sia un giovane… Giovanni Modugno la vita l’ha data davvero per i fratelli: l’ha data per la verità e la giustizia, l’ha data per Cristo e per il Vangelo. Il suo discepolo prediletto, Matteo Perrini, si è ben reso conto del fatto che la gravità delle condizioni di salute del suo ‘padrino’ (era stato suo padrino di cresima, e padre di vita) era dovuta all’essersi il suo

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M. SPINELLI MODUGNO, Appunti, cit., p. 122.

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maestro speso totalmente, senza riserve, eroicamente, al servizio dei fratelli, grandi e piccoli; egli non esita a chiamare (25 settembre 1950)22 quello di Modugno e della moglie un ‘martirio della carità’: «Le notizie, però, che mi date nell’ultima lettera mi addolorano assai: nella condizione di salute in cui siete Voi e la mia Madrina, certe faccende non si dovrebbero proprio sbrigare, ma il Signore credo che abbia chiamato i genitori di Pinuccia al “Martirio della Carità” e nella Sua Volontà è la nostra pace».

Lo invita, se possibile, a risparmiarsi (14 maggio 1951)23: «Siate buono con voi stesso e con la Signora: da 70 anni siete buono solo per gli altri».

Matteo ha visto bene: tutta la vita, Giovanni Modugno l’ha spesa per gli altri, e l’ha spesa in una ‘bontà’ evangelica. Anche questo ha compreso il suo discepolo prediletto, che in una sapiente e riconoscente sintesi attesta: «La mia gratitudine e il mio affetto non vi verranno mai meno; voi mi avete mostrato il volto di Gesù».

È, in realtà, il volto amabile e misericordioso di Gesù quello che Modugno ha mostrato in tanti anni di passione per il sapere, di attenzione ai poveri, ai contadini, agli operai, soprattutto ai ragazzi e ai giovani, e poi anche a tanti amici, che hanno potuto godere della sua affabilità, della sua bontà paterna, che rendeva ‘vicina’ la bontà del Padre celeste. 496

Due ultime rapide notazioni conclusive mi sembra importante fare su questo educatore e testimone della nostra terra: la prima sulla contemplazione del bello, la seconda sul dono della grazia.

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MODUGNO, La missione, cit., lett. 172, p. 339. MODUGNO, La missione, cit., lett. 182, p. 349.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE 6. La contemplazione del bello. La “bella battaglia” In una notte di Natale, mentre era a Napoli per gli studi universitari, così Giovanni Modugno scriveva a un suo intimo amico: «Sono nel mio studio, solo, eppure in compagnia delle persone più care... Quanta nostalgia, quanta amarezza e insieme quanta dolcezza! Tanto vicini eppure tanto lontani24. Sia pace agli uomini di buona volontà! Non lo sentiamo tutti questo canto risuonare nel nostro cuore?... E che meraviglioso cielo stellato! Non so se sia più bello lo splendore delle stelle o quello del gran Libro25, che è aperto sullo scrittoio: come tutto parla della dolcezza della pace e dell’eternità della vita»26. Sono parole che rivelano, prima di tutto, la sua capacità di ammirazione, di intuizione, di contemplazione: egli è capace di stupirsi sempre, a qualsiasi età e in qualsiasi momento e luogo, del bello e del buono che c’è intorno a noi, di saper intuire, leggere dentro questa bellezza e questa bontà, di contemplare in tutto, nelle cose e nelle persone, la presenza e l’azione di Dio. Sono quelle facoltà che il Vaticano II (Gaudium et spes 59) ha indicato come imprescindibili per una cultura vera, integrale. Perché sono quelle che permettono la “sintesi”: «Oggi - dice il Concilio - vi è più difficoltà di un tempo nel ridurre a sintesi le varie discipline del sapere e le arti. Mentre infatti aumenta il volume e la diversità degli elementi che costituiscono la cultura, diminuisce nello stesso tempo la capacità per i singoli uomini di percepirli e di armonizzarli organicamente, cosicché l’immagine dell’uomo universale diviene sempre più evanescente. Tuttavia, ogni uomo ha il dovere di tener fermo il concetto della persona umana integrale, in cui eccellono i valori dell’intelligenza, della volontà, della coscienza e della fraternità - potrebbero essere

24 “Lontani di idee”: così precisa la moglie, Maria Spinelli, nel riportarci lo scritto, non datato, del marito (in MARIA SPINELLI MODUGNO, Giovanni Modugno, cit., p. 51). 25 Modugno lo scrive con la L maiuscola: è il libro della parola di Dio. 26 Riportata in G. MICUNCO, La bella battaglia. Santità e laicità in Giovanni Modugno (18801957), Stilo Editrice, p. 29.

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parole di Giovanni Modugno -, che sono tutti fondati in Dio Creatore e sono stati mirabilmente sanati ed elevati in Cristo» (Gaudium et spes 61). La cultura di oggi, troppo specialistica, fa spesso perdere la visione d’insieme, fa perdere di vista la bellezza del mondo, la fondamentale bontà dell’uomo, la grandezza di Dio. La bellezza del mondo. Direi che è stato il punto di partenza di tutte le tensioni positive di Modugno. Contempla il bello e si sente incitato a fare il bene. È la contemplazione del bello, più ancora che la lettura dei libri, a spingerlo insistentemente a fare qualcosa di buono e di utile, di grande. È una tensione che gli viene da Dio stesso: Lui che ha visto che “era buono (e bello)“ tutto ciò che aveva creato, perché l’uomo, coronamento della sua opera se ne innamorasse e lavorasse per il suo progetto d’amore. Una santa inquietudine... In un mondo così bello, che è armonia e pace, non ci possono, non ci devono essere ingiustizie, soprusi, sopraffazioni... vede quindi fin dalla giovinezza il suo impegno di studio e di lavoro come ‘missione’. A un giovane maestro suo amico scrive (ed è come se già scrivesse il programma della sua vita): «Cerca soprattutto d’innamorarti della Scuola (questo è il consiglio migliore che posso darti); ama i tuoi bimbi; abbi per loro le cure di un padre; pensa che in tutto il villaggio tu hai l’ufficio più bello e più delicato; ricordati che la parola missione non è solo una trovata retorica, come alcuni vogliono sostenere! No! Se nella nostra vita non avessimo sacri doveri da compiere; se ognuno di noi non avesse una missione (la ripeto volentieri la calunniata parola), se dovessimo essere tutti dei mestieranti, oh!, sta’ sicuro che saremmo dei disgraziati e che non varrebbe la pena di vivere! Amala con entusiasmo la Scuola! Verrà il tempo in cui penserai al presente come al tempo più bello e più utile della vita!»27. Sempre il bello. Il “bell’ufficio”, i “sacri doveri”, la “missione”: sono “la buona battaglia” (e il greco dice la “bella battaglia”) di cui parla l’apostolo Paolo (2 Tm 4, 7). E questo a poco più di vent’anni. Una missione presuppone sempre un mittente: Modugno si sente ‘mandato’ dalla bellezza che contempla nel creato e nell’uomo, e che lo spinge, negli studi scientifici, poi in quelli filosofici, nell’impegno per la giustizia, poi per la

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MICUNCO, La bella battaglia, cit. p. 34.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE scuola e per la formazione, ad annunciare Colui che di quella bellezza è l’autore.

7. Il dono della grazia La santità più e prima ancora che nel fare cose grandi, consiste nel dire ‘sì’ al Signore, alla sua grazia, che opera nell’uomo cose grandi, se trova una totale, radicale, eroica conformazione alla volontà divina, al dono di Dio. In una lettera (del maggio 1947, all’amico Chizzolini)28, Modugno aveva espresso la necessità di «umilmente ma fervidamente richiamare tutti a veder chiaro, a fare un esame di coscienza (“Cattolici, siamo cristiani?”), a recitare il mea culpa, ad essere eroicamente, evangelicamente coerenti, affinché (il mio chiodo!) la religione diventi vita in tutti i settori». La coerenza cristiana, se vuole essere veramente evangelica, non può che essere ‘eroica’: richiede un sì totale. Così è stato per Maria, così è stato ed è per tutti i santi. Giovanni Modugno ha detto questo ‘sì’ totale e incondizionato al Signore, alla sua grazia, anche quando non sapeva con chiarezza che da lui veniva l’invito, la spinta, l’impulso ad amare il bello, il buono, il vero, per amore dei fratelli. Modugno stesso ha poi compreso che quanto per natura era portato a fare era già secondo la grazia di Dio e che questa grazia lo perfezionava. Ha scritto, e ne dobbiamo far tesoro (anche perché è teologia acquisita), in Religione e vita: «Nella prassi educativa bisogna tener presente in primo luogo che la grazia non distrugge la natura, ma la eleva e la perfeziona, e quindi la suppone; e in secondo luogo, che il compito della Chiesa non consiste solo nell’avvicinare il divino all’umano, bensì anche nell’elevare l’umano al divino, ossia nell’educare il volere dell’uomo a Cristo e alla grazia, e in questa grazia confermarlo sempre meglio. La Chiesa è custode non solo della Rivelazione, ma anche dell’integrità umana»29.

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MODUGNO, La missione, cit., lett. 112, p. 252. G. MODUGNO, Religione e vita, Brescia 19574, p. 7.

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E la grazia di Dio viene soprattutto e prima di tutto dai sacramenti. Modugno se ne rendeva ben conto, quando, essendo ormai vicino a quello che lui chiamava il ‘Salto’, il ritorno nella comunità cristiana, scriveva: «Chi può pienamente credere a dogmi meravigliosamente consolatori come quelli dell’Uomo-Dio e dell’Eucaristia ha senza dubbio soddisfatto i bisogni spirituali, che io vorrei soddisfare; ma come giungere alla credenza?». Modugno comprende bene che la fede cristiana non è solo speculazione filosofica e azione morale – a questo arrivava da solo – ma grazia che viene dall’alto, da Dio fatto uomo e dell’Eucaristia. È anche per questo che, approdato, grazie a tanti amici (e non solo il Casotti, ma anche illustri colleghi, mons. De Palma di Bari e Anna De Renzio di Bitonto, anch’essi vissuti e deceduti in fama di santità) alla fede piena, si sofferma a lungo sull’importanza dei sacramenti e della liturgia: vi dedica lunghi capitoli in Religione e vita, perché i ragazzi e i giovani siano introdotti al mistero di Cristo. Scrive: «Chi considera la liturgia come qualcosa di meccanico e d’esteriore e va in cerca di nuovi metodi che rendano interessante l’insegnamento della religione, dimostra di non aver inteso che proprio la liturgia è un meraviglioso monumento di sapienza pedagogica – oggi avremmo detto ‘mistagogica’ -, che l’insegnante deve convenientemente saper utilizzare per render vivo, intuitivo e fattivo il suo insegnamento» (p. 53). Ma in nota sente il bisogno di avvertire: «Quando si parla della liturgia, si deve intendere la liturgia quale la intende la Chiesa, non quale viene fraintesa da chi non la conosce o non la sa insegnare», parole che si commentano da sole... Lo sguardo di Giovanni Modugno, così aperto sulle persone e sul mondo, andava però sempre oltre, guardava sempre alla meta, a quella santità a cui tutti siamo chiamati, alla vita eterna. La santità, la vita eterna sono una meta, ma sono anche realtà che nella Chiesa, nei sacramenti, nella vita familiare, nell’impegno professionale e civile, si possono vivere e gustare già su questa terra. Mi sembra bello concludere questa comunicazione sul Servo di Dio Giovanni Modugno riportando ancora una testimonianza di Maria Spinelli: «Mi viene in mente un brevissimo dialogo, che avemmo un giorno, durante una passeggiata: non ricordo bene come, si giunse a parlare di Chiesa, di sacramenti, di Comunione - come tutto sembra naturale, non artificioso... -; certo è che esclamammo quasi insieme:


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE “Come sono consolanti quelle parole che il sacerdote ripete porgendo a ciascun fedele l’Ostia: Corpus Domini nostri Iesu Christi custodiat animam tuam in vitam aeternam! (“Il Corpo del Signore nostro Gesù Cristo custodisca la tua anima per la vita eterna”: così prima della riforma liturgica)“; aggiungeva: “Ecco la meta!”. Ma (...) per Giovanni i mezzi per raggiungere la vita eterna dovevano trovarsi in una volontà di perfezionamento che egli cercava di attuare nella propria anima e di sollecitare in quella degli altri (...). Perciò ritenne l’insegnamento una missione, e a qualunque titolo che gli altri credessero di attribuirgli, egli preferiva soltanto quello di ‘Professore’»30. Noi ci auguriamo - e speriamo che non se la prenda - che presto possa avere quello di ‘Beato’.

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M. MODUGNO, Appunti, cit., p. 186.


Mimmo Falco

Annuncio celebrazione testimonianza: unità necessaria per educare alla vita cristiana

A partire da una domanda… I Padri sinodali hanno significativamente affermato che «i fedeli cristiani hanno bisogno di una più profonda comprensione delle relazioni tra l’Eucaristia e la vita quotidiana. La spiritualità eucaristica non è soltanto partecipazione alla Messa e devozione al Santissimo Sacramento. Essa abbraccia la vita intera». Questo rilievo riveste per tutti noi oggi particolare significato. Occorre riconoscere che uno degli effetti più gravi della secolarizzazione poc’anzi menzionata sta nell’aver relegato la fede cristiana ai margini dell’esistenza, come se essa fosse inutile per quanto riguarda lo svolgimento concreto della vita degli uomini. (Sacramentum caritatis, 77)

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La preoccupazione del Papa richiama quella dei Padri sinodali e nasce dalla consapevolezza di uno scollamento tra la fede celebrata e quella vissuta. Questa preoccupazione non è nuova nella Chiesa. Ne è testimonianza il grande Giovanni Crisostomo, vescovo nel IV secolo, che rimprovera i suoi fedeli: «Sono numerosi coloro che, dopo aver ricevuto il battesimo, vivono in modo più disordinato di coloro che non lo hanno ancora ricevuto e non fanno perciò vedere in alcun modo che sono cristiani. Non è possibile oggi riconoscere lì per lì, nelle assemblee pubbliche e anche all’interno della chiesa, i fedeli da coloro che non lo sono. L’unica cosa che distingue gli uni dagli altri è che, quando si sta per celebrare i santi misteri, i fedeli restano nel tempio, mentre gli altri ne sono esclusi. E, invece, non dovrebbe affatto accadere così, in quanto non dal luogo, ma dai costumi e dalla vita bisognerebbe poter distinguere gli uni dagli altri» (Commento al Vangelo di Matteo, 4). Quella descritta dal Crisostomo appare una situazione a noi molto familiare. Anche la Chiesa italiana da molti anni mantiene viva questa riflessione. Negli Orientamenti pastorali per il 2000 i vescovi italiani richiamavano l’importanza di una fede adulta, «capace di tenere insieme


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo», per rendere i cristiani capaci «di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita» (CVMC, 50). È in questo rapporto tra fede e testimonianza, tra celebrazione e vita, che emerge il significato e l’importanza della formazione liturgica. Dobbiamo riconoscere che fino ad ora, tutto lascia pensare che ci siamo preoccupati esclusivamente di una formazione «alla» liturgia, dimenticando che dobbiamo preoccuparci anche di essere formati «dalla» liturgia. Scrive Romano Guardini che la liturgia «non diventa perfetta fino al punto di portare l’uomo che prega fuori dal corpo. Al contrario egli diventa sempre più uomo nel senso più profondo: il che significa che nell’atto liturgico la sua corporeità si “anima sempre di più”, si spiritualizza, si trasfigura; che la sua anima si esprime, si manifesta, si incarna in modo sempre più completo» (R. Guardini, Formazione liturgica, p. 28). Nel suo libro L’intelligenza della liturgia, Paul De Clerck ricorda che «La liturgia non è anzitutto un oggetto da comprendere intellettualmente… ma piuttosto una sorgente, ricca di significati. La prima cosa da fare non consiste nell’analizzarla, ma nel lasciarla parlare e ascoltare, con simpatia» (L’intelligenza della liturgia, p. 21). Cosa significa questo? Significa che non possiamo preoccuparci semplicemente di preparare ai sacramenti e dimenticando che si è anche formati dai sacramenti. Allo stesso tempo, non possiamo preoccuparci esclusivamente dell’interiorità, convinti che solo questa può garantire la dignità e la comprensione necessarie per ricevere il sacramento. Così facendo dimostriamo di dimenticare che la liturgia passa prima di tutto per il corpo per coinvolgere l’uomo intero. A questo proposito può essere utile ricordare quanto san Benedetto raccomandava ai suoi monaci e sintetizzato nell’espressione ormai celebre: Mens concordet voci. Noi avremmo certamente affermato il contrario, cioè che la bocca deve esprimere quello che già si si porta nel cuore. L’affermazione benedettina, invece, ci aiuta a comprendere l’importanza del corpo e a guardare alla liturgia come «azione» che coinvolge e passa per il corpo. Infatti, come ricorda

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ancora Guardini: «ciò che opera nell’azione liturgica, che prega, offre e agisce non è “l’anima”, non “l’interiorità”, bensì “l’uomo”: è “l’uomo intero” che esercita l’attività liturgica» (R. Guardini, op.cit., p. 21). Il Direttorio per la Messa con i fanciulli, tradotto e pubblicato nel 1976 dalla Chiesa italiana, è un tentativo di tenere stretto questo rapporto tra liturgia e corporeità, tra celebrazione ed esperienza umana. Infatti, dopo aver affermato che «la partecipazione alle azioni liturgiche… è un fatto di così grande importanza, che senza esso sarebbe impensabile una vita pienamente cristiana» (nr. 8), il Direttorio invita catechisti ed educatori a fare in modo che i fanciulli «facciano anche, secondo l’età e lo sviluppo raggiunto, l’esperienza concreta di quei valori umani, che sono sottesi alla celebrazione eucaristica, quali l’azione comunitaria, il saluto, la capacità di ascoltare, quella di chiedere e accordare il perdono, il ringraziamento, l’esperienza di azioni simboliche, il clima di un banchetto tra amici, la celebrazione festiva» (nr. 9). È superfluo aggiungere che quello che è detto per i più piccoli può avere valore anche per i più grandi. La preoccupazione di educare alla liturgia, trascurando anche il procedimento inverso, si traduce nella prassi ad una preparazione ai sacramenti che mostra inevitabilmente alcuni “vuoti pastorali”. Facciamo riferimento ad una situazione abbastanza diffusa e che è facile riconoscere: quale attenzione alle famiglie dal battesimo dei bambini fino al tempo della Iniziazione? Cosa succede ai nostri ragazzi dal sacramento della cresima fino alla celebrazione del matrimonio? E quale attenzione alle coppie giovani dal loro matrimonio al battesimo del loro primo figlio? 504

Si offrono alcune proposte L’omelia ponga la Parola di Dio proclamata in stretta relazione con la celebrazione sacramentale e con la vita della comunità, in modo tale che la Parola di Dio sia realmente sostegno e vita della Chiesa. Si tenga presente, pertanto, lo scopo catechetico ed esortativo dell’omelia. (Sacramentum caritatis, 46) Pertanto occorre promuovere un’educazione alla fede eucaristica che disponga i fedeli a vivere personalmente quanto viene celebrato. Di fronte all’importanza essenziale di questa participatio personale e consapevole, quali pos-


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE sono essere gli strumenti formativi adeguati? I Padri sinodali all’unanimità hanno indicato, al riguardo, la strada di una catechesi a carattere mistagogico, che porti i fedeli a addentrarsi sempre meglio nei misteri che vengono celebrati. (Sacramentum caritatis, 64) Sant’Ignazio di Antiochia esprimeva questa verità qualificando i cristiani come « coloro che sono giunti alla nuova speranza », e li presentava come coloro che vivono «secondo la domenica» (iuxta dominicam viventes). Questa formula del grande martire antiocheno mette chiaramente in luce il nesso tra la realtà eucaristica e l’esistenza cristiana nella sua quotidianità… Pertanto, la domenica è il giorno in cui il cristiano ritrova quella forma eucaristica della sua esistenza secondo la quale è chiamato a vivere costantemente. «Vivere secondo la domenica» vuol dire vivere nella consapevolezza della liberazione portata da Cristo e svolgere la propria esistenza come offerta di se stessi a Dio, perché la sua vittoria si manifesti pienamente a tutti gli uomini attraverso una condotta intimamente rinnovata. (Sacramentum caritatis, 72) … Da questo giorno, in effetti, scaturisce il senso cristiano dell’esistenza ed un nuovo modo di vivere il tempo, le relazioni, il lavoro, la vita e la morte. (Sacramentum caritatis, 73)

Può essere interessante sottolineare alcune proposte tra quelle offerte dal documento post sinodale, non solo per l’autorità di chi le propone, ma anche perché sono quelle nelle quali ci sembra che convergono le riflessioni affrontate in questi ultimi anni dalla nostra Chiesa, ed emerse in modo particolare nei due convegni unitari di Assisi (1992) e di Lecce (2004). L’omelia - Il Papa attribuisce grande importanza all’omelia perché strumento che permette alla Parola di Dio di diventare sostegno e nutrimento alla vita dei credenti. Sarebbe sufficiente leggere le omelie di alcuni Padri della Chiesa per scoprire non solo la ricchezza che l’omelia rappresenta, ma soprattutto il modo con cui essi legavano insieme la Parola di Dio, la celebrazione e la vita. Così scrivevano i vescovi italiani nel documento Evangelizzazione e sacramenti: «Altra forma insostituibile di evangelizzazione all’interno stesso della celebrazione del rito sacramentale è l’omelia. Non la predica moraleggiante, non il fervorino untuoso e vuoto, non il pezzo più o

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meno retorico d’occasione, né tanto meno l’elucubrazione erudita, ma la vera omelia ex textu sacro, come si esprime il Concilio. L’esposizione, cioè, semplice e pertinente che cali nell’esistenzialità dell’assemblea le multiformi ricchezze del mistero di Cristo e del rito sacro in atto» (CEI, Evangelizzazione e sacramenti, 69). La mistagogia - La mistagogia costituisce un grande patrimonio della Chiesa, ma non può restare solo una tradizione a cui fare riferimento nelle nostre riflessioni. Non è possibile pensare che un tale metodo sia semplicemente da aggiungere a quelli già in atto nella nostra pastorale. Prima ancora di essere un metodo, la mistagogia è un modo di pensare la pastorale. Pertanto, essa può certamente essere ripresa nel metodo, ma in una forma nuova che chiede di ripensare la nostra pastorale. Soprattutto, il metodo mistagogico può rivelare la sua ricchezza, ma solo se la pastorale non si esaurisce nella preparazione ai sacramenti.

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La domenica - L’ultimo convegno unitario svoltosi a Lecce e il congresso eucaristico celebrato a Bari hanno offerto preziose riflessioni sul senso e sul significato della domenica nella vita del credente. Tuttavia, proprio in quelle occasioni si chiedeva di mettere in atto indicazioni pastorali concrete, che forse si sono smarrite nel tempo. Sul quotidiano “La Stampa” (28 febbraio 2004), in un articolo dal suggestivo titolo Se si diffonde la religione fai da te, Enzo Bianchi parla di “cristiani a intermittenza”, e spiega: «costoro conducono un’esistenza in cui la religione trova collocazione in alcuni momenti forti, non nel ritmo tradizionale di domeniche e feste». Ma se è evidente una certa superficialità e scarsità di partecipazione nella celebrazione, soprattutto nelle città, non possiamo attribuirne la colpa solo ad una società ormai secolarizzata e poco attenta ai valori religiosi. Dovremmo chiederci se anche noi abbiamo contribuito a svilirne il significato della domenica, svilendo la bellezza e la dignità delle nostre celebrazioni e trasformando la domenica delle nostre parrocchie in un “contenitore” nel quale riversare tutte le iniziative, dalle domeniche a tema, agli incontri o alle uscite fuori parrocchia.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Una suggestiva immagine dal Convegno Unitario del 2004 (Lecce) - Da Gerusalemme a Gaza (At 8,26-40) - Da Gerusalemme verso Emmaus (Lc 24,13-35) - Da Gerusalemme a Gerico (Lc 10,25-37)

Il convegno unitario di Lecce tra le altre riflessioni offrì una suggestiva immagine biblica che doveva aiutare a comprendere meglio il rapporto tra annuncio, celebrazione e vita. Attingendo al vangelo di Luca furono proposte alla meditazione tre percorsi: da Gerusalemme a Gaza, dove il diacono Filippo ha la possibilità annunciare Cristo all’eunuco etiope; da Gerusalemme verso Emmaus, dove Cristo si lascia riconoscere nel gesto della frazione del pane; da Gerusalemme verso Gerico, dove il Samaritano soccorre un povero incappato nei briganti. Gerusalemme appare in questo modo un crocevia, il luogo dal quale e verso il quale le strade convergono. Questa immagine conferma che, per quanto si percorrono strade diverse, c’è un luogo che le accomuna. Cosa rappresenta Gerusalemme? Gerusalemme è la città nella quale Cristo porta a compimento il Mistero pasquale, la città in cui Gesù muore e risorge. Ma essa è anche la città nella quale, nel giorno di Pentecoste, la comunità dei discepoli riceve il dono dello Spirito e si dirige per le strade del mondo. Ma Gerusalemme è prima di tutto una città, luogo nel quale l’uomo abita e vive le sue relazioni. E’ il luogo del lavoro e degli affetti. Il riferimento a Gerusalemme conferma che la pastorale, pur percorrendo strade diverse, deve ritrovare la sua unità nel Mistero pasquale che annuncia, e nell’esistenza concreta dell’uomo a cui è rivolto questo annuncio. Gerusalemme può quindi diventare metafora del Mistero pasquale annunziato, celebrato e vissuto. La stessa celebrazione tiene viva questa metafora, aprendo la celebrazione con un cammino che porta verso l’altare, e concludendolo, dopo la comunione, con un cammino inverso, dall’altare verso la soglia.

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Il servizio pastorale dell’Ufficio liturgico

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Un esempio concreto di un lavoro già realizzato, ma prima ancora pensato, coinvolgendo le diverse dimensioni pastorali, può essere il nuovo Rito del Matrimonio. Infatti, l’Ufficio liturgico lavorò in perfetta sintonia con l’Ufficio catechistico, la Pastorale familiare e il Servizio per la Pastorale giovanile. Nella presentazione che fu fatta a Grosseto, l’allora segretario generale mons. Betori disse che: «si tratta di un libro liturgico che non si limita e non si esaurisce soltanto nella celebrazione, ma offre contenuti e percorsi sia per la preparazione al matrimonio sia per la riflessione mistagogica, che è oggi più che mai necessaria per dare solidità umana e spirituale alle giovani coppie di sposi, esposte al rischio della superficialità, della fragilità e purtroppo sempre più spesso del fallimento». Allo stesso tempo, lo stesso segretario commentò il lavoro compiuto dicendo che «Appare sempre più necessario che le diverse competenze di singoli uffici e servizi si pongano in vicendevole ascolto e collaborazione, per accompagnare le persone nel loro cammino di formazione cristiana, nelle varie fasi della loro vita, umana e cristiana». C’è solo da chiedersi: è stato realizzato il libro liturgico, ma come viene utilizzato? Certamente molto resta da fare, ma non possiamo sottovalutare quelle che comunque già si sta facendo, come dimostra questo stesso convegno. Tuttavia, al di là delle proposte che si possono offrire, ci sembra necessario tenere viva una domanda, quella stessa fatta nel 1996 dai vescovi francesi nella Lettera ai cattolici di Francia: «Non esiste in effetti il rischio reale che distaccandosi dalla vita liturgica e sacramentale, l’annuncio del messaggio si trasformi in propaganda, che l’impegno dei cristiani perda il suo sapore proprio e che la preghiera degeneri in evasione?». Concludere con questa domanda, significa riconoscere che il cammino, per quanto già avviato è ancora tutto da percorrere.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE

Francesco Savino*

La parrocchia-santuario Santi Medici tra territorio e religiosità popolare: una parrocchia «atipica» Incipit La parrocchia-santuario Santi Medici insiste su un territorio confinante con i territori di altre tre parrocchie. Il quartiere, di configurazione urbanistica datato a partire dagli anni ’60, quando fu iniziata la costruzione del santuario, è ad alta concentrazione edilizia e abitativa. Gli abitanti che si attestano su 6918 unità, come risulta dall’ultimo censimento comunale dell’anno 2007, occupano palazzi condominiali di grandezza varia e, in piccola parte, case monofamiliari. Nella zona est sorgono due complessi popolari Gescal e due condomini realizzati da cooperative «Acli Casa» denominate «Leone XIII» e «Giovanni XXIII». L’estrazione sociale dei nuclei familiari è prevalentemente di tipo medio. Alcune famiglie godono di una condizione economica molto agiata. Di converso si registrano condizioni socio-economiche molto disagiate riguardanti gruppi familiari che vivono la marginalità e tra i quali si sono verificati casi di criminalità talvolta anche molto gravi (casi di lupara bianca ed omicidi). Notevole la presenza di esercizi commerciali che, nell’ultimo decen-

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FRANCESCO SAVINO, parroco e rettore Santuario Santi Medici, Bitonto - presidente Fondazione «Opera Santi Medici Cosma e Damiano - Onlus» .

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nio, ha visto aumentare quelli di ristorazione e di abbigliamento. Negli ultimi anni si è registrata la cessazione di molte piccole aziende dedite alla confezione di indumenti (laboratori) dovuta a crisi sistemica dell’economia italiana. Si registra anche la proliferazione di sportelli bancari. Sul territorio sorge una scuola primaria «Nicola Fornelli» dalla cui direzione didattica dipendono due plessi di scuola per l’infanzia uno dei quali è stato completato e reso funzionale nel 2000. Al limite nord-ovest del territorio, al confine con la parrocchia Santa Caterina, su via della Repubblica, è stato allestito un giardino entro il quale sorge la statua di San Pio nell’omonima piazzetta. Si tratta di uno spazio verde attrezzato con i proventi dei devoti al santo e con contributi del Comune la cui gestione è affidata alla buona volontà di cittadini che ne mantengono il decoro per devozione al santo esprimendo un ottimo esempio di sussidiarietà. Mancano altri spazi verdi nel quartiere, fatta eccezione del piccolo giardino privato delle case Gescal e del giardino dello stesso santuario. La parrocchia, di cui nel 2003, è stato ricordato il 40° anniversario, deve la sua istituzione al trasferimento delle sacre immagini dei Santi Cosma e Damiano dalla chiesa di San Giorgio (borgo antico) nel santuario edificato a partire dal 1960 per volontà di mons. Aurelio Marena ed elevato a basilica pontifica minore da papa Paolo VI nel 1975. Il culto dei Santi Medici richiama numerosissimi fedeli devoti sia da Bitonto sia da località vicine e lontane, anche da fuori del territorio nazionale. L’accoglienza dei pellegrini è diventata, nell’ultimo decennio, una cifra distintiva della comunità parrocchiale che ha focalizzato un’attenzione particolare sulle forme di religiosità popolare nelle quali è riconoscibile il bisogno del sacro che va educato, riconosciuto, valorizzato, evangelizzato e inculturato perché costituisce una chiave di accesso al Mistero. Anche la Fondazione, di cui è stato ricordato il 10° anniversario nel 2004, è diventata testimonianza di carità della comunità che serve i fratelli nel bisogno, che segue percorsi di ascolto della Parola, celebra la liturgia e si impegna concretamente nella diversità dei carismi e dei servizi. È la testimonianza della vita-carità della comunità come sintesi tra l’annuncio (kerigma-catechesi) e la celebrazione del mistero di Cristo (liturgia).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE PRIMA PARTE

La parrocchia-santuario tra l’emergenza educativa in un mondo che cambia e la mistagogia come una scelta pastorale complessiva

a. L’emergenza educativa una sfida che si può vincere. Una puntualizzazione: la sfida della traduzione La parrocchia è il «luogo e il tempo» dove maggiormente sono evidenti tutte le conseguenze dell’emergenza educativa. Sostengono Giuseppe Savagnone e Alfio Briguglia nel libro: Il coraggio di educare: «La Chiesa non riesce più, spesso, a dialogare in profondità con la sensibilità e le categorie mentali delle nuove generazioni. Un papa le può conquistare e convocare centinaia di migliaia di giovani, suscitare il loro entusiasmo, avere i loro applausi. Ma non è da simili eventi che una seria educazione può essere realizzata. Essi hanno sicuramente una funzione sul piano del coinvolgimento emotivo e, a livello mediatico, su quello dell’immagine, entrambi importantissimi nel mondo contemporaneo. Sarebbe perciò un errore sottovalutarli. Ma per educare è necessaria un’opera capillare, durevole nel tempo, che coinvolga tutte le dimensioni della persona e non solo la sua sfera emozionale. È in questo che la Chiesa oggi trova delle serie difficoltà. Anche tanti giovani che partecipano alle giornate mondiali della gioventù, che si dicono credenti e frequentano la messa domenicale, di fatto non si trovano in sintonia con molti insegnamenti del magistero ecclesiastico in materia dogmatica e soprattutto etica. Spesso, in realtà, non conoscono abbastanza della dottrina cristiana da potersi dire in disaccordo, ma anche questa diffusa ignoranza e questa superficialità sono un segno che la tradizione stenta a prolungare il suo cammino e che la sua continuità è, in questo momento storico, abbastanza problematica».

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Il punto è che nella nostra epoca, come in tutte quelle che implicano una forte e rapida trasformazione culturale, la tradizione esige un imponente sforzo di traduzione. L’etimologia di queste due parole, malgrado la loro apparente somiglianza, è diversa: «tradizione» deriva da tradere, che nella lingua latina vuol dire «consegnare»; all’origine del termine «traduzione» sta invece ducere, che vuol dire condurre, unito a trans, che significa «attraverso»: chi traduce fa sì che un certo testo oltrepassi la linea di confine tra due lingue e passi dall’una all’altra. Tuttavia, malgrado questa diversa matrice linguistica, questi due termini sono uniti dal fatto di indicare entrambi un dinamismo, un trasferimento: il primo, con riferimento ai soggetti tra i quali questo trasferimento si compie, il secondo al contenuto. La tradizione avviene tra le generazioni solo se c’è, da parte di quella che trasmette, la capacità di tradurre le sue convinzioni, i suoi valori, le sue esperienze, nel linguaggio di quelle che deve riceverli. Questa in realtà è una legge che vale per ogni epoca, ma a maggior ragione quando – come nella nostra – per varie circostanze i distacchi generazionali sono più netti. Non si tratta, è appena il caso di precisarlo, solo di un problema strettamente linguistico. La lingua si evolve, ma non tanto da impedire di capirne il significato a livello letterale. Il problema è la mentalità che in essa si esprime. Del resto, anche per tradurre da una lingua ad un’altra non ci si può limitare a una semplice sostituzione di parole. Una traduzione strettamente letterale raramente è davvero fedele. Perché lo sia, è necessario che non solo i singoli termini, ma la struttura sintattica e le stesse categorie mentali che stanno dietro la lingua di partenza vengano in un certo senso abbandonate, affinché il contenuto che era espresso attraverso di esse, possa esserlo ora in quelle della nuova lingua. Ciò può sconcertare chi era affezionato al testo nella formulazione originaria. Ma solo a prezzo di questa specie di «morte» esso può rivivere nella cultura in cui lo si vuole trasporre. Non solo: in tale «resurrezione» esso rivela, spesso, sfumature imprevedibili, che vi erano contenute in potenza, ma che nella lingua originaria non si evidenziavano e che solo nella nuova vengono alla luce. In modo tale che alla fine la verità profonda del testo emerge gradualmente nelle diverse traduzioni, ognuna delle quali contribuisce a manifestarne la ricchezza. Così è del Vangelo, che di epoca in epoca, attra-


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE verso le successive versioni – linguistiche ma anche soprattutto culturali –, dall’aramaico delle prime tradizioni orali e delle prime stesure parziali, al greco dei testi che sono pervenuti a noi, al latino della Vulgata, al tedesco, all’inglese, al francese, all’italiano e alle tre lingue europee, agli idiomi dell’Africa e dell’Asia, viene assumendo risonanze diverse, pur mantenendo il suo significato di fondo. Senza contare che già nei quattro Vangeli troviamo letture diverse dell’unico evento-Gesù. E qualcosa di analogo accade con il modo di pensare la fede, con rituali, con gli stili di vita, che sono espressioni di traduzioni diverse, nello spazio e nel tempo della grande tradizione cristiana. Senza la continuità ininterrotta di questo tradere dagli uomini e dalle donne di una generazione a quelli della seguente – che sempre anche un trans-ducere in forme diverse il messaggio evangelico – non saremmo oggi in rado di rapportarci al testo del Nuovo Testamento, o lo faremmo come dei marziani caduti sulla terra e del tutto estranei a ciò che hanno di fronte. Oggi si tratta di rifare, nelle nuove circostanze storiche e culturali, l’opera che è stata compiuta prima di noi. Il grande fiume della tradizione continuerà se saremo capaci di rispondere a questa sfida, attualizzando e rendendo comprensibile ai nostri giovani il deposito della rivelazione così come è giunto a noi, carico delle risonanze che le precedenti traduzioni hanno rivelato. Ciò richiede coraggio, inventiva, capacità di andare oltre le formulazioni a cui ci eravamo abituati a cui siamo affezionati. E richiede una conoscenza profonda della nuova «lingua» in cui si vuole tradurre, quella del nostro tempo, con le sue logiche (che a noi possono sembrare a prima vista incomprensibili), con le sue convinzioni (che a noi possono sembrare ben poco fondate), con i suoi riti (che a noi possono sembrare assurdi e sgradevoli). Ma una traduzione è un esodo: conduce in quello che potrebbe sembrare un deserto, e forse lo è, ma costituisce il passaggio obbligato verso una nuova terra promessa.

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b. L’emergenza educativa come questione culturale. Nichilismo, naturalismo e relativismo i tre mali da abbattere

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Se è vero che mai come in questo contesto socio-culturale in cui viviamo, sembrano aumentare le difficoltà che si incontrano nel trasmettere alle nuove generazioni i valori base della vita cristiana, difficoltà che non possono essere liquidate come una semplice «frattura fra le generazioni» o con la «forte tendenza a rinunciare al rapporto educativo da parte degli educatori», è fondamentale individuare le radici di questa emergenza che sono più profonde e affondano in tre grandi mali: relativismo, nichilismo e naturalismo. Mi spiego. L’emergenza educativa in cui ci troviamo rimanda al predominio del relativismo nella nostra cultura e vita sociale. Parlare di certezze o verità viene considerato pericoloso e autoritario e così l’educazione diventa solo trasmissione di informazioni e di specifiche abilità ma non offre più quei fondamenti solidi su cui i giovani possono costruire la loro vita. Il passo verso il nichilismo diventa così automatico. Come non vederlo alla radice degli aspetti più inquietanti della vita della nostra società e quindi anche della strana stanchezza, del desiderio di evasione e dello smarrimento morale di molti giovani. E, se non bastasse, si assiste al diffondersi di un naturalismo che riduce l’uomo ad un elemento della natura, quasi fosse solo il risultato dell’evoluzione cosmica e biologica, cancellando la visione classica dell’uomo come animale ragionevole, con una propria libertà di discernimento e di azione. Pertanto le ragioni dell’attuale emergenza educativa sono di ordine culturale. E proprio qui deve concentrarsi l’azione a cui tutti siamo chiamati, anche perché la domanda di educazione è fortemente presente nei ragazzi, negli adolescenti e nei giovani. Come rispondere? In primo luogo senza evitare di confrontarsi con queste grandi domande, ricordando che nel rapporto educativo troviamo libertà e disciplina. È stato un errore grande di conseguenze negative quello, compiuto una quarantina di anni fa, di ritenere che la disciplina fosse una forma di autoritarismo nocivo al pieno sviluppo delle


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE potenzialità della persona. Un errore confermato nel cercare di eliminare dalla vita dei giovani il dolore e la sofferenza, con il risultato di far crescere persone fragili, poco realiste e poco generose. Recuperare, invece, questi aspetti della vita, accanto al senso della propria responsabilità diventa un obiettivo centrale del processo educativo, superando anche l’eccessivo scientismo e recuperando un umanesimo autentico. Una sfida difficile ma modificare il clima culturale, allargare gli spazi della razionalità e liberarsi dalla dittatura del realismo, è un’impresa impegnativa ma non impossibile e nemmeno disperata.

c. La parrocchia: una comunità educante «Che cosa significa educare? Significa che io do a quest’uomo coraggio verso se stesso, che gli indico i suoi compiti e interpreto il suo cammino, che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria. Devo dunque mettere in moto una storia umana e personale… La vita viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente forza di educazione consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere… Da ultimo, come credenti diciamo: educare significa educare l’altra persona a trovare la sua strada verso Dio: non soltanto far si che abbia le carte in regola per affermarsi nella vita, bensì che questo “bambino di Dio” cresca fino a raggiungere la maturità di Cristo. L’uomo è per l’uomo la via verso Dio»1. Con l’espressione comunità educante vogliamo anzitutto cautelarci da un rischio incombente. Di fronte alle difficoltà che ci pone la catechesi oggi, la tentazione più forte è quella di chiederci: «Che dobbiamo fare?», pensando, certo in buona fede, che la soluzione dei problemi verrà «facendo» alcune cose, quasi che le tecniche, i

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R. GUARDINI, Persona e libertà, Morcelliana, Brescia 1987, pp. 222ss.

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sussidi, e le iniziative possano «miracolosamente» far cambiare la situazione. Su questo non dobbiamo illuderci. «Dall’organizzazione non nasce la vita». Errori di questo tipo sono fonte di fallimento e di delusione. Allora su quale strada sicura possiamo incamminarci? Se «iniziare» alla fede vuol dire introdurre progressivamente a una vita piena di comunità, questo inserimento dovrà avvenire attraverso degli attori. Non un gruppo di persone qualsiasi, ma una comunità di uomini, dei testimoni (il sacerdote, i catechisti, gli animatori dell’Azione cattolica ragazzi (ACR), gli scout, gli insegnanti di religione, i responsabili del canto, della liturgia, dello sport) che stanno insieme perché hanno incontrato Cristo e vivono di Lui; sono amici in Cristo; una comunità di persone che intende prendere sul serio le implicazioni di Atti 2,42 circa la vita di comunione («Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere»). Una tale comunità, che vive l’«evento» di Gesù Cristo, è nelle condizioni di far nascere un «nuovo evento», perché: «il luogo in cui si vive l’evento fa nascere un nuovo evento». Una comunità con queste caratteristiche è una comunità educante perché comunica in modo performativo ai ragazzi la sua umanità «cambiata» dall’evento Cristo. Gli educandi dovranno incontrare non degli individui, neppure dei singoli educatori, ma il loro insieme come espressione di una comunione vitale che testimoniano autorevolmente ciò che propongono. c.1. I compiti della comunità educante 516

Educare è «un prendersi cura» del rapporto di tutta la persona dell’educando con tutta la realtà. Questo rapporto, sulla scia del rapporto tra Gesù ed i suoi, si attua in un coinvolgimento di comunione che è sempre, allo stesso tempo, personale e comunitario. Normalmente, e in concreto, la comunità educante dovrà affrontare tutti gli aspetti relativi all’introduzione e all’accompagnamento all’incontro personale con Cristo nella comunità. Avrà cura che i bambini, i fanciulli e i ragazzi siano sempre visti nel loro cammino integrale, considerando il più possibile tutti gli aspetti della loro esistenza: famiglia, scuola, sport e tempo libero, preghiera e liturgia.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE c. 2. Molteplicità di forme della comunità educante La comunità educante può assumere molte forme. Certamente la forma più immediata nascerà dalla decisione di non continuare ad agire in modo frammentato, ma da quella di tendere all’unità. Un ragazzo deve avvertire che andare al catechismo significa incontrare un gruppo di amici piccoli e grandi. Se l’unica esperienza è quella di incontrare la classe di catechismo e il catechista, il rischio è che si riveli un’esperienza alla fine irrilevante. Occorre che trovi una comunità cristiana che gli dica «Vieni e vedi». E che egli stesso possa formulare questo invito a tutti i suoi compagni. Se la comunità vive l’evento e il ragazzo ne è coinvolto, allora questo evento lo accompagna in ogni situazione. Diceva Romano Guardini: «Nell’orizzonte di un grande amore tutto diventa un avvenimento nel suo ambito». Questa è la sfida educativa decisiva a cui la nostra Chiesa è chiamata. c. 3. Gli «attori» della comunità educante Per utilità pratica distinguiamo qui i vari attori, raccomandando però che nessuno si concepisca autonomamente. Il sacerdote. È chiamato a vivere la comunione con il presbiterio e il suo vescovo, diventando un uomo capace di costruire comunione, gettando ponti nella sua comunità fra le persone e le diverse realtà educative presenti in parrocchia e nel territorio. Importante sarà la sua opera di sostegno dei catechisti, delle famiglie più motivate, dei ragazzi e di tutti coloro che formeranno la comunità educante di cui egli è parte integrante come cristiano e guida come sacerdote. Sarà suo compito conoscere e accogliere con disponibilità le indicazioni diocesane, condividerle in spirito di comunione ed incarnarle con sapiente creatività nella sua comunità. Il collegamento con la diocesi viene agevolato dal responsabile del vicariato. Gli è chiesta la disponibilità di studiare alcuni documenti importanti e di parlare con competenza circa l’introduzione e l’accompagnamento dei ragazzi all’incontro con Cristo nella comunità cristiana.

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Un primo compito per il pastore è quello di aiutare i catechisti, le associazioni, i movimenti, gli animatori e tutti gli altri soggetti comunitari che si interessano di questa fascia di età, a verificare se la loro proposta educativa è in sintonia con le finalità che caratterizzano la nascita e la crescita della comunità cristiana: rigenerazione continua dell’appartenenza libera alla Chiesa, educazione alla vita e al pensiero di Cristo, al gratuito, all’universalità. I genitori. Il coinvolgimento dei genitori. Anche qui occorre partire con piccoli passi ma senza stancarsi. Occorre innanzitutto che i fedeli laici in famiglia siano oggetto d’evangelizzazione e di educazione della fede dei loro figli. Certamente conosciamo qualche coppia di sposi in parrocchia particolarmente motivata e sensibile che vive la propria vita familiare segnata dall’incontro con Cristo. Insieme al parroco e sostenuti dai catechisti possono cominciare, in un rapporto da persona a persona, ad avvicinare altri genitori e creare anche informalmente le condizioni di un’amicizia in Cristo che possa lentamente maturare e dar vita ad una piccola comunità di credenti. Per evitare discorsi astratti e agganciare il vissuto delle persone si possono tenere presenti le dimensioni della persona umana così come sono state trattate nel Convegno di Verona (vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza).

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I catechisti e gli altri educatori –Il catechista. Al singolo catechista, il cui compito resta essenziale, dovranno affiancarsi una pluralità di figure di educatori: sacerdote, catechisti, genitori e animatori responsabili che, collaborando tra loro dallo specifico dell’iniziazione, diano vita ad una comunità educante. Va maggiormente favorita la conoscenza tra i vari educatori presenti in parrocchia (sacerdote, catechisti, educatori dei giovani, responsabili del canto, dei chierichetti, della liturgia, della carità). – Gli insegnanti. In modo particolare la comunità parrocchiale dovrà cercare di conoscere e mettersi in rete con gli educatori credenti che condividono con i ragazzi la loro esperienza scolastica. La scuola incide moltissimo a livello di mentalità e di stile nella vita dei ragazzi. Ci dobbiamo chiedere come far si che quest’ambito della loro vita non rimanga staccato dall’esperienza di fede. Qui entrano in


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE campo gli insegnanti e i genitori presenti nella scuola pubblica e in quella di ispirazione cristiana. – Gli educatori dello sport. È urgente riprendere il dialogo con gli educatori del mondo dello sport perché questa dimensione, fondamentale per la crescita del ragazzo, sia vista con simpatia dalla comunità cristiana e non sia separata dell’esperienza di fede. d. La parrocchia-santuario nella prospettiva mistagogica della pastorale Premesso che «La tradizione più antica della Chiesa ricorda che il cammino cristiano, senza trascurare l’intelligenza sistematica dei contenuti della fede, è esperienza che nasce dall’annuncio, si approfondisce nella catechesi e trova la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione liturgica. Fede e sacramenti sono due aspetti complementari dell’attività santificatrice della Chiesa. Suscitata dall’annuncio della Parola, la fede è nutrita e cresce nell’incontro di grazia con il Signore risorto nei sacramenti. La fede si esprime nel rito e il rito rafforza e fortifica la fede. Di qui l’esigenza di un itinerario mistagogico da vivere nella comunità e con il suo aiuto che si fonda su tre elementi: l’interpretazione dei riti alla luce degli eventi biblici in conformità con la tradizione della Chiesa; la valorizzazione dei segni sacramentali; il significato dei riti in vista dell’impegno cristiano nella vita»2, puntualizziamo non solo che cos’è la mistagogia ma qual è il metodo e come tradurla in «prassi pastorale» condivisa in parrocchia. Mons. Francesco Cacucci nel suo libro La mistagogia. Una scelta pastorale così afferma: «Richiamandosi alla via seguita dal Padri della Chiesa, il Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti ribadisce con forza che la mistagogia tende a un’“esperienza di sacramenti ricevuti”3 e si realizza in un contesto di vita comunitaria intensa e coin-

2 Sinodo dei Vescovi, XI Assemblea Generale Ordinaria, L’eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa. Elenco finale delle proposizioni, proposizione 16. 3 «In realtà una più piena e più fruttuosa intelligenza dei misteri si acquisisce con la novi-

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volgente4. Si mette, così, in evidenza il primato della grazia sullo sforzo dell’intelligenza5. Questo orientamento provoca le nostre comunità cristiane a un salto di qualità consistente nel passare da una pastorale che prepara ai sacramenti ad una pastorale di progressivo inserimento nel mistero6. Del resto, alle catechesi mistagogiche non partecipavano solo i neobattezzati, ma tutta la comunità cristiana, che, in questo modo, riceveva una formazione permanente ed era aiutata a comprendere e vivere sempre più profondamente il dono ricevuto e ravvivato dalla liturgia. È questo anche il senso della preghiera che la comunità innalza al suo Signore: “accresci in noi l’efficacia del mistero pasquale con la forza di questo sacramento di salvezza”7. Il cristiano è chiamato a un cammino progressivo che può essere così tratteggiato: iniziato dai sacramenti, egli si incammina verso la pienezza della vita in Cristo, per mezzo dello Spirito santo, fino all’incontro definitivo con Dio nell’eternità. L’inizio è noto e datato, il traguardo è altrettanto chiaro; solo il percorso può, a volte, risultare incerto e tortuoso. Ecco, allora, la necessità di una mistagogia permanente, che sostenga il credente nella fedeltà al dono ricevuto. Crisostomo non esita a chiamare “nuovi illuminati” anche coloro

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tà della catechesi e specialmente con l’esperienza dei sacramenti ricevuti. I neofiti, infatti, sono stati rinnovati interiormente, più intimamente hanno gustato la buona parola di Dio, sono entrati in comunione con lo Spirito Santo e hanno scoperto quanto è buono il Signore. Da questa esperienza, propria del cristiano e consolidata dalla pratica della vita, essi traggono un nuovo senso della fede, della chiesa e del mondo» (Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, 38). 4 «La nuova e frequente partecipazione ai sacramenti, se da un lato chiarisce l’intelligenza delle Sacre Scritture, dall’altro accresce la conoscenza degli uomini e l’esperienza della vita comunitaria così che, per i neofiti, divengono nello stesso tempo più facili e più utili i rapporti con gli altri fedeli. Perciò, il tempo della mistagogia ha un’importanza grandissima e consente ai neofiti, aiutati dai padrini, di stabilire più stretti rapporti con i fedeli offrendo loro una rinnovata visione della realtà e un impulso di vita nuova» (Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, 39). 5 «C’è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale: quella di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio, ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita a investire, nel nostro servizio alla causa del Regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che “senza Cristo non possiamo far nulla” (cf. Gv 15,5)» (GIOVANNI PAOLO II, Novo millennio ineunte, 38). 6 Cf. Arcidiocesi di Bari-Bitonto, Il libro del Sinodo, Ecumenica, Bari 2002, 7. 7 MESSALE ROMANO, Orazione dopo la comunione, VI domenica di Pasqua.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE che hanno ricevuto da anni il Battesimo, perché la vita nuova scaturita dal sacramento non conosce vecchiaia, se non quella causata dal peccato. Per questo li esorta “a custodire incontaminata la veste nuziale e con essa a venire sempre a queste nozze spirituali”. In definitiva, fare mistagogia vuol dire “scoprire le valenze dei gesti e delle parole della liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l’intera loro esistenza”. Il suo metodo consiste nel procedere “dal visibile all’invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai “sacramenti” ai “misteri”. Pur nella sobrietà dell’espressione, queste affermazioni individuano i passaggi più importanti del metodo mistagogico». e. La mistagogia: sintesi tra Parola, celebrazione e vita Dove, dunque, il cristiano trova il suo punto forza per il suo servizio ai fratelli? Proprio nella celebrazione eucaristica, purché questa non scivoli in un devozionismo sterile e disincarnato. Basti qui richiamare Giovanni Crisostomo che al riguardo usa parole di fuoco8. È quanto ha ribadito con forza anche il concilio: «La liturgia domanda che i fedeli esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede»9.

8 «Vuoi amare il Corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità […]. A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccaricata di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a servire lui affamato, poi con quello che resterà potrai ornare anche l’altare». (GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul Vangelo di Matteo, 50,3-4). Dalla Vita di Agostino di Possidio sappiamo che il vescovo di Ippona mai dimenticò «i suoi compagni di povertà». Possidio narra: «Talvolta, quando mancava danaro alla Chiesa, comunicava al popolo dei fedeli che egli non aveva di che distribuire ai poveri. Per aiutare prigionieri e gran quantità di poveri, fece spezzare e fondere alcuni vasi sacri e distribuì il ricavato a chi ne aveva bisogno. Non avrei ricordato questo episodio, se non sapessi che esso contrasta l’opinione di alcuni uomini che pensano secondo la carne. Del resto anche Ambrogio di venerabile memoria ha detto e scritto che in tali strettezze senz’altro si deve fare così» (POSSIDIO, Vita di Agostino, 24). 9 CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum concilium, 10.

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Sostiene ancora mons. Cacucci: «Quante volte, nel cammino triennale di preparazione al Congresso eucaristico, soprattutto riflettendo sulla domenica come Dies hominis, abbiamo approfondito l’esigenza di testimoniare la carità che deriva dal celebrare il sacramento dell’amore. Quanto scriveva Giovanni Paolo II nella lettera apostolica sul giorno del Signore indicava con chiarezza una direzione che non può essere in alcun modo disattesa10. E nella lettera scritta in occasione dell’anno dell’Eucaristia è stato ancora più esigente, affermando che «non possiamo illuderci: dall’amore vicendevole e, in particolare, dalla sollecitudine per chi è nel bisogno saremo riconosciuti come veri discepoli di Cristo (cf. Gv 13,35; Mt 25, 31-46). È questo il criterio in base al quale sarà comprovata l’autenticità delle nostre celebrazioni eucaristiche»11. Del resto, come dimenticare l’ampio ventaglio di testimonianze offerte durante il Congresso eucaristico nella giornata dedicata al tema: La domenica, giorno della carità. L’Eucaristia, pane di fraternità? E perché fosse chiaro che la testimonianza della carità non consiste solo nell’andare incontro alle diverse forme di povertà, è stata dedicata un’intera giornata al tema: La domenica e la città dell’uomo. L’Eucaristia, sorgente di un mondo nuovo». In questa giornata, Paola Bignardi ha affermato che «l’Eucaristia ci fornisce un cuore nuovo e degli occhi nuovi con cui vagliare le scelte concrete»12. Si è

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«L’Eucaristia è evento e progetto di fraternità. Dalla Messa domenicale parte un’onda di carità, destinata ad espandersi in tutta la vita dei fedeli, iniziando ad animare il modo stesso di vivere il resto della domenica. Se essa è giorno di gioia, occorre che il cristiano dica con i suoi concreti atteggiamenti che non si può essere felici “da soli”. Egli si guarda attorno, per individuare le persone che possono aver bisogno della sua solidarietà. Può accadere che nel suo vicinato o nel suo raggio di conoscenze vi siano ammalati, anziani, bambini, immigrati che proprio di domenica avvertono in modo ancora più cocente la loro solitudine, le loro necessità, la loro condizione di sofferenza. Certamente l’impegno per loro non può limitarsi ad una sporadica iniziativa domenicale. Ma posto un atteggiamento di impegno più globale, perché non dare al giorno del Signore un maggior tono di condivisione, attivando tutta l’inventiva di cui è capace la carità cristiana? Invitare a tavola con sé qualche persona sola, fare visita a degli ammalati, procurare da mangiare a qualche famiglia bisognosa, dedicare qualche ora a specifiche iniziative di volontariato e di solidarietà, sarebbe certamente un modo per portare nella vita la carità di Cristo attinta alla Mensa eucaristica» (GIOVANNI PAOLO II, Dies Domini, 72). 11 GIOVANNI PAOLO II, Mane nobiscum Domine, 28. 12 «Un altro esempio è l’impegno per la politica. Ciascuno di noi sogna una classe politica competente, capace di risolvere i problemi di tutti i giorni e di migliorare il benessere collet-


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE quindi soffermata a parlare del dinamismo dell’Eucaristia, capace di trasformare i rapporti tra le generazioni, i rapporti tra l’uomo e la donna, la vita delle nostre città, i rapporti con le istituzioni, i rapporti con le cose e il creato13; per, poi, concludere che «potranno esserci cristiani veramente eucaristici a servizio della città dell’uomo, se ci saranno comunità cristiane così radicate nell’Eucaristia da alimentare il loro amore a servizio della città»14. Pertanto un’autentica pastorale mistagogica tenderà alla sintesi tra la via della verità, la via del mistero e la via della responsabilità. tivo. Tuttavia spesso siamo portati a delegare ad essa tutto ciò che attiene alla sfera dei nostri interessi pubblici, sperando magari che non ci siano troppe interferenze con i nostri egoismi privati. Per purificare i nostri sogni sulla politica, l’Eucaristia ci ricorda che l’unica strada per il rinnovamento della politica è il metterci in gioco personalmente, dimostrando disponibilità a pagare di persona, a farci direttamente responsabili, per la nostra parte, del bene comune. L’Eucaristia dunque ci fornisce un cuore nuovo e degli occhi nuovi con cui vagliare le scelte concrete. Sono il cuore e gli occhi dei poveri e degli ultimi: quelli delle famiglie che hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese; delle donne che in Italia e in tante altre parti del mondo continuano ad essere discriminate da un mondo del lavoro poco rispettoso della loro femminilità, soprattutto quando questa si apre alla maternità; dei molti giovani che, per trovare un lavoro, si trovano di fronte a scelte di dipendenza e di umiliazione o a un distacco doloroso dai propri cari e dalla propria terra; degli anziani troppo spesso additati come un peso per la società; dei bambini che vengono “occupati” dagli adulti in tante attività da “status symbol”, quando invece avrebbero bisogno di vivere da bambini, nella libertà del gioco e delle relazioni amicali. Questi poveri ci impegnano a non scoraggiarci di fronte alle difficoltà di costruire un mondo nuovo: e ci insegnano a purificare i nostri sogni!» (PAOLA BIGNARDI, La domenica e la città dell’uomo. L’Eucaristia, sorgente di un mondo nuovo, relazione tenuta durante il XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, Bari 24 maggio 2005, in «L’Odegitria. Bollettino dell’Arcidiocesi di Bari-Bitonto» 81 (2005) 3, 386-387). 13 «Al cuore delle contraddizioni e delle attese della storia umana sta il mistero di un pane e di un calice in cui si riflette e si concentra la croce gloriosa del Signore. Un pane trasformato nel corpo del Signore dall’amore con cui egli ha dato la sua vita per il mondo. E come la forza dello Spirito ha trasformato il corpo del crocifisso nel corpo luminoso della sua gloria; come ha trasformato un umile pezzo di pane nel suo corpo, così può trasformare il mondo nell’amore, secondo i sogni più belli che ogni uomo coltiva nel suo cuore: secondo il sogno di Isaia. Quanti partecipano all’Eucaristia della domenica credono che la forza di quel pane può trasformare la vita, e si sentono coinvolti e partecipi della stessa azione che trasforma il mondo e la città (PAOLA BIGNARDI, Ibidem, 392). 14 «Che guardando le nostre comunità ogni persona possa capire il valore dell’affermazione di Gesù: “io sono in mezzo a voi come colui che serve…”. E che l’Eucaristia della domenica sia la celebrazione della verità che “il servizio è la gioia” (Tagore), è la vita della nostra vita; e che dunque è vero che “senza domenica non possiamo vivere”» (PAOLA BIGNARDI, Ibidem, 403).

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SECONDA PARTE

La parrocchia-santuario «clinica del corpo e clinica dello spirito»: la mistagogia per una comunità dalla carità e della carità a. Come tradurre e valorizzare, in concreto, la mistagogia e il suo metodo? L’incontro settimanale della comunità

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Nella nostra parrocchia l’esigenza maturata già da molti anni dell’osmosi-unità tra la Parola (evangelizzazione, catechesi), la celebrazione (liturgia) e la vita (carità), ha trovato nella mistagogia un metodo che viene percepito come aiuto straordinario per realizzare la sintesi tra le tre dimensioni costitutive della pastorale e quindi della vita cristiana. È chiaro che non si tratta né di livellare le tre dimensioni (il primato della liturgia, «culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» viene salvaguardata) né di limitarsi a promuovere incontri “organizzativi” tra gli operatori pastorali impegnati nei tre ambiti. Si tratta, altresì, di educarci tutti a quella circolarità tra la Parola che si annuncia, il mistero che si celebra e la testimonianza della vita-carità, sintesi credibile tra fede profonda e il mistero celebrato. L’incontro settimanale della vita della nostra parrocchia, il giovedì, costituisce per noi del santuario il momento strutturale che ci fa superare la frammentarietà pastorale e la logica gruppettaria. Diventa esperienza essenziale perché la Parola spiegata e interpretata anche in rapporto alla liturgia della domenica, si fa verifica e sintesi nelle scelte della vita. Abbiamo acquisito la coscienza che senza questa circolarità vitale tra le tre dimensioni della vita cristiana, la catechesi rischia di scivolare inevitabilmente nell’indottrinamento, la celebrazione nel ritualismo, la testimonianza della carità nell’attivismo. Per questi motivi se all’incontro settimanale della comunità sono tutti invitati, non possono assolutamente mancare gli operatori pastorali e chi svolge un servizio all’interno della parrocchia. La loro partecipazione contribuisce non poco a far circolare nella comunità quello stile di vita, capace di tenere sempre unite Parola-celebrazione-vita, e a


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE farlo trasparire nelle diverse attività comunitarie. Inoltre, la celebrazione eucaristica domenicale, in questo modo, non sarà appannaggio di nessuno, neppure del «gruppo liturgico», ma vedrà il reale coinvolgimento di tutti. La vita dei diversi gruppi e associazioni, le numerose iniziative della comunità confluiscono nella celebrazione eucaristica domenicale, come nel suo naturale sbocco, e anche a partire da essa, come della sua fonte, per lasciarsi continuamente provocare e rinnovare nelle motivazioni e nell’impegno pastorale concreto. Vissuta così, la celebrazione eucaristica domenicale difficilmente può essere ridotta a un’«innocua» parentesi, ma sarà realmente «cuore» non solo della domenica, ma anche dell’intera vita parrocchiale.

b. La parrocchia-santuario e la domenica, dies Domini e dies hominis

b.1. Se custodiremo la domenica, la domenica custodirà noi Il dies Dominica, la domenica è centrale nella fede cristiana ed è anche capitale per il futuro della Chiesa. Se non si vive la domenica, non si può vivere la realtà comunitaria della Chiesa che rimarrebbe destinata a diventare un movimento, così come la fede si ridurrebbe a riferimento personale di uomini e donne a Gesù di Nazareth. Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose partendo dalla riflessione sull’importanza attribuita dal popolo di Israele al sabato, sostiene che «l’osservanza del Giorno del Signore» è determinate per sfuggire alla mondanizzazione e per conservare e trasmettere la fede. Nella nota pastorale della CEI del 1984 Il giorno del Signore al numero 3 si legge: «La celebrazione della domenica è per la chiesa un segno di fedeltà al suo Signore. …. il popolo cristiano ha circondato di speciale riverenza e ha vissuto in intima profonda letizia questo

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sacro giorno. La chiesa lo ha ricevuto: esso è per lei un dono: può goderne, ma non può né manipolarlo né cambiarne il ritmo, o il senso, o la struttura; esso infatti appartiene a Cristo e al suo mistero». I vescovi lo ribadiscono in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: «La comunità cristiana potrà essere una comunità di servi del Signore soltanto se custodirà la centralità della domenica» (n. 47). Allora se custodiremo la domenica, la domenica custodirà noi.….anche nei santuari, parrocchie atipiche, che per grazia e benevolenza di Dio, registrano la partecipazione di una «moltitudine» di gente, di battezzati, particolarmente di domenica. La domenica è dies hominis, ha cioè una dimensione antropologica oltre a quella teologica. Dies hominis e dies Domini costituiscono un unicum con il dies Ecclesìae, la dimensione ecclesiologica. Da queste premesse una precisazione metodologica: puntualizzerò l’orizzonte antropologico della domenica senza perdere di vista la dimensione teologica.

b. 2. Come vivere il giorno del Signore: la condivisione e la carità fraterna Dalla teologia patristica sulla domenica emergono elementi che compongono alcuni «paradigmi» capaci di fornire indicazioni su come vivere nella condivisione e nella carità.

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La condivisione e la carità fraterna. I testi lucani di At 2, 42-47 e 4, 3235 insistono sulla koinonia e sull’urgenza del radunarsi insieme dei cristiani. Enzo Bianchi e Luciano Manicardi in La carità nella Chiesa, affermano che «La koinonia ecclesiale deve tendere all’agape e per questo si esige dai membri della Chiesa il comportamento comunionale del fare le cose insieme, non gli uni senza gli altri, non gli uni contro gli altri, ma gli uni per gli altri, in solidarietà, in unione, in accordo, nella partecipazione reciproca». Nella eucaristia domenicale, presentata da Giustino nella I Apologia, risulta momento costitutivo la raccolta di offerte per i poveri e il soccorso a chiunque si trovi in situazioni di indigenza e di bisogno: «I facoltosi e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole e ciò che si raccoglie viene depositato presso colui che presiede.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Questi soccorre gli orfani, le vedove e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma si prende cura di chiunque sia nel bisogno» (I Apologia LXVII, 6). Il giorno che è epifania della Chiesa, del corpo del Signore, è anche giorno di epifania della carità, che è il vincolo che unisce le membra del corpo e che si manifesta particolarmente verso le membra più sofferenti, menomate, povere… Per questo il XVI Canone di Atanasio ordina al vescovo di fare l’elemosina tutte le domeniche, il Liber Graduum – anteriore probabilmente il 350 – ricorda che il cristiano «il primo giorno della settimana fa parte ai bisognosi dei frutti della sua fatica nella casa del Signore» (Sermo XIII); Giovanni Crisostomo esorta a «onorare il giorno del Signore… soccorrendo con generosa abbondanza i fratelli più poveri…» (De eleemosyna homilia III); – testo probabilmente posteriore al 398), il canone XIX del Sinodo nestoriano di Jésuyahb I chiede che «si santifichi la domenica con doni ai poveri, con la pacificazione delle contese, con i giudizi giusti, con la pace, la carità, la misericordia gli uni verso gli altri…». E inoltre si richiede in modo pressante che si facciano visite ai malati e ai prigionieri, si accolgano i senza casa, i pellegrini e i viandanti…: insomma più che mai la carità deve manifestarsi concretamente e diventare prassi di condivisione e di giustizia nella liberante certezza che se i cristiani «hanno in comune ciò che non muore, tanto più le cose che periscono» (Didaché IV, 8). La Didascalia Apostolorum rivela che è tale l’onore in cui devono essere tenuti i poveri e i pellegrini che tutti nell’assemblea, vescovo compreso, devono essere pronti a cedere il loro posto sedendosi, se occorre, per terra. La stessa Didascalia esclude che le offerte possano essere accettate se provenienti da ricchi e potenti che sfruttano i poveri: «È meglio per voi morire di fame, che accettare qualcosa che viene dall’ingiustizia [letteralmente: che accettare alcunché dagli ingiusti] (praestat vos fame perire quam accipere ab improbis)» (IV, 8,2). I doni che, frutto del duro lavoro e della fatica dei credenti, vengono raccolti devono servire per opere di liberazione: riscatto di schiavi, di esiliati, di condannati ai lavori forzati nelle miniere o alla lotta con le belve nei circhi…. Tuttavia, è necessario

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sottolineare che questa attiva carità verso tutti gli uomini e soprattutto i più poveri sgorga dall’interno di una comunità che nell’assemblea eucaristica domenicale ha fatto l’esperienza fondamentale di essere amata da Dio e che si struttura al suo interno in base a relazioni e rapporti di agape, di amore fraterno. Il «bacio santo» (phìlema hàghion: Rm 16,16; 1 Cor 16,20; 2 Cor 13,12; 1Ts 5,26) più volte raccomandato da Paolo come segno di concordia, carità e unità tra i credenti arriva addirittura, in Tertulliano, a designare la riunione eucaristica: il radunarsi per l’eucarestia è definito come un «ad osculum convenire» (Ad uxorem IV, 3). Carità dunque ad extra, ma anzitutto ad intra, tra i cristiani, tra i concreti membri, uomini e donne, di ciascuna comunità locale! Mai dimenticando che la prima, fondamentale e più efficace testimonianza che la comunità cristiana può dare al mondo è l’amore che la anima e che si manifesta nel servizio reciproco: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv 13, 25). E non a caso Gesù ha consegnato agli apostoli questa Parola dopo quella Lavanda dei Piedi che, nel IV Vangelo, rappresenta l’eucarestia nella vita, il sacramento dell’amore estremo con cui Gesù ha amato i suoi facendosi loro servo fino a donare la sua vita (Gv 13,1). È bene ricordare che la domenica è giorno di condivisione e carità fraterna perché nella riunione eucaristica essa attinge sacramentalmente alla fonte divina della carità! La prospettiva biblico-patristica ci obbliga a parlare primariamente di rapporto non chiesa-agape, ma agapechiesa, non di carità nella chiesa ma di chiesa nella carità in quanto la chiesa è preceduta costitutivamente dall’amore di Dio. La carità, l’agape non la si fa, non la si inventa, ma la si riceve e questo è ricordato perennemente alla chiesa dalla centralità nella sua vita, dell’eucarestia, che è il memoriale dell’amore preveniente di Dio manifestato inviando l’unigenito Figlio nel mondo come vittima di espiazione per i nostri peccati (Gv 4, 9-10). E nella chiesa l’eucarestia è il luogo generante della prassi cristiana di carità, il luogo che forgia e accresce la comunione tra i fratelli, il luogo in cui l’ascolto della Parola e la comunione al Corpo del Signore attualizzano per il credente il grande amore che il Padre ci ha dato, amore che ci genera realmente a figli di Dio e ci fa crescere alla statura del Figlio di Dio (cf. 1 Gv 3,1; Gv 1, 12-13; 1Gv 4,7; 5,1 ecc.). Vi è, dunque, nella Scrittura una condizione essenziale e irrinunciabile perché la chiesa


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE sia davvero ekklesìa toû theoû, Chiesa di Dio, e non semplicemente entità sociologica, gruppo umanitario o ente filantropico e assistenziale, e consiste nel fatto che la Chiesa viva della e nell’agape, sia la ekklesia ex charitate formata, la chiesa plasmata, strutturata dalla carità prima di essere soggetto di organizzazione di carità. La domenica, con la centralità del raduno eucaristico che la contraddistingue, ci pone dunque di fronte alle sorgenti della carità cristiana.

c. Il santuario e la fantasia della carità. Il santuario della carità ovvero dell’esercizio dell’amore di Dio da parte della comunità Al numero 50 della lettera apostolica Novo millennio ineunte il papa Giovanni Paolo II afferma: «Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso, all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella malattia, all’emarginazione o alla discriminazione sociale. Il cristiano, che si affaccia su questo scenario, deve imparare a fare il suo atto di fede in Cristo decifrandone l’appello che manda da questo mondo della povertà. Si tratta di continuare una tradizione di carità che ha avuto già nei due passati millenni tantissime espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore inventiva. È l’ora di una nuova “fantasia della carità”, che si dispieghi non tanto e non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione». Così il papa! I tanti «vulnerabili» e «vulnerati» che visitano il nostro santuario si sentono «a casa loro», trovano, una comunità in cui è visibile e si riconosce la testimonianza dell’Agape. La carità delle opere segno dell’amore di Dio assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole.

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Il cristiano, dice il teologo protestante Karl Barth, è «colui che cammina con la Bibbia in una mano e nell’altra il giornale». Nel santuario si fa realtà quella «pastorale simbolica» capace di mettere insieme la terra e il cielo, Dio e «l’uomo in situazione». Una pastorale in cui la «carità dossologica» (l’amore che ci porta a glorificare Dio) diviene anche «carità politica» (l’amore che ci porta a servire i fratelli). Carità politica, dice il vescovo defunto don Tonino Bello, da non delegare al profetismo di pochi ma da esprimere con un impegno comunitario. È il santuario-comunità della carità. La testimonianza della carità appare chiaramente come emanazione della vita sacramentale della Chiesa. Come conseguenza inderogabile della identità cristiana. Non come esperienza di singoli individui, di gruppi particolari, di presbiteri con il «pallino». Afferma Silvano Sirboni nel testo Dal giorno del Signore: uomini nuovi: «La carità non è un optional, né può ridursi semplicemente ad una virtù individuale, ma è la primaria testimonianza della Chiesa in quanto tale, poiché, come Cristo suo fondatore, anch’essa rende il culto al Padre soprattutto attraverso il servizio agli uomini. In altri termini, la carità non può essere semplicemente attribuita ad alcune buone persone e alla loro generosità. Deve risultare chiaro che la carità esprime la natura e la missione di quella chiesa che si raduna fraternamente nel giorno del Signore e che si alimenta alla stesa mensa della Parola e del Pane di Vita. È questo nuovo concetto di carità, che è poi antico quanto la testimonianza degli Atti degli Apostoli, che deve entrare nella mentalità e nella prassi della Chiesa. Prassi che si sta già radicando e diffondendo. Infatti non ci sono più soltanto le semplici collette per le missioni, ma gemellaggi con comunità cristiane del terzo mondo. Ci sono ormai stabili strutture di solidarietà a livello parrocchiale e diocesano. Ora tutto questo trova radice e convergenza nel giorno del Signore che non «è», e non deve più essere semplicemente il giorno del precetto, ma il giorno in cui la Chiesa rivela la sua identità, il segreto della sua forza, le caratteristiche della sua missione». L’esperienza condivisa in questo santuario dei Santi Medici dedicato a due santi che espletavano l’arte medica senza farsi pagare – da qui l’attribuzione di anargìri – ha portato a fare di questo santuario la «casa dell’Agape-carità» un contenitore «sempre aperto» di soli-


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE darietà, un’antenna che capta i bisogni sul territorio, si lascia interpellare e interrogare dai bisogni stessi, li discerne e «organizza la speranza» attraverso opere di carità che siano il «segno che dà senso» dell’amore di Dio nel qui e ora di questo tempo, di questa storia. Le opere segno dell’amore di Dio fino ad oggi realizzate sono: ü Mensa per i poveri – dispensa circa 25 mila pasti, anche a domicilio. Risponde alle necessità di poveri, barboni, disoccupati, extra-comunitari, anziani soli, gruppi Rom, zingari; – Casa di Accoglienza «Xenìa» – risponde alle necessità di accoglienza di donne con problematiche psico-sociali, in difficoltà, gestanti e madri con figli a carico; – Centro di ascolto – centro nevralgico di tutte le opere-servizi organizzati dalla Fondazione. Punto di riferimento per ogni richiesta di aiuto, antenna per intercettare i bisogni del territorio, osservatorio per studiare e discernere le vecchie e nuove povertà e per avviare, attraverso il colloquio la relazione d’aiuto con quanti versano nel bisogno, per filtrare le richieste ed orientare verso le risposte già realizzate sia all’interno della comunità del santuario sia al di fuori, in altre strutture di soccorso-accoglienza; – Casa Alloggio «Raggio di Sole» – per malati in AIDS conclamata; – Ambulatorio – risponde alle richieste molto frequenti di piccole ma necessarie prestazioni ambulatoriali per anziani, stranieri, poveri di ogni tipo. Si è aggiunto un servizio di teleassistenza promosso e condiviso con la Fondazione Nazionale «Gigi Ghirotti» di Roma; – Servizio guardaroba-lavanderia-stireria – risponde alle richieste di quanti necessitano di abiti e di un servizio di lavanderia; – Unità di strada «Volti d’Ebano» – piano di intervento come unità mobile di strada che svolge attività di promozione, emancipazione e di liberazione delle immigrate costrette alla prostituzione; – Centro Sportivo Pastorale – luogo in cui ragazzi, giovani e adulti sperimentano progetti educativi secondo la metodologia consolidata dell’«oratorio»; – Hospice Centro di Cure Palliative «Aurelio Marena» – tra l’accanimen-

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to terapeutico e l’eutanasia la comunità cristiana sceglie la terza strada: l’accompagnamento olistico (globale) dell’ammalato nella fase avanzata della malattia. Se non sempre si può guarire sempre si deve «ad-sistere», stare accanto fino alla morte. È la grande questione della cura di fine vita. – Premio Nazionale Santi Medici – Formazione e Progettazione – Servizio Civile – l’esercizio della carità richiede sempre più competenza e professionalità perché vengano ottimizzate le risorse, create reti con altri che si impegnano nel territorio e perché vengano liberate ed educate le buone disponibilità al servizio gratuito in vista della costruzione del bene comune. Il premio nazionale Santi Medici si attribuisce a cedenza biennale a giovani neo laureti in medicina e chirurgia, farmacia per un lavoro originale di ricerca in una branca della medicina e delle scienze. Il servizio civile diviene al tempo stesso percorso e laboratorio di formazione per i giovani per la costruzione di una società civile a misura della persona umana. Il nostro santuario diventa così «clinica del corpo e dello spirito», secondo la felice definizione del compianto arcivescovo di Bari-Bitonto padre Mariano Magrassi, uno slogan che evidenzia l’unità tra l’annuncio, la celebrazione e la testimonianza. Solo una «parentesi» per un ulteriore approfondimento. Posso affermare: – «Clinica del Corpo»: 3 parole programmatiche: l’accoglienza, la solidarietà, la condivisione – «Clinica dello Spirito»: 2 parole programmatiche: lo stupore, la gratuità. Il corpo e lo spirito due facce di una stessa realtà. 532 Clinica del corpo L’accoglienza. Far entrare l’altro nella sua diversità nel tempo della nostra vita e nella vita quindi del nostro santuario senza “se” e senza “ma”, senza logiche e atteggiamenti di giudizio. Il santuario diviene luogo dove si espande il profumo dell’olio cosparso sui piedi di Gesù dalla peccatrice giudicata Gesù la riscattò perché aveva «amato molto» (Lc 7, 36-50).


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE L’incontro con Cristo che libera, che salva, è l’esperienza più bella che gli uomini e le donne che visitano il nostro santuario possono fare attraverso la disponibilità di una comunità accogliente che diventa di per sé educante. La solidarietà. «Non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale interenimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siano veramente responsabili di tutti». Così Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis al n. 38. Pertanto, la solidarietà non può essere una parentesi, un attaccapanni, né uno slogan sbandierato ai quattro venti. Un impegno radicale. È un metterci nel corpo l’occhio del più povero. Il santuario, allora, diventa così una «scuola di volontariato», che è generatore di coscienza critica, è «tempo donato, tempo dell’incontro con il limite e con le sofferenze. È il tempo della pazienza e del mutuo aiuto, lo spazio in cui ci si confronta col volto del fratello e della sorella più debole senza difendersi dietro ruoli già previsti» (C. M. Martini, Sto alla porta). Il santuario assume un ruolo educativo La condivisione. È andare oltre la solidarietà. È un mettersi in gioco attraverso le opere-segno della carità di Cristo. L’icona della moltiplicazione, meglio della “condivisione dei pani”, mi sembra illuminante (Mc 6, 30-44). Si tratta, in altri termini, di vincere la tentazione dei discepoli: «Questo luogo è solitario ed è ormai tardi, congedali perciò, in modo che, andando per le campagne e i villaggi vicini, possano comprarsi da mangiare». È la tentazione del «congedare», del «non farsi carico», dell’indifferenza. Del non riconoscere il bisogno urgente che bussa alle porte della nostra comunità. Siamo chiamati a fare esodo da questa mentalità per raggiungere la

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«terra promessa» della proposta di Gesù: «date loro voi stessi da mangiare», «fateli sedere» nella consapevolezza che «i cinque pani e due pesci» sono poca cosa dinanzi alla moltitudine da sfamare. Ma è proprio qui la provocazione di Gesù che diventa, oggi per noi, «sfida pastorale». Non conta avere molto ma conta molto di più mettere a disposizione degli altri quello che si ha (forse poco) e quello che si è (forse molto). Solo allora accade il «vero miracolo». Sì diviene segno significante. Accade così attraverso la povertà delle nostre persone e delle nostre strutture la rivelazione oggi, nel qui ed ora, dell’agape di Dio. «Oggi urge l’obbligo che diventiamo generosamente prossimi di ogni uomo e rendiamo servizio con i fatti a colui che ci passa accanto, vecchio da tutti abbandonato o lavoratore straniero disprezzato o emigrante, o fanciullo nato da un’unione illegittima, che patisce immediatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza» (Gaudium et spes, 27). Sono ancora più chiare e indubbiamente più provocatorie le parole di San Giovanni Crisostomo in un’omelia sul vangelo secondo Matteo: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non onorare il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascuri quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità. Colui che ha detto: “questo è il mio corpo” è il medesimo che ha detto: “Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito” e “quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me” … A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare lui affamato, poi con quello che resterà potrai onorare anche l’altare». Il santuario diviene «casa, scuola e laboratorio di carità» se è al tempo stesso «casa visibile dell’Eterno» (Sal 11,4), «riempita dalla nube della sua presenza» (1 Re 8, 10.13), ricolmo della sua «gloria» (1 Re 8,11).

Clinica dello spirito Lo stupore. Se la filosofia, il pensiero, nascono dall’incanto e dallo stupore, se ciò che attrae è l’inatteso, se l’evento fa apparire il circostante come assolutamente nuovo, se nella meraviglia gli occhi si


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE aprono e se la Bellezza cambierà il mondo, il Santuario non può non essere lo «spazio della bellezza di Dio», il «tempo dell’incanto». Il papa nella Ecclesia de Eucharéstia al paragrafo 6 parla dello stupore eucaristico che desidera ridestare. I santi sono gli uomini dello stupore. Maria la vergine è la donna bella, in armonia, che stupisce. Impariamo da loro, impariamo dai bambini, dagli artisti e facciamo dei santuari i luoghi in cui tutto viene «curato»: dalle strutture, all’arredo, ai paramenti. Tutto deve essere «dignitoso», deve avere il gusto delle cose buone. La fretta, non dimentichiamolo, è il vero veleno dello stupore. I tanti pellegrini, mendicanti di senso, che visitano i nostri santuari, sostano, «vivono la pausa» da noi. Stupiamoli con le nostre liturgie. Lo stupore eucaristico plasma. Aiutiamoli a stare davanti al Signore «in pura perdita» (Charles de Foucauld). La gratuità. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). È il primato della grazia. C’è una tentazione che da sempre insidia ogni cammino spirituale e la stessa azione pastorale: quella di pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia, e dunque ci invita ad investire, nel nostro servizio alla causa del regno, tutte le nostre risorse di intelligenza e di operatività. Ma guai a dimenticare che «senza Cristo non possiamo fare nulla» (Gv 15,5) (NMI 38). È la priorità della grazia. Il santuario, memoria dell’origine, «tenda» della divina presenza, profezia della patria celeste, luogo per eccellenza dove «s’invoca la grazia» diviene tempio di «rendimento di grazie» (Eucarestia) in cui s’incontrano la gratuità e la gratitudine. Siamo chiamati (vocati) ad «osare l’aurora», in questo tempo che ci vede presenti e che non è solo kronos ma anche kairós, tempo favorevole per la nostra salvezza. Come comunità dei santuari vogliamo testimoniare che «quando per noi è notte è giorno per Dio». Impariamo dunque ad essere dentro la storia vivendo la speranza, con il dono della carità, resi uomini veramente nuovi dall’essere convenuti a celebrare il Giorno del Signore.

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TERZA PARTE

Il santuario per una «fede pensata»

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Una fede che non «diventa cultura» è fede non «pienamente accolta». Tale convinzione, consegnataci dal servo di Dio Giovanni Paolo II nella Lettera in occasione della fondazione del Pontificio consiglio della cultura del 20 maggio 1982, ci richiama alla scuola del concilio Vaticano II e all’impegno proprio di ogni comunità cristiana basato sulla convinzione che, se la nostra fede «non sana il mondo», rimane morta. Già Papa Paolo VI in Evangelii nuntiandi n. 18 nel 1975 aveva descritto un’evangelizzazione che comportava una «trasformazione» dell’umanità «dal di dentro»: si tratta di quel processo oggi definito inculturazione che comporta qualcosa di più del cambiamento dall’esterno della cultura destinata a ricevere il Vangelo; implica il fatto che il Vangelo sarà in essa pienamente e fermamente radicato solo se sarà stato ricevuto, sentito, celebrato e vissuto all’interno del linguaggio profondo di una cultura locale15. La frattura tra il Vangelo e la cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, sosteneva sempre papa Paolo VI al numero 20 della Evangelii nuntianti. Ci è chiesta una conversione culturale della pastorale, per dare spessore di pensiero alla nostra fede e apertura al confronto e al dialogo, con tutte le componenti vive del territorio, per il bene del quale la Chiesa continua ad informare e a comunicare. Nell’inedito «areopago moderno», in presenza di un’emergenza valoriale che precede e, al tempo stesso succede a quella informativa e comunicativa, occorrono nuove competenze, più coraggiose presenze, coerenza e creatività. «Se le culture hanno bisogno di Cristo per raggiungere la loro pienezza, in altro senso Cristo ha bisogno delle culture per continuare a completare il dono dell’incarnazione nei diversi contesti della storia»16.

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Cf. M. P. GALLAGHER, Fede e cultura, p. 146. IDEM, p. 149.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE L’inculturazione si presenta inevitabilmente conflittuale: occorre riconoscere e liberare le strutture del peccato culturalmente consolidate. Per sanare quelle che sono state definite le quattro forme di mancanza culturale di fede e cioè l’anemia religiosa, l’emarginazione secolare, una spiritualità disincarnata ed una desolazione culturale, presso il Santuario, già da anni si sono organizzati incontri percorsi con uomini e donne protagonisti dei processi culturali del nostro tempo, impegnati nel nostro territorio e non solo, che hanno fornito elementi di riflessione alla comunità che ha ripensato in modo critico alla propria fede, scoprendo la ragione come sua amica.

Conclusione aperta «Un ramo gettato nell’oceano», scrive Pascal, «raggiunge e colpisce, con la sua forza di urto, tutte e singole le gocce dell’oceano». L’esperienza che si vive qui, nel nostro santuario, è solo la semplice testimonianza di «un’avventura cristiana» affascinante al tempo stesso paradossale, perché vissuta da uomini e donne consapevoli dei loro limiti, «abitati dalla contraddizione». Di certo però esprime la gioia di essere una comunità di credenti, sedotta dalla bellezza dell’amore di Dio, fatto storia nella carne di Cristo e che si prolunga nella presenza dello Spirito Santo, vero protagonista della storia di ogni comunità cristiana, per un’educazione possibile e significante.

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Conclusioni e prospettive Domenico Sigalini

Educare il cristiano secondo la misura di Cristo

Sull’emergenza educativa

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Non si può oggi affrontare il tema dell’educazione se non si parte da uno sguardo appassionato alla situazione. Lo possiamo fare a partire da una precomprensione: l’atteggiamento suggerito dal Concilio Ecumenico Vaticano II proprio sull’importanza dell’educazione. Sul significato della parola ‘emergenza’ si sono pronunciati quasi tutti: pastori, pedagogisti, operatori pastorali, gente comune. Molti dicono che c’è emergenza perché siamo incapaci di educare, o siamo superficiali e accomodanti, o perché chi deve educare non lo fa più o lo fa male, perché c’è tanta gente irresponsabile che diseduca. Può essere vero anche questo, ma non è il nodo cruciale. Fra i tanti modi di pensare alla situazione problematica dell’educazione scegliamo di stare dalla parte di una visione positiva. Noi diciamo che c’è emergenza perché è aumentata la domanda, perché i giovani sono di fronte ad una eccedenza di opportunità, devono giocare di più la loro libertà e sono messi di fronte abitualmente, non solo in alcuni momenti della loro vita, a un numero di scelte maggiore. Siamo in un mondo più libero e per questo più bisognoso di attrezzarsi per decidere bene. Non siamo in contesti chiusi in cui il giovane, il figlio, l’allievo, dipende solo o quasi dalle informazioni, dai modi di pensare, dalle visioni di mondo del padre o del maestro. Ogni persona ha davanti a sé, ancor prima di percepirne il valore, innumerevoli possibilità di comportamento, di valutazione, di stimoli, di proposte. La Gravissimum educationis, il testo del Concilio che parla esplicitamente di educazione, dice che è più facile oggi e


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE più urgente educare e che l’incidenza dell’educazione sulla vita è più grande. Educare ha un valore aggiunto. Uno dei nodi che la società di oggi presenta all’educazione è non solo la sua complessità, ma anche una sorta di delegittimazione dell’autorità. Non esiste processo educativo che non abbia bisogno del contributo di una autorevolezza che è capace di valutare e orientare anche dicendo dei no, cioè facendo approfondire e crescere le ragioni delle scelte e la loro personalizzazione. Il padre ha il dovere di aiutare il figlio, l’insegnante l’alunno, l’educatore l’educando, anche contro la sua volontà, entro un grande rispetto di una vera libertà. L’autorità soffre di non riconoscimento perché hanno perso autorevolezza le istituzioni che essa rappresenta: la famiglia, la scuola, la comunità cristiana. L’educatore deve poter esercitare la sua responsabilità come soggetto nel processo educativo, non è un semplice “direttore del traffico”. In periodi di grandi cambiamenti sicuramente vanno in crisi le istituzioni e vanno quindi ripensate, ma è ingenuo credere che si possa educare se le istituzioni e gli uomini che le rappresentano non vengono riconosciuti come importanti nei processi di scelta che riguardano la vita personale, sociale, culturale e spirituale. La Chiesa ha il dovere di occuparsi dell’educazione perché ha il dovere di occuparsi della vita e educare è una esigenza vitale. Tutti gli uomini in forza della loro dignità umana hanno il diritto inalienabile all’educazione. Ogni uomo deve poter portare a pienezza la sua vocazione e ha bisogno non solo di trasmissione di conoscenze, ma di un processo, di una capacità di valutare con retta coscienza, accogliere la verità e rispondere con responsabilità alla sua vocazione. Il processo educativo non è negoziabile.

La vita di fede e i suoi compiti di fronte all’emergenza educativa La domanda che ora ci facciamo è: la fede in Gesù Cristo morto e risorto, centro della vita e della comunità cristiana come deve dare il suo contributo indispensabile alla emergenza educativa? S’in-

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teressa di altro o aiuta l’uomo a fare quelle scelte di libertà che sono indispensabili per la pienezza della sua vita e per il bene della società? È autosufficiente, compie un cammino parallelo a tutte le altre istituzioni educative? Come aiuta il giovane a fare le scelte giuste nell’aumento vertiginoso delle opportunità, degli stili di vita, nelle impostazioni del proprio esistere? Tutta la catechesi che si fa nella comunità cristiana, la preparazione ai sacramenti, le celebrazioni liturgiche, come possono dare risposte a questa emergenza educativa? I momenti formativi caratteristici di una comunità cristiana sono paralleli alla vera educazione o ne determinano il cuore e ne rinforzano i processi? Possiamo accettare ancora che tutta l’iniziazione cristiana sia una parentesi da dimenticare nell’esplodere della giovinezza e della sete di libertà? O ancora peggio, possiamo accettare che la fede sia una dimensione privatistica, intimistica e alla fine insignificante per la globalità della vita dell’uomo? Ed infine, l’atto educativo per il quale si lavora tanto nella comunità cristiana ha una sua unità che consente di tenere assieme fede, cultura e vita o siamo destinati a vivere di frammentazione e di finzioni a seconda dei luoghi in cui viviamo e delle attività che compiamo? È in gioco la possibilità del cristiano di stare con dignità nel consesso umano, di essere capace di dare il suo apporto alla comunità umana, di sentirsi uomo fino in fondo mentre è cristiano fino alla santità. Per rispondere a queste domande occorre rifarsi al pilastro determinante della vita della chiesa: la centralità del mistero di Cristo, celebrato e vissuto nell’esperienza liturgica, nell’Eucaristia e nei sacramenti, doni indispensabili per la vita del cristiano anche nella sua essenziale dimensione di carità. Ci obbliga ad andare a questa centralità e profondità il Concilio Ecumenico Vaticano II, che di fronte a una società che tendeva a una scristianizzazione veloce e a un mondo credente che non focalizzava negli elementi essenziali il suo compito evangelizzatore mette davanti a tutti, credenti e non, la figura di Cristo come uomo perfetto, riuscito, esaltato nella sua dignità, nella pienezza delle sue realizzazioni. Riprendere seriamente e con profondità e attuare le indicazioni del Concilio è una scelta senza condizioni che abbiamo sempre fatto e che vogliamo continuare a fare. Diventare come Gesù, conformarsi a Lui è il desiderio di ogni cristiano e aiutare ad amare come Lui, a vivere come Lui, a crescere


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE come Lui è il compito educativo. Gesù Cristo è la persona che si costituisce come ideale cui tutti possono tendere. La comunità cristiana tradirebbe se stessa e impoverirebbe l’umanità se si adattasse a educare un uomo che non ponga come determinante della sua struttura di personalità la figura di Gesù.

Il percorso educativo globale che aiuta a fare sintesi tra vita e Parola, liturgia e testimonianza Chiamiamo mistagogia, termine forse un po’ ostico e datato, il cammino di formazione permanente per risvegliare l’esperienza di Dio, per favorire la sintesi tra Parola, liturgia e vita e consentire un discernimento comunitario che aiuti la comunità cristiana a comprendere le sfide del momento presente e a rispondervi alla luce del mistero di Cristo, creduto, celebrato e vissuto. È ritessere un legame vitale con la tradizione, con quella memoria viva dalla quale scaturisce la cultura, la sapienza di vita, l’educazione della persona. È ripensare globalmente e profondamente il “senso dell’educazione”, non come richiamo moralistico e astratto, ma per rispondere a un criterio testimoniale dell’esperienza di fede, attenta ai mutamenti sociali e culturali in atto. In pratica vogliamo dire che la Chiesa assolve al suo compito educativo: * se introduce il credente in maniera progressiva e sempre più intima nella conoscenza e nell’esperienza del mistero di Cristo, altrimenti la centralità di Gesù è solo una affermazione di principio; * se propone il proprium dell’esperienza mistica cristiana oltre un vago mondo di emozioni religiose. La gente a noi chiede la fede e se chiede i sacramenti soltanto, noi dobbiamo fare scommesse, scavare nelle domande per non offrire solo risposte; * se aiuta a far sintesi tra fede e vita, tra fede creduta e fede testimoniata attraverso uno stretto legame con la fede celebrata. Parliamo spesso male delle funzioni religiose, ma sono spesso l’unica possibilità di dialogo con la gente e l’unico servizio che diamo per alzare lo sguardo a Dio e ascoltare il vangelo;

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* se ricupera tutta l’esperienza liturgica come ponte e anello di congiunzione tra verità e storia, tra pensiero e azione, come luogo generatore di vita e cultura, come concezione dell’uomo, come interpretazione della storia e dei suoi problemi, della vita morale e delle sue possibilità, superando la frattura tra vangelo e cultura. Quante volte le celebrazioni liturgiche sono state determinanti per la vita e le scelte delle persone, delle famiglie e anche della vita pubblica di una città, della storia di un paese, entro eventi drammatici. Pensiamo per esempio alla famosa attestazione di perdono del figlio ai funerali di Bachelet che ha iniziato a erodere la falsa sicurezza delle Brigate Rosse, oppure ai funerali delle vittime del terremoto dell’Abruzzo, ai riti semplici popolari e partecipati dei sacramenti, alla solidarietà che si crea di fronte a una calamità nei riti popolari che uniscono la gente credente e non; * se dà unità all’atto educativo e si pone al servizio della formazione integrale della persona. Non si può soprattutto oggi educare a compartimenti stagni, non ne nasce nessun cristiano, ma solo schegge impazzite di fissazioni e tradizioni.

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Tali condizioni non si pongono solo come paletti di ortodossia, ma sono anche in se stesse orientamenti e definizioni di un progetto educativo completo, hanno in se stesse forza di programma e intuizioni di metodo. Sono più presenti di quanto pensiamo nella vita della comunità cristiana e civile. O lasciamo tutta la vita liturgica, tutta quella pratica religiosa spesso saltuaria, spesso tradizionale, fuori dalla vita vera – e per molti così avviene – o con pazienza educativa costruiamo con essa un ascolto e accoglienza docile dei doni di Dio e li facciamo diventare le fondamenta di una vita degna di essere vissuta e proposta. In questa prospettiva possiamo rispondere a una scelta del Concilio che è quella di applicarsi ad una educazione che «deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale»1. Questa 1

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CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE è la mistagogia e questi sono tanti buoni motivi per lavorare in questa direzione. La posta in gioco è alta, anche perché oggi siamo di fronte a una pratica tradizionale dell’amministrazione dei sacramenti e per una buona fetta di gente che partecipa all’Eucaristia domenicale non corrisponde un progetto educativo globale e uno sforzo di passare dal liturgico privatistico al liturgico vitale determinante la vita globale della persona. Le difficoltà sono enormi, ma non si può abbassare il livello della proposta, se ne devono cercare graduali passi di approfondimento, di cambiamento di mentalità, di rafforzamento dell’identità.

I soggetti dell’educazione: la comunità, gli adulti e le famiglie Detto della necessità di educare, è importante mettere al centro i soggetti che rendono possibile questo esercizio spirituale su di sé prima che sugli altri. La comunità cristiana è il primo soggetto, il grande responsabile dell’educazione, non da sola, non isolata, non autosufficiente, ma aperta e capace di mettersi in gioco, con una esplicita intenzionalità. Niente avviene a caso, tutto avviene per dono di Dio e per corresponsabilità dell’uomo. È la comunità che sente di aver bisogno di Dio che educa il suo popolo, che si lascia educare da Lui, che sa mettersi in discussione e in stato di conversione continua. Solo così può sentirsi poi soggetto educante ed essere in grado di porre sempre dei segni, che fanno capire che le sta a cuore il servizio ad ogni uomo. Ma siamo in molti a lamentarci che non siamo comunità, che la parrocchia spesso è un’accozzaglia di persone che vengono a chiedere piuttosto che un popolo affiatato che dona. Già il chiedere è meglio dell’indifferenza, apre nella vita un varco, una domanda su cui si può inscrivere un percorso di crescita. Il modello di vita e di comunione trinitaria ci sta sempre davanti come una grande meta, mai adeguatamente raggiunta. L’educazione non è omologazione,

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ma sicuramente è frutto di una grande comunione. La parrocchia non è all’anno zero del suo lavoro educativo, anzi molta attività è educazione dei bambini e dei ragazzi, dei fidanzati e dei giovani. È una lotta impari alle forze umane, ma siamo sicuri che Dio ama il suo popolo. Dio e la sua vita donata fino all’ultima goccia è il suo progetto. L’anno liturgico offre un percorso formativo che alla lunga influisce ed è più pervasivo di tante attività di gruppuscoli o di battitori liberi. Ma la comunità deve vedere l’ossatura della sua espressione educativa nel mondo adulto. Non sempre gli adulti si lasciano educare. La sindrome di aver imparato tutto blocca tante proposte. Occorre suscitare prima di tutto in loro la domanda di educazione e questo avviene se la comunità dà l’esempio nel mettersi in discussione, in dialogo, in stato continuo di conversione e di apertura. L’adulto è per statuto antropologico educatore, è colui che deve offrire ragioni di vita e va aiutato a trovare sempre queste ragioni nel vivo di relazioni nuove e significative con la comunità cristiana. Le ragioni di vita non le trovi in internet o nei libri, ma nel tessuto vivo di una comunità che segue e annuncia Cristo. L’espressione più altamente educativa dell’educazione, come mattone di base di ogni costruzione, è la famiglia, che ha direttamente un mandato educativo inalienabile datole dal creatore, perché è in essa che sgorga la vita e la necessaria educazione di questa, e dalla Chiesa nel sacramento del matrimonio, che abilita a una vita piena, come quella che il giovane ricco chiedeva a Gesù. La prima semplice mistagogia avviene lì, la prima sintesi tra fede e vita, tra domanda e ascolto, tra pensieri e azioni è fatta sulle ginocchia della mamma, con la mano nella mano del papà, nella tensione positiva di crescita tra fratelli, nella trasmissione di sentimenti tenui, ma quotidiani dei nonni. Il senso della preghiera nasce lì. La comunità deve sbilanciarsi in questo tempo pastorale dedicato all’educazione dalla parte della famiglia, pur consapevole di tante famiglie fragili, distrutte e invivibili.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE Annuncio, celebrazione, testimonianza: un’unità necessaria per educare cristiani maturi La scelta di questi tre ambiti non è un privilegiare alcuni uffici pastorali e dimenticare o sottovalutare gli altri, forse anche quelli più concreti e più percepiti dalla gente; non è dimenticare i giovani, o il lavoro o le missioni, ma mettere in evidenza le forme che devono investire ogni pastorale, ogni attenzione formativa. Annuncio, celebrazione e testimonianza sono da declinare in ogni struttura pastorale, in ogni soggetto o condizione del cristiano e non sono esclusiva degli uffici liturgico o catechistico o della caritas. Non ci confrontiamo con tre uffici, ma con tre dimensioni che stanno alla base di un progetto educativo specifico di una comunità cristiana. Che fa la pastorale giovanile se non si definisce nell’annuncio, nella celebrazione e nella testimonianza e così la famiglia, il lavoro, le missioni … ? Ciascuno con il suo taglio, la sua riscrittura intelligente, mette a disposizione di tutti la sua peculiarità e stana da giovani, famiglie, lavoratori, operatori dei mass media tutto quanto di bello possono mettere a disposizione di tutti. È importante però che l’unità progettuale parta da queste tre dimensioni. L’unità è possibile, attuabile e, ancor prima di essere codificata in testi o programmi che si elaborano assieme, è scritta nella formazione di ogni credente che deve assolutamente farsi convertire dall’annuncio, essere attivo nella celebrazione e decidere di mettersi a disposizione nella carità. Se il percorso educativo globale che abbiamo scelto è sintesi di queste tre dimensioni non è possibile pensare l’educazione se non in una continua mutua relazione di annuncio, celebrazione e testimonianza, in una logica reticolare, in cui il punto di partenza è lasciato alla vita, alla creatività delle persone, alla complessità dei tempi moderni, alla liquidità della nostra società, dentro la quale lo Spirito esprime tutta la sua libertà. A noi tocca presidiare e dedicarci alle connessioni tra i diversi punti, garantire il massimo di relazioni e di passaggi. Non è importante oggi un prima e un poi temporale, assolutamente standardizzato, ma il processo completo nella sua globalità e quindi aperto a tutte le varie impostazioni culturali, che la comu-

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nità discerne. Il punto di arrivo è sempre questo conformarsi a Cristo, e geneticamente non temporalmente il primo passo è l’annuncio. La distinzione delle tre dimensioni è necessaria perché ciascuno deve esprimere non solo un suo punto di vista, ma la ricchezza che gli viene consegnata per costruire un’autentica esperienza credente. Annuncio, che già in se stesso non può non contenere l’unità con la celebrazione e la testimonianza, oggi è soprattutto primo annuncio, come dimensione normale nella quotidianità dei cammini formativi parrocchiali e non. Ogni intervento formativo non deve dare per scontata l’adesione di fede, ma deve continuamente renderla incandescente, perché così lo esige la nostra vita, la complessità e il cumulo di distrazioni della nostra società. La celebrazione è farsi convertire dai sacramenti e non solo prepararsi ai sacramenti, è tenere l’uomo al suo posto e aiutarlo a farsi accogliente di un mondo altro che illumina il suo, che lo aiuta a dare senso al suo presente. È investire del dono di Dio la persona anche nella sua corporeità. È presidiare la vita cristiana perché l’annuncio cristiano non si trasformi in propaganda, l’impegno di testimonianza non perda il suo vero sapore e la preghiera non degeneri in evasione. È collocare nella vita un “giorno del Signore”, assoluto, indisponibile, ma tanto decisivo nel costruire persone mature e nuove e non cristiani ad intermittenza. La carità è dono di Dio da accogliere proprio contestualmente all’uomo da servire, è impostare la vita sulla logica del dono e non dello scambio. Lo scambio misura ogni cosa, persone comprese; il dono le accoglie e dimentica pesi e misure.

Una comunità cristiana che mentre educa è segno di salvezza per il territorio 546

La responsabilità educativa non è un insieme di parole o belle frasi per riempirsi la bocca. La comunità cristiana non è fuori del territorio, non si ritira su nessun Aventino, ma facendo evangelizzazione fa il bene del territorio, delle istituzioni, delle strutture della società. La fedeltà alla Parola di Dio e alle indicazioni del Concilio ci aiuta ad allargare le nostre vedute e a coltivare sogni. La Chiesa non coltiva solo sogni, ma sa concretizzarli con segni2, che accompagnano, sti2

Cfr G.M. Bregantini, relazione del 25 giugno 2009.


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE molano, fanno crescere responsabilità nei confronti della giustizia, della pacifica convivenza e della solidarietà con i più poveri.

Necessità di darsi un progetto educativo La parola mistagogia sembra troppo interna al mondo ecclesiale, ma nei significati che abbiamo espresso è proprio sbilanciata dalla parte di una coniugazione dell’esperienza credente entro i processi formativi della vita. Spesso, in questi tempi pensiamo che educare sia offrire esperienze coinvolgenti, belle emozioni anche fortemente spirituali e celebrative, lectio divinae solide. Invece vediamo sempre di più come occorre accompagnare le persone con un percorso fatto di mete, di strumenti, di passi semplici e collegati, per non creare talebani o smidollati. L’unità degli interventi educativi esige di avere un progetto, di costruire sequenze ordinate nel processo secondo una visione globale della persona. La mistagogia ha il vantaggio di non farci deviare in pedagogismi che non arrivano mai alla meta, ma di ancorare ogni progetto all’essenza della vita credente. Le comunità diocesane danno dei grandi contributi con i progetti pastorali; la Chiesa italiana lo codifica di decennio in decennio. È importante però scrivere questi contributi entro un progetto che viene sostenuto giorno dopo giorno, per ogni età. Non posso non riferirmi alle grandi capacità di progettazione formativa che hanno le associazioni ecclesiali. In particolare posso testimoniare la serietà progettuale dell’Azione Cattolica, che aiuta tutti a percorrere cammini di formazione con un progetto formativo globale e soprattutto a preparare educatori con un tirocinio severo di santità e di competenza educativa. La figura di educatore appassionato e solido che abbiamo contemplato in Giovanni Modugno e l’esperienza della parrocchia santuario dei Santi Medici ci dicono che è possibile invocare da Dio santi educatori anche per i nostri giorni e costruire comunità, parrocchie altamente formative nell’unità tra annuncio, celebrazione e testimonianza abbondante di carità.

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Ripartire dall’educazione Lettera alla parrocchia

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Cara parrocchia, siamo una famiglia del tutto normale, abbiamo tre figli, in casa anche i nonni e una zia, che ci aiutano qualche volta a litigare, spesso a costruire relazioni di maggior tolleranza e comprensione. Oggi sentiamo un po’ di stanchezza soprattutto nella educazione dei figli. Non ci ascoltano, vengono solo a chiedere coccole e mance, a strappare permessi o a nascondere malefatte. Noi siamo credenti, ma i nostri figli se ne vanno a uno a uno dalla Chiesa; l’ultimo ha appena fatto la Cresima ed è già in fuga. L’ha preparata bene arrotolando lenzuola e segando sbarre da almeno tre anni. Noi ce ne accorgevamo, ma non abbiamo potuto fare niente. Ci sembra tutto ineluttabile. Ci sentiamo soli nel contestare le idee strane che ci portano in casa, quando non dobbiamo tendere l’orecchio al loro cellulare, in attività perenne, per carpire le loro idee, i loro sogni sballati, almeno così sembra a noi. In questi tempi siamo ancora più nervosi perché i soldi non bastano più e viviamo nella paura che a qualcuno venga a mancare il posto di lavoro. Ma tu che fai? Che cosa hai fatto a questi nostri figli da lanciarli così lontano? Come mai non gli è rimasto in testa niente di tutti gli anni di catechismo che avete fatto? Certo ci preoccupa la loro fede, ma oggi ci assilla la tenuta morale, sociale, umana delle loro vite. Abbiamo perso la voglia di battagliare, di offrire visioni di vita diverse, di ascoltarli fino in fondo, forse. Vediamo che hanno ancora più bisogno di noi perché hanno mille decisioni da prendere e sono soli nonostante le nostre prediche o forse perché sono solo prediche. Ci serve una comunità in cui poter incontrare la forza di quel Dio in cui crediamo, ed essere aiutati a tornare all’incandescenza del nostro amore. Veniamo a messa, ma ci sembra di non essere in grado di capire quel che ci proponete. Avete un modo per ricucire nelle nostre coscienze vita e fede, verità e storia, vangelo e cultura, celebrazioni e gusto della vita? Sappiamo che la nostra fede è troppo povera, rimasta al catechismo


CENTRO DI ORIENTAMENTO PASTORALE che abbiamo imparato a mozziconi durante gli anni ruggenti delle battaglie politiche. Abbiamo perso autorevolezza. Ce l’hanno tolta senza accorgerci, come l’hanno tolta alla famiglia, alla scuola, alla Chiesa. Abbiamo bisogno di tornare a imparare, ci vergogniamo di dirlo, ma ci sembra la cosa più vera. Non è un ritorno a una giovinezza che sfuma, ma una voglia di nascere di nuovo, per essere per noi stessi e per i nostri figli un segno della bontà di Dio e della sua decisione di prenderci in carico sempre e in ogni loculo in cui ci possiamo essere cacciati. Ci aspettiamo di essere aiutati a diventare educatori autorevoli, pazienti e pieni di speranza. La famiglia che quest’anno a Pasqua hai benedetto velocemente

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CURIA METROPOLITANA Cancelleria

1. Sacre ordinazioni - La sera del 16 maggio 2009, Vigilia della VI Domenica di Pasqua, nella parrocchia santuario di S. Fara in Bari, S. Ecc. rev.ma mons. Angelo Massafra, O.F.M., Arcivescovo di Scutari, durante una concelebrazione eucaristica da lui presieduta, con le legittime dimissorie dei Ministri Provinciali e la licenza dell’Arcivescovo di Bari-Bitonto, ha ordinato diaconi fra Sabino Perillo, fra Prel Syla e fra Antonello Gravante, O.F.M. Cap..

2. Nomine e decreti singolari A) S. Ecc. l’Arcivescovo ha nominato, in data: - 1 maggio 2009 (Prot. n. 20/09/D.A.S.-N), don Giuseppe Di Mauro all’ufficio di cappellano delle Suore della Casa della Carità “San Vincenzo de Paoli” in Palo del Colle; - 1 maggio 2009 (Prot. n. 22/09/D.A.S.-N.), don Carlo Cinquepalmi all’ufficio di direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali della Curia diocesana di Bari-Bitonto, per cinque anni; - 12 maggio 2009 (Prot. n. 23/09/D.A.S.-N.), don Giovanni Castoro all’ufficio di assistente spirituale della Confraternita del Santissimo Sacramento in Grumo Appula;

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- 19 maggio 2009 (Prot. n. 24/09/D.A.S.-N), don Andrea Favale all’ufficio di direttore dell’Ufficio Missionario diocesano, per cinque anni; - 25 maggio 2009 (Prot. n. 25/09/D.A.S.-N.), don Vito Frascella all’ufficio di correttore della costituenda Misericordia presso la parrocchia S. Egidio in Bitonto; - 12 giugno 2009 (Prot. n. 26/09/D.A.S.), don Francesco Lanzolla all’ufficio di canonico del Capitolo Metropolitano Primaziale di Bari; - 25 giugno 2009 (Prot. n. 29/09/D.A.S.-N.), don Antonio Mattia all’ufficio di presidente del Capitolo Concattedrale di Bitonto, per cinque anni; - 25 giugno 2009 (Prot. n. 30/09/D.A.S.-N.), don Francesco Acquafredda all’ufficio di canonico penitenziere del Capitolo Concattedrale di Bitonto, per cinque anni. B) S. Ecc. l’Arcivescovo ha istituito, in data: - 15 giugno 2009 (Prot. n. 28/09/D.A.S.), p. Angelo Arboritanza, C.R.S., vicario parrocchiale della parrocchia S. Nicola in Toritto. C) S. Ecc. l’Arcivescovo, in data: - 1 maggio 2009 (Prot. n. 21/09/L.A.), ha dato il consenso canonico per la concessione di indulto di esclaustrazione temporanea a p. Angelo Arboritanza, C.R.S.; - 15 giugno 2009 (Prot. n. 27/09/D.A.S.) ha rinnovato per altri cinque anni a don Michele Camastra l’invio in missione come presbitero associato al P.I.M.E. al servizio dell’Arcidiocesi di Hong Kong. 552


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CURIA METROPOLITANA Ufficio per le cause dei santi

Una lapide in Cattedrale per la Beata Elia di San Clemente

Teodora, ‘dono di Dio’: davvero un dono di Dio è stata ed è per la nostra Chiesa locale, per la nostra città, per tutti, la beata Elia di San Clemente, al secolo Teodora Fracasso, carmelitana scalza, barese, vissuta solo 26 anni (1901-1927). A tre anni dalla sua beatificazione, nel corso di una celebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo Mons. Francesco Cacucci, si è scoperta e benedetta una lapide che fa memoria dello storico evento. Il 18 marzo 2006, ricorda l’iscrizione, dettata dal prof. Aldo Luisi dell’Università di Bari, S. Em. il card. José Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione per le cause dei santi, dava nella nostra cattedrale solenne lettura del decreto con cui il Santo Padre Benedetto XVI iscriveva suor Elia di San Clemente, in ragione delle sue ‘preclare virtù’, nel numero dei beati. è la prima beata della nostra Chiesa diocesana e della nostra città di Bari. La celebrazione eucaristica, con lo scoprimento della lapide, si è tenuta in cattedrale il 29 maggio, giorno della memoria liturgica della beata Elia, una data scelta per legare questa nostra beata, così devota dell’Eucaristia, sì che viene invocata e cantata col titolo di ‘Piccola Ostia’, al XXIV Congresso Eucaristico Nazionale svoltosi a Bari, e in particolare all’ultimo giorno del Congresso (29 maggio 2005), che vide la presenza di Papa Benedetto XVI per la celebrazione eucaristica conclusiva. Nell’omelia l’Arcivescovo ha sottolineato come il dono dello Spirito abbia colmato di grazia fin da piccola la beata Elia e come l’Eucaristia sia stata la continua sorgente di questa grazia e ha invitato

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IN HAC CATHEDRALI ECCLESIA B.V.M. ADSVMPTAE CVLTI SACRISQVE DICATA ANTE DIEM XV KAL. APR. A.D. MMVI INTER SOLLEMNE EVCHARISTIAE SACRVM CVI PRAEFUIT FRANCISCVS CACVCCI EXCELLENTISSIMUS BARENSIS – BVTVNTINAE DIOECESIS ARCHIEPISCOPVS EMINENTISSIMVS AC REVERENDISSIMVS DOMINVS IOSEPH SARAIVA MARTINS SANCTAE ROMANAE ECCLESIAE CARDINALIS ATQUE DE CONGREGATIONIS CAVSIS SANCTORUM PRAEFECTUS BEATISSIMI BENEDICTI XVI SVMMI PONTIFICIS IVSSV ATQUE AVCTORITATE VENERABILEM DEI SERVAM A SANCTO CLEMENTE ELIAM DE FRACASSO FAMILIA SACRAM EX ORDINE MONALIUM DISCALCEATARUM B.M.V. DE MONTE CARMELO VIRGINEM INTER BEATORUM NVMERVM ESSE DECREVIT HAEC TABULA AD PERPETUAM REI MEMORIAM POSITAST VT VNIVERSVS CLERVS POPVLVSQUE FIDELIUM MEMORES SINT PRAECLARARVM VIRTVTVM BEATAE ELIAE QVAE IN COENOBIO VNVM PATREM DEVM AGNOVIT VNVM SANCTITATIS LOCVM DELEGIT VNAM VERITATIS LVCEM QVAESIVIT ATQUE IN BREVI VITAE SPATIO DEI CLEMENTIS CARITATEM INVENIT ET MAXIMA CVM HUMILITATE MISSIONEM SE DEVOVERE PERSECVTA EST VT DEVS COGNITVS AMATVSQVE IN TOTO ORBE ESSET BEATAE ELIAE SANCTITATIS PLVRIMA SIGNA NOBIS DATA SVNT ET N VITA ET POST EIVS MORTEM QVAE DEI GRATIA CONTIGIT NATALI DOMINI DIE ANNI MCMXXVII DVM BEATA VIGINTI SEPTEM ANNOS FELICITER AGEBAT

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In questa chiesa cattedrale dedicata al culto della B.V.M. Assunta il 18 marzo del 2006 durante una solenne celebrazione eucaristica presieduta dall’eccellentissimo Francesco Cacucci Arcivescovo della diocesi di Bari-Bitonto S.Em. Rev.ma José Saraiva Martins Cardinale di Santa Romana Chiesa Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi per l’autorevole mandato del sommo Pontefice Benedetto XVI lesse il decreto di beatificazione della venerabile serva di Dio Elia di San Clemente della famiglia Fracasso, monaca professa dell’Ordine delle Carmelitane scalze


CURIA METROPOLITANA tutti a riscoprire nella sua testimonianza di vita, nei suoi meravigliosi scritti la bellezza della vocazione cristiana, l’amore per Gesù, il “Giglio delle convalli” (Ct 2, 1), come lo chiamava spesso suor Elia, riprendendo una espressione del Cantico dei cantici, il libro della Scrittura a lei così caro. Ad appena quattro anni la piccola Teodora aveva sognato un giardino in cui avanzava una donna che mieteva gigli con una falce d’oro e aveva infine strappato un piccolo giglio stringendoselo al cuore... Suor Elia spiegava in un suo scritto: «Era il seme della vocazione religiosa che il Giglio delle convalli, per le mani di Maria, aveva gettato nel mio cuore, onde potesse all’ombra della casa paterna germogliare, e poi trapiantarlo nelle amene aiuole di questo bel Carmelo» (Scritti, p. 176). La testimonianza della beata può e deve costituire per tutti un invito a vivere la vocazione alla santità. La lapide apposta in cattedrale serve a fare memoria di questa testimonianza, non una memoria solo ufficiale e celebrativa, ma un memoria nel senso liturgico, una memoria che rende presente a noi oggi la sua carità ardente per Dio e per il prossimo, il suo desiderio di perfezione, il suo profumo di santità. La lapide è stata collocata sul lato sinistro (per chi guarda l’altare) del muretto con la cancellata che delimita il presbiterio, vicino, dunque, al luogo della celebrazione del sacrificio eucaristico, a ricordare il suo desiderio: «Gesù... un’Ostia accanto a Te esser vorrei» (Scritti, p. 446), un desiderio che può essere anche il nostro. Giuseppe Micunco, Notaio Questa tavola viene posta a perenne memoria affinché tutto il clero e il popolo dei fedeli siano memori degli eccezionali meriti della beata Elia la quale nel monastero riconobbe Dio come unico padre scelse un solo luogo di santità ricercò una sola luce di verità e nella sua breve vita terrena trovò l’amore misericordioso di Dio Nella più grande umiltà assunse l’impegno di immolarsi affinché Dio fosse conosciuto e amato in tutto il mondo A noi sono stati concessi molti segni della santità della beata Elia sia quando era in vita sia dopo la sua morte che per grazia di Dio avvenne nel giorno del Santo Natale dell’anno 1927, mentre la beata viveva felicemente il suo 26° anno di età.

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CURIA METROPOLITANA Settore Carità. Ufficio Caritas

Un anno in Caritas

Facendo un bilancio di quello che è stato svolto in quest’anno sociale per ciò che riguarda la Caritas Diocesana ritengo che il cammino intrapreso possa essere ulteriormente migliorato per il futuro. La maggior parte delle iniziative sono state concentrate sul Dormitorio per i senza fissa dimora “don Vito Diana”. Inaugurato dall’Arcivescovo il 4 ottobre 2008, ha iniziato la sua attività il 10 novembre dello stesso anno. Il dormitorio, fortemente voluto per venire incontro alle esigenze dei senza casa e dei numerosi immigrati che ruotano intorno alla città di Bari, ha visto transitare oltre duecento persone. La sensibilità delle comunità parrocchiali non è mancata. Oltre ai sessanta volontari che continuano a prestare il proprio servizio notturno con gli ospiti del dormitorio, in molti hanno reso la loro disponibilità con le raccolte in denaro dei tempi di Avvento e Quaresima. Non sono mancate anche le offerte in natura con prodotti per l’igiene personale e della casa non solo da parte delle parrocchie, ma anche da parte di singoli privati. Il lavoro è solo agli inizi e mi auguro che trovi sempre spazio nelle iniziative di carità a cui le diverse comunità potranno fare riferimento. Importanti appuntamenti hanno visto la partecipazione dei giovani nei ritiri mensili (terza domenica del mese) a cui hanno partecipato parecchi gruppi parrocchiali.

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Il martedì è stato, invece, un momento importante settimanale. Per tutto l’anno ha visto la partecipazione di alcuni volontari per la formazione, sotto l’aspetto catechistico. Il tema seguito è stato incentrato sull’esperienza caritativa paolina, con un confronto con i testi biblici. Ha funzionato anche il “coordinamento carcere”, che ha visto un momento importante nella celebrazione eucaristica della Domenica delle Palme, presieduta dall’Arcivescovo presso la Casa Circondariale di Bari. Ogni terzo lunedì del mese i volontari s’incontrano presso il dormitorio per un momento di formazione e per programmare alcune iniziative a favore di coloro che risiedono negli istituti di Bari. Per quanto riguarda il futuro, si è posta l’attenzione sul Centro “Di Maggio” di Santo Spirito. La casa diverrà un centro di seconda accoglienza soprattutto per donne e ragazze madri. La Caritas diocesana si avvarrà della collaborazione di due suore Domenicane di San Sisto, che risiederanno nella casa e si preoccuperanno di formare anche chi usufruirà della struttura. Non sono mancati gli incontri con le Caritas parrocchiali, soprattutto nelle comunità dove l’Arcivescovo ha svolto la visita pastorale. Il lavoro richiede un’intensificazione sulla dimensione mistagogica e si auspica che si crei un itinerario di fede in grado di far rientrare la carità non come strumento assistenziale, ma parte integrante dell’evangelizzazione. sac. Antonio Ruccia direttore della Caritas diocesana 558


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NELLA PACE DEL SIGNORE p. Giulio Doronzo, O.F.M. Cap.*

Sabato 30 maggio 2009, nei primi vespri di Pentecoste, all’età di ottantatre anni, è passato da questo mondo al cielo p. Giulio Doronzo, della Fraternità Cappuccina di S. Fara. Padre Giulio nasce nella città di Barletta il 29 maggio 1926, dal papà Domenico e dalla mamma Elisabetta Gissi. Viene battezzato col nome Carmine il seguente 13 giugno nella parrocchia di S. Giacomo. L’ambiente famigliare è religiosamente impegnato. Favorito dall’ambiente privato e cittadino il piccolo Carmine, ancor giovinetto, nel 1939, viene ricevuto da padre Agatangelo da Triggiano nel Seminario Serafico di Barletta. Veste l’ambito cappuccino ad Alessano il 15 agosto 1944. Emette la professione semplice ad Alessano il 19 agosto 1945, e quella solenne a Scorrano il 22 agosto 1948, nelle mani di padre Angelo di Barletta, durante il provincialato di padre Guglielmo da Barletta. Espleta gli studi liceali tra Terlizzi, Francavilla e Scorrano continuando la teologia a Bari. Viene ordinato sacerdote il 29 marzo 1952 a Bari S. Fara da Mons. Marcello Mimmi. Sciolto lo studio, viene inviato ad Alessano come vice maestro dei novizi, per poi trascorrere un anno (1945-55) presso l’istituto di Pedagogia retto dall’Ordine dei Frati Minori a Grottaferrata. Ritorna al Alessano per svolgervi l’ufficio di maestro

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Dalla lettera circolare n. 07/2009 del ministro Provinciale fra Francesco Neri, O.F.M. Cap., in occasione del transito al cielo di p. Giulio Doronzo, O.F.M. Cap.

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dei novizi. Qui incomincia il suo lungo itinerario di servizio alla Provincia, all’Ordine e alla Chiesa. Il primo ambito di apostolato di padre Giulio è stato quello della formazione iniziale. In questo settore è stato, nel tempo, responsabile di ogni fase formativa: del postulato a Terlizzi, dello studentato a Bari, e specialmente del noviziato ad Alessano, dove ha ricevuto e accompagnato numerose generazioni di giovani anche di altre Province. L’altro ambito apostolico, non meno amato, è stato quello degli ammalati. Cappellano all’ospedale di Terlizzi, per la fedeltà all’impegno e la premura verso i sofferenti, si diceva che la Chiesa dell’ospedale era diventata la settima parrocchia di Terlizzi. Nella nostra Provincia ha ricevuto varie responsabilità. È stato economo locale; guardiano ad Alessano, Terlizzi e a Bari S. Fara, fino a diventare ministro provinciale, eletto nel 1979 e riconfermato per un altro triennio nel 1982. Ha retto la Provincia in anni difficili, impegnato il proprio tempo nell’incontro con i frati, adottato con quelli più difficili lo strumento efficace della sua amabilità. A livello nazionale è stato vicepresidente della Conferenza Italiana dei Ministri Provinciali. È stato anche animatore di fraternità dell’Ordine Francescano Secolare, e ha offerto con generosità il dono della confessione e della direzione spirituale ai laici impegnati nella famiglia e nel lavoro. Proprio come confessore e padre spirituale, significativa è stata la sua disponibilità verso i sacerdoti e la vita consacrata. A vario titolo gli sono stati vicini presbiteri che hanno poi ricevuto il ministero episcopale: mons. Antonio Bello, mons. Benigno Papa, mons. Francisco Chimoio e mons. Giancarlo Bregantini. Nel 1988 è nominato successore di padre Guglielmo da Barletta nella direzione dell’Oasi, gestita dalle Volontarie Francescane delle Vocazioni. E finalmente nel 1995 mons. Mariano Magrassi lo nomina direttore dell’Ufficio religiosi e religiose dell’Arcidiocesi di BariBitonto. L’anno successivo viene nominato direttore del settore della Vita consacrata, per poi divenire nello stesso 1996 vicario episcopale. L’incarico curiale non lo trasforma in un burocrate, tant’è che padre Giulio non solo si dedica generosamente a visitare le comunità religiose, particolarmente quelle femminili e quelle claustrali, ma viene richiesto del ministero sacerdotale dagli stessi collaboratori della Curia L’incarico di vicariato episcopale gli viene


NELLA PACE DEL SIGNORE confermato da mons. Francesco Cacucci, e rivestito di tale responsabilità padre Giulio ha concluso la sua esistenza terrena. “Chi è fedele sempre nel poco è fedele nel molto”. P. Giulio è stato artefice di fraternità attraverso l’attenzione alle piccole cose. “Il buon Dio abita nei dettagli”, ha detto Aby Warburg, e difatti proprio le piccole cose sono un valido test della nostra fedeltà ai grandi valori. Ricordiamo il suo amore alla casa, espresso specialmente nei conventi di Alessano e S. Fara, dove, se le pareti potessero parlare, direbbero l’attenzione che padre Giulio ha profuso per rendere i nostri luoghi degni della liturgia e adatti alla vita fraterna. L’altro dettaglio era il suo amore per le creature, particolarmente gli animali domestici che orbitano intorno ad ogni convento e ai quali Giulio provvedeva personalmente al nutrimento. Così concludeva la sua lettera il Ministro Provinciale p. Francesco Neri: “Carissimo padre Giulio, fratello e padre, il Signore ti ha chiamato a sé nei primi vespri della solennità di Pentecoste, mentre tutta la Chiesa invocava lo Spirito Santo con le parole della sequenza: “Da virtutis meritum, da salutis exitum, da perenne gaudium: Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna”. Questa preghiera è stata fatta per te, ed è stata certamente esaudita. Perciò per il dono che tu sei stato per noi, carissimo Giulio, fratello e padre, vogliamo lodare il Signore: “Onnipotente, santissimo altissimo e sommo Iddio, ogni bene, sommo bene, tutto il bene che solo sei buono, fa’ che noi ti rendiamo ogni lode, ogni gloria, ogni grazia, ogni onore, ogni benedizione e tutti i beni. Fiat! Fiat! Amen!”

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D OCUMENTI

E

V ITA

DELLA

C HIESA

DI

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DIARIO DELL’ARCIVESCOVO Maggio 2009

1 - Al mattino, presso la masseria “Odegitria” in Cassano Murge, incontra la comunità parrocchiale della Cattedrale e celebra la S. Messa. - Alla sera, nella chiesa di S. Giuseppe Lavoratore in Montursi, frazione di Gioia del Colle, celebra la S. Messa per la festa del Titolare, nel 50° anniversario dell’erezione della chiesa. 2 - Al mattino, in Bitonto, benedice la sede della Galleria Nazionale “Girolamo e Rosaria Devanna”. - Alla sera, presso la parrocchia S. Maria Annunziata in Cellamare, celebra la S. Messa nella festa del patrono S. Amatore. 3 - Al mattino, presso la parrocchia S. Maria La Porta in Palo del Colle, celebra la S. Messa per la festa del SS. Crocifisso di Auricarro. - Alla sera, presso la parrocchia Buon Pastore in Bari, celebra la S. Messa per la festa del Titolare. 5 - Alla sera, presso la parrocchia SS. Rosario in Mola di Bari, interviene alla presentazione del libro “Puer centum annorum” dedicato al parroco don Bruno Aloia (1914-2007). 6 - Al mattino, presso l’Oasi S. Maria in Cassano Murge, partecipa al Capitolo provinciale elettivo dei Frati Minori Cappuccini di Puglia celebrando la S. Messa. - Alla sera, presso il Teatro Traetta in Bitonto, partecipa alla presentazione de “Il Canzoniere” di Francesca Scivittaro, una voce di Bitonto, promossa dalla parrocchia S. Egidio Abate.

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8 - Al mattino, presso il Molo S. Nicola in Bari, celebra la S. Messa e assiste all’imbarco della statua del Santo Patrono. - Alla sera, presso il Molo S. Nicola, presiede allo sbarco della statua. 9 - Alla sera, nella Basilica di S. Nicola, celebra la S. Messa e presiede il prelievo della santa manna. 10 - Al mattino, in Rutigliano, celebra la S. Messa per la festa patronale di S. Nicola. - Alla sera, nella piazza antistante la parrocchia S. Michele Arcangelo in Bitetto, incontra i cresimandi dell’Arcidiocesi. 11 - Alla sera, incontra l’Associazione “San Lazzaro” presso la sede associativa. 12 - Alla sera, presso il monastero S. Maria delle Vergini in Bitonto, celebra la S. Messa per la professione solenne di una monaca benedettina. 13 - Al pomeriggio, presso il Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, incontra i seminaristi teologi. 14-17 Visita pastorale alla parrocchia S. Maria Assunta in Cassano Murge. 18 - Al pomeriggio, presso la parrocchia Maria SS. del Carmine in Sannicandro di Bari, celebra le esequie di don Giuseppe Perna. 19 - Al pomeriggio, in Cattedrale, incontra i cresimandi della parrocchia S. Maria del Fonte di Bari-Carbonara. - Alla sera, presso la Casa del clero, presiede la riunione del Consiglio Pastorale diocesano. 20 - Alla sera, presso il santuario della Madonna del Pozzo in Capurso, celebra la S. Messa per la festa dell’incoronazione della Vergine e l’offerta dell’olio delle comunità di Bitonto. 21-24 Visita pastorale alla parrocchia S. Maria del Carmine in Sammichele di Bari. 23 - Al pomeriggio, in Sammichele di Bari, presiede la Veglia diocesana in preparazione alla Pentecoste. 25-29 A Roma, partecipa ai lavori dell’Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana. 29 - Alla sera, in Cattedrale, celebra la S. Messa nella memoria liturgica della beata Elia di San Clemente, O.C.D. e scopre una lapide commemorativa della beatificazione.


DIARIO DELL’ARCIVESCOVO 30 - Al mattino, presso la parrocchia S. Maria Maggiore in Gioia del Colle, celebra la S. Messa per il convegno regionale dell’ “Associazione Eucaristica Riparatrice”. - Alla sera, presso la parrocchia S. Paolo Apostolo in Bari, celebra la S. Messa e amministra le Cresime. 31 - Al mattino, presso la parrocchia Stella Maris in Bari-Palese, celebra la S. Messa per il 40° anniversario della dedicazione della chiesa e amministra le Cresime. - Alla sera, presso la parrocchia S. Maria del Campo e della Pietà in Bari-Ceglie del Campo, celebra la S. Messa per la festa di S. Giuseppe Marello, fondatore della Congregazione degli Oblati di S. Giuseppe.

Giugno 2009 3 - Al mattino, presso la Facoltà Teologica Pugliese, presiede la riunione della Commissione di Alto Patronato. - Alla sera, presso la parrocchia S. Croce in Bari, presiede l’incontro conclusivo della visita pastorale al II vicariato. 4 - Al mattino, in Cattedrale, celebra la S. Messa per la festa di S. Filippo Smaldone, fondatore della Congregazione delle Suore Salesiane dei Sacri Cuori. 4-7 - Visita pastorale alla parrocchia Sacro Cuore in Gioia del Colle. 8 - Al pomeriggio, presso il monastero S. Giuseppe in Bari, celebra la S. Messa per la professione semplice di due monache carmelitane. - Alla sera, presso la Casa del clero in Bari, incontra il Comitato dei Presidenti della Consulta diocesana delle aggregazioni laicali (CDAL). 9 - Alla sera, presso la parrocchia S. Nicola in Bari-Catino, partecipa alla proiezione del film “Il cacciatore di aquiloni” e ne guida la lettura.

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10 - Al mattino, presso l’Oasi S. Maria in Cassano Murge, celebra la S. Messa per le monache Clarisse della Puglia. 11 - Al mattino, presso il Palazzo Marchesale in Turi, presiede l’Assemblea della Conferenza Episcopale Pugliese. - Alla sera, presso l’Istituto “Santa Maria De Mattias” in BariCarbonara, celebra la S. Messa per la fusione delle suore Apostole del Catechismo con le Adoratrici del Sangue di Cristo. 12 - Al mattino, presso la parrocchia S. Paolo in Bari, partecipa alla giornata di santificazione sacerdotale. - Alla sera, presso la parrocchia S. Cataldo in Bari, celebra la S. Messa per la festa di S. Gaspare Bertoni, fondatore della Congregazione dei Padri Stimmatini. 13 - Al mattino, nella cripta della Cattedrale, celebra la S. Messa per l’ammissione del parroco, don Franco Lanzolla, tra i canonici del Capitolo Metropolitano Primaziale. - Alla sera, in Cattedrale, celebra la S. Messa e amministra le Cresime per la parrocchia Preziosissimo Sangue in San Rocco in Bari. 14 - Al mattino, presso la parrocchia SS. Sacramento in Bari, celebra la S. Messa e amministra le Cresime. - Alla sera, in Cattedrale celebra la S. Messa nella solennità del SS. Corpo e Sangue di Cristo e presiede la processione eucaristica sino a Piazza del Ferrarese, dove impartisce la solenne benedizione eucaristica. 15 - Al pomeriggio, presso il santuario di S. Maria delle Grazie in S. Giovanni Rotondo, celebra la S. Messa in preparazione alla visita pastorale del Santo Padre Benedetto XVI. 16 - Alla sera, presso la parrocchia S. Agostino in Modugno, partecipa alla presentazione della tela restaurata di S. Carlo Borromeo. 18 - Alla sera, presso la parrocchia S. Giuseppe Moscati in S. Lorenzo in Triggiano, celebra la S. Messa nel 10° anniversario dell’erezione canonica della parrocchia. 19 - Al mattino, in Episcopio, presiede la riunione del consiglio di amministrazione della Fondazione S. Nicola. - Alla sera, presso la parrocchia Sacro Cuore in Mola di Bari, celebra la S. Messa per la festa del Titolare.


DIARIO DELL’ARCIVESCOVO 21 - Al mattino, a San Giovanni Rotondo, partecipa alla concelebrazione eucaristica presieduta dal Santo Padre Benedetto XVI. 22 - Al pomeriggio, presso il santuario dei SS. Medici Cosma e Damiano in Bitonto, partecipa all’inaugurazione della 59a Settimana nazionale di aggiornamento pastorale organizzata dal Centro Orientamento Pastorale (COP) sul tema “Comunità cristiana ed educazione. L’emergenza educativa: problema e provocazione”. - Alla sera, celebra la S. Messa per la Dedicazione della chiesa parrocchiale di S. Pasquale in Bari. 23-25- Partecipa ai lavori del Convegno del COP. 27-3/7- In Grecia, partecipa alla settimana formativa dei preti giovani.

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