"tempopieno" Luglio-Dicembre 2011

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Luglio-Dicembre 2011, n. 3-4 - Anno VI

La Bibbia, luce per l’uomo


Sommario tempopieno Rivista per la Scuola Anno VI (2011) n. 3-4 Direttore Responsabile Vincenzo Legrottaglie

Don Nicola Monterisi tempopieno di... Bibbia

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Alessandro Meluzzi La scuola che vorrei...

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Cataldo Olivieri Vi racconto la nostra scuola Michele Bellino L’animazione nel Museo diocesano di Bari

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Direttore Don Nicola Monterisi

DOSSIER: La Bibbia: luce per l’uomo Registrazione Tribunale di Bari Autorizzazione n. 50 del 19/09/2006 Redazione Anna Asimi Antonio Curci Letizia Indolfi Barbara Licciulli Angelo Lopez Francesca Romana Morgese Maria Raspatelli Segretaria di Redazione Anna Asimi Progetto Grafico Antonio Curci

Erri De Luca Al risveglio…la Parola

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Piero Stefani Lampada ai miei passi è la tua Parola luce sul mio cammino

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Rosanna Virgili Una Parola da incarnare

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Antonio Autiero Bibbia e morale

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Pasquale D’Ascola La giustizia nei Salmi Benedetto Carucci Viterbi Gli ebrei di fronte alla Bibbia Luigi Gaetani C’è un umanesimo da scoprire Paolo Ricca Bibbia e bene comune Marinella Perrone Bibbia e scuola Martina Calace Dalla storia della salvezza alla salvezza della storia Emma Favia Immaginare la Parola Jean Paul Lieggi La lettura patristica della Bibbia

Impaginazione Angelo Lopez Stampa Pubblicità & Stampa Modugno (Ba) Direzione e Redazione c/o Ufficio Scuola Corso A. De Gasperi, 274/A 70125 Bari Tel. 080.5288415/6 Fax: 080.5690230 email: scuola@odegitria.bari.it www.arcidiocesibaribitonto.it

Antonio Calisi Il valore pedagogico e didattico delle immagini sacre nei Padri della Chiesa Giuseppe Micunco Bibbia e letteratura

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Pasquale Troìa Sono canti per me i tuoi insegnamenti

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Nicola Stufano Bibbia e professione medica

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Gigi Di Nardi e Vivere la Bibbia in famiglia Marina Dabbicco

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Armando Matteo Bibbia e giovani

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Laura Masellis Quando racconto la Bibbia ai bambini

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Sommario Don Valentino La parola di Dio è vivente Campanella

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A cura di Anna Asimi Sullo scaffale

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A cura di Anna Asimi Giunti in redazione

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Gregorio di Nazianzo Discorsi teologici Grazia Ricciardi Mosè

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tempopieno di… Bibbia Non vi nascondo che avrei fatto volentieri a meno di scrivere la presentazione di questo fascicolo. Il rischio di cadere in espressioni banali e insulse di fronte alla grandiosità del tema “Bibbia” è altissimo. Siamo di fronte al libro più diffuso e più tradotto in tutte le lingue in ogni tempo da oltre due millenni. Siamo di fronte, per chi crede come me, alla Parola di Dio. Libro letto, commentato, amato, scelto per dare significato alla propria vita di singoli, comunità, popoli, Chiese eppure ancora profondamente ignorato. Libro che ha attraversato la cultura europea e occidentale eppure, da noi, ancora troppo sconosciuto. Libro documento storico-letterario di importanza fondamentale eppure ancora così assente dai luoghi istituzionali della cultura quali la scuola e l’università. Parola di Dio che continua faticosamente a cercare di cambiare il cuore dell’uomo e che, al contrario, incontrando la precarietà, la presunzione e la miseria degli uomini ha causato lacerazioni dolorose nella vita delle Chiese europee e libro posto da molti a fondamento della cultura europea. A tale proposito Goethe ha affermato «la lingua materna dell’Europa è il cristianesimo» e il filosofo Kant era convinto che «il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà». Un altro filosofo celebre, Nietzsche (quello della morte di Dio, ricordiamolo) asseriva che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca e tedesca. Fra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Petrarca c’è la stessa differenza che esiste fra la patria e la terra straniera». Che fascino, che provocazione, che luce per ogni singolo uomo che vuole avvicinarsi con onestà intellettuale alle pagine della Bibbia, prima ancora di ogni interesse di fede! 4


La convinzione dell’importanza della conoscenza della Bibbia, l’impegno a illustrarne il messaggio (gli infiniti messaggi che essa contiene), l’amore per la generazione che si affaccia alla scoperta delle verità della propria vita ci hanno suggerito di affrontare questo tema nel dossier della rivista. Abbiamo incontrato la consueta disponibilità di qualificati studiosi sempre attenti ad approfondire degli aspetti del tema (religioso, culturale, storico-letterario, ecc.) che ci hanno inviato generosamente le proprie accurate riflessioni. Altri hanno comunicato l’esperienza della relazione tra la professione esercitata e la Bibbia, altri la declinazione della vita in famiglia in rapporto alla fedeltà alla Parola. Ringraziamo di cuore ciascuno di loro unitamente a quanti ci hanno inviato i contributi per le rubriche che precedono e seguono il dossier. Buona lettura! Don Nicola Monterisi

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La scuola che vorrei… di Alessandro Meluzzi *

Educare deriva dal latino ed è composto dalla particella e che significa da, di, fuori e dal verbo ducere che vuol dire condurre, trarre. Perciò credo che il mestiere dell’educatore sia profetico. Il primo profeta che mi viene in mente è Mosè, che conduce il popolo ebraico fuori dall’Egitto verso la Terra Promessa. Ma il pro* Psichiatra 6

feta non è colui che annunzia il futuro, non è un veggente. Il profeta è colui che parla in nome di qualcuno di fronte a qualcun altro per comunicargli il messaggio. E in quest’accezione la figura dell’educatore e la figura del profeta vengono in qualche modo a coincidere. Infatti entrambe le figure conducono fuori da una forma di schiavitù verso una maggiore consapevolezza. A queste due figure si può anche accostare il medico. Harvey, un grande fisiologo del ̓600, sosteneva che il medico introduce nell’organismo sostanze che non si conoscono. Infatti sia l’educatore che il profeta conducono qualcuno da radici incertissime attraverso un “deserto” verso una meta sconosciuta ma idealmente migliore sia dell’origine che del cammino. La scelta di rivestire questi ruoli comporta molte inquietudini, che non possono essere sedate da alcuna retribuzione in termini economici. Per questo motivo tale scelta è dettata da una vocazione. Secondo me se un individuo si assume il compito gratificante ma allo stesso tempo frustrante dell’educare, questa persona è mossa da una capacità che oserei definire profetica e anche terapeutica. Non a caso la figura del terapeuta nasce in Egitto e coincideva con l’immagine del filosofo, che conduceva l’uditorio verso il proprio destino. Questa breve introduzione può sembrare este-


tizzante se consideriamo la realtà attuale, in cui ci si confronta con il bullismo e la crisi della famiglia. Oggi la vocazione dell’educatore si scontra con la destrutturazione del mondo e rende davvero ardua la scelta di chi vuole seguire la sua inclinazione innata e naturale. C’è la parola tedesca beruf che significa contemporaneamente vocazione, professione e destino. La figura dell’educatore è messa in crisi non solo dallo scarso riconoscimento economico-sociale ma anche dall’incrinarsi del rapporto tra scuola e famiglia. In passato l’autorità della scuola e dell’insegnante erano rispettate e incutevano reverenza. Invece oggi la famiglia e il giovane “educato”, cioè a cui viene impartita l’educazione, sono alleati contro l’autorità ormai messa in discussione. Oltre alla tensione di essere consapevoli di dover far acquisire agli educati nozioni del vivere civile, gli educatori sono anche pressati da nuove tensioni perché ad essi viene affidata anche quell’educazione di cui di solito in passato si occupavano le famiglie. Oggi l’educatore svolge compiti che prima erano affidati alla famiglia, assumendo un aspetto genitoriale. Inoltre il ruolo della paternità è reso invisibile. In tutti i modelli psicodinamici di rapporti familiari la legge amorevole dei genitori è archetipicamente divisa tra amore paterno e amore materno. L’amore della madre è rassicurante e accoglie sempre e a prescindere da qualsiasi sovra-determinazione. Invece l’amore paterno è concesso in base all’acquisizione delle regole della sua legge. Non a caso Freud parlava dell’uccisione del padre. Ma se il padre non è più autoritario e il figlio non desidera più ucciderlo, avviene una sovversione, a cui la scuola non può porre rimedio in quanto è anch’essa privata della sua autorità. Però la scuola deve tentare di sopperire alla mancanza, cercando di informare e di formare gli educati in vista delle difficoltà future, altrimenti queste ultime irromperanno come una catastrofe nel corso della vita. La figura del genitore ha intrinsecamente autorevolezza che si distingue dalla severità. Si sceglie di essere autorevoli anche se implica fatica. Kant dice che è libero non chi fa ciò che vuole ma chi vuole ciò che deve. Se si compie qualcosa solo perché si deve allora non la si

vuole compiere. Ma come si concilia la libertà con qualcosa di imposto dall’autorevolezza? E si introduce il tema della fascinazione educativa. Nella vita ci lasciamo affascinare o da un maestro o un modello di identificazione o qualcuno che ci propone la possibilità di lavorare per essere. L’identificazione è un passo ineludibile del cammino umano. Ma in teoria ci si dovrebbe anche poter identificare con il padre. Di solito il figlio intorno ai dieci anni pensa che il padre è il più grande degli eroi, verso i quattordici inizia a credere che a volte abbia torto, intorno ai sedici anni ritiene che non abbia mai ragione. Solo quando l’adolescente passa la soglia dei venti anni, allora comincia a pensare che il padre aveva spesso ragione. Questo ciclo dovrebbe essere sovvertito tramite la fascinazione di autorevolezza esercitata dal padre, che dovrebbe essere un modello d’identificazione. E per poter essere un modello deve essere innanzi tutto presente. La presenza è una condizione imprescindibile per lo sviluppo psicologico. E i padri sono assenti perché continuano a seguire i loro fantasmi adolescenziali nella misura della loro indefinitezza e alla ricerca della loro felicità. Non c’è nulla di più disperato della ricerca della propria autoaffermazione. La felicità, ammesso che esista, non è mai il risultato di un programma o il risultato di un progetto. Essa è un dono, è un’esperienza inderivabile: qualcosa che non può essere ottenuto con la volontà e non può essere costruito, perché è un accadimento. La felicità è un accadimento come l’amore. Forse che l’amore è il risultato di un programma? Ciò che è il risultato di una programmazione non ci suscita felicità perché ci appare scontato. Il traguardo raggiunto tramite un progetto non ci appare come un dono straordinario ma ci appare come una conseguenza necessaria. La felicità non è mai il risultato di un calcolo computazionale ma è il risultato di qualcosa che si manifesta in modo misterioso ed ineffabile. Credo che i processi educativi non possano tener conto della dimensione di mistero. I giovani non ascoltano le parole ma osservano i fatti e non tengono conto della quantità ma della qualità. Non misurano la realtà sulla base dei suoi esiti ma sulla base del sacrificio. 7


Fare il sacro ci fa capire che oltre la propria autorealizzazione c’è altro, che ci trascende e che va al di là dei nostri risultati. I traguardi che raggiungiamo ci vengono donati e l’unica cosa che possiamo apportare è il dolore consapevole. Tutto ciò che consideriamo importante comporta sacrificio. Anche un amore che ha successo implica fatica, così come mettere al mondo un figlio e garantirgli una vita. Secondo me un elemento imprescindibile della condizione umana è la trascendenza del sacrificio. La vita è caos: veniamo da un abisso di nulla a cui ritorniamo. La vita è inspiegabile: nasciamo, cresciamo, ci ammaliamo e moriamo. Magari abbandoniamo la vita senza comprenderne il senso, che non può essere rintracciato nei risultati empirici dell’esistenza. Siamo come levrieri che corrono in un cinodromo dietro ad una lepre di pezza e se l’afferriamo scopriamo che è una lepre finta. Forse è per questo motivo che quando otteniamo un successo senza fatica, ci appare modestissimo. Solo ciò che ci è costato sacrificio ha valore. La dimensione del sacrificio è la prima scaturigine di senso nel caos della vita. E il caos può essere trasformato in kosmos, ordine armonioso, solo tramite il sacrificio, che è semplicemente un dono. Il dono è qualcosa per il quale non ricevo nulla in cambio, non è uno scam-

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bio. Ciò che io faccio senza chiedere una ricompensa è l’unica fonte di generazione della vera ricchezza. Alla fine della nostra vita ci resterà solo ciò che abbiamo donato e non ci ricorderemo neanche di ciò che abbiamo fatto. Infatti ciò che abbiamo donato viene dal nulla, l’abbiamo creato come fossimo Dio. Ciò che noi facciamo senza ricevere qualcosa in cambio è il riconoscimento in questo mondo. Il rapporto genitori-figli è basato su questa concezione del dono: se c’è un luogo in cui si può realmente parlare di dono, questo posto è la famiglia. Proprio la gratuità del sacrificio rende la vita miracolosa e preziosa. Il vero miracolo è il dono. Non si può misurare la quantità o rilevare la qualità del dono, ma si può avere una sorta di carriera del dono e del sacrificio nell’educare i figli. E si può individuare come fattore di fallimento nell’educazione la carenza della dimensione del dono e del sacrificio. I genitori pensano di poter rimediare e sopperire alla loro assenza con doni materiali, oggetti, che dovrebbero servire a compensare la mancanza di impegno e di presenza. Ma se non capiamo qual è la vera natura del dono allora la vita è pattumiera. Le cose non riescono a colmare il nostro cuore e ci lasciano un senso di insoddisfazione, che si estende ancora di più se pensiamo di poter riempire il vuoto con gli altri. Siamo alla disperata ricerca della quantità, perché riteniamo che il vuoto possa essere colmato con un numero sempre maggiore di oggetti e di persone. Ma nella mia carriera professionale ho incontrato tante persone che, pur avendo apparentemente tutto, sono impazzite: mancavano le cose essenziali. L’amore è l’unica fonte di eternità, che va al di là del limite della morte. La vita non ha qualità né quantità. La vita è caratterizzata qualitativamente dalla presenza dell’ineffabilità del donare e del donarsi. E il segreto dell’umano è il dono senza chiedere nulla in cambio.


Vi racconto la nostra scuola di Cataldo Olivieri *

Siamo a Noicattaro, paese di venticinquemila abitanti nell’hinterland barese, famoso anche all’estero per la sua “uva regina”. D’estate, e fino a novembre, ogni giorno partono da qui tir e vagoni ferroviari per i mercati ortofrutticoli di tutta Europa. Molti in questa terra hanno investito nella vigna e nei campi. Tra questi, anche non pochi immigrati stranieri, ormai stabilmente residenti. Certo, non sono proprietari di terre, ma la ‘giornata’ la rimediano, ed è quanto basta per una vita dignitosa. Qui la “Pascoli” propone il suo “piano dell’offerta formativa”. Noi addetti ai lavori lo chiamiamo P.O.F., anche se la sigla non è esaltante, e fa pensare più al codice di una pratica d’ufficio, che ad un progetto educativo rivolto a ragazzi. Così, ci è venuto di dargli un nome proprio: il nome del nostro POF è Eutopia, che tradotto dal greco, sta per “il luogo bello”. In pratica, abbiamo ‘adottato’ l’utopia di Tommaso Moro. Solo che tra le due matrici etimologiche che stanno all’origine della parola (ou topos - ‘luogo che non c’è’, ed eu topos – ‘luogo bello’), abbia-

mo scelto senz’altro la seconda. Vale la pena una prima riflessione: la scuola italiana, io credo, ha bisogno di fare cose diverse dal consueto, da quello che è l’attesa ‘normalità’. Diremmo, con una espressione figlia della stessa radice, che la scuola ha bisogno di fare cose divertenti (da di-vertere, modificare la direzione rispetto alla rotta consueta che tutti si attendono). Anche darsi un nome proprio può essere un’impresa divertente, che ci schioda dalla routine. Ma torniamo all’idea bizzarra di Eutopia. Infatti è bizzarro, o forse perfino presuntuoso, definire ‘bella’ la scuola! Da che mondo é mondo, i ragazzi ci vanno mal volentieri, studiano controvoglia, sopportano come un peso le ‘imposizioni’ dei professori, non di rado subiscono le prepotenze di bulli e monelli di vario calibro. Eppure, affermiamo che può essere bello venire a scuola! È bello venirci e starci, così come è bello abitare nella propria casa, coltivare le proprie abitudini. È facile constatare che la scuola è il secondo luogo ‘abitato’ dai nostri ragazzi, e non si può odiare il posto dove si trascorre così tanto tempo. Se la scuola fosse un luogo sgradevole, quale motivazione spingerebbe all’apprendimento? E qui nasce una seconda riflessione: il termine luogo è usato dal sociologo francese Marc Augè, in contrasto con quello di non luogo. Mentre in un ‘luogo’ è riconoscibile una comu-

* Dirigente scolastico – Scuola Secondaria di I Grado “G. Pascoli” - Noicattaro 9


nità (con storia, valori, progetti comuni), i ‘non luoghi’ sono spazi anonimi e indifferenti (come gli ipermercati o le sale d’aspetto di una stazione) frequentati da tanta gente, che tuttavia si sente estranea, non a casa propria. Vogliamo dunque che la Pascoli sia la casa dei ragazzi, luogo a loro caro, spazio ‘abitato’ per cui avere cura e affetto. Vogliamo che le aule, ‘seconde abitazioni’ dei ragazzi, abbiano tende alle finestre fatte dalle mamme, piante sul davanzale, magari un orologio da cucina, proprio come il soggiorno di casa dove a pomeriggio si fanno i compiti. Anche in questo caso, non si inventa nulla. Agli inizi del Novecento, la grande pedagogista Maria Montessori, realizzò le “case dei bambini”, affermando di volere non una scuola per i bambini, ma una scuola dei bambini, «in cui i piccoli diventino pienamente persone e diano vita ad un mondo di pace». Ma come ci stanno Tommaso Moro e Maria Montessori dentro la Pascoli? Come passano le loro giornate, insieme ai circa seicento abitanti - ragazzi e settanta docenti e non docenti? E insieme a loro, come vivono a scuola i diciannove alunni diversamente abili, i trentacinque ragazzi stranieri, i circa quaranta ragazzi

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‘svantaggiati’? Alla Pascoli accade più o meno questo. Alle otto tutti in cortile, nei posti assegnati alle singole classi. Il preside e i docenti accolgono e accompagnano fino alle proprie aule. L’accoglienza è importante; salutarsi, scambiarsi una battuta, incrociare gli sguardi, specie con quei ragazzi bisognosi di essere ‘accompagnati’ nella crescita educativa (leggi: i ‘monelli’) è un modo per intravvedere un malessere, intercettare un disagio, prevenire un potenziale conflitto. L’edificio ha circa quarant’anni, solido come si usava costruire un tempo e, per buona sorte, appena ristrutturato, con l’ingresso fatto tutto di vetrate colorate (i ragazzi devono fare l’esperienza del ‘bello’, sia dentro che fuori! Educare al bello, affermava il grande pedagogista Paolo Freire, è il principale apprendimento, da cui discendono tutti gli altri). Breve annotazione: i ‘ritardatari’ – per loro sfortuna - devono passare dalle forche caudine della presidenza, e la cosa non li rinfranca particolarmente! Una terza veloce riflessione, a questo proposito: i ragazzi hanno uno spiccato senso della giustizia, e sanno perfettamente quando hanno ragione o torto. Dunque, il rimprovero (o l’e-


v e n t u a l e ‘provvedimento disciplinare’) per i ritardatari cronici è generalmente atteso, perfino accettato. I ragazzi, insomma, hanno bisogno di rigore educativo; sembra quasi che lo richiedano, come atto di cura e di attenzione, come antidoto a ll’indifferenz a dei grandi (l’indifferenza è da considerare, a mio avviso, il peggiore misfatto degli adulti, in campo educativo). Durante la giornata scolastica possono accadere tante cose, tutte però fortemente connesse all’apprendimento cosiddetto ‘curricolare’. A metà mattinata le classi fanno la loro ‘pausa’ in giardino (ne abbiamo uno all’interno, verde ed ombroso); questa ‘uscita’ alleggerisce non poco la giornata di studio in aula. Durante il giorno piccoli gruppi (in genere, ragazzi svantaggiati o iperattivi che hanno bisogno di interrompere la routine dietro i banchi) si occupano, a squadre, della cura dei giardini, oppure fanno visita al ‘piccolo zoo’ scolastico (pesciolini, criceti, uccellini, pappagallini, ecc.), curato con particolare maestria dai nostri ragazzi diversamente abili (una conferma della potenza educativa della pet therapy). Una volta l’anno i ragazzi vanno a cavallo, in un maneggio vicino (l’equitazione dura circa due mesi … finanziamenti permettendo). Nelle belle giornate i docenti possono utilizzare il giardino come ‘aula all’aperto’, e dunque svolgere le loro lezioni al fresco, sotto gli alberi, seduti sulle panchine o intorno a un grande tavolo. Per la scuola puoi incontrare anche i volontari del servizio civile: sono quattro ragazze, si prendono cura come tutor di alcuni ragazzi che ‘fanno fatica’ a studiare. Il progetto Servizio Civile (la Pascoli è iscritta dal 2009 all’albo re-

gionale degli enti accreditati) si chiama “Scuola a colori”e ci permette di offrire una chance ulteriore ai ragazzi in difficoltà. Una domanda si impone: ma la Pascoli è forse troppo sbilanciata a vantaggio dei ‘ragazzi difficili’, e trascura tutti gli altri? Risposta (e conseguente quarta riflessione): in una classe si può constatare la stessa legge dei ‘vasi comunicanti’, che ritroviamo nella Fisica; nello specifico, il benessere dei ragazzi più riottosi allo studio, è direttamente proporzionale al benessere di tutti, così come il loro malessere condiziona e pregiudica il buon andamento generale. Quanto più troviamo le giuste strategie di apprendimento per gli alunni svantaggiati, tanto più l’intera classe ne trae beneficio. Pertanto, la cura dei ragazzi ‘monelli’ o ‘poco studiosi’, con i percorsi personalizzati costruiti per loro, favorisce straordinariamente la qualità dell’apprendimento di tutti! Naturalmente, non si tratta di creare separazioni tra i ragazzi; al contrario, la personalizzazione degli interventi è un processo orientato alla piena integrazione e al rispetto delle rispettive specificità. Le differenze sono una risorsa e non un problema, usiamo dire. Se vieni alla Pascoli in autunno o primavera, lungo i corridoi o nelle aule, ti potrai imbattere in ragazzi... tedeschi che fanno lezione nelle nostre classi. Da cinque anni realizziamo un gemellaggio con la Uhland Schule di Goppin11


gen; ormai diverse decine di ragazzi hanno viaggiato e studiato in… Europa, con le famiglie protagoniste di straordinari gesti di ospitalità! Altra esperienza ‘divertente’, in cui ci si può imbattere, è quella di vedere in giro, per la scuola, ragazzi con la “scacchiera”. Gli scacchi sono il gioco da tavolo più popolare alla Pascoli. Buona parte degli alunni ci sa giocare; non meno di cinquanta–sessanta ragazzi guadagnano il diritto ai campionati d’istituto; i meglio classificati formano le squadre, maschile e femminile, che rappresentano la scuola ai campionati provinciale e regionale. Incredibile ma vero: spesso i ragazzi più bravi a scacchi non sono affatto i più bravi nello studio; talvolta è vero il contrario! Ecco un altro motivo di riflessione… Girando per le aule, ci si potrebbe trovare, una volta al mese, nel pieno di una assemblea di classe. Viene indetta dai rappresentanti (due eletti a scrutinio segreto, per ciascuna classe, nel mese di ottobre), serve a mettere in luce 12

proposte e problemi, da discutere nel “Consiglio dei Ragazzi” (il parlamentino degli alunni della scuola), e da sottoporre poi al preside, per migliorare quello che non va. Ragazzi cittadini e talvolta perfino… sindacalisti! E poi … progetti con fondi europei e regionali, sport, laboratori, corsi di recupero pomeridiani. E poi ancora… È impossibile imprigionare in un testo il racconto di una scuola, le tante cose quotidiane. Così come non è facile giudicarne i risultati, nel bene o nel male. Di errori, per carità, ne facciamo, li conosciamo tutti, a fine anno li esaminiamo con cura. E tuttavia ci piace guardare sempre all’orizzonte ‘prossimo’, alle cose che possono ancora avvenire, rivedendo e migliorando quelle passate. E quelle cose ‘che stanno per venire’, che quotidianamente si costruiscono, nella sapienza antica della lingua dei Romani, si usava chiamarle avventura! Buona avventura educativa a tutti!


L’animazione del Museo diocesano di Bari di don Michele Bellino *

Il primo dato da poter considerare nel presentare le indicazioni dell’animazione museale realizzata è il numero dei visitatori, nel periodo preso in esame (dal 1° luglio 2010 al 1° luglio 2011), che è stato di 3764 unità (a raffronto di 2442 per l’anno precedente). Tale risultato è il frutto d’alcuni orientamenti predisposti, come l’apertura straordinaria del Museo con itinerari espositivi particolari e l’animazione laboratoriale per le fasce studentesche. Entrando nello specifico si possono evidenziare le seguenti animazioni effettuate: Notti Sacre dal 26 settembre al 3 ottobre 2010 con 487 visitatori e

la Mostra Natalizia con otto aperture straordinarie raggiungendo 604 visitatori. Entrambe le iniziative hanno avuto la possibilità di una informazione mediatica con dirette su TG Regione (1 ottobre 2010 alle ore 7.30 e 14.00) e servizi su RAI 1 e RAI 3 (19 e 26 dicembre 2010), redatti dal giornalista Enzo Quarto. Il primo percorso ha orientato l’animazione sui rotoli degli Exultet e il secondo sul legame tra devozione e collezionismo nei segni del Natale (presepi, statuaria e dipinti). L’animazione natalizia ha tenuto anche presente di rinsaldare il legame con il territorio, sia quello ove è inserita la sede museale, Bari vecchia che la città. Per far fronte a tale obiettivo si è strutturato un I Concorso in collaborazione con la parrocchia Cattedrale, per la valorizzazione dell’arte del presepe nella città antica di Bari. A tale iniziativa hanno aderito 25 partecipanti tra famiglie, associazioni e confraternite. Altresì l’animazione natalizia nella sede museale ha visto il coinvolgimento di 15 soggetti come presepisti, collezionisti e restauratori, nel mettere a disposizione il loro materiale per il percorso espositivo. La realtà di animazione laboratoriale nella fruizione del Museo per le fasce studentesche ha scelto come canale privilegiato per la comunicazione con le istituzioni scolastiche la collaborazione con l’Ufficio Scuola diocesano, assieme alla presentazione dei percorsi laboratoriali strutturati nell’incontro diocesano con gli insegnanti di Religione cattolica nel mese di ottobre. La partecipazione delle fasce scolastiche alla vita del Museo Diocesano si è così strutturata in 889 unità di cui 628 studenti tramite i

* Responsabile del Museo Diocesano di Bari 13


percorsi laboratoriali e 261 mediante il percorso ordinario. I laboratori selezionati dalle comunità scolastiche sono stati i seguenti: lo “Scriptorium: l’arte e il piacere della scrittura e della miniatura” con 330 adesioni, “Bari nel Medioevo: il succorpo della Cattedrale, i reperti scultorei e gli Exultet del Museo Diocesano, la cripta della chiesa di San Michele” con 208 visitatori, “Il racconto del Natale nell’arte” con 90 partecipanti. Il laboratorio “Il Racconto del Natale nell’arte” è stato realizzato con l’ausilio di tre volontari e due guide; lo “Scriptorium” e “Bari nel Medioevo” con l’ausilio di un solo volontario. Certamente il criterio guida per la scelta degli animatori ai diversi laboratori ha tenuto presente la reale necessità del personale per la realizzazione dei percorsi. A fronte di tale orientamento la presenza del gruppo guide è stato chiamato a seconda dei bisogni di gestione dei flussi di presenza, non più scegliendo una presenza indistinta al di là dei numeri dei visitatori. La proposta formativa non è diminuita nell’accogliere uno o più visitatori e nel mettersi a disposizione per l’animazione. Un indice di riscontro si ritrova nei questionari di gradimento consegnati ai docenti sulle proposte laboratoriali prescelte, ove si evince un livello di piena soddisfazione per il coinvolgi-

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mento dei ragazzi e qualifiche di merito a riguardo dell’apprendimento e dell’organizzazione. Un ulteriore canale di animazione è stata la collaborazione con l’Ufficio Liturgico diocesano, con una proposta di catechesi con l’arte nel periodo di Quaresima, con l’approfondimento del Triduo Santo attraverso i Misteri della Vallisa e l’Exultet I. A tale indicazione formativa hanno partecipato tre comunità parrocchiali con 180 unità. Altre iniziative realizzate nel presente anno sono così elencate: Prestito d’opera della lastra “L’albero della vita” di Peregrino da Salerno per la mostra “Gli Svevi e l’Italia” organizzata dal Reiss-EngelhornMuseen di Mannheim dal 18 settembre 2010 al 20 febbraio 2011; Intervista sulla Mostra Natalizia del giornalista Luca Turi e trasmessa sul suo sito Internet; Strutturazione di due lezioni per il Corso di approfondimento per aspiranti IdR; Presentazione del Museo Diocesano nelle trasmissioni televisive di Buonvento e Meridiani sul canale Tele Norba 7 a cura del giornalista Martino Cazzorla; Presentazione del volume “Exultet I di Bari” del prof. Giuseppe Micunco il 16 aprile 2011; Organizzazione di un percorso fotografico di Michele Cassano sui “Riti della Settimana santa a Bari Vecchia” dal 16 aprile al 1° maggio 2011; Partecipazione all’iniziativa promossa da Artelier “1087 i costumi della traslazione: donne, gioielli e promesse nuziali” nella sala Murat dal 6 al 20 maggio 2011. In riferimento agli oboli volontari ricevuti al netto delle spese di minuta amministrazione è stato di 1.164,82 euro, ma altresì si può aggiungere la somma risparmiata di 6.000,00 euro per il compenso alle guide, garantendo comunque tutti i servizi educativi e formativi del Museo.



Dossier

Al risveglio… la Parola di Erri De Luca *

La scrittura sacra, Antico e Nuovo Testamento, è una storia di ebrei. L’Antico è stato scritto in lingua e lettere ebraiche, il Nuovo invece è stato compilato in greco. Ho studiato le due lingue: il greco al liceo e l’ho dimenticato in gran parte. L’ebraico antico l’ho avvicinato in età adulta, da volontario e da solo. Ho potuto così risalire per mio conto al formato di origine del monoteismo, dal quale proviene la civiltà religiosa del nostro spicchio di mondo. Frequento quelle scritture tutti i giorni, al risveglio. Non sono credente, non posso rivolgermi a una divinità. La escludo dalla mia vita, non da quella degli altri. I credenti possiedono una intimità che non ho. La mia lettura quotidiana è un percorso verso le origini della notizia sacra. Somiglia a quello di un viandante * Scrittore 16

che si accosta alle sorgenti di un fiume. In quel punto dove la storia sgorga, trovo l’integrità della parola. Non si è ancora suddivisa in religioni, altari, culti contrapposti. È intera, quanto un dono appena ricevuto. Leggendo in ebraico antico ho la vertigine di essere contemporaneo dell’inizio. Leggo i caratteri ebraici che vanno nel senso opposto al nostro. Anche le pagine si sfogliano al contrario. Si forma così un attrito, da quelle parole si alza un vento che pulisce gli occhi e sgombera i pensieri. Mi accorgo di avere la testa vuota, perciò aperta a quella visita. In una mia lettura di molti anni fa intendevo un verso ebraico in maniera diversa dalle traduzioni correnti. Mi succede spesso. Riferito al vagabondaggio degli ebrei nel deserto dopo la libertà scippata all’Egitto, si legge di una colonna


Dossier di nuvole stesa su di loro a copertura, ma il verso ebraico dice alla lettera: «Stese una nuvola per tappeto». L’immagine è perfetta e più profonda: la colonna di nuvole, allungata tra la terra e il sole, proietta al suolo un’ombra. Quell’ombra è un tappeto e loro vanno su una traccia spianata. Ecco perché dopo quaranta anni di infiniti passi, i loro sandali non si consumarono. La colonna di nuvola che sta sopra di loro non li ripara da un’insolazione, non sta a copertura, ma a segnavia del viaggio. La scrittura sacra non è un riparo in caso di arresto, ma una guida per andare avanti. Perciò tutte le regole di comportamento, le leggi della scrittura sacra si chiamano in ebraico halakha’, dal verbo andare. Contengono il corpo di istruzioni per la marcia nel deserto, nello sbaraglio del pericolo della libertà. Sì, la libertà non è un elenco di bei diritti da godere, ma un azzardo che fa desiderare spesso di tornare indietro in qualche Egitto. Quella scrittura sacra invita al rischio di affidarsi al viaggio. Come quello degli ebrei di allora e dei migranti di ora, è di sola andata. C’è un Mar Rosso che si richiude a saracinesca alle spalle, tagliando via il ritor-

no. Nell’asprezza dell’ebraico antico leggo il perso di una lingua facchina che si carica in groppa la potente notizia del monoteismo. Si apre una pista verso il cuore della specie umana cancellando tutte le divinità precedenti. La grandiosa folla di idoli precedenti precipita giù da altari e alture. Gli inquilini dell’Olimpo subiscono sfratto esecutivo, fino a lasciare la residenza alla stesura delle nevi eterne. Gli dei finiscono nell’esilio della mitologia. Il monoteismo si impianta grazie alla sua formula mai tentata prima: estrarre dalla vita umana l’energia amorosa che possiede. Nessuna divinità aveva chiesto tanto: amarla con tutta l’energia del cuore, del fiato, delle forze. E di amare il vicino sconosciuto quanto se stessi. Accade la più profonda sovversione delle gerarchie, ribadita nel Nuovo Testamento dal discorso della montagna che proclama lieti e primi gli umili, i vinti, i calpestati, gli ultimi. Esco dalla lettura quotidiana con un viaggio compiuto, prima di infilarmi nelle faccende del tempo presente.

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Dossier

Lampada ai miei passi è la tua Parola luce sul mio cammino (Sal 119,105) di Piero Stefani *

Premessa Il tema che mi è stato proposto può essere affrontato in moltissimi modi. Ne scelgo uno, non so bene se è il più opportuno. La mia meditazione sarà divisa in tre parti e preceduta da una premessa di tipo “metodologico-contenutistico”. Essa indica qual è l’atteggiamento di fondo che bisogna avere di fronte alla Parola. Le tre parti sono: • La Parola di Dio come una lettera • L’apertura della Parola • L’umiltà della Parola. Prendo lo spunto iniziale da un brano di Lutero. È fuor di dubbio che Lutero fu un uomo nutrito dalla Parola in un momento in cui la Parola nella tradizione cristiana era posta fuori centro. Per questo gli siamo tutti debitori. Lute-

* Biblista 18

ro afferma: «Se vuoi diventare cristiano accogli la Parola di Cristo e sappi che non l’apprenderai mai a fondo. E tu confesserai insieme con me che non ne conosci ancora l’abbiccì. Se valesse la pena vantarsi io lo farei anche, ho passato infatti giorni e notti in questo studio ma in questo insegnamento devo restare sempre uno scolaro. Io ricomincio quotidianamente come un alunno delle elementari». Questo passo di Lutero è metodologico perché fa riferimento alla scuola e al rapporto docentediscente, in cui il docente della Parola deve essere sempre discente alle prime armi. L’importanza decisiva di questa frase è duplice: da un lato c’è l’appello alla quotidianità (“ogni giorno”), dall’altro c’è l’invito a ricominciare. Mentre la prima parte, “ogni giorno”, si capi-


Dossier sce immediatamente, è forse più difficile capire perché si è chiamati a ricominciare. Potrebbe sembrare la spia che non si progredisce, che si è preda di una fatica di Sisifo. In circolo si ripercorrono sempre gli stessi passi. In realtà questo ricominciare non vuol dire partire da zero, significa trovarsi in cammino. La Parola è inesauribile, e chi non ricomincia non l’ha compresa. Ricominciare vuol dire sapere che «lampada per i miei passi è la tua parola, / luce sul mio cammino». La Parola è il cammino ai passi, è un andare. Accogliere la Parola significa sempre andare non solo perché inviati dalla Parola, ma è un andare dentro la Parola. La Parola invita a camminare con lei e dentro di lei. La Parola come una lettera È abbastanza tradizionale paragonare la Parola di Dio ad una lettera. Una buona parte della Parola di Dio, almeno del Nuovo Testamento, ha, in effetti, la forma di lettera. Come immagine, però, è estendibile a tutta la Parola di Dio, non solo alle epistole di Paolo o a quelle cattoliche. La lettera è una forma di comunicazione a distanza, quindi non implica una presenza o, meglio, implica quella presenza che è possibile là dove c’è distanza. Se ci fosse solo distanza, separazione, lontananza nulla arriverebbe fino a noi. Il giungere di una lettera non nega la presenza di una distanza, ma ne inverte il segno. Gregorio Magno scrivendo a Teodoro – medico, quindi laico, dunque in una vita non direttamente e totalmente dedita alla Parola come quella del monaco – presenta la Sacra Scrittura come una lettera che Dio ha inviato all’uomo: «Cos’è infatti la Sacra Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla sua creatura? Se ti trovassi lontano e ti raggiungesse una lettera dell’imperatore non ti daresti pace, non chiuderesti occhio senza aver preso conoscenza del contenuto di quella lettera. Or bene, il re del cielo, il Signore degli uomini e degli angeli ti ha scritto una lettera che riguarda la tua vita (pro vita tua) e tu, illustrissimo figlio, non ti curi di leggerla con amore ardente? Cerca dunque, ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio».

L’ammonimento è di grande rilevanza in primo luogo per la chiusa: «Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio», il che senza troppo sforzo può trasformarsi nella sentenza secondo cui “il cuore di Dio è consegnato alla sua Parola”. Oltre a ciò e all’invito a «meditare ogni giorno», in questo passo c’è l’idea della lettera e vi è il paragone, invero un po’ fastidioso anche proposto da Gregorio Magno, tra Dio e l’autorità mondana dell’imperatore. Se qualcuno che ci è molto caro ci scrive, si è solleciti a leggere e ci si affretta a vedere in quelle parole una presenza, perché non si fa altrettanto con la Parola di Dio? Per varie ragioni, una delle quali è che il mittente non è così evidente, Egli si è a tal punto consegnato alla sua lettera da racchiudersi umilmente nella lettera stessa. Ciò significa che la Parola di Dio è il luogo in cui Dio si nasconde. È chiaro che Dio c’è e che la Parola di Dio non è Dio, però noi non abbiamo mai visto il volto di Dio, mentre abbiamo visto il volto della persona cara che ci invia una lettera. Quando ci giunge il messaggio da una persona che conosciamo, siamo rimandati non soltanto al volto che abbiamo già visto ma che confidiamo di poter rivedere. Si può proporre un altro paragone. È formulato da un maestro ebreo, vissuto un paio di secoli fa, che si chiamava Nachman. Questi riprende in una sua parabola l’immagine della lettera e dice: «Vi era un principe che viveva lontano da suo padre, il re, e ne aveva moltissima nostalgia. Una volta ricevette una lettera del padre e ne fu felicissimo e la custodì gelosamente. Tuttavia la gioia e il diletto provocati dalla lettera accrescevano sempre di più il suo vivo desiderio. Egli era solito sedersi e sospirare: “Oh se potessi toccare la sua mano! Se egli stendesse il suo braccio sino a me come lo abbraccerei! Bacerei ogni suo dito, tanto grande è il desiderio che ho di mio padre, il mio maestro e la mia luce. Padre misericordioso, come bramerei toccarti almeno il dito mignolo! ”». La lettera è segno di presenza ma anche di distanza e il desiderio di vedere di persona il mittente aumenta, quindi, lo struggimento. La Bibbia stessa più volte dice “fammi vedere 19


Dossier il tuo volto”; afferma che il volto di Dio non si è mai visto ma esprime anche il desiderio di vedere, e l’una e l’altra cosa vanno tenute insieme. C’è la scoperta della presenza ma c’è anche il senso della lontananza, di un incontro non davvero completo. La parabola di Nachman continua: «E mentre si lamentava provando l’ardente desiderio di toccare suo padre, gli balenò in mente il pensiero: “Non ho forse la lettera di mio padre, scritta di sua mano? La calligrafia del re non è forse paragonabile alla sua mano?”. E una grande gioia proruppe in lui». Qui potremmo dire che il passaggio avviene dal momento in cui si legge a quello in cui si ascolta, quando cioè si dice che la grafia non è semplicemente un segno ma è una presenza; non è la presenza più completa, definitiva, anzi è un invito a sperarla, a desiderarla, però è ugualmente una presenza. Nella tradizione cristiana si potrebbe affermare che è un simbolo, nel senso forte del termine. Anche in base all’origine stessa della parola, il simbolo e la realtà simboleggiata sono della stessa natura cosicché le due parti si devono incontrare al fine di formare una piena integrità. La Parola è simbolo in quanto è presenza. Allora non è più una lettura ma un ascolto. La differenza tra lettura e ascolto è la stessa di quella provata dal principe tra quando vedeva nella lettera un segno di lontananza a quando vi scorse, al contrario, un segno di presenza. Essa diviene luce in una distanza che pur non nega. Ci sono dei libri che hanno due parti: una scritta e detta, l’altra né scritta né detta. Proprio questa seconda parte è la più importante. Si può affermare che anche nella Sacra Scrittura il non scritto è la componente più rilevante; ciò avviene non perché bisogna sondare misteri, profondità mistiche o altro di simile, ma perché è lo scritto stesso a esigere di diventare altro. Noi diciamo che non bisogna solo leggere la Parola di Dio ma ascoltarla e viverla, e ascoltare nella tradizione biblica vuol dire obbedire. Molte volte nella tradizione ebraica si cita Esodo 24,7. Mosè ha appena letto il libro dell’al20

leanza e il popolo risponde: «Tutto quello che il Signore ha detto faremo e ascolteremo». In questa frase ci sono tutti i passaggi necessari per comprendere che quanto importa è ciò che non è scritto: è la parola che deve diventare altro da sé. Mosè legge. Il punto di partenza è dunque un testo scritto, il libro dell’alleanza – potremmo dire che tutta la Bibbia è un libro dell’alleanza – però il popolo dichiara «tutto quello che il Signore ha detto», e non “tutto quello che il Signore ha scritto”. La parola è intesa non come scritta, ma come parola pronunciata. «Quello che il Signore ha detto»; ma poi segue un’inattesa inversione: «Faremo e ascolteremo». Il fare viene posto addirittura prima dell’ascoltare: si può davvero ascoltare soltanto una parola tirata fuori dal libro per farla diventare vita (“faremo”). Allora si ascolta non semplicemente perché è scritta ma perché è diventata “altro”, innanzitutto parte di noi, del nostro agire. Tuttavia la parola diventa altro anche nel commentarla, nello scrutarla, nello studiarla, nell’aprirla. La Parola va aperta La Parola è nostra maestra; ma essa non si impone dal di fuori indipendentemente dal modo in cui ci si confronta con lei. Gli esempi possono essere tanti prospettati dalla Scrittura stessa. Ne prendo uno tra i più famosi; quello che si avvicina di più all’orizzonte pasquale: i discepoli di Emmaus. Questi sono in cammino ma non hanno lampada ai loro passi, camminano ma non compren-


Dossier dono. Il Risorto si avvicina senza essere conosciuto, è cioè nascosto dentro la Parola. Li accusa di essere stolti, duri di cuore nel credere. Nello stesso capitolo del vangelo di Luca Gesù quando appare ai discepoli riuniti nel cenacolo, afferma: «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi. Quindi aperse le loro menti all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,44.45). È la Parola che si deve aprire. Allora essa diviene Parola compresa interpretata e attualizzata. I discepoli avevano letto le Scritture, sapevano cosa diceva la legge di Mosè (cioè il Pentateuco, la Torah come si direbbe in ebraico), sapevano cosa c’era scritto nei Profeti e nei Salmi, tuttavia non collegavano quelle parole con quanto si trovava fuori da quella Scrittura e che pure era lì, accanto a loro. Quanto non detto esplicitamente diventa la chiave che nello stesso tempo interpreta la Parola ed è interpretato dalla Parola. Aprirsi all’intelligenza delle Scritture non è mai qualcosa che avviene una volta per sempre. Non ha mai luogo in generale o comunque in base ad un orizzonte non determinato. L’intelligenza delle Scritture è lì, è il Risorto che è apparso loro ed è l’attualizzazione “qui ed ora” della Scrittura che può avere un valore permanente proprio perché è riferita ad una situazione assolutamente concreta e presente. Non s’interpreta mai la Scrittura una volta per sempre, se fosse così la Parola non dovrebbe diventare altro, non dovrebbe realizzarsi. La Scrittura si realizza non come scrittura ma come altro, appunto «doveva compiersi quanto è scritto su di me», finché è solo scritto non si realizza. Lutero, che ogni tanto aveva delle immagini simbolico-allegoriche, in un sermone collega il Natale alla Pasqua e dice: «L’angelo avvisa i pastori e dice loro: “Questo sarà un segno per voi: troverete il fanciullo fasciato e coricato in una mangiatoia”. Le fasce non sono altro che le Sacre Scritture in cui la verità cristiana giace avviluppata, in essa si trova descritta la fede. Lo stesso Cristo dopo la sua risurrezione spiegò loro le Scritture mostrando come parlavano di lui». C’è questa grande immagine delle fasce che diventano una specie di rotolo scritto che avvolge la verità cristiana, che la protegge, che le consente di vivere. Se non c’è questa prote-

zione neanche il bambino sopravvive. Ma le fasce non sono la totalità della verità cristiana. Perché ci sia la pienezza occorrono tanto le fasce quanto il bimbo; né solo fasce, né solo bimbo. Nell’immagine di Lutero c’è un rimando continuo di apertura tra la Scrittura e Colui che la realizza. In senso forte, pieno, decisivo questo è quanto è avvenuto in Cristo risorto; ma ciò è anche quanto deve avvenire, sia pure non in forme assolute, ma ogni giorno, in ogni suo interprete. Questo è detto nell’episodio finale di Luca 24. Gesù, quando apre gli occhi all’intelligenza delle Scritture, scompare; l’apertura dell’intelligenza coincide con la sua scomparsa. È straordinaria la simultaneità tra la comprensione e il non possesso della presenza del Risorto. È di nuovo la «luce ai miei passi», di nuovo il cammino. Di spirito molto simile al precedente è un episodio contenuto degli Atti (cfr. 8,26-40): l’eunuco etiope, dopo aver fatto l’adorazione, stava tornando alla sua terra, mentre è sul carro legge i canti del servo del Signore contenuti nel rotolo di Isaia. Gli si avvicina Filippo e gli chiede: «Cosa stai leggendo?». L’eunuco risponde: «Leggo i canti del servo che soffrì molto. Il profeta parla di sé o di altri?» e Filippo gli dice: «Parla di altro», allora gli annuncia Cristo e lo battezza; poi lo Spirito lo porta via; Filippo, anche lui, scompare. L’apertura e la comprensione non coincidono mai con il possesso di una presenza. Vi è sempre e solo una traccia di una presenza che invita a sperare ancora. E, come dice Paolo (Rm 8,24), non si spera in ciò che già si vede. Ciò in cui si spera non si vede, non perché non ce ne sia traccia o caparra, ma appunto perché la Scrittura stessa è caparra, non regno; è Parola che, una volta compresa, rimanda ad altro. «Luce ai miei passi» (Sal 119,105), eppure verso la fine di questo lungo salmo si legge anche: «Giunga il mio grido davanti a te, Signore, / fammi comprendere secondo la tua parola» (Sal 119,169). I Salmi sono sempre realistici: «Luce ai miei passi», tuttavia non è negata la dimensione dell’incomprensione e del grido. La lontananza rimane, solo che essa non è più indice di abbandono o di separazione, è la lontananza di chi ha già compreso e quindi può 21


Dossier camminare verso una comprensione sempre maggiore che - egli lo sa - ancora gli manca. Molte volte nella Scrittura si trova l’immagine di aprire: aprire il cuore, la mente, la comprensione, la Parola. Aprire la Parola è anche un’espressione con cui si indicavano antiche tecniche di esegesi. La Parola aperta è quella compresa, è la Parola che è presenza ma è anche qualcosa che va oltre. L’umiltà della Parola Gregorio afferma: «Impara a conoscere il cuore di Dio mediante le parole di Dio», ma noi potremmo anche dire che il cuore di Dio è un cuore umile. Gesù disse di se stesso: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). In che senso, allora, il cuore di Dio si fa umile nella sua Parola? Innanzitutto la Parola è talmente umile che, per parlare, ha bisogno di essere aperta e interpretata. Non è una parola prepotente, che si pensa autoevidente, univocamente interpretabile, monoliticamente imperativa; la Parola, invece, è umile in quanto va aperta. Ci sono, però, tanti altri modi in cui la Parola di Dio, così come si presenta all’interno della Scrittura, si presenta in qualche modo come umile. Tra i tanti esempi possibili, offro due spunti di riflessione: • La Parola sapienziale • La Parola dialogica. La Parola sapienziale Quando si proclama la Parola in un contesto liturgico si dice “Parola di Dio”; ma nel testo letterario della Bibbia non è sempre Dio a parlare. Ci sono dei passi biblici in cui, secondo la loro veste letteraria, Dio prende direttamente la parola. Per esempio all’inizio dei dieci comandamenti si legge: «Io sono il Signore Dio tuo …» (Es 20,2). In questi casi, inteso come personaggio, è un Dio parlante. Oppure Dio parla perché il profeta dice che quella da lui pronunciata è “Parola di Dio”. Ci sono anche forme più mediate. Pensiamo a Dt 5 (i dieci comandamenti) che è più sfumato rispetto al passo parallelo di Es 20. Quest’ultimo presenta una scena ambientata tre mesi dopo l’uscita dall’Egitto, è descritta, per così dire, in presa diretta, mentre il Deuteronomio è ambientato alla fine della vita di Mosè, dopo i quarant’anni, quando Mosè vede ma non entra nella terra 22

promessa. Alla fine di tutto il percorso si racconta di nuovo anche l’episodio dei dieci comandamenti e si ripete: «Io sono il Signore tuo Dio»; ma in questo, sempre secondo la forma letteraria, la parola è pronunciata come un ricordo di Mosè riferito a tempi ormai lontani. L’umiltà della Parola di Dio è anche quella di diventare sempre più nascosta dentro la parola umana. Questa caratteristica nei libri sapienziali ha un’importanza decisiva: Dio non parla mai, è sempre l’uomo che parla. Prendiamo il Salmo 119. Vi si legge: «Ho giurato». Nella Scrittura “giurare” è una tipica espressione divina, il primo a giurare nella Bibbia è il Signore stesso, oppure qualcuno il quale afferma che il Signore ha giurato e non si pente (cfr. Sal 110,4). Nel Salmo 119,106 è invece un io umano a dichiarare: «Ho giurato e lo confermo di custodire i tuoi giusti giudizi». Quando, però, noi proclamiamo o meditiamo questo versetto non diciamo che è “parola di uomo che cerca Dio”, “parola di uomo che promette al suo Dio”, al contrario dichiariamo che è Parola di Dio, cioè la Parola di Dio nascosta nella parola dell’uomo. Altro esempio, nel Qoelet per decine di volte torna la parola “io”. Si tratta di un io umano, che ragiona laicamente, però noi diciamo che è Parola di Dio. Pensiamo anche alle Lettere di Paolo: sono proprio lettere, molte volte legate a circostanze, niente affatto nobili, proprie della vita delle sue comunità. In alcuni passi Paolo dà dei consigli, per es.: «È bene che voi non vi sposiate» (cfr. 1Cor 7,8); ma non lo dice, come avviene per altri ammonimenti, con l’autorità della parola di Gesù. Tuttavia, nel contesto canonico, anche questo consiglio personale, che pur rimane tale, è considerato Parola di Dio. A motivo della sua umiltà, la Parola di Dio è scesa nelle strutture della comprensione e della quotidianità umane. Non di rado compromettendosi persino con gli aspetti meno nobili della quotidianità umana. La parola sapienziale è la Parola di Dio in cui Dio si presenta né come colui che parla direttamente, né come colui che parla attraverso una voce profetica che autorevolmente dice “è Parola di Dio”. Per certi aspetti questa incarnazione sapienziale della Parola è una peculiarità biblica. Si potrebbe anche usare un termine un


Dossier po’ più impegnativo: è kenosi (svuotamento) della Parola. La Parola dialogica Anche questa componente è tipicamente biblica. In molti luoghi il dialogo con Dio da parte di una creatura umana rivestita di tutti i suoi limiti diviene una forma di rivelazione. Non in tutti i testi sacri è così. Nella struttura di rivelazione del Corano, per esempio, non c’è la dialogicità. Il dialogo è una parola umile. Quanto è infinitamente distante viene ad essere riaffermabile in un dialogo in cui l’uomo può essere un interlocutore così impegnativo per Dio da imporgli le proprie esigenze, a volte da dettargli persino delle condizioni. Il più grande dialogo – anche in senso quantitativo – della Bibbia è quello che si trova nei capitoli 3-4 dell’Esodo. Si tratta del dialogo tra Mosè e il suo Signore avvenuto al roveto ardente. Tutta la struttura è estremamente significativa perché se è vero che lì c’è una chiamata e una vocazione, è altrettanto vero che c’è un passaggio, finemente descritto, dal vedere all’ascoltare. Inoltre, nel complesso di tutto il dialogo, Mosè pone delle condizioni a Dio: inviato al faraone, Mosè dice di non essere un buon parlatore e

allora «Aronne sarà la tua bocca». Mosè ottiene che Aronne sia il suo portavoce. La struttura del dialogo è anche quella in base alla quale Dio concede qualcosa al suo interlocutore. Anche dopo il vitello d’oro Mosè contende con Dio. Il Signore vuole distruggere il popolo, allora Mosè chiede che distrugga lui al posto del popolo e Dio ritorna sulla sua decisione (Es 32,11-14). L’umiltà della Parola dialogica sta nel mettere l’uomo nelle condizioni di essere a tal punto interlocutore serio del Signore da far cambiare, se così si potesse dire, parere a Dio stesso. La Scrittura sceglie anche questo tipo d’espressione, di parola umile in quanto dialogica. Nessuno che entri in un dialogo serio dovrebbe avere il preconcetto di imporre definitivamente e aprioristicamente il proprio parere all’interlo-

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Dossier cutore senza prima averlo ascoltato, altrimenti non è dialogo. Lo spirito del dialogo non è quello della persuasione, è quello dell’ascolto reciproco: la parola dialogica nella Bibbia è anche questo. Quando c’è la descrizione del roveto ardente, in principio Mosè dice: «Voglio avvicinarmi per vedere», l’avvicinamento, cioè, è mosso da una curiosità visiva. La Parola dell’ascolto interrompe questo moto perché dal roveto il Signore gli comanda: «Non ti avvicinare» (Es 3,4). Si tratta di un’immagine importante. Essa è applicabile a un nostro atteggiamento: ci può essere una predisposizione, una curiosità di avvicinarsi alla Parola, non è male che esista. Però se ci si ferma a questo punto, al vedere, al gustare esteticamente la Parola, è ancora un approssimarsi non un ascoltare. La Parola ascoltata è quella che comanda: «Non avvicinarti». Essa interrompe questa pura operazione di comprensione umana. Queste sono le due parti che vanno tenute insieme: senza l’interpretazione, la comprensione umana, la Parola è sterile, ma è chiaro che l’interpretazione, l’esecuzione, il commento possono essere veramente tali se riconoscono il primato della Parola, l’eccedenza della Parola su di loro. Io mi avvicino alla Parola come Mosè si avvicinò al roveto, per vedere questo strano mistero, questo Libro che da duemila anni transita per

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la nostra civiltà occidentale. Mi avvicino: non è un atto negativo, è un moto di attrazione ma non è ancora l’ascolto. L’ascolto della Parola avviene quando c’è un comando che interrompe questo processo: «Non ti avvicinare». Occorre far passare dalla curiosità del vedere alla dimensione dell’ascoltare, del comando. Poi c’è l’inizio del dialogo in cui il Signore rivela il suo nome. Il nome che svela è «Io sono colui che sono» (Es 3,14). In realtà questa è una traduzione discutibile, perché usa il presente quando in ebraico un presente vero e proprio non c’è. Nulla vieta di tradurre «Sarò quel che sarò». Vale a dire “Sarò con te”, si tratta di una promessa. La rivelazione del Nome è paragonabile alla comprensione di chi apre gli occhi e vede il Risorto che poi subito scompare; o alla figura di chi fa aprire mente e cuore alla comprensione della Scrittura per poi sottrarsi allo sguardo. Da lì in poi si può camminare. “Sarò con te” è una promessa, «Puoi camminare, questo è il mio Nome per sempre» (Es 3,15). A tal riguardo nell’ermeneutica giudaica è proposto un gioco di parole in cui si dice «Non leggere OLÀM – che vuol dire “per sempre” – ma leggere ALLÉM cioè “nascosto”». La comprensione è l’ascolto, non è mai un possesso, è un cammino: «Luce ai miei passi e luce sul mio cammino».


Dossier

Una Parola da incarnare di Rosanna Virgili *

Come molti altri testi del mondo antico, così anche la Bibbia ci tramanda avvincenti e inquietanti racconti di miti. Le sue narrazioni più note è indubbio che siano quelle che riguardano la creazione del cosmo, della terra e dell’umanità. Molti conoscono la poesia del giorno in cui «Dio disse sia la luce! E la luce fu» (Gen 1,3). E chi non troverebbe, frugando nella sua memoria, l’immagine di un Paradiso terrestre, colmo di alberi e frutti, uno dei quali era stato severamente vietato alla manducazione? E pochi non ricordano la storia della creazione della donna, tratta dalla costola di Adamo. Beh, è proprio in questi miti mutuati, peraltro, dal circuito orale e scritto che doveva esserci tra tradizioni e culture del Mediterraneo, che si impone, innanzitutto, l’uso umano della parola. Nel primo racconto di creazione che il Libro di Genesi presenta, Dio crea ogni cosa con la parola (cfr. Gen1,1-2,4a). Egli stesso appare come essenzialmente “parola”. In seguito, nel secondo racconto di creazione, Dio conferisce questa prerogativa all’uomo (cfr. Gen 2,4b-25). A differenza di tutte le altre creature, l’uomo conosce e può dare i nomi a tutti gli esseri viventi. L’essere umano è tale proprio perché parla e, in quanto tale, egli è immagine del Dio, suo creatore. In maniera speciale egli rivela, poi, questo suo statuto quando comunica con la sua compagna che è la donna, vedendo la quale, può gridare: «È osso delle mie ossa, carne della mia carne» (Gen 2,23). La parola si mostra un autentico canale di comunicazione, di relazione tra uomo e donna, tra gli esseri umani e gli altri abitanti del mondo, tra la creatura umana e Dio. Se non ci fosse parola, non ci sarebbe neppure ordine del creato, mancando assolutamente il modo di articolarne il rapporto e l’ar-

monia. Gli esseri umani sono fin dalle origini mitiche bibliche una sorta di “parola incarnata”. E il verbo si fece carne (Gv 1,14) Ma come un “nuovo Adamo” è Gesù che viene ad essere una piena e riuscita “parola incarnata”. Nella creatura sessuata di Genesi quello strumento di relazione e di comunione era stato, infatti, reciso da una scelta di potere e di autonomia. Questa scelta segnò proprio la fine del dialogo tra la creatura umana e Dio, tanto che Dio stesso si dovette mettere, dopo l’accaduto, alla ricerca di Adamo, il quale, còlto dalla paura, si era nascosto. Il filo dialogico tra Creatore e creatura si era infranto. Con ciò anche il paradiso era perduto! L’uomo e la donna restavano soli e divisi anche tra loro, essendosi, in una certa misura, interrotta anche la parola che li univa. La donna sarà dominata dall’uomo, benché il suo stesso istinto la guidi verso di lui. La difficoltà di parlarsi porta a mille altre durezze ed impotenze: quella della solitudine, quella del potere dell’uno sull’altro, dell’inimicizia, del dolore, della violenza e della morte. Una realtà che viene interpretata come distan-

* Docente di Antico Testamento presso l’Istituto Teologico Marchigiano 25


Dossier za da quel Dio che aveva operato in quel principio. Quando scompare la parola la vita si perde, perché si perdono le giunture del mondo, ciò che, tenendolo unito, ne promuove la sussistenza e la vita. Ed ecco il grande evento del Figlio di Dio. Egli era fin dal principio “presso Dio”, dice il Prologo del vangelo di Giovanni. Egli viene a ristabilire la parola perduta, facendosi egli stesso parola. Autentico sacramento di comunione e riconciliazione. Questo incarnare la parola di Gesù, realizza e ripropone la primitiva identità della creatura di Dio: quella di essere un soggetto spirituale, cioè, un luogo di relazione e di apertura verso l’altro, un terreno e una tensione di amore. Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità (Ger 15,16) Tra i miti del “principio”, teatro della parola perduta di Adamo, e il vangelo del Figlio di Dio, che riporta e rilancia un’umanità archetipicamente parlante («In principio era la parola», Gv 1,1), c’è un lungo percorso biblico sulle vie della parola che vuole ancora incarnarsi. Dopo il fallimento di Genesi, la Bibbia cerca di reinvestire la ricchezza della parola, attraverso la Legge di Mosè. Essa è fatta di parole che vengono da Dio e servono a costituire e custodire la vita comune di Israele. Il popolo esce dalla schiavitù e nasce come un vero popolo fondandosi su dieci parole. Tra esse “non uccidere”, “non rubare”, “non testimoniare il falso”. Sono parole che fondano il diritto e la giustizia e rendono possibile il formarsi di una nazione. L’ebreo misurerà la sua fedeltà a Dio, nella fedeltà a quelle dieci parole. Dovrà ascoltarle giorno e notte, dovrà metterle sul suo capo e sul suo braccio, dovrà ripeterle quando esce e quando entra, dovrà insegnarle ai propri figli. Dovrà incarnarle. Dovrà, addirittura, tradurle dalla pietra al corpo, dalla durezza insensibile 26

delle tavole, alla carne pulsante del cuore (cfr. Ez 36,26). E lo farà perché da quelle dipende il suo presente e il suo futuro. Da esse il benessere e la salute e la fruizione solidale e fraterna di un paese e di una discendenza. Sono parole dolcissime e cariche di promessa, ma anche coinvolgenti, rischiose, impegnative, infuocate. Sono parole che espongono a contrasti, conflitti, rivolte, perché non tutti vogliono accettarle e resta, tra i figli di Adamo, il DNA del primo genitore. Faccio il male che pure non voglio, dirà Paolo. Così Israele non ascolta le parole vitali che vengono dal suo Dio e sceglie spesso e volentieri di spezzare ogni alleanza con Lui. Ma tra il popolo c’è qualcuno che non può fare ciò. Un uomo che la parola di Dio ha circonciso così in profondità, scendendo ed annidandosi nella sua anima, che gli resta impossibile resistervi o scacciarla. La tua parola era come un fuoco «chiuso nelle mie ossa.» - dice il profeta Geremia - «Ho cercato di resistervi, ma non ci sono riuscito» (Ger 20,9). Il profeta, il cui statuto è proprio quello di farsi portavoce di Dio, bocca alle Sue parole, pure reagisce con forza alla loro invasività. Pure fa fatica a sentirle tanto radicalmente “incarnate”. Perché quella parola chiede la forza della profezia. Dovrà smuovere il mondo. Dovrà uscire come una spada contro chi vuole conculcare la giustizia e il diritto. Contro chi vuole dividere gli abitanti della terra e lasciare i più deboli espulsi dal banchetto della gioia. Quella parola è caustica e pungente, perché dovrà fecondare la terra di nuovi germogli, di buone notizie, di rinascenti speranze. Più feconda della pioggia e della neve, più essenziale dell’acqua e del pane. Una parola fatta carne che si farà carne, nutrimento, transazione d’amore, cibo di vita eterna. Quella “parte migliore” che Maria, sorella di Marta, non indugiò a scegliere ed a sedersi ad ascoltare (cfr. Lc 10,42).


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Bibbia e morale Un difficile ma necessario rapporto di Antonio Autiero *

Uno sguardo diagnostico Il Concilio Vaticano II aveva visto giusto anche su questo versante: la teologia in generale e la teologia morale in particolare dovevano essere rinnovate alla luce di un rapporto più vitale, creativo e sostanziale con le Sacre Scritture. Il decreto conciliare Optatam Totius, al nr. 16 auspicava un riesame della teologia morale sotto il profilo scientifico e secondo il necessario rapporto con la Bibbia. Il desiderio del Concilio andava e va interpretato sulla base di una maturata consapevolezza del fatto che proprio la teologia morale, nella sua tradizionale evoluzione da dopo il Concilio di Trento, nel XVI secolo e fino agli albori del XX, aveva perduto il suo ancoraggio alla visione biblica e si era maggiormente accontentata di un rapporto privilegiato con il diritto – più precisamente con il diritto canonico. La visione etica per il credente perdeva, così, la sua cifra genuinamente teologica e si limitava a una considerazione legalistica dei doveri morali da assolvere. Anche la dimensione razionale e argomentativa della morale, espressa nella comprensione etica della modernità, non riusciva a vitalizzare il discorso morale, riscattandolo dalle forme di impropria eteronomia. Lo sguardo diagnostico, qui solo abbozzato, ci porta a vedere che la teologia morale, pur non

ignorando un certo uso della Bibbia, aveva tuttavia ridotto strumentalmente questa al rango di una somma di citazioni testuali con cui avallare i propri modi di formulare i giudizi morali. Il risultato di una immensa povertà di contenuto teologico era così sotto gli occhi di tutti. E un’inversione di marcia risultava sempre più necessaria. Il Concilio Vaticano II segna in un certo senso un punto di arrivo, sulla via di tale recupero; esso viene però preparato da tentativi precedenti, sull’asse cronologico di lunga portata. Un primo valido apporto in tal senso viene alla teologia morale da quella ondata di rinnovamento della teologia cattolica che nel XIX sec. prende forma nella scuola di Tubinga, in Germania. Rappresentanti di un simile movimento furono importanti teologi della morale come Johann Michael Sailer (1751-1832), Johann Baptist Hirscher (1788-1865) e Franz Xaver Linsenmann (1835-1898). E un po’ più tardi ci sarà anche Fritz Tillmann (1874-1953). Comune a questi autori fu lo sforzo di trovare un principio unificante e sostanziante la visione morale del credente. Qui emersero categorie bibliche di prima portata a dar corpo a un simile principio: l’idea del regno di Dio, il primato della carità/agape, la sequela di Cristo. E proprio qui la Bibbia si immette in un rapporto a nuova

* Direttore del Seminar für Moraltheologie – Münster 27


Dossier e più profonda modalità con la teologia morale, nel senso che essa la ispira, la fonda, le conferisce originalità e incisività per la strutturazione della vita morale del credente. L’apice di un movimento di tal segno si avrà poi nella metà e alla fine del XX secolo, con le opere significative del teologo della morale Benhard Häring (1912-1998), il cui primo manuale, La legge di Cristo (1954), segna un vero e proprio spartiacque e prepara, unitamente agli apporti provenienti dal movimento biblico, da quello liturgico e dalla Nouvelle Théologie della fine anni ’50, il Concilio Vaticano II. Orizzonti di senso Impoverire la Bibbia, ritenendola una sorta di banca dati per le norme morali dei credenti significa farle un torto grave, ma comporta anche una perdita di credibilità e di condivisibilità del messaggio morale dei credenti. Da una parte si pone il problema della necessaria contestualizzazione storica delle norme morali contenute nei testi della Scrittura (e l’esegesi biblica stessa fornisce tutti gli strumenti adatti a non cadere in considerazioni riduttive), dall’altra si tratta di attingere dalla Bibbia tutta la luce possibile per illuminare l’orizzonte di

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senso dell’uomo, del mondo, della loro storia e del loro rapporto con Dio che fonda e tutela la libertà della persona e ne fa un soggetto morale. L’appello alla fonte biblica del Decalogo è un crocevia di primaria importanza per illuminare quest’orizzonte di senso, ovviamente a condizione che l’idea di “precetto” o di “divieto” con cui spesso si va a identificare la tavola della legge del Primo Testamento venga ripensata alla luce del fatto che proprio le dieci parole sulla condotta di vita dell’uomo vogliono anzitutto tutelare la sua libertà e il raggiungimento dei beni fondamentali che danno valore all’esistenza. Il Dio della rivelazione non è il legislatore, meno che mai uno alla stregua dei legislatori della terra: il suo parlare – le dieci parole sono un momento privilegiato dell’intero rivelarsi di Dio all’uomo – è anzitutto un parlare all’uomo del suo destino e dell’irrinunciabile grandezza a cui egli lo chiama. Una condotta morale ispirata dalla Bibbia (il discorso di Gesú nel Vangelo conferma ed implementa questa prospettiva) recupera primariamente la vocazione alla libertà con cui Dio accompagna la storia della persona e le vicende dell’umanità.


Dossier Le regole di condotta di vita – le norme morali – sono ancorate in questa vocazione di libertà che affida alla saggezza umana, alla ragione e alle sue esigenze la ricerca contestuale e coerente delle risposte possibili alle singole questioni morali. Nel tracciare l’orizzonte di senso, la Bibbia fornisce alla morale la sua più recondita e formidabile fondazione; la sottrae all’improvvisazione utilitaristica e la iscrive in un disegno che trascende la contingenza, ma la mantiene tutt’intera nel suo regime di storicità. Tutt’altro che banale, tutt’altro che secondario si fa il rapporto tra Bibbia e morale, soprattutto se esso viene posto sul piano del fondamento. In una chiara opzione di fiducia antropologica, la Bibbia riconosce, afferma ed alimenta la capacità dell’uomo di servirsi della ragione e della responsabilità, per avanzare nel processo argomentativo, in vista delle norme morali per la costruzione di una vita buona. Lontani da ogni fondamentalismo Nel settembre del 2008 fu pubblicato il documento della Pontificia Commissione Biblica dal titolo: Bibbia e Morale. Radici bibliche dell’agire cristiano. Esso prendeva le sue mosse dal precedente Sinodo sulla Parola di Dio nella vita della chiesa. Focalizzando il nesso tra Bibbia e morale, il documento non ignora il pericolo di un uso improprio della Bibbia nelle questioni etiche, un uso che viene definito fondamentalistico e contro il quale si viene messi in guardia. In realtà è proprio questa tentazione fondamentalistica che si annida in tante pieghe della discussione morale da parte dei credenti, soprattutto nello spazio pubblico, dove la plurali-

tà delle visioni antropologiche non può essere ignorata o frettolosamente risolta. Non va negata, da una parte, l’importanza dell’annuncio cristiano nella sfera pubblica (la fede non è affare privato!), ma neppure si può affrontare la comprensione e la soluzione dei problemi morali con il solo rimando a qualche testo della Bibbia. Avendo bisogno di necessaria mediazione discorsiva, razionale, argomentativa, il discorso etico prende sul serio il messaggio biblico, se lo fa valere al livello di ispirazione fiduciale della ragione e di promozione solidale del bene umano. 29


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La giustizia nei Salmi di Pasquale D’Ascola *

Nel testo si seguono, salvo indicazioni diverse, la traduzione e la numerazione del Salterio di Bose, edizioni Qiqaion, 2008. 1. Non c’è bisogno di compiere una ricerca testuale: se ciascuno di noi venisse interrogato su quale sia la figura emblematica della giustizia nella Bibbia, o, meglio ancora, nei Salmi, senza esitazione risponderebbe: l’orfano e la vedova (cfr. Sal 68,6; Gb 31,16 e Mc 12,40). I più sensibili aggiungerebbero: lo straniero. I lettori più esperti: l’oppresso. Avremmo tutti ragione: il Salmo 9 promette giustizia all’orfano e all’oppresso. Nel Salmo 82 si esorta: «Difendete il debole e l’orfano; Fate giustizia al povero e al bisogno-

* Magistrato di Cassazione 30

so». Nel Salmo 94 i malvagi «uccidono la vedova e lo straniero, / agli orfani procurano la morte». Con la preghiera 103 il salmista ci rassicura: il Signore agisce con giustizia, difende il diritto degli oppressi. Sono, come sappiamo, gli echi biblici di una storia millenaria, che narra la vicenda umana secondo l’esperienza della vita, conquistata tra le fatiche ed elevata ogni giorno dal pensiero orante. L’uomo che prega non può distogliersi da un ideale di giustizia, che viene da Dio e che deve essere praticato quotidianamente, attuato sulla terra.


Dossier Ecco che la preghiera mira a vedere il malvagio preso nel proprio tranello1 e gli uomini giusti contemplare il volto del Signore2, liberati da ogni male3. Ma come si consegue questo obiettivo? Mediante l’opera del Signore, che si atteggia umanamente: porge l’orecchio4, cioè ascolta, che è la prima forma di relazione con l’altro. Il Signore ama giustizia e diritto5; non abbandona il giusto nelle mani del malvagio, «non permette la sua condanna nel giudizio»6. Dio affida il suo giudizio al re Messia, la sua giustizia al figlio di re, perché egli giudichi il popolo secondo giustizia7 e i poveri secondo il diritto8. Il credente si attende che il Signore difenda i poveri del suo popolo9; che non stringa alleanza con un tribunale iniquo, che in nome della legge provoca oppressioni10. Esalta l’Onnipotente con la preghiera, perché «i cieli proclamano la sua giustizia/ ecco, Dio stesso è il giudice» 11. 2. Italo Mancini, il prete filosofo al quale la famiglia Moro affidò la celebrazione e l’omelia della messa da requiem nel settimo giorno della morte dello statista, ci ha spiegato che tra le idee basilari di San Tommaso in tema di giustizia vi sono: a) «L’opera di aggiustamento che compie il diritto, come quando si aggiusta qualcosa»; b) «la consistenza specifica della giustizia come riferimento all’altro, alla sua cosa e alla sua persona». Ha aggiunto che è stato Giuseppe Capograssi a valorizzare questa preoccupazione giuridica per l’altro, ma che nel neologismo tomistico iustari c’è il senso di prestare soccorso, di prendersi cura, di soccorrere una persona sofferente. Il diritto non sfugge, in quanto giusto, a

questo “impegno”, a questa “missione” che possiamo definire riparatoria. 3. Non è questa l’unica cifra da seguire oggi, nel rileggere i Salmi, per capire le questioni del diritto e della giustizia al nostro tempo, ma rimane un approccio molto utile. L’ordinamento italiano reca una forte impronta solidaristica, che affonda le sue radici nel pensiero cattolico. Esso si specchia nell’articolo 2 della Costituzione del nostro Paese, in quel richiamo non tanto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, quanto all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo elemento, che trae forza dall’inderogabilità, tiene insieme l’istanza liberale di garanzia dei diritti e quella socialdemocratica, di impronta egualitaria, predicata dall’art. 3. Nel tempo esso è divenuto struttura portante dell’ordinamento in ogni settore, in particolare nel diritto civile, che disciplina la vita delle persone nel quotidiano dipanarsi dei rapporti tra soggetti privati. Pensiamo: Al “peso” solidaristico dell’assunzione obbligatoria (L. 468/68), che a certe condizioni grava sull’imprenditore ed è previsto in favore dell'invalido non ancora inserito nel mondo del lavoro. 31


Dossier Al ruolo della buona fede nell’esecuzione del di quella traduzione che vuole Dio liberatore di contratto che, secondo la giurisprudenza, si chi – il povero – non ha difensore. sostanzia in un generale obbligo di solidarietà, Dunque la difesa è momento fondamentale che impone a ciascuna delle parti di agire «in dell’esperienza umana e l’assenza di difesa modo da preservare gli interessi dell’altra». provoca quell’oppressione che impone l’interAl risarcimento del danno non patrimoniale vento salvifico. (c.d. “danno morale”) derivante dalla lesione Comprendiamo quindi l’essenza di quel giudidi diritti inviolabili della persona, come tali zio dei poveri secondo diritto, che abbiamo mencostituzionalmente garantiti, che è stato ricono- zionato in principio e che ricorre più volte nella sciuto al di là degli angusti limiti apparente- preghiera del salmista. mente fissati dalle norme positive. Il giudizio è frutto di un confronto tra chi accuE in tema di adozione, l’art. 1 della legge 4 sa e chi si difende: la massima iniquità risiede maggio 1983, n. 184 mira a rendere effettivo il nel tentativo di adulterarlo spandendo corrudiritto del minore di crescere e di essere educa- zione come fanno i peccatori17, o accettando to nell’ambito della propria famiglia naturale doni contro l’innocente18. attraverso la predisposizione di interventi soli- Vien da pensare, su quest’ultimo verso, alla daristici di sostegno in caso di difficoltà della distinzione codicistica del reato di corruzione famiglia di origine. in atti giudiziari, resa più grave rispetto alla Pensiamo inoltre allo svilupparsi della teoria corruzione ordinaria, proprio perché, con l’anrelativa alla tutela del contraente debole, alla tica sapienza, si percepisce come la sede di tutela del consumatore, al riconoscimento di decisione debba essere insospettabile. obblighi di protezione in capo al contraente Ma vien da pensare anche al giudice “terzo e forte, che si trova in posizione contrattuale imparziale” definito dall’art. 111, che suona favorevole perché più informato rispetto al come immagine di quel Dio che nel Salmo 75 cittadino comune. (CEI) promette «io giudicherò con rettitudine». Cogliamo in questi esempi il respiro profondo Suprema sfida quindi per coloro che sono chiadell’insegnamento biblico: c’è l’azione dell’au- mati a questo compito: applicare il diritto, metorità che interviene per dare soccorso e ripor- mori che una delle costanti del volto di Dio nel tare giustizia dove si è creato squilibrio («un Salterio è quella del giudice giusto19. Dio che fa giustizia sulla terra!»12). Ma vi è anche la regola di condotta che si con- RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI forma – nel disciplinare il rapporto tra soggetti 1 Salmo 8 privati – nel senso di impedire la prevalenza 2 Salmo 11 del più forte e preservare la parità contrattuale. 3 Salmo 37 Come non vedere qui l’eco remota dell’esorta- 4 Salmo 9 zione a non temere «la malizia dei perversi»13; 5 Salmo 33 la resistenza contro coloro che sono «traviati / 6 Salmo 37 uniti nella corruzione»14; la riprovazione verso 7 Salmo 98 8 Salmo 72 versione Cei chi «agisce con inganno»15? 4. Rileggendo l’attuale nostra Costituzione 9 Salmo 72, 4 possiamo ritrovare altri spunti per riguardare i 10 Salmo 94 CEI temi della giustizia presenti nei Salmi e rilegge- 11 Salmo 50 re con essi la realtà della giustizia amministrata 12 Salmo 58 13 Salmo 49 in questi tempi. La Costituzione pone la difesa come diritto 14 Salmo 53 inviolabile in ogni stato e grado del procedi- 15 Salmo 101 mento (art. 24). Nei Salmi ricorre il tema 16 Salmo 141 dell’invocazione all’Onnipotente come difen- 17 Salmo 26, 10 sore terreno dalle insidie dei malvagi16, ma è 18 Salmo15,5 nel Salmo 72,12 che si percepisce la modernità 19 Salmo 7,12 32


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Gli ebrei di fronte alla Bibbia di Rav Benedetto Carucci Viterbi *

Parlare del rapporto tra ebrei e Bibbia è di fatto parlare di uno degli elementi costitutivi della identità ebraica; a patto che si facciano alcune riflessioni preliminari che, per molti versi, possono apparire spiazzanti. Gli ebrei sono infatti spesso identificati come il “popolo del libro”. In realtà una definizione del genere è imprecisa rispetto alla formulazione interna all’ebraismo e alla sua realtà storico culturale: la prevalenza della scrittura sull’oralità è tutta da determinare, anche in termini cronologici; esemplificativa da questo punto di vista è la parola ebraica che indica la Bibbia: Miqra’, lettura. Di fronte al greco, che con Bibbia intende il libro per eccellenza, l’ebraico privilegia l’azione della lettura che parte dal libro ma che per molti versi lo trascende. La dinamica tra scritto e orale, il rapporto che si instaura tra queste due componenti, non è solo e semplicemente una questione terminologica: è il nucleo teorico della riflessione dell’ebraismo rabbinico, cioè dell’ebraismo come si è venuto consolidando dalla di-

struzione del Santuario, nel 70 d.C., in avanti. Questo significa, in sostanza, che per intendere la vera identità e l’autodefinizione di ebraismo è necessario a priori chiarire il senso dell’oralità di fronte alla scrittura in una prospettiva teoricoteologica. La questione non è quella di definire quando avvenga il passaggio dall’oralità alla scrittura o la collocazione sociale di queste due modalità, ma quella di intendere il carattere fondante della dimensione orale nell’ebraismo, anche a partire ed all’interno della tradizione scritta. Nel contesto di questa problematica ha ruolo centrale la tradizione interpretativa e di commento, con i suoi criteri specifici: è attraverso le regole ermeneutiche che la cultura rabbinica passa dal significato letterale del testo, il peshat, ai sensi ulteriori espressione della tradizione orale, il derash. Quest’ultimo, l’interpretazione-ricerca da cui nasce sia il midrash halakhah – finalizzato alla definizione di una norma - che il midrash ‘aggadah-etico, filosofico e concettuale – è dunque la pietra angolare della tradizione di lettura rabbinica del testo biblico. Leggere e studiare la Bibbia è dunque, in prospettiva ebraica, una ricerca continua di senso, molteplice per definizione, della parola di Dio così come si materializza nel testo. Il termine

* Vice direttore del Corso di Laurea in Studi Ebraici del Collegio Rabbinico Italiano – Roma 33


Dossier intorno a cui ruota la riflessione dottrinaria ebraica relativa alla Bibbia è Torah. L’ambito semantico è molteplice, ampio: in termini ristretti Torah è il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia che la tradizione attribuisce a Mosè. In una dimensione più ampia il senso si ricollega ai molteplici significati della radice di questo sostantivo: da una parte l’insegnare, dall’altra quello di porre le fondamenta, di lanciare verso un bersaglio, di pioggia vivificante e, omofonicamente, di concepire una nuova vita. In questa ottica Torah non è solamente il Pentateuco ma l’insieme della dottrina, sia scritta che orale, base di sviluppo, indicazione del comportamento, insegnamento vitale e prospettiva di una nuova esistenza. È il progetto del mondo, preesistente ad esso consultando il quale Dio ha creato la realtà. È l’oggetto specifico e fondamentale della rivelazione, data una volta per sempre e continuamente rinnovata nella collaborazione tra l’uomo e Dio. La Torah è concepita come un corpo unico, composto fondamentalmente di due parti: la Torah scritta (Torah she bikhtav) e la Torah orale (Torah she be al peh). La prima non è comprensibile senza il ricorso alla seconda: solamente dalla loro intima connessione può scaturirne il vero senso. La Torah scritta rappresenta una sorta di appunto, di sintetica epifania di quella orale, e necessita quindi dell’integrazione di quest’ultima per poter rivelare i suoi contenuti. La Torah orale diventa in questo modo il vero fondamento di tutta la dottrina ebraica, l’elemento teorico-teologico distintivo e la condizione 34

stessa del patto con il popolo ebraico: è la continuazione della rivelazione. Misconoscerne il ruolo centrale viene considerato dai Maestri alla stregua della negazione dell’origine divina della rivelazione. Senza l’intervento della Torah orale non è pensabile poter mettere in pratica l’insegnamento della Torah scritta: è dunque impossibile, secondo i Maestri di Israele, parlare di una precedenza cronologica della legge scritta rispetto e quella orale. Nella sua totalità di sapienza divina la Torah è concepita come un unico inscindibile, le cui parti sono presenti ad origine nella mente di Dio. È per questo, anche, che tra le Massime dei Maestri, un testo rabbinico del III secolo, si trova il seguente insegnamento di Ben Bag Bag : «Girala (la Torah) e rigirala perché tutto è in essa; contemplala, invecchia e consumati in essa». È per questo motivo che, nella stessa normativa rabbinica, il tempo che un uomo ha a disposizione dovrebbe essere essenzialmente dedicato allo studio di questa complessa tradizione “toraica” il cui senso non può mai esaurirsi. Ed è forse anche per questo stesso motivo che nel Talmud - il grande “archivio” della visione del mondo ebraica - è detto che l’uomo, nel momento del giudizio divino, dovrà per prima cosa rendere conto del tempo dedicato (o non dedicato) allo studio.


Dossier

C’è un umanesimo da scoprire di P. Luigi Gaetani OCD *

Accostarsi alla Bibbia vuol dire accettare di fare un cammino, con momenti diversi, dall’ascolto all’attualizzazione. Vi operano fattori plurimi: tradizione, cultura, esperienza e la fondamentale mediazione del linguaggio. Fedeltà e creatività, singolarità e comunione, ispirazione dello Spirito e approfondimento dell’intelligenza. Il mondo della Bibbia è complesso, talvolta estraneo fino alla contrarietà, e complesso è il mondo quotidiano, fino alla contraddizione. Interpretare è capire, ma interpretare è un atto

a sua volta complesso che richiede la potenza di una soggettività attiva e aperta. A prima vista sembra che la Bibbia non parli ai giovani, perché il suo linguaggio è diverso da quello abituale, ancor più aggravato dal rumore dei media. Perché ciò riesca bisogna che Bibbia e giovani si incontrino su una piattaforma comune: l’essere creature umane in questo mondo con domande di senso, alla ricerca della felicità. Solo l’umanità unifica i due mondi. La Bibbia come umanità che ha incontrato Dio; il giovane come umanità che sulla strada della ricerca si incontra con l’uomo biblico che condivide la sua esperienza. Questo comporta che la Bibbia appaia come storia di persone con i nostri stessi problemi di vita, con le tante domande, le difficoltà, le speranze, e naturalmente comporta anche vedere come Dio, e la fede in Lui, partecipa alla loro ricerca e la risolve. Anche i giovani devono essere aiutati a scoprire in profondità queste loro domande di uomini, domande esistenziali, che pur hanno nascoste sotto un cumulo talvolta di superficialità e di omologazione al costume consumista. Soltanto su questa piattaforma sulle domande di senso l’incontro tra Bibbia e giovane si apre su orizzonti nuovi e attraenti. Facciamo qualche esempio: - la creazione, testificata nei primi capitoli della Bibbia, afferma che la realtà dell’uomo e del mondo non vengono dal male o dal caso, ma dall’azione benevola di Dio che vuole la vita e la gioia delle sue creature; - i grandi racconti di esodo e della passionemorte-resurrezione di Gesù (mistero pasquale), rivelano che un progetto di salvezza pervade la storia umana, storia di liberazione e di trasfigurazione dell’uomo e dell’universo intero; - il nostro vivere insieme, talora così difficile e carico di conflitti, è dalla Parola biblica visto

* Carmelitano scalzo 35


Dossier come una vocazione ad un unico popolo in comunione, ad una immensa cordata verso il cielo; - il futuro assoluto non è la tomba né il caos, ma la qualità alta della vita, in comunione con il Cristo risorto in un mondo redento, pulito, ospitale per tutti; - amare il prossimo come se stessi è l’anima di ogni legge, dà alla vita un profondo sentimento di compassione e di umanità. È questo un grande messaggio di luce e di speranza per nodi talora così difficili dell’esistenza anche giovanile. Tentiamo di soffermarci su due di questi incroci della vita, cercando di attraversarli con l’aiuto della Bibbia. Educare al desiderio L’uomo può smarrire, limitare, censurare, rinunciare al desiderio se deluso in m o d o drammatico, ma è anche vero che desiderare di non soffrire e di non desiderare è già un’esperienza di desiderio. Il desiderio è una componente umana fondamentale. Si desidera lungo la vita, perché il desiderio è la proiezione nel futuro, è attesa della novità e chi non coltiva più desideri vive spento, si nega al futuro, ha paura di guardarlo in faccia. Il paradosso del nostro tempo sta nel fatto che mentre fomenta desideri, i più assurdi qualche volta, nello stesso tempo presenta tanti volti spenti, privi di un oltre, sazi di nulla. È urgente, quindi, educare al desiderio, ma è anche fondamentale educare il desiderio perché esso, muovendosi tra l’impulso che cerca soddisfazione e l’appetibilità dell’oggetto che genera attrazione, si manifesta come una realtà 36

fluida ed opaca. Opaco si rivela il soggetto che desidera, opaco è spesso lo stesso oggetto desiderato, perché ambiguo è il cuore umano. Da qui la necessità che l’uomo si metta alla ricerca/conoscenza di sé, dell’altro e di Dio. La creazione dell’uomo e della donna si sviluppano, nel racconto biblico (Gen 2), in un contesto di ricerca: «Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile». Il termine per dire simile è kenegdô, letteralmente “come il suo di fronte” (Gen 2,18). Si noti che l’oggetto della ricerca, del desiderio non è Dio: Dio l’uomo già ce l’aveva. Ma Dio non è un “aiuto simile”, c’è asimmetria tra Dio e uomo, come asimmetrico si rivela il tentativo di colmare il desiderio dell’uomo cercando comunione con gli animali (Gen 2,20). Dopo questi tentativi la ricerca dell’uomo giunge a compimento: «Questa sì, carne della mia carne, osso delle mie ossa!» (Gen 2,23). La donna è veramente “l’aiuto simile”, specchio in cui l’uomo riconosce se stesso, colei che gli dice chi in realtà egli è, il partner che risponde alla sua parola, ai suoi sentimenti. Dio non è geloso del cuore dell’uomo, del suo desiderio più profondo. Egli stesso “conduce” all’uomo la donna (Gen 2,22), come il padre conduce la sposa al suo sposo nel giorno delle nozze. In questo senso bisognerebbe leggere il secondo capitolo della Genesi in relazione al Cantico dei Cantici. Non passare oltre (Lc 10,25-37) Un dottore della legge chiede a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Il dottore della Legge vuole una risposta chiara. Vuole sapere chiaramente quali sono i suoi doveri verso il


Dossier prossimo, ma ha necessità di identificarlo. Soprattutto, poi, vuol capire da che parte sta l’uomo di Nazaret che non pone alcuna barriera, che accoglie tutti, che non fa distinzioni. È un problema vivo anche per noi. Chi è il nostro prossimo oggi? La nostra famiglia? Le persone che frequentiamo? Che obblighi abbiamo verso gli altri? Quali obblighi nei confronti degli immigrati che sforano continuamente quei limiti convenzionali che chiamiamo “le nostre frontiere”? Gesù non dà una risposta immediata. Intraprende un cammino raccontando una storia, forse vera, oppure simbolica: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…» (Lc 10,30). La parabola racconta la trasformazione dell’identità umana, narra la stessa trasformazione di Dio, ci coinvolge in un’altra esegesi, in nuovi sensi, in più arditi significati. Luca, piuttosto che farci entrare nel tempio e nella città, ci conduce fuori, ci porta via dal tempio e dalla città. Chi scende siamo noi che abbiamo una certa conoscenza del sacro, ai quali Dio non è estraneo. Quando il sacerdote vede il corpo di quell’uo-

mo ferito, passa oltre. Perché? Semplicemente per il fatto che quell’uomo “mezzo morto” rappresenta un attentato alla sua fede, alle sue credenze, alla sua cultura. Che cosa ci vuol comunicare, allora, l’evangelista Luca? Essenzialmente che quello che sta accadendo lungo la via è la vera rivoluzione del cristianesimo: il sacerdote non vede un uomo che ha bisogno di aiuto, ma una seria minaccia alla sua santità. Il samaritano, invece, diviene nella narrazione lucana il personaggio tipologico del nuovo culto. I suoi gesti di compassione rivelano il nuovo luogo del tempio dove si rivela la santità di Dio. E il samaritano trasporta l’uomo in una locanda. L’evangelista usa una parola suggestiva per indicare questo “luogo teologico”, che significa “accogliente verso tutti”. Questa è la comunità credente, un luogo accogliente. Questa è la Chiesa di Luca. Naturalmente questo duplice messaggio educare il desiderio ed educarsi a vivere l’alterità- dovrebbe essere autenticato, reso credibile da parte di adulti che lo manifestano tale ai giovani. Altrimenti restano solo belle parole.

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Bibbia e bene comune di Paolo Ricca *

La Bibbia è stata scritta proprio per questo: costruire il bene umano, individuale e collettivo, il bene di ogni singola persona e dell’intera comunità. La Bibbia è il libro della rivelazione di Dio, che vuole il bene dell’uomo, com’egli stesso dice: «Io so i pensieri che medito per voi: pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» (Ger 29,11). E ancora: «Io ti ho posto dinnanzi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, onde tu viva, tu e la tua progenie…» (Dt 30,19). Qual è la «benedizione» che Dio, nella sua Parola raccolta e trasmessa nella Bibbia, mise allora davanti al popolo d’Israele e mette oggi davanti a noi? Quale progetto di vita e di comunità può ispirare la Bibbia per l’uomo d’oggi? Nello spazio a disposizione mi devo limitare a quelle che mi sembrano le tre componenti fondamentali di questo progetto. 1. Il progetto biblico «per costruire il bene umano» è anzitutto un progetto di libertà. Nella Bibbia Dio si rivela in primo luogo come liberatore e non come legislatore. È lui che, con mano potente, fa uscire Israele dall’Egitto, dove era stato ridotto in schiavitù. Per prima cosa Dio trasforma un popolo schiavo in un popolo libero. Si pensa spesso che Dio sia un limite o un ostacolo alla libertà dell’uomo, perciò si sostiene che per essere libero l’uomo deve * Teologo - Pastore emerito valdese 38

anzitutto liberarsi di Dio. Nella Bibbia vediamo il contrario: è Dio che libera l’uomo, è Dio che ama la libertà dell’uomo più di quanto non la ami l’uomo stesso, che sovente preferisce non essere libero, preferisce ubbidire a qualche «autorità superiore» o ad altre istanze (la tradizione, l’opinione prevalente, ecc.), scaricando su di esse il peso della responsabilità delle scelte che la vita comunque impone. Secondo la Bibbia, «dove è lo Spirito del Signore, quivi è libertà» (2Cor 3,17). La libertà non è dunque solo autonomia, come spesso si pensa. È certamente autonomia da ogni autorità umana, ecclesiastica o laica, che pretenda di imporsi alla coscienza di ciascuno. Ma non è solo autonomia. È qualcos’altro, che la Bibbia ci insegna in molti modi, ma soprattutto attraverso la storia di Gesù, uomo libero per eccellenza. Là dove c’è libertà, si realizza al meglio il «bene umano». 2. In secondo luogo il progetto di vita e di comunità per l’uomo d’oggi che la Bibbia ispira è un progetto di giustizia. Dio, secondo la Bibbia, ama la giustizia e il diritto più dei culti e delle liturgie solenni. Ma la giustizia e il diritto secondo Dio sono nettamente sbilanciati a favore di coloro che possono facilmente essere vittime dell’ingiustizia (il povero, l’orfano, la vedova, lo straniero, cioè i membri deboli della società). Il diritto che Dio ama e pro-


Dossier muove è quello di chi non ha diritti, la giustizia che Dio ama e promuove è quella che viene negata a coloro ai quali è invece dovuta. L’immagine corrente della giustizia è una bilancia nella quale i due piatti sono in perfetto equilibrio, allineati sullo stesso livello. La bilancia di Dio è diversa: pende da una parte, dalla parte delle vittime delle mille ingiustizie, palesi e nascoste, presenti nella nostra società. Ma perché Dio ama tanto la giustizia? Proprio perché essa è vitale per il «bene umano», come l’ossigeno lo è per la vita del corpo: senza giustizia il corpo sociale si corrompe e muore. C’è poi una giustizia di Dio ancora più profonda e misteriosa, che non riguarda direttamente i rapporti sociali, ma riguarda i rapporti tra l’uomo e Dio: è la giustizia per la quale Dio «giustifica» il peccatore, lo dichiara giusto cancellando il suo peccato a motivo della croce di Cristo e accogliendolo gratuitamente nella sua comunione. Dio insomma ama tanto la giustizia che la crea dove non c’è. Là dove c’è giustizia, si realizza al meglio il «bene umano». 3. In terzo luogo il progetto biblico di vita e comunità per l’uomo d’oggi è un progetto di fraternità. Homo homini lupus è l’amara constatazione che la storia plurimillenaria dei rapporti umani non si stanca purtroppo di confermare. Contro questa visione dell’uomo, Gesù dice ai suoi discepoli: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8) e l’apostolo Paolo amplia ancora di più l’orizzonte dicendo che Dio è «unico e Padre di tutti» (Ef 4,6) – s’intende di tutte le creature umane. Che cosa implica questo evangelo della fraternità, che Francesco d’Assisi estendeva non solo a tutti gli animali, ma anche al sole, alla luna, all’acqua, al fuoco, e persino a «sora nostra morte corporale»? Implica almeno tre cose. A. Una prassi di pace e non-violenza nei

rapporti interpersonali. Gesù è stato un uomo disarmato (la sua unica «arma» è stata la Parola e, durante il processo, a più riprese, il silenzio). L’uomo armato manifesta non la sua forza, ma la sua debolezza, e le «forze armate», sempre più sofisticate e micidiali, non sono certo espressione della forza di Dio. Un’umanità degna di questo nome dovrebbe essere disarmata. Secondo Gesù, non i violenti e i prepotenti erediteranno la terra (la terra, non il cielo!), ma i mansueti (Mt 5,5). B. In questa stessa linea si colloca quella che forse è la più alta parola della Bibbia, e cioè: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44). Una parola del genere equivale sostanzialmente alla dissoluzione della figura del nemico e sancisce la vittoria del principio di fraternità. Dove c’è guerra (di qualunque tipo, non solo militare), c’è un nemico da combattere e, possibilmente, da abbattere. Dove non c’è il nemico, non c’è guerra. Ci possono essere, e ci sono, dei conflitti, ma non c’è guerra, non ci si spara addosso, non si vince con la morte o la sottomissione del nemico, si vince – per così dire – con lui, si con-vince. Utopia? Vaniloquio? La Bibbia pensa di no, e così costruisce il bene umano comune, e non solo il bene di qualcuno. C. La fraternità implica sostanziale uguaglianza. In realtà – lo sappiamo – siamo tutti diversi, ma la fraternità mette tutti sullo stesso piano per quanto concerne i diritti e i doveri. Forse è questo – l’uguaglianza – il bene umano maggiore, il più difficile da raggiungere, ma quello sul quale c’è la più grande benedizione divina. Una umanità divenuta fraterna è pronta per accedere al Regno di Dio, anzi ne è una chiara manifestazione. Là dove c’è fraternità, si realizza al meglio il «bene umano».

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Bibbia e scuola di Marinella Perrone *

Quando andavo a scuola io era opinione comune che I promessi sposi di Alessandro Manzoni fosse un capolavoro condannato, insieme ad altri classici della letteratura italiana e straniera, ad essere vilipeso da studenti che mal sopportavano di doverlo leggere perché “di programma”. Ora, credo, non si legga più per intero e lo stesso vale per La divina commedia e forse anche per qualche altro tesoro letterario. Sono stata studente, come tutti, e poi ho insegnato per molti anni. So molto bene quindi a

quale sorte può essere condannato un “libro” quando diventa “scolastico”: come mai mi trovo allora a difendere strenuamente la causa della “Bibbia sui banchi di scuola” e non soltanto, come del tutto ovvio, durante le ore di Religione, ma anche durante le ore in cui si passa dall’Italiano alla Fisica, dall’Inglese alle Scienze, dalla Matematica al Latino? Rispondo prima telegraficamente e poi provo a spiegarmi meglio. L’ora di Religione è opzionale ed è, quindi, “per alcuni”; la Bibbia, invece, è “di tutti”. Mi spiego. La Bibbia nasce dalla fede ebraica e da quella cristiana ed è indirizzata a coloro che nella fede ebraica o cristiana vogliono vivere. Su questo non ci può essere alcun dubbio. Per questo ho detto che la Bibbia è “di tutti” e non “per tutti”. Per coloro che credono o che, almeno, vogliono credere, la Bibbia rappresenta il fondamento della loro fede, il principio della loro speranza, il motore della loro carità. La Bibbia, però, ha contribuito a configurare la cultura del nostro Occidente più di ogni altro testo ed è quindi da considerare, oltre che il libro della fede ebraica e cristiana, anche un “patrimonio dell’umanità”. Per questo mi sen-

* Docente di Nuovo Testamento – Pontificio Ateneo S. Anselmo – Roma 40


Dossier to di dire che la Bibbia è “di tutti”, senza con questo voler violare le coscienze o il diritto di ciascuno alla più difficile delle libertà, quella religiosa. Ho sostenuto quindi fin dall’inizio la battaglia di Biblia (Associazione laica di cultura biblica) perché il Ministero dell’Istruzione del nostro Paese diventasse finalmente sensibile al problema dell’analfabetismo biblico che affligge la nostra cultura anche perché, nelle nostre scuole, la Bibbia è il libro assente. Va ricordato, però, che il primo appello di Biblia, quasi trent’anni fa, e poi tutti gli altri che sono venuti in seguito, sono stati firmati, oltre che da gente di scuola, anche da molti personaggi importanti della cultura italiana, al di là del credo religioso di ciascuno. Né è un caso che, dal momento in cui Biblia ha firmato il protocollo di intesa con il Miur per la diffusione della cultura biblica nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, tante sono state le richieste di presidi e docenti per avviare programmi di “alfabetizzazione biblica” nelle scuole. Il Convegno che si è tenuto all’Università La Sapienza di Roma nel novembre scorso, poi, ha visto la partecipazione interessata e consapevole di molti studenti ed ha perciò vinto ogni resistenza residua: favorire l’acculturazione biblica non passa sopra le teste dei ragazzi né, tanto meno, è contro la loro libertà. Anzi. Quando, come in quel caso, professori di diverse discipline o personaggi della cultura riescono a mettere in luce le infinite trasversalità che il riferimento al testo biblico consente, gli innumerevoli interrogativi che esso ingenera, le formidabili ricadute che ha avuto sulla storia del pensiero e della scienza, delle istituzioni e della politica gli studenti diventano ascoltatori attenti e interlocutori intelligenti. Si ha quasi l’impressione che percepiscano che l’insegnamento della Bibbia rappresenta una sorta di risarcimento nei loro confronti. In fondo, è quello che la mia generazione ha provato quando, subito dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, potevamo andare nelle librerie a comprarci finalmente una Bibbia in italiano, potevamo leggerla, potevamo radicare la nostra fede “sulla roccia” della consapevolezza personale e dell’obbedienza intelligente. Il Concilio aveva richiamato la Bibbia dall’esi-

lio e l’aveva restituita alla Chiesa cattolica dopo molti secoli di assenza. Era cominciata l’epoca del risarcimento. Più difficile è stato il passaggio dall’ambito della fede a quello della cultura. In un paese come il nostro, malato di clericalismo e di anticlericalismo, l’inserimento della Bibbia nella trama degli insegnamenti scolastici poteva dare adito a un duro scontro ideologico con pesanti ricadute politiche. E, per di più, proprio sulla scuola già tanto martoriata da mali endemici. Che per arrivare finalmente al protocollo di intesa Biblia-Miur ci siano voluti quasi tre decenni è un fatto che parla da solo. Forse è proprio vero, però, che le cose maturano con i loro tempi e avvengono quando possono avvenire. Sono convinta che Abramo e Sara non siano condannati a rimpiazzare, nell’immaginario di studenti tanto impertinenti quanto annoiati, i personaggi di manzoniana memoria perché in questi anni la scuola italiana è profondamente mutata. Sono cambiati i docenti e lo sono gli alunni. Al di là di riforme che si susseguono senza colpire mai nel segno, è vero che complessivamente la cultura e la scuola italiana sembrano essersi scrollate di dosso l’ipoteca dell’idealismo romantico, parlano altri linguaggi, sono attente ad altri fenomeni, preoccupate di altre questioni. Senza perdere la forza dell’impianto storico, che rappresenta la struttura portante della nostra tradizione culturale, abbiamo imparato la mutua dipendenza dei contesti e dei linguaggi, la trasversalità dei temi e dei problemi, la circolarità dei ragionamenti e delle procedure. In una scuola che ormai mira a iniziare i ragazzi a questo nuovo modo di fare cultura, senza indottrinarli né manipolarli, la Bibbia è chiamata in causa. A volte come imputata, certo, per le tante occasioni storiche in cui è stata, sia pure indirettamente, causa di dolore e di morte. Molte altre volte, però, la Bibbia è chiamata in causa ormai come testimone privilegiato di aspirazioni e indifferenze, azzardi e paure, saggezze e follie. Non c’è ambito del sapere umano, almeno di quello occidentale, che sia rimasto estraneo alla grande questione che la Bibbia veicola dalla prima all’ultima pagina: e se di tutto ciò che vive sotto il cielo si potesse parlare perfino con un Dio? 41


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Dalla storia della salvezza alla salvezza della storia di Martina Calace *

Quando il 9 maggio del 2007 furono presentate in Campidoglio all’allora ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, le diecimila firme raccolte dall’associazione Biblia per richiamare l’attenzione del governo sulla necessità di promuovere la conoscenza biblica nelle scuole, l’iniziativa incontrò l’interesse della stampa nazionale, del mondo della cultura e dello stesso governo, che al Miur firmò un protocollo di intesa, che avrebbe varato corsi di aggiornamento per i docenti allo scopo di valorizzare il «giacimento biblico» della nostra cul-

tura. Un protocollo simile, in verità, era già stato firmato da Tullio De Mauro, ministro dell’Istruzione nel precedente governo di centro-sinistra, prima che Berlusconi vincesse le elezioni del 2001. Ma, cambiato il governo, non se ne fece nulla. Cosa ne è stato di quella encomiabile iniziativa di più di quattro anni fa? L’attuale governo, alle prese con le architetture dell’epocale riforma della scuola, ha smarrito questo insieme ad altri indirizzi tra le pieghe di estenuati dibattiti su questioni che sono rimaste altisonanti titoli di capitoli mai scritti (si pensi, tra gli altri, alla

fantomatica “educazione alla cittadinanza” che è ancora priva di uno statuto disciplinare definito). Ma si provi a pensare per un attimo che sarebbe successo nelle nostre scuole se il protocollo di intesa del 2007 avesse avuto un pur auspicabile seguito: a quale materia sarebbe stato aggiunto lo studio della Bibbia? E con quale impostazione ideologica e metodologica? E a quali insegnanti sarebbe stata affidata? Con quali competenze, conseguite come? Con un titolo accademico specifico o con corsi di formazione in servizio? E con quali esiti? Si possono immaginare facilmente i malumori e i brontolii della classe docente: “Già non riusciamo a finire i nostri programmi… la scuola non può fare tutto… ci sono gli insegnanti di Religione, che facciano il loro lavoro… E poi la scuola deve essere laica…”. Quest’anno mi sono trovata a leggere con gli studenti di quarta liceo, secondo quanto prescritto dai programmi, il Purgatorio di Dante. Il canto XI si apre con una splendida parafrasi del Padre Nostro: ebbene, perché tutti gli studenti si accostassero al testo poetico, è stato necessario fornire loro una copia della preghiera evangelica, perché “proprio non ce la ricordiamo, prof.”. Dunque l’appello di Biblia coglieva nel segno, anzi si tratta ormai di far fronte ad un vero analfabetismo biblico, che la nostra generazione, formatasi in un humus di cultura almeno vagamente cristiana, forse non riesce a cogliere nella sua drammaticità. È perfino ovvio considerare che non è possibile una vera comprensione di tutta la letteratura, l’arte figurativa, la musica, la filosofia elaborate e prodotte dall’Occidente senza una conoscenza almeno sommaria della Bibbia: e questo non

* Docente di Lettere – Scuola Secondaria di II Grado “E. Fermi” - Bari 42


Dossier riguarda solo i soggetti e gli argomenti di esplicito carattere religioso, come l’iconografia e la musica “sacra”, la poesia religiosa e i grandi sistemi filosofici del Medioevo, i monumenti della letteratura italiana come lo stesso Dante o Manzoni: i rimandi, i riferimenti, le citazioni di veri “archetipi biblici” sono presenti in ogni esperienza artistica della storia della cultura occidentale, anche quando programmaticamente si è dichiarata estranea o fieramente avversa ad ogni ispirazione religiosa. Tanto è stata intrisa delle storie, dei personaggi e dei temi narrati nella sacra Scrittura la formazione culturale di intere generazioni, che il potere evocativo di un verso, di un nome, di un luogo, di un tempo agiva anche senza l’esplicita consapevolezza dell’artista, su un pubblico che ne coglieva – direi “istintivamente” – significati e richiami. Il potenziale di questo codice comunicativo, per molta parte delle nuove generazioni, è completamente smarrito o fortemente offuscato. Non è questa la sede per definire cause e responsabilità del dilapidarsi di tale ricchezza, ma da insegnante mi fermo a constatare che se l’obiettivo formativo della scuola è quello di fornire gli strumenti allo studente perché diventi un “lettore competente e critico” delle forme di espressione artistica prodotte dall’uomo nella storia, semplicemente senza una elementare conoscenza della cultura biblica, tale obiettivo non è assolutamente raggiungibile. Nella prospettiva finora espressa, l’approccio al testo biblico è in definitiva strumentale alle discipline “canoniche” della formazione scolastica: non sembra però che la sua funzione didattica possa così esaurirsi. La questione è quali possano essere i valori educativi veicolati da una più diffusa conoscenza della Bibbia nella scuola. La più comune risposta che si sente a tale proposito riguarda la riscoperta delle radici cristiane della cultura europea, il che rafforzerebbe l’identità di appartenenza all’Occi-

dente – appunto – europeo e cristiano, nell’attuale fase storica di incontro/scontro con le altre culture, soprattutto quella islamica, presupposto necessario a costruire un rapporto di dialogo e di tolleranza. Non credo che la Bibbia debba essere usata in chiave strumentale per definire differenze e opposizioni, pericolose quanto infondate (l’Occidente cristiano e democratico contro l’Oriente islamico e totalitario) per il fatto che essa è il libro per eccellenza della fonte e della confluenza dei monoteismi, della fusione e dell’incontro di popoli che intorno ad esso riconoscono le verità religiose che ogni propria storia ha declinato con codici e modi diversi. La lettura non pregiudiziale del testo sacro non può che abbattere le barriere che altri dogmatismi (politici, economici) hanno innalzato. A me sembra, piuttosto, che l’insegnamento fondamentale che la scuola può trarre da una lettura non ideologica della Bibbia riguardi il senso della storia, nel duplice significato del senso che dà la storia agli uomini e del senso che gli uomini danno alle vicende della storia. Infatti, la modalità che il popolo di Israele ha di definire se stesso è quello della narrazione della propria storia: un’ identità che non è data a priori, ma si costruisce e si chiarisce nel raccontare dalle origini le vicende dei “padri fondatori”, i patriarchi, e poi di tutto un popolo che attraverso un cammino, non solo ideale e simbolico, prende coscienza di sé. Quale insegnamento per le nostre generazioni di giovani, appiattite in un eterno presente senza profondità né dimensione della storia, non più educate a pensarsi all’interno di un processo diacronico che li precede e che non si esaurisce con loro. Quale nuovo senso di responsabilità della vita, se intesa come tappa di un percorso che l’umanità sta compiendo verso una meta universale. Ma - e questo è il secondo significato - il testo biblico (si pensi, ad esempio, alla letteratura profetica) è una 43


Dossier formidabile occasione per interrogarsi sul senso della storia, per cogliere il filo che lega tra loro avvenimenti che sembrano presentarsi con un’apparente casualità priva di ogni logica. Certo, lo scrittore biblico trova in Dio e nel suo provvidenziale intervento il significato ultimo delle vicende, spesso drammatiche, che hanno attraversato la storia del popolo eletto; conta, comunque, lo sforzo di interpretazione, la ricerca inesausta di senso che, al di là delle risposte, è la qualità più alta dell’uomo che è nella storia come protagonista consapevole, attore

cosciente e non passiva comparsa di una sorta di teatro dell’assurdo. Quale sfida, per la scuola di oggi, tutta concentrata a parcellizzare il sapere nelle microscopiche tassonomie delle competenze, tutta tesa a ridurre tempi e contenuti in nome del principio della “spendibilità” del sapere, scuola che troppo spesso dimentica la domanda sul senso globale del suo progetto educativo e che colpevolmente sottrae agli studenti la possibilità di riflettere su di esso. Del resto, già nel lontano 1855 era don Bosco che, nella sua Storia d’Italia raccontata alla gioventù, affermava qualcosa di non diverso da quanto si sta dicendo, quando ravvisava l’ec44

cellenza della storia sacra, «la più antica, la più sicura, la più pregevole, la più utile». Si tratta ora, in conclusione, di precisare a quali docenti debba essere affidato l’approccio alla cultura biblica, con quale preparazione e in quali forme. Si vede bene che, così come si è finora delineata, tale proposta non è identificabile con l’insegnamento della Religione cattolica: non è di educazione al senso religioso che si sta parlando, né l’esperienza del sacro si esaurisce nella conoscenza della Bibbia, che di essa è solo una parte. D’altro canto, neanche credo che b a s t i “aggiornare” i docenti di materie in qualche modo affini, fornendo loro un’informazione che è mancata nel loro curricolo accademico proprio perché non sia svilita al rango di nozione accessoria e strumentale, come fin qui si è tentato di affermare, la cultura biblica appartiene, come e più delle altre materie, alla sfera dell’ “essere” del docente, non a quella del suo sapere disciplinare: si tratta di una sensibilità, un’attenzione e una riflessione culturali, esistenziali, un’autentica passione per la conoscenza, per le questioni fondamentali dell’uomo e della storia, tali che non possono che essere connaturati con la persona del docente, e non solo con il suo ruolo. Ancora una volta, le cose importanti, quelle che contano e che rimangono nella vita dei giovani discenti, sono quelle che non si insegnano e non si imparano, ma che si comunicano e si vivono.


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Immaginare la Parola di Emma Favia *

Bibbia-Arte cioè Parola-Immagine: relazione connaturata all’esperienza umana del comprendere. Ma qui si tratta di immaginare, trasmettere, insegnare, illustrare secondo il telos di un racconto sacro. Che è questo: la Parola, il Lògos, ha il volto storico di un rabbi palestinese condannato alla crocifissione. Avanti o dopo Cristo: un cardine definitivo inquadra da ora in poi la storia. L’arte figurativa, come ‘sapere’ di contenuti visuali, racconta in una infinita sequenza di immagini come questo Lògos s’inabissi nella storia e assuma l’immemoriale verità delle ‘leggi non scritte’. L’arte così induce a immaginare e memorizzare. E il rapporto fra scrittura e figura è tanto più interessante perché entra in un mondo che teme nell’immagine una prevaricazione idolatrica. È l’incontro con una civiltà composita, quella semitica ebraica ed ellenistica e romana di cui la nuova cultura classico-cristiana rinnova il sistema di valori in una diversa e rivolgente sensibilità, che, sotto molti aspetti, appare di segno contrario. L’immagine perciò è possibile. L’altare al ‘Dio ignoto’, di cui con voce trepi-

dante parla Paolo, dove l’umanesimo antico dichiara le sue Colonne d’Ercole, è il segno che nel volgere di qualche secolo definitivamente si affermerà un nuovo umanesimo, popolare, mite e cordiale, insieme a quello solitario e ascetico dei Padri del deserto: apoftegmi e silenzi come rinuncia all’affermazione eroica dell’individuo. La figuratività è spirituale. L’antica sapienza orale che organizzava, dai sofisti in poi, la disciplina della retorica negli spazi dell’isegorìa e della parresìa, (la libera e piena facoltà di prendere la parola in pubblico), cedeva ad una nuova forma di linguaggio. Così nello svolgersi dei libri – da quelli del Vecchio a quelli del Nuovo Testamento – nella sequenza delle vicende e delle idee, ogni passo rivelava una forza in sé compiuta, e altrettanto ogni unità narrativa, ogni versetto. Per questo l’immagine che illustra gli eventi o i personaggi nasce subito come tipizzazione, exemplum, e diventa iconografia. C’è da chiedersi se la bellezza delle illustrazioni, che sono rappresentazioni, si sovrapponga alla forza del testo e distragga da esso. Poniamo che questo accada e non sia in gioco la catechesi della Biblia pauperum. Impossibile resistere al Notturno della Fuga in Egitto di Elsheimer, o all’Après-Midi del Riposo durante la Fuga in Egitto di Caravaggio. Ci si dimentica dell’angoscia di questa famigliola in fuga. La bellezza e la quiete sovrana degli spazi e dell’ora rappresentata fanno sprofondare in una dimensione fiabesca che allontana dalla severità del testo sacro? E il Riposo durante la fuga in Egitto di Orazio Gentileschi, sia nella versione di Birmingham che in quella di Vienna? Tutte queste sono opere realizzate entro i primi due decenni del Seicento: ci raccontano il Seicento o il Vangelo? Ci sprofondano nella di-

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Dossier mensione lirica dell’idillio -non quelle di Gentileschi- o suggeriscono una meditazione sulla verità delle situazioni reali, non idealizzate, e per questo più intense? Infatti lo stesso ricorso alle versioni apocrife, come nel caso del capolavoro di Elsheimer, oltre che sostenere il puro diletto narrativo, dimostrano anche una volontà di immedesimazione realistica nel minuto dettaglio esistenziale, che offre notevolissime occasioni di meditazione. Prendiamo un passo dell’Antico Testamento che per sua natura sfuggirebbe ad un racconto per immagini: la percezione della presenza di Dio che coglie il profeta Elia sull’Oreb. Philippe de Champaigne, pittore di corte di Luigi XIII, rappresenta il momento in cui il profeta rifugiatosi nel deserto, prostrato e addormentato per terra all’ombra di una ginestra, sta per essere rianimato dal pane e dall’acqua che un Angelo, svegliandolo, gli addita vicino (1Re 19,5 ss). Il testo poi aggiunge che per due volte Elia si addormenta e per due volte l’Angelo lo rianima con quel pane e quell’acqua che gli darà la forza di raggiungere il monte di Dio, l’Oreb. L’opera, realizzata fra il 1656 e il 1662 e che si trova a Le Mans, Musée de Tessé, nell’adombrare il significato eucaristico del sacro nutrimento, ha in sé la pregnanza, dal punto di vista propriamente narrativo, del famosissimo successivo passaggio che colloca Elia sull’Oreb, con il volto coperto davanti al Signore che passa: Egli non è nel vento impetuoso, nel terremoto tremendo, nel fuoco, ma «nell’alito carezzevole di un’aura leggera». Il profeta addormentato del quadro è ormai in quella dimensione, e dilata l’immaginazione e la memoria verso la tenerissima inebriante levità della brezza divina. Non possiamo dimenticare mai più il testo sacro che narra l’esperienza di Elia. L’azzurro della tunica, il bagliore dorato dei capelli, l’irrompere rosa della veste angelica, il pacifico snodarsi dell’orizzonte impastato di luce raggiunge il cuore con le sonde degli occhi. Georges La Tour (Nantes, Musèe des Beaux -Arts) ci immette nella stanza modesta del falegname Giuseppe, sprofondato nel sonno: un altro notturno magnifico che narra la dimensione della fuga in Egitto come di una 46

decisione presa di soprassalto, nel cuore della notte. Non c’è tempo di ragionare e il sogno avverte che è già tempo di svegliarsi, prendere la madre e il bambino con le poche cose di sopravvivenza di un viaggio a dorso d’asino e andare via subito. Questo del sogno di Giuseppe è tutto ciò che il Vangelo ci dice di questo periodo della prima infanzia di Gesù: Giuseppe ne è l’eroe silenzioso, modello di abnegazione assoluta e di umilissima forza. Il chiarore sublime della lanterna che a gradi inonda lo ‘spazio–tempo’ del sogno entra persino nell’abbandono del respiro allentato dell’operaio che dorme. Tanto che anche noi ci troviamo lì, alle spalle dell’Angelo. Antonello da Messina. Gesù in Pietà con un Angelo, al Prado. Il Vangelo della Passione parla di terremoto e oscurità su tutta la terra al momento della morte di Gesù. La natura si ribella e quasi scoppia. Sulla tavola di Antonello il paesaggio è una calma distesa di verdi e celesti di una primavera avanzata. Sentiamo e ‘vediamo’ però, nelle sottili trasparenze dei colori e nell’abbandono di un corpo ormai fattosi pesante, la tragedia cosmica del Sacrificio assoluto e definitivo sull’altare del mondo. Si dirà che questa è rappresentazione devozionale e non rimanda al testo evangelico. Vero. Eppure qui ne abbiamo un’illustrazione ‘reale’, se l’onda lirica del ‘sublime’ si afferma nella permanenza d’immagine dello spazio dipinto.


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La lettura patristica della Bibbia di Jean Paul Lieggi *

Nell’ottobre del 2008 si è celebrata in Vaticano la XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi che ha avuto come tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Ad essa è seguita, come di consueto, la pubblicazione di un’esortazione apostolica postsinodale del Papa: si tratta, in questo caso, dell’Esortazione Apostolica Verbum Domini firmata da Benedetto XVI il 30 settembre 2010, memoria liturgica di san Girolamo. Il Papa, raccomandando la realizzazione di una corretta ed adeguata interpretazione della Scrittura, afferma: «Un significativo contributo al recupero di un’adeguata ermeneutica della Scrittura, come è stato affermato nell’Assemblea sinodale, proviene anche da un rinnovato ascolto dei Padri della Chiesa e del loro approccio esegetico. In effetti, i Padri della Chiesa ci mostrano ancora oggi una teologia di grande valore perché nel suo centro sta lo studio della sacra Scrittura nella sua integralità. Infatti, i Padri sono in primo luogo ed essenzialmente dei “commentatori della sacra Scrittura” (s. Agostino)»1.

Nelle pagine di questo mio piccolo contributo, intendo far riecheggiare questo invito ad un “rinnovato ascolto dei Padri” consegnando ai lettori gli elementi caratterizzanti della lettura patristica della Bibbia. Li raccolgo dalle riflessioni con le quali Jean-Michel Poffet, padre domenicano, docente alla Scuola biblica di Gerusalemme, sintetizza splendidamente – a mio giudizio – le caratteristiche dello stile con il quale i Padri della Chiesa si sono accostati alla Bibbia. L’autore, infatti, in un agile volumetto, dal titolo I cristiani e la Bibbia, ha illustrato, in quattro capitoli, le diverse modalità con le quali i cristiani si sono rapportati lungo i secoli al libro della fede. I capitoli sono dedicati rispettivamente all’epoca patristica, al medioevo, all’età moderna e al XX secolo. Ovviamente mi soffermerò in queste mie brevi note al primo capitolo del libro (pp. 7-482) e raccoglierò le caratteristiche individuate da Poffet attorno a tre punti fondamentali che potremmo definire, in qualche modo, i protagonisti dell’«incontro» con la Scrittura: il testo stesso della Scrittura e la sua natura, il lettore e le disposizioni con le quali si deve accostare al testo e, infine, il contesto ecclesiale nel quale testo e lettore vivono. 1. La Scrittura a. La Scrittura e lo Spirito La prima convinzione che guida l’approccio dei Padri della Chiesa alla Scrittura è che essa è ispirata e unificata dallo Spirito. Ben a ragione affermiamo che la Bibbia ha per autore sia Dio sia l’uomo. Ma ciò che i Padri sottolineavano era che, nonostante i molteplici autori umani che nel corso dei secoli hanno reso possibile la stesura del testo sacro, vi è un autore che unifica l’intera opera: lo Spirito Santo, per l’appunto, Dio stesso. Ciò comporta che la pluriforme

* Docente di Teologia patristica – Facoltà Teologica Pugliese - Bari 47


Dossier ricchezza dei diversi libri biblici «è come assunta in un’unità superiore, l’unità del canone delle Scritture, che oggi ha ricominciato a interpellare una parte degli stessi esegeti» (p. 8). Da ciò deriva un compito ben preciso per chi si accosta alla Scrittura: quello di «cercare e trovare il senso voluto dallo Spirito. Da questo punto di vista, la Scrittura è piena di “misteri”: il senso profondo va cercato al di là della lettera» (p. 9). Ferma convinzione dei Padri è inoltre che questo compito l’uomo non è chiamato ad affrontarlo da solo, in quanto – come afferma san Girolamo nel suo commento alla lettera ai Galati – «la Scrittura deve essere interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta»3. Lo Spirito che ha reso possibile la nascita delle pagine bibliche per aver ispirato e guidato l’autore sacro, accompagna ed illumina ora i passi di chi umilmente ricerca il senso profondo di quelle pagine. b. Cristo chiave delle Scritture Il carattere unificante delle Scritture non è dovuto solo al suo autore, lo Spirito, ma anche al suo contenuto: Cristo Gesù. È ferma convinzione dei Padri della Chiesa, infatti, che tutta la Scrittura, e quindi non solo il Nuovo Testamento ma anche l’Antico, annuncia Cristo.

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Ricorda al riguardo il Papa che «rimangono per noi una guida sicura le espressioni di Ugo di San Vittore: “Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento”» (VD, n. 39). Un’immagine che ben esprime questa convinzione e che ne mette in luce la rilevanza per l’interpretazione della Scrittura è quella della chiave: Cristo è la chiave. Si tratta di un’immagine che ci ricorda efficacemente che «solo Cristo può aprire le Scritture, unificarle e orientarne la lettura» (p. 14). Chi si accosta al testo biblico cercando in esso una via privilegiata per giungere alla conoscenza di Gesù deve far tesoro di questa indicazione. Infatti, se è vero che la Scrittura ci conduce alla conoscenza di Cristo, è anche vero che è la conoscenza di Cristo a consentirci di cogliere sempre più in profondità i tesori nascosti nel testo. c. L’analogia della fede Alla luce delle due convinzioni già considerate, ne deriva una terza: quella dell’analogia della fede. In altre parole, la fede nella quale accogliamo la Scrittura fa sì che «tutte le parti si coordinino e s’illuminino vicendevolmente. Non esiste totale eterogeneità tra una parte e l’altra della Scrittura poiché, in definitiva, i vari testi di quello che resta il Libro s’interpellano e si rispondono. Le differenze, anche quando sono manifeste, si attenuano nel mutuo confronto e in un equilibrio incessante» (p. 16). Ciò non significa non riconoscere le differenze che vi sono, ma che tali differenze non vengono lette come totale eterogeneità, ma secondo


Dossier il principio dell’analogia, per l’appunto, cioè riconoscendo che accanto alle differenze vi sono anche tratti d’unione che consentono di scorgere la somiglianza tra i diversi testi. A rendere possibile tale analogia è proprio la fede, che diviene così criterio di lettura ed interpretazione dei testi. È sempre Benedetto XVI a sottolineare come «proprio il legame intrinseco tra Parola e fede mette in evidenza che l’autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale, che ha nel sì di Maria il suo paradigma. San Bonaventura afferma a questo proposito che senza la fede non c’è chiave di accesso al testo sacro: “Questa è la conoscenza di Gesù Cristo, da cui hanno origine, come da una fonte, la sicurezza e l’intelligenza di tutta la sacra Scrittura. Perciò è impossibile che uno possa addentrarsi a conoscerla, se prima non abbia la fede infusa di Cristo, che è lucerna, porta e anche fondamento di tutta la Scrittura”» (VD, n. 29). Si ripete qui il paradosso che abbiamo già colto nel punto precedente: la Scrittura ci fa conoscere Cristo ma nello stesso tempo è Cristo che ci apre la porta per comprendere la Scrittura. Similmente per la fede, è la Scrittura a nutrirla ed alimentarla, ma è la fede stessa che ci offre i criteri per interpretare la Scrittura. Anche da questa convinzione deriva un compito per il lettore: accostarsi alla Scrittura con lo stesso atteggiamento di chi si accosta ad una sinfonia musicale per cogliere l’armoniosa unità che risuona grazie ai differenti strumenti e alla molteplicità di suoni. 2. Il lettore Se le caratteristiche sinora esaminate si riferiscono soprattutto alla natura del testo, pur facendo derivare da essa i compiti assegnati al lettore, le caratteristiche che ora presenterò guardano soprattutto agli atteggiamenti che il lettore è chiamato ad assumere nell’accostarsi al testo. Sono anche queste caratteristiche che

hanno ovviamente una stretta relazione con le precedenti e, in qualche modo, da esse derivano. a. Esegesi e preghiera Il primo atteggiamento che il lettore deve coltivare è quello della preghiera. Se solo guidati dallo Spirito, quello stesso Spirito che ha ispirato le pagine della Bibbia, e se solo con la chiave che è Cristo ci è concesso di comprendere la Scrittura, sarà necessario iniziare e vivere la ricerca del senso spirituale costantemente sostenuti dalla preghiera. La preghiera è, infatti, l’esercizio grazie al quale lasciamo che lo Spirito e Cristo abitino la nostra vita e la orientino. Scriveva al riguardo Origene nel suo primo commento ai Salmi: «La prima cosa: domandare a Dio di cercare bene, perché coloro che cercano hanno la promessa di trovare (cfr. Mt 2,7); ma forse agli occhi di Dio non c’è neanche un inizio di ricerca se non si utilizza il buon metodo» (p. 18). E lo stesso padre alessandrino, commentando il Cantico dei Cantici, annotava splendidamente: «Perché è unicamente stringendo il Verbo di Dio al proprio cuore con tutto l’affetto e l’amore, che sarà possibile cogliere l’odore del suo piacevole profumo e della sua soavità» (p. 19). b. Esegesi e conversione Alla preghiera si accompagna la conversione: «L’obbedienza concreta alla Parola di Dio e l’apertura dell’intelligenza a questa stessa Parola sono infatti strettamente connesse» (p. 21) 49


Dossier in quanto «si può comprendere la Scrittura solo se la si vive» (VD, n. 47). Adoperando una bella immagine desunta dai luoghi della Terra Santa, Poffet afferma: «L’accesso alle Scritture non è immediato: bisogna curvarsi per potervi entrare. È quanto avviene per entrare nella Basilica della Natività di Betlemme, la cui porta particolarmente bassa obbligava i cavalieri a scendere da cavallo e a rinunciare alla loro maestosa armatura. La logica che conduce dalla mangiatoia alla croce si ripercuote quindi positivamente sulle esigenze ermeneutiche necessarie per comprendere il Verbo incarnato e le Scritture ispirate» (p. 22). Questa bella immagine, richiamata da Poffet, ci apre all’invito del Papa a «ricordare un’analogia sviluppata dai Padri della Chiesa tra il Verbo di Dio che si fa “carne” e la Parola che si fa “libro”. La Costituzione dogmatica Dei Verbum, raccogliendo quest’antica tradizione secondo la quale “il corpo del Figlio è la Scrittura a noi trasmessa” – come afferma sant’Ambrogio –, dichiara: “Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini” (Dei Verbum, 13)» (VD, n. 18). c. Ricerca e fede I primi due atteggiamenti che devono segnare il lettore, quello della preghiera e quello della conversione, sono profondamente legati all’ambito della sua vita di fede, nella quotidianità del suo stile. L’incontro con la Scrittura richiede, tuttavia, non solo questo ma anche l’impegno della ricerca e dello studio. E la vita degli stessi Padri della Chiesa ne è una fervida testimonianza: essi, infatti, hanno dedicato a questo gran parte delle loro energie (come ci ha ben ricordato Benedetto XVI nel passo della Verbum Domini che ho citato all’inizio dell’articolo) e ne hanno fatto il centro stesso della loro vita. Il lettore pertanto deve accostarsi al testo sacro nella profonda convinzione che ricerca e fede non si oppongono, anzi si completano. 3. La comunità ecclesiale L’incontro con la Scrittura non lo si può vivere individualmente. Se abbiamo già messo in evidenza gli atteggiamenti che devono animare il lettore, è necessario quindi ora spendere qual50

che parola per sottolineare come il luogo vitale dell’incontro dell’uomo con la Scrittura non può che essere la comunità ecclesiale. a. Una lettura pastorale La lettura della Scrittura, secondo i Padri, non può limitarsi infatti all’esercizio del singolo, in quanto «mira innanzitutto all’utilità ecclesiale, alla conversione del lettore e di coloro con i quali potrà condividere i frutti della propria scoperta. È una lettura pastorale rivolta alla vita cristiana» (p. 25). b. Un’esegesi ecclesiale La Chiesa non è solo lo “scopo” della Scrittura che, come si è detto, mira proprio alla formazione della comunità cristiana, ma è anche la possibilità stessa di trasmettere e ricevere il Testo Sacro. L’esistenza stessa della Bibbia risiede nella comunità cristiana e nell’annuncio del Vangelo che la segna. Lo stesso Papa, richiamando il pensiero di san Girolamo, sottolinea che «la Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il “noi” nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire» (VD, n. 30). La fede della Chiesa ci aiuta a ricordare questa verità in quanto accosta sempre la Scrittura alla Tradizione, cioè all’atto vivo con il quale si riceve e si consegna il deposito della fede. Senza la Tradizione non avremmo ricevuto e non potremmo comprendere la Scrittura. «In definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la sacra Scrittura come Parola di Dio» (VD, n. 17). In questo la lezione conciliare è magistrale, e ad essa semplicemente rimando, invitando alla lettura del secondo capitolo della Dei Verbum (nn. 710). c. La recezione della Scrittura nella liturgia Il luogo privilegiato in cui la Parola è ricevuta, proclamata e consegnata è l’azione liturgica. È in essa, infatti, che la Scrittura è acclamata come “Parola di Dio”. La centralità della liturgia emerge inoltre da questa felice conclusione che Poffet ci offre raccogliendo tutte le caratteristiche sinora esaminate: «La pratica liturgica spiega bene la convergenza di tutti i diversi elementi individuati fino a questo momento: una Parola abita-


Dossier ta dallo Spirito, tutta orientata a Cristo, proclamata dalla Chiesa e accolta nella fede, in un contesto di preghiera e conversione, con una preoccupazione pastorale finalizzata alla crescita del popolo di Dio. Si capisce perché Ireneo abbia potuto farne in qualche modo il criterio della fede: “Il nostro pensiero, invece, è in pieno accordo con l’eucaristia e a sua volta l’eucaristia conferma il nostro pensiero”» (p. 28). Conclusione Prima di concludere con un’immagine patristica queste mie semplici riflessioni, intendo segnalare due recenti pubblicazioni che senz’altro aiuteranno chi intendesse approfondire l’argomento trattato in queste pagine: la prima è di Maria Campatelli, Leggere la Bibbia con i Padri. Per una lettura credente delle Scritture, Lipa, Roma 2009, 195 pp., 11 euro. La seconda è di Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, 401 pp., 22 euro. Quest’ultima rappresenta per l’appunto, come suggerisce lo stesso sottotitolo, un’introduzione a cui l’autore, monaco camaldolese, ha già fatto seguire altri volumi monografici per offrire alcuni esempi specifici di esegesi biblica cristiana delle origini (uno su Ippolito e Ireneo, uno su Clemente e Origene, uno su Agostino) e altri ancora ne prepara. Ne raccomando particolarmente la lettura in quanto lo scopo dell’autore, a mio giudizio ben raggiunto, è quello di far gustare il sapore dei Padri, facendo emergere così la voglia di accostarsi direttamente ai loro testi per nutrirsene. Afferma nella premessa: «Lo scopo del libro, è inutile nasconderlo, è quello di invogliare […] a leggere direttamente i testi dei Padri della Chiesa e scoprire le intenzioni di fondo che stanno alla base della loro ermeneutica biblica particolare, senza cedere troppo presto alla tentazione di metterli da parte, perché ormai datati e figli di una cultura troppo lontana che sembra non aver quasi nulla da spartire con la nostra sensibilità moderna, postmoderna o semplicemente contemporanea. […] La fede, che è la chiave ermeneutica per eccellenza della Bibbia nella mentalità dei Padri della Chiesa, rimane infatti per tutti noi, ancora oggi, la motivazione prin-

cipe del nostro interesse per un libro che contiene Scritture da noi ritenute certamente ispirate da Dio. Difficilmente infatti molti di noi avremmo dedicato tanta parte della nostra vita e delle nostre energie allo studio di questo testo, se non fossimo stati convinti che il libro della Bibbia è assolutamente “diverso” da tutti gli altri libri» (pp. 6-7). Questo nostro interesse per il libro delle Scritture, richiamato da Gargano, è ben espresso dall’immagine patristica con la quale intendo concludere. La prendo da alcune parole di Efrem, un Padre della chiesa siriaca, vissuto nel IV secolo, che la tradizione ama definire l’arpa dello Spirito per la sua abilità di annunciare la Parole con la bellezza della poesia. Egli amava paragonare la Parola di Dio ad una sorgente; e grazie a questa immagine poteva invitare i cristiani a non rattristarsi se gli sforzi compiuti per comprendere la Scrittura e il suo senso profondo ci lasciano spesso con la consapevolezza di non aver esaurito il nostro compito. Diceva, infatti, che nessuno è triste se, dopo essersi dissetato alla sorgente, si accorge di non aver esaurito l’abbondanza dell’acqua che essa dona. Anzi, la certezza di poter ritrovare ancora dell’acqua in quella sorgente è fonte di gioia. Ugualmente per ciascuno di noi sia motivo di gioia la solida certezza che la fonte inesauribile della Scrittura potrà sempre dissetare la nostra sete di Dio. E «come è importante per il nostro tempo scoprire che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo!» (VD, n. 23). L’insegnamento e la testimonianza dei Padri ci aiutino ad attingere dall’abbondanza di questa fonte e a farne tesoro per il cammino della nostra vita. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 37. Da ora in avanti citerò l’Esortazione Apostolica Postsinodale semplicemente con la sigla VD 2 Il numero delle pagine, quando non indicato diversamente, si riferisce al testo di Jean Michel Poffet, I cristiani e la Bibbia. Gli antichi e i moderni, Jaca Book, Milano 2001 3 Poffet, p. 11. Altre belle citazioni di testi patristici e liturgici sullo stesso tema sono riportate da Benedetto XVI nella Verbum Domini al n. 16

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Dossier

Il valore pedagogico e didattico delle immagini sacre nei Padri della Chiesa di Antonio Calisi *

La tendenza a giudicare la nostra come “la civiltà delle immagini” manifesta quanto sia comune la certezza che l’ingerenza della comunicazione visiva metterebbe l’uomo odierno di fronte a problemi nuovi e a temi mai prima affrontati. In verità un’analisi storica, anche frettolosa, mostra come la presenza delle immagini e il riconoscimento del loro potere abbia stimolato il pensiero sin dall’antichità, generando un dibattito fecondo e articolato. In modo specifico, le religioni monoteiste, ebraismo, * Docente di Religione cattolica – Scuola Secondaria di II Grado “Socrate” - Bari - Iconografo 52


Dossier cristianesimo e islam, hanno continuamente preso in esame l’argomento della natura dell’immagine e del suo compito nella società, concorrendo a un assetto teorico che non può essere trascurato se ci si vuole occupare della comunicazione visiva nella società di oggi. Esiste un’ambiguità di fondo nella relazione con l’arte visiva comune al pensiero di Platone e alle grandi tradizioni religiose monoteiste. Questa ambiguità è lampante nei Dialoghi platonici, che da una parte sviliscono le immagini artificiali come “ombra di ombra” e dall’altra permettono un’opposta lettura, che vuole il creatore di immagini atto a rendere visibili realtà invisibili. Affine atteggiamento si ritrova nell’ebraismo, che accanto alla proibizione del primo comandamento, «Non ti farai idolo né immagine alcuna» (Es 20, 4-6), registra l’uso di immagini anche negli spazi di culto, di cui l’esempio più conosciuto sono i cherubini che sovrastano l’arca nel tempio di Salomone. Anche l’islam, che in ugual modo pare più massimalista nella sua opposizione di raffigurare il sacro, conosce forme di arte religiosa figurativa, tanto che esistono miniature successive al XIII secolo in cui è rappresentato lo stesso Profeta. Tuttavia è nel cristianesimo che l’ambiguità dell’atteggiamento pratico e l’ambivalenza delle posizioni teoriche prendono la figura più esplicita, perché il problema della visibilità e della rappresentabilità di Dio deve in questo caso fare i conti con la novità dell’incarnazione. Il fatto stesso che Dio si sia mostrato in Gesù Cristo, diventa una causa fondante per l’immagine sacra anche quando essa affermi di rendere visibile l’invisibile, vale a dire di avere un valore rivelativo, oltre a un valore semplicemente pedagogico e didattico. Gli ultimi apologisti del III secolo, sulle stesse posizioni dei loro predecessori, si scagliano contro gli idoli insensibili alle preghiere che i devoti rivolgono loro. Lattanzio (250-320 ca.) afferma che le divinità non vengono a rinchiudersi nella materia e argomenta in questo modo: visto che gli dèi sono presenti dappertutto perché venerarli negli idoli? Arnobio (240-315 ca.) sostiene come sia ingiurioso per la divinità sperare nel suo soccorso pregando la sua immagine vana e vuota. Tuttavia in entrambi

compare l’affermazione del valore pedagogico delle immagini: sono utili per il popolo rude e ignorante, perché imponendo un certo terrore, espellono il male del mondo. La forza commemorativa dell’immagine è sottolineata da Lattanzio come un sostituto dell’assenza, una rappresentazione di chi è lontano o di colui che n o n t o r n e r à p i ù . Basilio di Cesarea (330-379) riconosce alla pittura un valore pedagogico e persuasivo, superiore all’arte oratoria. In un sermone in onore del santo martire Barlaam, afferma: «Venite in mio aiuto, voi, illustri pittori di grandi gesta. Completate con la vostra arte l’immagine imperfetta di questo condottiero. Illustrate con i colori della pittura il martire vittorioso che io ho descritto con poco splendore». Da una contemplazione più durevole della parola fugace può nascere lo stimolo all’imitazione dei martiri. In questo senso egli rileva a chiari tratti la superiorità, dal punto di vista didattico, delle immagini rispetto alla retorica. L’immagine ha la funzione di esortare spiritualmente il fedele. Gregorio di Nissa (335-395) descrive in dettaglio il ciclo della sofferenza di san Teodoro, il Cristo in forma umana raffigurato come un giudice del combattimento del martire, che egli ha contemplato in una chiesa e l’impressione che ne ha riportato: «Tutto ciò l’artista lo fa vedere con l’arte dei colori, come in un libro che avesse una lingua. Poiché il muto disegno sa parlare sui muri dove si stende e rende i più grandi servizi. Quanto a colui che ha sistemato i tasselli dei mosaici, egli ha reso degno della storia il suo che noi calpestiamo». Gregorio è anche rimasto muto davanti a una rappresentazione d’Abramo mentre si accingeva a sacrificare il figlio Isacco. La chiesa è diventata un libro dove si comprende senza parole ciò che è sui muri. Asterio di Amasea (+410) ricorda le emozioni provate davanti alle pitture che descrivono il martirio di santa Eufemia di Calcedonia. Nello stesso periodo Nilo di Ancira (Ankara), discepolo di Giovanni Crisostomo, scriveva al governatore Olimpiodoro sulla decorazione sacra e profana di un grande progetto architettonico (una chiesa). Nel suo scritto parla dell’arte come una catechesi per immagini rivolta agli illetterati, che costituivano la gran 53


Dossier parte della gente, cosicché osservando le pitture, conservino il ricordo di coloro che hanno servito Dio e saranno in tal modo incoraggiati a emulare le virtù dei servitori di Dio. Nilo è dell’avviso di restringere il tutto a soggetti biblici che servano a istruire quelli che non conoscono le Scritture. Eliminare quindi le scene di caccia o di pesca, perché esse non servirebbero allo scopo, che è quello di istruire gli ignoranti. Nell’Italia meridionale, Paolino (353-431), vescovo di Nola e grande costruttore di basiliche, è dichiaratamente a favore del ruolo pedagogico delle rappresentazioni religiose. Parlando delle decorazioni interne delle chiese, che lui stesso ha realizzato a Nola e a Fondi, descrive le belle raffigurazioni sulle porte, e le figure che sono dipinte nelle navate laterali: Giobbe, Tobia, Ester, Giuditta e nella parte centrale, i due Testamenti. La basilica diventa espressione della Gerusalemme celeste, della Domus Dei, in cui il fedele percorre un cammino spirituale illustrato attraverso le immagini e le iscrizioni, trasformando l’edificio in un «libro di pietra». Abbiamo una lettera di papa Gregorio Magno (590-604) indirizzata a Sereno, vescovo di Marsiglia, che aveva fatto distruggere nella sua città tutte le immagini. San Gregorio, se da un lato lo loda per aver impedito ai fedeli di adorare le immagini, lo rimprovera tuttavia per averli privati degli insegnamenti che esse rappresentano. Egli sostiene come l’immagine abbia una funzione pedagogica e catechetica affermando che, ‘come la scrittura’, la pittura ci conduce al ricordo. 54

Il parallelismo tra immagine e Sacra Scrittura è presente anche in Ipazio (+ 537/538), vescovo di Efeso, che intuisce quale importantissimo ruolo ha l’immagine nella diffusione dei contenuti biblici, principalmente nei confronti dei più semplici, intendendo con questo termine non solo gli illetterati, ma particolarmente i deboli di spirito che, grazie alle immagini, potevano ora essere iniziati alla penetrazione spirituale della divinità sfruttando non l’intelletto ma il senso della vista. San Germano di Costantinopoli (640-730), uno dei primi Padri della Chiesa a reagire all’eresia iconoclasta, sosteneva che rifiutare l’icona significa rifiutare il mistero dell’incarnazione.


Dossier L’icona è una professione di fede in Cristo Gesù vero Dio e vero uomo. In una lettera a Giovanni di Sinade, afferma: «In ragione di questa incrollabile fede in Cristo, noi rappresentiamo l’espressione della sua santa carne sulle icone e a queste tributiamo onore inchinandoci davanti a esse con la dovuta riverenza, perché mediante esse noi veniamo richiamati alla sua incarnazione vivificante e indicibile». Teodoro lo Studita (759-826) asserisce che le icone hanno il compito di indirizzarci verso la contemplazione spirituale: «Che cosa vi è di più utile, che cosa ci conduce più in alto dell’immagine? Essa infatti fa presagire la visione vera e propria e, per usare un paragone, è comune la luce della luna in rapporto alla luce del sole». Per Teodoro l’icona ha una funzione “anagogica” di guida verso l’alto che rinvia a una visione spirituale suprema, al Verbo fatto carne: «L’immagine dipinta è per noi una luce santa, un memoriale salutare che ci mostra Cristo nella nascita, nel battesimo, che compie miracoli, sulla croce, nel sepolcro, risorto e ascendente dal cielo. In tutto ciò noi non veniamo ingannati, come se tutto questo non fosse accaduto. La visione infatti viene in aiuto alla meditazione spirituale cosicché, mediante le due, la nostra fede nel mistero della salvezza viene rafforzata». L’immagine, secondo Teodoro, non è una concessione per i “deboli”. Essa è radicata nella natura dell’uomo, per questo la contemplazione non esclude l’immaginazione e la fantasia. La fantasia è una facoltà naturale, non c’è bisogno che essa sia messa da parte, ha bisogno soltanto di essere purificata come tutte le altre facoltà dell’anima. E la fantasia non viene certamente purificata per il fatto che non viene usata, ma facendosi determinare sempre più da contenuti puri e santi. Qui l’icona gioca in questo ruolo importante. Rivolgere frequentemente lo sguardo alle sante immagini purifica l’immaginazione così come il frequente ascolto della Parola di Dio: «Imprimi Cristo [...] nel tuo cuore, là dove egli [già] abita; sia che tu legga un libro su di lui o che tu veda in immagine, possa egli illuminare il tuo pensiero mentre tu lo conosci doppiamente sulle due vie della percezione sensibile. Così tu vedrai con gli occhi ciò che tu hai appreso mediante la parola.

L’intero essere di colui che ode e vede in questo modo sarà riempito della lode di Dio». Nella Chiesa non vi sono cristiani “semplici”, che non possono rinunciare alle icone perché ancora inclini “carnalmente” e i “perfetti”, che non hanno più necessità di questi sostegni. Teodoro rimprovera decisamente questa «stolta separazione in due gruppi disuguali», che non ha spazio nell’unico, sacerdotale e regale popolo di Dio. In opposizione a un vescovo a noi ignoto, che afferma l’utilità delle icone solo per il “popolo primitivo”, ma che dichiara di non avere necessità per sé, Teodoro scrive: «Egli sarà anche perfetto, sarà anche rivestito della dignità vescovile, pur tuttavia egli ha ancora bisogno del libro del vangelo e allo stesso modo della sua rappresentazione in immagini. Entrambi infatti sono ugualmente degni di venerazione». RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 Cfr. Lactantius, Divinarum Institutionum, II, 2 (PL 6, 258-262) 2 Cfr. Arnobius, Disputationum adversus gentes, VI, 17 (PL 1199-1210) 3 Basilius Magnus Caesareae, Homilia in Barlaam martyrem (PG 31, 488-489) 4 Gregorius Nyssenus, De S. Theodoro Martyre (PG 46, 757) 5 Cfr. Idem, De Deitate Fili et Spiritus Sancti (PG 46, 572) 6 Cfr. Idem, Homilia XII, In laudem S. Euphemiæ (PG 40, 336-337) 7 Cfr. Nilus, Epistolarum Lib. IV (PG 79, 577) 8 Cfr. Paulinus Nolanus, Epistola XXXII (PL 61, 330-343) 9 Cfr. Gregorius Magnus, Epistolarum Lib. IX (PL 77, 949) 10 Cfr. S. Gero, Hypatios of Ephesus on the Cult of Images, in Christianity, Judaism and other GrecoRoman Cults. Studies for M. Smith, a cura di J. Neusner, Leiden 1975, II, pp. 208ss 11 C. Schönborn, L’icona di Cristo. Fondamenti teologici, Cinisello Balsamo (MI), p.161 12 Epistolarum, XXXVI (PG 99, 1220) 13 Refutatio (PG 99, 456) 14 Epistolarum, XXXVI (PG 99, 1213) 15 Epistolarum, CLXXI (PG 99, 1537) 16 Ibidem 55


Dossier

Bibbia e letteratura di Giuseppe Micunco *

«Ogni sventura sopportai innocente... Agli dèi così piacque»: con queste parole, nell’Edipo a Colono (vv. 962-964), il tragediografo Sofocle (V sec. a.C.) sintetizzava la vicenda di un personaggio, Edipo appunto, che è un po’ l’icona dell’uomo, di tutti i tempi, che soffre e che in fondo non comprende perché, e che però, giusto e pio, si rimette alla volontà di Dio, a una volontà più alta, inaccessibile, ma che è comunque una volontà di giustizia e di bene. Come il biblico Giobbe, che, provato dalla sventura, e sentendosi innocente, sentenzia: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore» (Gb 1,21). Come il Servo di Jahveh, di cui Isaia profetizza: «Al Signore piacque prostrarlo con dolori... si è addossato le

iniquità di noi tutti» (Is 53, 10-11); sia Giobbe che il Servo di Jahveh sono poi stati proposti, lo sappiamo, come figura di Cristo, il giusto sofferente, l’Agnello di Dio che porta il peccato del mondo (Gv 1, 29). Sarebbe suggestivo indagare se Sofocle conoscesse Isaia (il secondo Isaia, VI sec.) o il libro di Giobbe (V sec.), magari attraverso la cultura microasiatica o egizia. Ma forse è preferibile seguire un’altra strada, quella indicata da Simone Weil in La Grecia e le intuizioni precristiane, (Borla, Roma 1999), dove individua, analizzando dei testi letterari, numerose e interessanti analogie tra la sapienza biblica e cristiana e quella greca. È, peraltro, la stessa strada seguita dai Padri della Chiesa, che nella sapienza greca, nei poeti, nei filosofi, nella letteratura in genere, hanno cercato il lògos spermatikòs, la sapienza disseminata, i ‘semi del Verbo’, la presenza di pensieri e parole, di aspirazioni e desideri profondi, di intuizioni e attese dettate dallo Spirito già prima di Cristo. Uomini di grande sapienza e di retta coscienza hanno ‘visto il giorno di Cristo’, come Gesù dice di Abramo («Abramo vide il mio giorno ed esultò», Gv 8,56). Personaggi come Sofocle, Socrate, Platone e tanti altri, non meno di Isaia e di tanti altri profeti biblici, hanno potuto vederlo alla luce di quella sapienza, di quel lògos che «era in principio» e «per mezzo del quale tutto fu fatto» (Gv 1,1.3), di quel lògos che Dio ha posto in ogni uomo all’atto della creazione, facendolo «a sua immagine» (Gen 1,27). Se tutta la creazione porta il segno della sapienza creatrice di Dio (cfr. Pr 8,22-29; Rm 1,19-20), quanto più l’uomo. Per restare a Sofocle, un altro suo personaggio, questa volta femminile, Antigone, nella tragedia omonima, afferma che bisogna obbedire alla legge divina, prima che a quella degli uo-

* Docente di Latino e Greco biblico – Istituto Superiore di Scienze Religiose ‘Odegitria’ – Bari 56


Dossier mini: una legge «non scritta», che gli dèi da sempre hanno posto nella coscienza degli uomini, quella che poi abbiamo chiamato la ‘legge naturale’, perché iscritta dal Creatore nella natura stessa dell’uomo, «che è scritta nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza», direbbe l’apostolo Paolo (Rm 2,15). «Bisogna obbedire a Dio prima ancora che agli uomini»: lo dice Antigone (Ant. 452-457) a un tiranno che pretendeva di essere lui fonte assoluta del diritto, anche contro le leggi divine; lo dice Socrate ai giudici che lo hanno condannato a morte e che sono disposti a salvarlo a condizione che rinunzi alla missione che egli sostiene essergli stata assegnata dal dio (cfr. Platone, Apologia di Socrate, 28e-29a); lo dicono Pietro e Giovanni ai capi d’Israele che volevano impedire loro di annunziare il vangelo (cfr. At 4,19 -20; 5,29). Il card. Martini dice che il colto Luca, l’autore degli Atti, «doveva probabilmente conoscere» le parole di Socrate e quelle di Antigone. E non c’è da meravigliarsene. Paolo cita addirittura esplicitamente affermazioni dalla sapienza greca, come quando, ad esempio, dice agli Ateniesi nel discorso all’Areopago: «Di Dio stirpe noi siamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto» (At 17, 28), e si riferisce al poeta filosofo Arato di Soli e ai suoi Fenomeni e al filosofo poeta Cleante di Asso e al suo Inno a Zeus, entrambi del III sec. a.C., che hanno entrambi quella espressione. Ma le citazioni per Paolo, anche non esplicite, sarebbero tante. Il rapporto Sacra Scrittura e letteratura è dunque prima di tutto un rapporto di sapienza, di quella sapienza messa da Dio nel cuore degli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi, che fa convergere tutta la storia in Cristo, nel quale

tutto viene ‘ricapitolato’ (cfr. Ef 1,10). Ma è anche, può essere anche un rapporto di conoscenza reciproca. Molte volte gli autori sacri mostrano di conoscere la letteratura profana. Molte volte gli autori profani mostrano di conoscere la letteratura biblica. Un autore come Virgilio (I sec. a.C), per fare ancora un esempio, sembrerebbe conoscere il testo di Isaia (cosa non peregrina, visto che la traduzione dell’Antico Testamento in greco, la LXX, già circolava nel mondo cosiddetto ellenistico-romano) quando nella quarta bucolica profetizza un’era nuova, una nuova età di giustizia e di pace che sarà inaugurata da un bambino e da una vergine, un’età nella quale animali feroci e domestici staranno tranquillamente insieme (cfr. Is 7, 14; 11,1ss.), una ‘profezia’ che ha fatto di Virgilio, nel Medioevo soprattutto, già a partire dall’imperatore Costantino (IV sec. d.C.), colui che ha atteso e ‘preparato’ i nuovi tempi cristiani. Se i semi del Verbo presenti in tanti autori classici greci e latini non vengono valorizzati nell’insegnamento scolastico e universitario e nella nostra cultura in genere, è solo, nella maggior parte dei casi, per ignoranza, talvolta per malafede. È un’ignoranza peraltro comprensibile, visto che la Bibbia non è oggetto di studio, e non solo nelle nostre istituzioni scolastiche... anche le nostre comunità ecclesiali, in genere, non brillano per zelo nella conoscenza della Scrittura, di tutta la Scrittura. Tutta la letteratura medievale, invece, è piena di Sacra Scrittura, a partire dai Padri della Chiesa che non hanno fatto altro se non commentare la Scrittura; ma anche la teologia, gli scritti spirituali, i canti e gli inni sono pieni di Sacra Scrittura. La stessa poesia in volgare, nel Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi (XII57


Dossier XIII sec.), nelle opere di Dante (XIII-XIV sec.), non si può comprendere a pieno senza la conoscenza della Scrittura. E per Dante, non solo per la Divina Commedia; anche in una lirica come Tanto gentile e tanto onesta pare: Beatrice altro non è che un’allegoria della Sapienza, «venuta di cielo in terra a miracol mostrare» (cfr. Sap 6,12ss.). La letteratura medievale (ma anche quella umanistica e rinascimentale) si è sempre confrontata con la Scrittura, anche quando questa non è esplicitamente citata; e non parliamo delle arti figurative, che hanno in genere per soggetto figure e fatti biblici. È dopo la riforma protestante (XVI sec.) che la Bibbia viene tolta di mano al popolo di Dio. Si ripropone allora una situazione per certi versi simile a quella dei secoli prima di Cristo: la Parola di Dio emerge qua e là nelle attese e nelle aspirazioni degli uomini, nel desiderio di giustizia e di pace, nell’amore della sapienza e del bello, nel bisogno di verità. Il “passero solitario” di un autore ‘pagano’ come Leopardi, per fare un esempio, è un’immagine della Scrittura («veglio e gemo come uccello solitario sopra un tetto», Sal 102,8), utilizzata già peraltro da Petrarca (Canzoniere, CCCLIII); alcune espressioni leopardiane, come «è funesto a chi nasce il dì natale» (dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: Canti, XXIII, 143) rimandano ancora al libro di Giobbe («perisca il giorno in cui nacqui...», Gb 3,2ss.), ma anche a Sofocle («meglio di tutto il non essere nati», Edipo a Colono,

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1224). Anche quando poeti e scrittori sono ‘lontani’ da Dio, la loro opera è in realtà, come bene dice il poeta Ungaretti, «testimonianza d’Iddio»: «Dal Petrarca in poi, e in un modo andatosi giornalmente nei secoli aggravandosi, la poesia voleva darsi altri scopi, riuscendo, quando era poesia, ad essere religiosa, anche contro ogni sua intenzione. Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è una bestemmia» (da Ragioni d’una poesia, in G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori, Milano 1970, p. LXXX). Bisogna oggi tornare a fare il lavoro dei Padri della Chiesa, a cercare i semi del Lògos presenti in tanti autori, poeti, narratori, pensatori: tante volte citano, esplicitamente o implicitamente, la Scrittura, cioè la Parola che Dio ha scritto nel cuore dell’uomo, prima e più ancora che sui fogli di un libro. Si tratta di saperla riconoscere e, per far questo, di amarla, di cercarla, come la sposa del Cantico cerca lo Sposo. In questo le nostre comunità ecclesiali, oltre e più ancora che le istituzioni scolastiche, hanno una grande responsabilità educativa. Amare e cercare la Parola di Dio negli autori del nostro tempo richiede prima di tutto che mettiamo da parte noi stessi, che mettiamo il Signore e la sua parola al primo posto, e che mettiamo l’uomo al primo posto. Richiede una grande umiltà. Elsa Morante, scrittrice ‘lontana’, diremmo, dalla fede cristiana, premette al suo fortunato romanzo sugli anni della seconda guerra mondiale, La storia (Einaudi, Torino 1974), due epigrafi, con cui vorrei chiudere queste considerazioni, una sul dolore innocente, l’altra sulla sapienza: «Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte» (un sopravvissuto di Hiroshima); «... Hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli... perché così a te piacque» (Lc 10,21).


Dossier Bibbia e Musica «Sono canti per me i tuoi insegnamenti» (Sal 119,54) di Pasquale Troìa * Provate a mettere a confronto il cielo con un oceano. Sembrano distanti, separati. Ma qualcosa di aereo, di imprendibile, di leggero, si interpone tra l’uno e l’altro permettendo al cielo di specchiarsi nel mare e forse anche al mare di avere una sua presenza in cielo (se potessimo vederlo). Immaginiamo qualcosa di simile tra la Bibbia e la musica e in particolare il canto. I musicisti hanno composto un oceano di composizioni perché il cielo della Bibbia potesse risplendere sulla terra e rispecchiasi nel mare. Alla ricerca di una relazione Ma come esprimere la loro relazione? È facile e semplicistico dire Bibbia e Musica (come potremmo anche dire Musica e Bibbia). Ma quella congiunzione “e” come può essere specificata? Proviamo a relazionarli precisando che in questa interazione Bibbia e Musica consideriamo la Bibbia un codice generativo, cioè un autorevole testo che ha generato, messo alla luce, permesso di esistere, ha fatto nascere, ha indotto a creare, ha permesso di…, cioè la Bibbia è riconosciuta una sorgente nella quale, della quale e dalla quale la musica (con i suoi canti, suoni, strumenti, musicisti, funzioni e finalità… ) ha trovato e trova di che comporsi ed ispirarsi.

1. La Musica nella Bibbia «È curioso notare che in pratica non esiste nell’ebraico biblico un vocabolo specifico per definire la musica tant’è vero che l’ebraico moderno ricorre alla trascrizione mûsîqah del nostro “musica”. I vocaboli musicali sono squisitamente sacrali e liturgici. Si comprende, allora, come l’orizzonte musicale liturgico sia vasto e quasi onnicomprensivo e come il musico o il cantore debba essere un uomo consacrato, ispirato, profetico e sacerdotale». Né la Bibbia ha una propria teoria musicale. Gli uomini della Bibbia praticano le concezioni/prassi musicali del loro tempo e del loro territorio nella misura in cui non siano idolatriche e permettano di cantare e ‘suonare’ le lodi al Signore. L’espressione “Lodate il Signore” (halelûyāh) risuona nel Salmo 150 come incipit di pentagrammi poetici e musicali in cui gli strumenti dell’orchestra del Tempio sono invitati ad esprimere con la voce del loro suono il riconoscimento di lode al Signore (JHWH’Adōnāy). 2. La Musica della Bibbia «Il canto non si limita, […] ad essere un modo di pronunciare la Tôrāh; nel canto si rivela l’anima della Scrittura; il canto interpreta la

* Docente di S. Scrittura - Istituto di Scienze Religiose “E. Caymari” della Pontificia Università Lateranense - Roma 59


Dossier Tôrāh; ne scopre ogni volta lo spirito. Nel canto vocalico il cantore-esegeta rivela lo spiritus della Tôrāh; la sua voce si trasforma in questo spiritus». Nella liturgia ebraica e cristiana il testo biblico è interpretato con il canto. Il canto e la musica cioè non sono soltanto contenitori di parole del testo biblico ma rinnovata riscoperta dell’ispirazione che oggi quel testo suscita in quel lettore-cantore-compositore e che l’assemblea rinnova e liturgicamente attualizza. La stessa Bibbia è considerata uno strumento musicale ac-cordato, una partitura sinfonica ed un concerto armonico: «Tutta la Scrittura è come uno strumento a corde: come una corda non genera armonia da sola ma con le altre, così una citazione della Scrittura è in relazione con un’altra, per cui una citazione è correlata a mille altre» (san Bonaventura da Bagnoregio) «affinché l’armonia musicale possa risultare non solo dalla vibrazione delle corde, ma anche dalla loro risonanza» (Ugo di san Vittore); «i due Testamenti che compongono l’unica Scrittura, fanno con la loro concordia un unico concerto» (Henri de Lubac). 3. La Musica (e il canto ispirato) dalla Bibbia Qui la relazione Bibbia vs Musica è precisata non tanto dalla provenienza generativa della Musica dalla Bibbia ma soprattutto dalla qualità di questa provenienza. Quella Musica che si relaziona con la Bibbia ne assume anche la sua qualità imprescindibile: il cantore e il musicista sono ispirati nel cantare e nel comporre musicalmente parole-vocesuoni. Sono ispirati non come l’agiografo, ma in proporzione e in analogia alla ispirazione dell’agiografo nel suo tempo di redazione del testo biblico. E se il musicista non è credente? La Bibbia come ogni testo letterario gli riserva una 60

potenzialità ispirativa e generativa di creatività. Potenzialità ispirativa che nel musicista credente si rinnova e si effonde nella sua esperienza di fede e di fedeltà alla Parola di Dio di cui il testo biblico è ‘incarnazione’ e la liturgia memoria salvifica. Bach, ma anche musicisti come Haydn, termina spesso di scrivere le sue note con la ‘sigla’ «S (oli) D(eo) G(loria)». Al di là del ‘mistero’ ispirativo che Dio riserva ad ogni suo ‘lettore’, credente e non credente, perché solo Lui conosce il cuore degli uomini. Certo, se per il musicista credente la Bibbia è il testo della Parola di Dio ispirante la sua musica, per il non credente la Bibbia è un pretesto letterario, culturale, vocale, strumentale, iconografico… riconosciuto (verbo di fede culturale!) il migliore (per diversi motivi non ultimo quelli esistenziali e personali) per poter comporsi con il suo canto e la sua composizione e permettergli di comunicare con gli uomini secondo un suo progetto di vita culturale e sociale. Una Bibbia senza canto e senza musica? Cassiodoro insegnava che quando Dio vuole prendere le sue distanze dagli uomini e privarli della Sua presenza, li priva dell’ispirazione musicale e della musica stessa. La riflessione di Cassiodoro si può documentare e constatare


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ogni qual volta nella storia della salvezza il popolo di Dio si disarmonizza, si scompone ed infrange la sua relazione di fedeltà con Dio come quando una partitura musicale di una sinfonia non è interpretata secondo il suo compositore, ma secondo l’arbitrio, l’improfessionalità, l’infedeltà esecutiva di un direttore e degli esecutori (strumentisti e cantanti). Ecco come la Bibbia descrive musicalmente questa disalleanza, dis-accordo ed infedeltà con Dio: «È cessata la gioia dei timpani […] / è cessata la gioia della cetra. / Non si beve più il vino tra i canti» (Is 24,8-9). «I giovani hanno disertato i loro strumenti a corda. / La gioia si è spenta nei nostri cuori, / si è mutata in lutto la nostra danza» (Lam 5,14-15); «Farò cessare lo strepito delle tue canzoni / e non si udrà più il suono delle tue cetre» (Ez 26,13); «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, / abbiamo cantato un lamento / e non vi siete battuti il petto! » (Mt 11,17). «La voce dei suonatori di cetra dei musicisti il flauto di chi canta e la tromba non si udrà più in te […] la voce dello sposo e della sposa non si udrà più in te» (Ap 18,22.23). Impariamo a cantare la Bibbia Queste parole sono un monito per come cantare durante la liturgia, per come proclamiamo la

parola di Dio nella liturgia della Parola e come preghiamo la stessa Parola di Dio e la interpretiamo e attualizziamo nell’omelia: spesso il tutto è tra il monòtono e il monotòno, tra un alleluia che sembra una lamentazione e non un giubilo di lode, tra una dilatazione calante e quasi ‘varicosa’ che non giustifica il testo e non lo rende comprensibile e un’accidia per abbreviarlo ed estinguerlo nella nostra lentezza. Un’esperienza particolare di dare voce al testo biblico è quella dei catechisti e dei docenti di Religione: la voce e la sua gestione comunicativa in tutte le funzioni del suo lignaggio condizionerà l’ascolto e la stessa comprensione. Per cui prima di ‘leggere’ un testo biblico bisogna imparare a leggerlo, a studiarlo, a pregarlo, a farsene un cielo sotto il quale abitare ed un oceano in cui cominciare ad imparare a nuotare. Per non vivere una vita ‘s-tonata’ e in disaccordo con Dio e con gli uomini. Ma anche per fare della nostra vita un canto personale e corale: «Intonerò canti soavi e intesserò inni perché la mia persona anela a Te».

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1 G. Ravasi, “Cantate con arte”. Il teologico e il musicale nella Bibbia, in P. Troìa (ed.), La Musica e la Bibbia. Atti del Convegno Internazionale di Studi promosso da Biblia e dall’Accademia Musicale Chigiana (Siena 24-26 agosto 1990), Garamond, Roma 1992, p. 94 2 M. Cacciari, Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985, p. 159

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Bibbia e professione medica di Nicola Stufano *

«Ama la verità; mostrati qual sei, e senza infingimenti, e senza paure e senza riguardi. E se la verità ti costa la persecuzione, e tu accettala; e se il tormento, e tu sopportalo. E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita, e tu sii forte nel sacrificio». Era questo l’insegnamento di un uomo di tempi non troppo lontani, san Giuseppe Moscati, medico, in una lettera ad un collega più giovane, scritta nel 1922. È una figura molto nota, a noi vicina, canonizzato nel 1987 da Giovanni Paolo II. Ed è interessante constatare come questo santo sia entrato molto rapidamente nella devozione popolare, lui, primario ospedaliero e professore universitario, e quindi immediatamente percepito come uomo di scienza e di grande levatura cultu* Medico di base 62

rale e sociale, ma al contempo capace di grande umanità e vicinanza al mondo della sofferenza e del dolore. È un po’ il quid della professione del medico, di un cristiano che faccia il medico e di un medico che si professi e testimoni il suo essere cristiano. Uomo di scienza, che tratta sul piano scientifico, con il giusto e necessario rigore dell’osservazione, della sperimentazione, della valutazione del risultato, ma uomo che è necessariamente vicino al mondo del malato, e quindi di un altro essere umano che vive la sofferenza, la difficoltà, l’incertezza del futuro, che chiede di essere ascoltato. «Ama la verità e mostrarti qual sei», è un invito che non è specifico alla professione di un medico, ma dovrebbe essere un proponimento in chiunque, qualsiasi professione eserciti, nella convinzione che la ricerca della verità e, soprattutto, l’amore per la verità è un valore imprescindibile per tutti coloro che operano nel campo delle scienze e delle relazioni fra gli uomini, con la consapevolezza che intraprendere la strada della ricerca della verità non è mai un percorso indolore, ma una via che costa sacrificio e quasi sempre persecuzione, laddove si ledono degli interessi di altri o laddove si devono forzare delle sensibilità assopite. L’esercizio della professione di medico è riconosciuta ed apprezzata da sempre e dappertutto. Già dal IV secolo a.C. ci è tramandato il giuramento di Ippocrate che, nelle linee generali, definisce compiutamente i cardini dell’etica medica: « ... Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un


Dossier tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte ... In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario … Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell’esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili». La Bibbia, nel libro del Siracide, si esprime diffusamente sulla figura del medico, ed esordisce: «Onora il medico come si deve secondo il bisogno, anch’egli è stato creato dal Signore. Dall’Altissimo viene la guarigione, anche dal re egli riceve doni. La scienza del medico lo fa procedere a testa alta, egli è ammirato anche tra i grandi» (Sir 38,1-3). L’ammirazione per la professione del medico non è mai venuta meno, in qualsiasi tempo ed in qualsiasi civiltà e, nonostante tutta l’attualità circa i presunti o reali casi di malasanità, regge ancora alla nostra epoca, tempo in cui i valori vacillano e al loro posto sembra regnare l’incertezza e la relatività; e si percepisce in modo evidente anche tra i giovani, ne è prova l’alto numero di ragazzi che ogni anno sostiene i test per l’ammissione alla Facoltà di Medicina, laddove la professione del medico è vista senz’altro come una prospettiva di tranquillità economica, ma comunque come un lavoro degno ed onorevole per il quale vale la pena affrontare uno studio intenso e più duraturo degli altri. Il Siracide ci insegna che «dall’Altissimo viene la guarigione», e sembra quasi togliere al medico parte del merito del suo lavoro che pure apprezza, ma riporta le cose alla loro sostanza: «Figlio, non avvilirti nella malattia, ma prega il

Signore ed egli ti guarirà» (Sir 38,9). La pratica della medicina, ove portata avanti con onestà, non può non riconoscere che nella guarigione dalla malattia vi è una componente che sfugge spesso alle normali attese, e che mai è possibile considerare il malato come un puro organismo, nel quale le diagnosi, le terapie e le prognosi si realizzano come una operazione matematica, e cioè con una totale certezza dei percorsi e dei risultati finali. In medicina si possono prevedere risultati tutt’al più con alto margine di probabilità, e quasi mai con certezza assoluta. Quante volte il medico è richiesto di certezze, e quante volte è costretto a rispondere solo in

termini di probabilità! Il professionista credente non ha difficoltà ad affidare alle mani di Dio le incertezze e i limiti del suo operato, il non credente li valuterà in termini di mera casualità. Ma lo stesso Siracide mette in guardia da un rapporto con la salute e la medicina che sia disattento e senza fiducia, nei confronti di coloro che vivono all’insegna del “se deve succedere, succeda”, invitando a riconoscere alla scienza il suo giusto valore, nell’ordine delle cose create e volute dal Signore: «Il Signore ha creato medicamenti dalla terra, l’uomo assennato non li disprezza… Dio ha dato agli uomini la scienza perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie. Con esse il medico cura ed elimina 63


Dossier il dolore e il farmacista prepara le miscele. Non verranno meno le sue opere! Da lui proviene il benessere sulla terra». (Sir 38,4-8) È, questo, un richiamo a chiunque ad un corretto rapporto con la propria salute, ad un rispetto del proprio corpo e della sua fisiologia, a non pretendere dalla medicina traguardi che questa non può garantire, a non pretendere l’eterna giovinezza con tecniche che si propongano di sfidare i normali processi di invecchiamento, e non mi riferisco solo all’estetica. L’invito è a saper valorizzare i progressi della scienza nell’ambito di un’etica che non ceda il posto ad una pretesa onnipotenza. La forte tentazione del nostro tempo è quella di perseguire tutto ciò che è tecnicamente realizzabile (mi riferisco in particolare agli studi di manipolazione genetica) e presentarlo come una conquista del progresso, prescindendo da una visione globale dell’uomo, come dotato non solo di un corpo che risponde a leggi biologiche, ma di una capacità razionale, di una cultura, di una sensibilità, di una affettività, di una

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vita di relazione. L’altro elemento imprescindibile è il confronto con la vecchiaia e con la morte: la cultura moderna tende a nascondere l’una, relegandola agli angoli più remoti delle nostre case e delle nostre città, e a negare l’altra, dimenticando che tutti ci passeremo, o al massimo a considerare malaugurio ogni riferimento alla morte. La medicina, per quanto possa progredire, per quanto possa contribuire con il miglioramento delle condizioni di salute ad allungare l’aspettativa di vita, che ad oggi in Italia (uno dei paesi più longevi del mondo) ha raggiunto settantanove anni per gli uomini e ottantaquattro anni per le donne, non può comunque evitare di accettare quello che aspetta ognuno di noi, e cioè il processo di invecchiamento e di corruzione del nostro corpo nella età anziana, e di imparare a guardare all’idea della morte senza voltare la testa da un’altra parte, con la convinzione, cristiana, che quaggiù siamo di passaggio in un cammino che non si esaurisce e non finisce con la fine della vita terrena.


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Vivere la Bibbia in famiglia di Gigi Di Nardi e Marina Dabbicco *

Scriveva Paul Claudel: «I cattolici mostrano grande rispetto per la Bibbia e questo rispetto lo attestano standone il più lontano possibile». Infatti, dobbiamo ammettere che per molto tempo non vi è stata una grande confidenza con la sacra Scrittura. La sua lettura da parte dei fedeli è stata riscoperta e promossa a partire dalle indicazioni del concilio Vaticano II (DV 22.26), ed ancora ai nostri giorni non sono rare le iniziative “una Bibbia in ogni famiglia” per colmare un vuoto nelle case di molti cattolici. Ma, da quando i cattolici sono stati invitati a leggere la Bibbia, in larga parte non sono stati più interessati a farlo, anche a causa del forte processo di scristianizzazione che ha interessato la nostra società negli ultimi decenni. Il Papa ha rivolto ai giovani riunitisi a Madrid per la Giornata mondiale della Gioventù un forte richiamo: «Rimanete radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede» (cfr. Col 2,7). L’essere radicati nella fede non può prescindere dal rapporto diretto con la sacra Scrittura, e questo forte richiamo costituisce anche il punto di forza di ogni famiglia che vuole vivere in modo ordinario ed efficace la propria esperienza

di fede nella Chiesa. Radicarsi nel Signore significa che come alberi dobbiamo piantare le radici della nostra vita nella Parola di Dio. Infatti, «non basta possedere la Bibbia, bisogna anche leggerla; non basta leggerla, bisogna anche comprenderla e meditarla; non basta comprenderla e meditarla, bisogna anche viverla» (G. Ravasi). Il nostro essere laici cattolici, che hanno costituito famiglie confidando nel particolare dono che lo Spirito Santo elargisce nel sacramento del matrimonio, purtroppo non ci mette automaticamente al riparo dalle sfide e dalle tentazioni che ogni famiglia vive nella nostra società. I beati sposi Beltrame Quattrocchi hanno vissuto una vita ordinaria in modo straordinario. Tra le gioie e le preoccupazioni di una famiglia normale, hanno saputo realizzare un’esistenza straordinariamente ricca di spiritualità.

* Genitori 65


Dossier ...e proprio per questo sono stati riconosciuti dalla Chiesa “beati”. Le difficoltà di ogni giorno sono dunque la normalità, ma proprio attraverso l’ordinarietà della vita quotidiana si può raggiungere la santità. Normale è l’uragano di impegni e domande a cui siamo sottoposti per cercare di coltivare l’armonia coniugale e familiare ed insegnarla ai figli, per assolvere al compito di genitori e per partecipare alla vita lavorativa che ci chiede anche un impegno sociale. È normale lo stress, il parlare sopra le righe, il rincorrere una coerenza di vita nonostante il risolino dei colleghi, il comunicare vano, il fingere di non capirsi, l’essere considerati un po’ fuori da ogni realtà. Il Signore entra proprio in questa vita, la nostra, fatta così e non pretende ciò che è oltre la nostra portata. Questa è la consolazione che ci spinge ad essere ottimisti, a rafforzarci nella fiducia in Dio, a cercare insistentemente delle modalità, anche piccolissime, che possano manifestare l’amore e la misericordia che Dio ha per noi e che possano essere il veicolo perché l’amore “venga messo in circolo”. Fondata e radicata nella Parola di Dio la pianta germoglia e si manifesta con foglie verdi e sane e con buoni frutti. Nelle nostre famiglie cosa mostriamo? L’accoglienza materiale e spirituale è sempre stata l’affascinante modello delle famiglie cattoliche (pensiamo a Jacques e Raissa Maritain), e resta, al di là delle modalità specifiche di ognuno, una sicura strada da percorrere per testimoniare con la vita nelle nostre famiglie e nella società l’amore verso Dio ed il prossimo. La sacra Scrittura è la nostra guida proponendoci esempi di accoglienza, il più delle volte semplicissimi, 66

che possono fare delle nostre famiglie, luoghi in cui la presenza di Dio si fa visibile. Pensiamo alle donne che si affannano nella casa di Abramo per impastare e cuocere il pane, lo stesso Abramo che corre a procurarsi la carne per accogliere i pellegrini. E poi Elia e la vedova, Marta e Maria. L’ospitalità aiuta gli uomini a vivere meglio nel mondo e l’ospitalità che la Bibbia ci propone serve a predisporci all’accoglienza della Parola di Dio, attraverso l’attenzione che poniamo al cuore delle persone che ospitiamo. Serve ad una comprensione del significato profondo della vita, serve ad andare all’essenza della nostra fede, serve a svelare l’intimità del nostro cuore, anche dinanzi ai nostri figli, che avranno la possibilità di cogliere cosa motiva realmente i propri genitori nelle loro scelte e nel loro progetto educativo. Serve a riordinare la nostra casa, riposizionando gli impegni della vita quotidiana secondo una gerarchia ed un linguaggio che non vengono dalla “testimonianza” dei mass media o dal conformismo borghese, ma vedono al primo posto il rendimento di lode al Signore che ci ha creati. Ci piace concludere questa breve riflessione con le parole che il cardinale Tettamanzi ha rivolto alla famiglie: «Sappiate cercare nella parola di Dio la risposta ai tanti interrogativi che la vita di ogni giorno vi pone. San Paolo ci ha ricordato che “tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia” (2 Tm 3,16). Sorretti dalla forza di questa parola, potrete insieme insistere con i figli “in ogni occasione opportuna e non opportuna”, ammonendoli ed esortandoli “con ogni magnanimità e dottrina” (2 Tm 4,2)».


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Bibbia e giovani di Armando Matteo *

La monumentale e preziosa indagine sul rapporto tra il mondo giovanile e l’universo della spiritualità e della religione, realizzata dall’Osservatorio Socio-Religioso del Triveneto e pubblicata in volume con il titolo C’è campo, si è pure interrogata sul legame tra i giovani e la Sacra Scrittura. Riferisce analiticamente i dati Monica Chilese, nel settimo capitolo del volume, tutto dedicato alle pratiche religiose delle nuove generazioni e posto sotto il titolo Tra obbligo e personalizzazione, mentre fornisce una lettura sintetica e prospettica degli stessi dati il curatore dell’intera indagine, il professor Alessandro Castegnaro, nelle pagine conclusive del testo. Le parole di Castegnaro sono di una tale chiarezza che meritano di essere ascoltate e meditate assai attentamente: «C’è bisogno che si sviluppino rapporti di fiducia negli “uomini che fanno la Chiesa”, come li chiamano i giovani intervistati, anche per un’altra ragione: senza di ciò non si recupererà un rapporto di fiducia nemmeno con l’Evangelo. Una cosa che colpisce, anche se può sembrare ovvia, è che il testo sacro non venga mai indicato da chi sta sul crinale dell’incertezza come una possibile via. Si parla di Chiesa, di Religione, di regole, non di Vangelo. O il Testo è assente, o viene esposto alle pressioni incrociate del dubbio, bana-

lizzato come se fosse un testo qualsiasi. Se c’è qualcosa che dovrebbe far meditare tutti coloro che sono impegnati nell’educazione cristiana è che predicazione, catechesi, iniziazione cristiana, insegnamento della Religione cattolica, non riescano a comunicare l’idea che esso sia un testo qualitativamente diverso da un libro come tanti altri. Ciò che ha dato vita a culture e ne ha influenzate altre, che ha generato santi e martiri, ciò in cui generazioni su generazioni, per millenni, hanno creduto, oggi rischia di essere maliziosamente scrutato come frutto di banali invenzioni o, peggio, di premeditate falsificazioni. Manca l’idea che, quand’anche in certi suoi aspetti lo si ritenesse “leggenda”, esso è sapienza dell’umano e comprensione del divino. Manca perciò la curiosità di riscoprirlo, la volontà di comprenderlo, il desiderio di studiarlo» (corsivo mio). Dobbiamo quindi prendere atto che per la maggior parte dei nostri giovani, come nel caso di tutto ciò che riguarda l’universo della religione cristiana, anche quello con la Bibbia è un rapporto difficile: non si tratta di un rapporto di pregiudiziale chiusura o di contrasto ideologico. Piuttosto essi fanno fatica a coglierne la differenza rispetto ad altri testi del passato e non riescono immediatamente a collegarlo con il lavoro di crescita che sperimentano nella loro

* Docente di Teologia Fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana - Roma 67


Dossier vita. Non sanno cioè a cosa serve e perché lo si dovrebbe eventualmente mettere al centro della propria ricerca di istruzioni per l’esistenza. In questa difficoltà, essi – a mio avviso – riflettono sulla loro pelle il cammino piuttosto lento, a volte tiepido, che le nostre comunità ecclesiali hanno fatto nel recepire le grandi intuizioni e riscoperte del Concilio Vaticano II, tra le quali spicca certamente il recupero della Sacra Scrittura come anima della vita ordinaria di un battezzato. Se, infatti, allarghiamo per un momento la nostra considerazione sulla relazione di conoscenza e di pratica di lettura della Bibbia all’intera popolazione italiana, che come è noto si definisce cattolica all’ottantotto per cento, non troveremo purtroppo un quadro più confortante. È molto spesso di tipo tradizionale -identitario, più che di fede vissuta, il legame del nostro Paese con la fede cristiana. Ce lo conferma proprio il rapporto con la Bibbia. All’incirca tre anni fa, ed esattamente qualche mese prima dell’apertura del Sinodo sulla Parola di Dio, svoltosi nell’ottobre del 2008, è stata realizzata un’indagine circa la conoscenza diffusa della Sacra Scrittura in tutto il mondo (ora nel volume Fenomeno Bibbia, a cura del vescovo Vincenzo Paglia). Dall’indagine risulta che gli italiani che conoscono gli elementi essenziali della Bibbia sono appena il trenta per cento della popolazione, mentre solo un italiano su tre dichiara di aver letto un brano biblico negli ultimi dodici mesi. Gli italiani, poi, che pur possiedono quasi tutti una Bibbia in casa, normalmente entrano in contatto con essa solo durante la partecipazione ai riti religiosi (che ovviamente riguarda con regolarità solo un terzo di loro) e la gran parte di loro non la usa quasi mai per la preghiera personale. In questo senso il cammino intravisto dal Concilio è davvero davanti a noi. D’altro canto, nell’esortazione postsinodale Verbum Domini, Benedetto XVI più volte ha richiamato l’urgenza che i credenti – e proprio i credenti delle regioni di antica evangelizzazione – acquisiscano maggiore familiarità con il testo sacro. E sembra che questa sia una consi68

derazione condivisa da molti, se è vero, come la stessa indagine fin qui citata ci rivela, che una percentuale altissima di intervistati si dichiara favorevole all’inserimento di un insegnamento biblico all’interno dei programmi scolastici obbligatori, indipendentemente dall’ora di Religione cattolica. Emerge, in questo dato, la consapevolezza di un debito verso le generazioni più giovani: la Bibbia, infatti, contiene una grammatica essenziale dell’umano, capace di indirizzarlo al suo pieno compimento e di tenerlo saggiamente lontano da tutto ciò che contribuisce a sminuirne la dignità e la bellezza. Questa grammatica, custodita nelle pagine bibliche, deve oggi venire rimessa maggiormente in circolo. Ed è un compito che non può essere demandato solo alla scuola: investe, in verità, ogni adulto credente seriamente interessato all’avvenire delle generazioni future. Non a caso il cardinale Carlo Maria Martini conclude il suo bellissimo testo, quasi un testamento, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, con un brano che merita di essere attentamente interiorizzato da ogni adulto: «Consegna ai tuoi figli un mondo che non sia rovinato. Fa’ sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggila insieme a loro. Abbi profonda fiducia nei giovani, essi risolveranno i problemi. Non dimenticare di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta più di ogni altra cosa».


Dossier

Quando racconto la Bibbia ai bambini di Laura Masellis *

Dopo aver letto articoli riguardanti la narrazione della Bibbia e i metodi d’insegnamento, ho capito che il mio contributo deve essere essenziale, semplice, diretto, senza citare le teorie che pure sostengono il lavoro dell’insegnante

che narra la Bibbia e la utilizza per la cultura, ma non dimentica che è parola di Dio. La mia esperienza è semplice come i bambini… Mi pongo questa domanda dal mio primo giorno di scuola come insegnante di Religione: “Come avrei voluto fosse la mia maestra?” e la risposta è subito chiara: sorridente, così da non aver timore, dolce, ma decisa, che mi aiutasse a capire il mondo e la vita, quelle che i grandi chiamano discipline, come fossero un racconto. Perciò quando entro in classe non dimentico di essere stata una bambina, ma quando mi siedo accanto a loro per raccontare la Bibbia, non dimentico di essere un’adulta che si lascia prendere la mano, ma deve condurre alla più bella lezione che la vita ci offre: la Bibbia. Quello che più mi tormentava nei primi anni d’insegnamento, era la consapevolezza che il

* Docente di Religione cattolica – XII C.D. “R. Bonghi” - Bari S. Spirito 69


Dossier nostro tempo è il tempo della comunicazione. Siamo letteralmente bombardati da immagini, suoni, messaggi… tutti hanno qualcosa da dire, da scrivere, ma pochi ascoltano l’altro. Tutto cerca di carpire la nostra attenzione, interesse, tutto scorre veloce, i nostri pensieri, parole, emozioni e persino i nostri sentimenti. E loro? I nostri bambini, figli di questo tempo, come catturarli dal frastuono nel quale vivono? Ho imparato con loro a lasciare dietro la porta chiusa, un mondo fatto di orari da seguire, prove da somministrare, disegni da colorare… la porta si chiude e siamo solo noi, in cerchio piccoli e grandi e al centro la Bibbia. …E se come i bambini sanno è Parola di Dio, Dio parla sottovoce e se vuoi ascoltarlo devi fare silenzio… Così il racconto a viva voce fatto nel silenzio, diventa un momento essenziale della lezione, diventa in realtà narrazione di tutta la Scrittura. Gli alunni a questo punto, seduti in cerchio, disposti all’ascolto cercano nei tuoi movimenti e sguardi le prime parole che vengono quasi sussurrate con «in principio», così inizia questa storia. Non è una poesia, non è qualcosa di magico, ma stanno solo cercando di capire la

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loro storia, da dove ha inizio. Le immagini si susseguono dinanzi ai loro occhi, mentre racconti, puoi aiutarli a meglio sviluppare la loro fantasia, lasciandoli immaginare di essere lì in quel preciso momento, potranno così entrare nella storia, ma non una storia lontana e insignificante per l’uomo e il bambino di oggi, ma la loro storia, potranno facilmente entrare a far parte di quel mondo. I personaggi lo aiutano a capire la storia di Abramo, l’uomo della fede, Mosè, l’uomo della promessa, Giobbe, l’uomo della prova e tutto è riconducibile a chi racconta e al piccolo che per la prima volta ascolta. L’ascolto diventa un ascolto attivo, che permette al bambino di essere protagonista della storia, come se il testo si andasse componendo sotto i suoi occhi curiosi e attenti. In fondo quella storia riguarda proprio lui. È parte della cultura ed ora comincia a leggerne i segni ed i significati aggiungendone dei nuovi, i suoi. Pochi spiegano ai bambini che la storia della Bibbia non racconta qualcosa di antico, vecchio, ormai inutile, di un altro tempo, ma la storia di un uomo che cerca Dio, lo tradisce, soffre, ama, vive, si interroga, fa del bene e del male, esattamente come noi. Siamo noi l’Abra-


Dossier disegno sarà solo libero o facoltativo, come il racconto degli stessi alunni, o la drammatizzazione. L’insegnante non può sottrarsi all’impegno di narrare e deve prepararsi leggendo, documentandosi, tenendosi pronto alle richieste, alle domande che il narrare promo di oggi a cui Dio chiede di fidarsi e mettersi in cammino. Dopo il racconto e la spiegazione gradatamente si lascia spazio alla drammatizzazione, che è un altro modo di raccontare, che utilizza un canale diverso dall’uditivo, il cinestetico. Così il nostro fortunato Francesco diventerà Abramo, e Nicole Sara, protagonisti e attori, troveremo spazio per tutti con un po’ di fantasia e sembrerà di giocare, ma giocare per i bambini è una cosa seria. Non dimenticheranno questa esperienza per tutta la vita, così potranno entrare nella storia della Bibbia e farla diventare per un po’ la loro storia. Mentre racconti o narri a viva voce poi, utilizzi una potente risorsa, che è la relazione affettiva che si crea, dove la modulazione reciproca che passa attraverso il momento non verbale dal narratore all’ascoltatore, è un movimento circolare che richiede un feed-back, che è apertura agli altri, rispetto, impegno, sacrificio. Talvolta i bambini ti chiedono di ricominciare a raccontare, non bisogna stancarsi, ricordare in questa fase tutti i canali dell’apprendimento (visivo, uditivo, cinestesico) aiuterà tutti e ognuno a facilitare l’apprendimento, perciò il

vocherà. In fondo i bambini sono cambiati tanto, perché noi adulti li abbiamo cambiati. Loro vorrebbero ascoltare i racconti biblici se ancora qualcuno fosse disposto a lasciare tutto fuori la porta e farsi un piccolo spazio fra di loro. Loro vorrebbero ancora vedere quel Gesù loro amico che li ascolta, li aiuta, li guarisce, li ama. Loro nella loro semplicità e pazienza con noi adulti cercano quel Gesù che la mia cultura mi ha trasmesso a viva voce dai nonni prima e dai genitori poi. La Bibbia portata in classe, ogni giorno, dall’insegnante di Religione, per loro che vedono aprirla, leggerla, studiarla, diventa un libro affascinante, desiderato, instancabile. Spesso la cercano in casa e talvolta la chiedono ai loro genitori come dono, nasce in loro il desiderio di cominciare a leggerla. Non ho mai avuto la pretesa di insegnare tutto ai miei alunni, ma ho sempre cercato di far nascere in loro la curiosità sul fatto religioso. Ognuno poi leggerà, studierà, sceglierà la sua strada, consapevolmente. Sono certa che la conoscenza della Bibbia li renderà liberi.

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L’angolo della spiritualità a cura di don Valentino Campanella

La parola di Dio è vivente (Eb 4, 12) Non solo Dio parla attraverso la bellezza silenziosa dei suoi cieli, ma soprattutto dove tu attendi il silenzio. Per Heidegger tu sei la sentinella della silenziosa quiete del transitare di Dio. Come Elia sul monte Oreb fu trafitto nel cuore dalla voce della brezza silenziosa, così oggi Dio ti parla nel silenzio di una Parola sussurrata al cuore. Tu, mendicante del cielo, non aver paura di abitare il silenzio perché lì troverai tutte le parole, quelle forti del dolore e quelle fragili dei sorrisi. Non aver paura di farti abitare dal Silenzio, perché solo allora la Parola sarà feconda. Memoria delle coordinate invisibili della tua vita, la Parola è la porta del Silenzio di Dio. Nell’esodo travagliato della fede, Tu sei parola d’amore non solo pronunziata ma scritta nella mia carne. «Allora Tu sarai 72

l’ultima parola, l’unica che rimane e non si dimentica mai. Allora, quando nella morte tutto tacerà e io avrò finito di imparare e di soffrire, comincerà il grande silenzio, entro il quale risuonerai Tu solo, Verbo di eternità in eternità. Allora saranno ammutolite tutte le parole umane; essere e sapere, conoscere e sperimentare saranno divenuti la stessa cosa. Conoscerò come sono conosciuto, intuirò quanto Tu mi avrai già detto da sempre: Te stesso. Nessuna parola umana e nessun concetto starà tra me e Te. Tu stesso sarai l’unica parola di giubilo dell’amore e della vita, che ricolma tutti gli spazi dell’anima» (K. Rahner, Tu sei il silenzio, Queriniana, Brescia 1986). Tu ed io, silenzio e parola.


Sullo scaffale a cura di Anna Asimi L. Perla, Didattica dell’implicito. Ciò che l’insegnante non sa (Collana Ricerca Didattica), La Scuola, Brescia 2010, € 17,00 Un percorso in quattro tappe in cui ogni sequenza, ogni frase, ogni parola è pesata ed ha un peso specifico (si guardi la ricca bibliografia di settore che si insinua nelle trame del testo: ben cinquecentoquarantaquattro riferimenti) e sapientemente si combinano a intrecciare un testo complesso e al contempo elegante, raffinato, intelligente. «Caro Signor Germain, ho aspettato che si spegnesse il baccano che mi ha circondato in tutti questi giorni, prima di venire a parlarle con tutto il mio cuore. Mi hanno fatto un onore davvero troppo grande, che non ho né cercato né sollecitato. Ma quando mi è giunta la notizia, il mio primo pensiero, dopo che per mia madre, è stato per lei. Senza di lei, senza quella mano affettuosa che lei tese a quel bambino povero che io ero, senza il suo insegnamento e il suo esempio, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo. Non sopravvaluto questo gesto di onore. Ma è almeno un’occasione per dirle che cosa lei è stato, e continua a essere, per me, e per assicurarle che i suoi sforzi, il suo lavoro e la sua generosità che lei ci metteva sono sempre vivi in uno dei suoi scolaretti che, nonostante l’età, non ha cessato di essere il suo riconoscente allievo. L’abbraccio con tutte le mie forze, Albert Camus». Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la letteratura. A testimonianza che l’incontro con un insegnante lascia traccia, sempre, buono o cattivo, significativo o deludente che sia stato il rapporto con lui. L’insegnante (in signum) è colui che fa entrare nel segno, fa penetrare la realtà, che è segno e rimanda ad altro e ad un oltre. Ma il suo modo di essere, di stare, di agire nella classe donde scaturiscono? Sì, certo, la sua azione attinge al sapere teorico, quello imparato sui banchi di scuola, nelle aule dell’università, ai corsi di aggiornamento o durante master e lungo percorsi di specializzazione; l’insegnante e il suo insegnamento, però, si caratte-

rizzano anche per l’implicito. Implicito: ciò che è contenuto in un altro, nascosto, oscuro, sottinteso, allusivo, incarnato, insinuato, inteso, tacito, inespresso, segreto. Implicito che si estrinseca – a fianco e più della conoscenza della disciplina – nella pratica quotidiana d’insegnamento. Va precisato che l’implicito pratico, soggettooggetto di studio dell’Autrice, non è l’inconscio profondo di matrice psicoanalitica, ma è «quella dimensione nascosta, ineffabile, oscura della pratica di insegnamento di cui il docente sa poco o perché non la conosce o perché non vuole rivelarla, a volte neanche a se stesso – ma che tuttavia innerva la pratica reale dall’interno ed è suscettibile di presa di coscienza, di consapevolizzazione, di “dicibilità”». E all’implicito pone attenzione particolare la Nuova Ricerca Didattica, che indaga le pratiche di insegnamento e si interroga sulle fonti di queste, le formali e – con maggiore interesse – le informali, l’implicito appunto. Le ragioni sono diverse, come quelle che muovono la ricerca della Perla. La convinzione, anzitutto, che nell’agire dell’insegnante ci sia qualcosa che sfugge allo stesso insegnante, «c’è più di quanto sappia e possa governare, un universo di affetti, tensioni, assunti di senso comune, credenze, epistemologie ingenue, ragionamenti abduttivi fortemente connessi con l’immagine di sé e con l’esistenza sociale che rendono la pratica insegnativa qualcosa di molto diverso da un progetto ingegneristico». Poi, il desiderio di esplorare gli studi più recenti sugli impliciti dell’insegnamento. Infine, quella che a me pare la “fissazione” attuale della Studiosa, cioè il recupero del magister, del modello di insegnante-maestro «custode di quel rapporto fra Scuola, valori e verità che fa coltivare la scelta magistrale come un sentire profondamente innervato di passione e saggezza educativa». E veniamo al testo. Nella prima parte l’Autrice analizza le ricerche che hanno messo in luce aspetti delle dimensioni implicite dell’insegnamento, dopo aver presentato in modo certosino le parole-chiave della ricerca - implicito, pratica, sapere del pratico – e averne motivato la scelta.

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Sullo scaffale

a cura di Anna Asimi

Come si ricerca l’implicito della pratica, come si dà voce a qualcosa che si esplica con difficoltà? È scontato che gli strumenti della ricerca analitica siano inadeguati per un oggetto di studio che non si lascia afferrare con facilità. La Studiosa offre un impianto metodologico adatto alla peculiarità del territorio da sondare e attento alla “centralità” della “variabile-maestro” «offrendo un ventaglio dei possibili modi per “dar voce” agli impliciti del sapere pratico». Infine, vengono presentate delle indagini condotte con insegnanti di scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado in Puglia nel triennio 2006-2009 e con specializzandi SSIS di Bari per la formazione all’insegnamento secondario nell’Anno Accademico 2007-2008. Ma che senso ha illuminare ed esplicitare l’implicito delle pratiche di insegnamento? «Può avere un senso solo se le risultanze delle indagini contribuiranno, sia pur minimamente, a far leggere sempre meglio all’insegnante il suo lavoro d’aula, ad alimentare la soggettività professionale nei modi qualificanti che solo l’esercizio della ricerca consente…, a far riflettere su quanto può essere modificato per rendere l’esperienza dello stare a scuola sempre più umana e umanante». A.Caputo (a cura di), Anche noi senza la domenica non vogliamo vivere! Un’introduzione al mistero di Cristo con e per soggetti diversamente abili. Catechesi liturgico-mistagogiche sul Vangelo della Domenica (anno B), Edizioni CVS, Roma 2010, pp. 207, € 15,00 «Caro Lettore, anche solo sfogliando le pagine, ti sarai reso conto di come i protagonisti di questo libro […] siano persone che ‘normalmente’ non vengono ritenute capaci di pensare e scrivere, tanto meno di scrivere un libro importante. Questo ci è sembrato già un buon motivo per consigliartene la lettura, ovvero il desiderio di contribuire ad eliminare i pregiudizi che ancora circolano intorno all’handicap mentale. Leggi… e ti renderai conto di come ‘davvero’ l’Autrice del libro non sia io (Annalisa)[…]. Gli Autori sono loro. E vedrai quanto sia affascinante entrare nel ‘loro’ mondo e imparare da 74

loro.[…] Nel testo troverai il resoconto delle catechesi che un gruppo di giovani (e meno giovani) del CVS ha fatto sui Vangeli della domenica[…]. E questo ci sembra un secondo motivo per cui consigliare la lettura di questo libro: è un modo del tutto originale e affascinante per ‘entrare nel mistero di Gesù’: attraverso gli occhi dei ‘semplici’, attraverso i loro disegni, le loro parole, i loro canti, i loro gesti, i loro sguardi. In questo senso, è un libro che consigliamo a chiunque, anche a chi non si interessa di dinamiche ecclesiastiche né tanto meno di formazione di soggetti disabili. È un testo che consigliamo a chi, nella Chiesa, non rimuove la domanda sul limite, sulla sofferenza, sulla fragilità, ma la pone al centro del proprio essere cristiano. […] Inutile dire che sarà un testo che troveranno particolarmente interessante quanti si occupano della formazione e dell’inserimento […] dei soggetti diversamenteabili. […] Annalisa C. ». Per dare un saggio dello scrigno che abbiamo tra le mani… Cari Alfredo, Anna, Fabio, Francesca, Franco, Giancarlo, Gianni, Giuseppe L., Giuseppe P., Mario, Marisa, Minguccio, Mino, Raffaella, Rosalba, Rosanna, Saverio, Sebastiano, cara Annalisa, grazie! Grazie, per averci aperto la porta, introdotti e accompagnati nel vostro cammino nel mistero attraverso l’anno liturgico. Grazie, perché ci avete mostrato, in parole e opere, il vostro mondo interiore. Grazie, perché ci avete aperto gli occhi della mente e del cuore sulla realtà della “persona”. Grazie, perché ci avete insegnato lo stile della relazione: l’accompagnamento, che è disponibilità all’ascolto soprattutto; la fiducia, che vuol dire credere nella persona; la considerazione, che significa trattare con dignità la persona; la riconoscenza, che equivale a valorizzare gli elementi di forza e le capacità della persona. Grazie, perché ci avete insegnato che ogni persona può essere protagonista in ogni comunità se ha la possibilità di partecipare alla vita quotidiana, sociale, culturale, ricreativa; di esprimere emozioni; di apprendere; di scegliere; di sperimentare nuove situazioni; di sentirsi utile. Grazie, perché ci avete donato un testo che educa chi educa. Grazie.


Giunti in redazione T. De Mauro e D. Ianes (a cura di), Giorni di scuola. Pagine di diario di chi crede ancora, Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 140, € 15,00 La casa editrice Erickson, «che da trent’anni ha fiducia negli insegnanti, nella loro intelligenza e nel loro impegno», li ha cercati e ha dato loro voce per comporre queste pagine di un «diario immaginario» in cui compaiono esperienze, sogni, paure, soddisfazione, competenza, passione. I.Colozzi (a cura di), Scuola e capitale sociale. Un’indagine nelle scuole secondarie di secondo grado della Provincia di Trento, Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 245, € 18,00 Il testo, destinato a tutti gli educatori della scuola, presenta una ricerca, condotta in alcune scuole secondarie di Trento, che ruota attorno al capitale sociale: cos’è, come influisce sul rendimento scolastico, quanto è presente in una stessa classe, in che misura la scuola contribuisce a farlo aumentare nelle famiglie. A.Pellai e B. Tamborini, Perché non ci sei più? Accompagnare i bambini nell’esperienza del lutto (Collana Storie del Fantabosco), LIBRO+DVD, Rai ERIErickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 132, € 16,50 Il volume e l’episodio della Melevisione “La sposa di Grifo” sono un utile strumento offerto a genitori ed educatori per affiancare un bambino che affronta la morte di una persona cara. Il libro è diviso in quattro parti: la prima è teorica ed è incentrata sulla reazione al lutto dei bambini; la seconda e la terza propongono giochi, attività, filastrocche, libri per affrontare il tema in famiglia e a scuola; la quarta offre esperienze di gestione del lutto nella scuola primaria.

a cura di Anna Asimi

G. Stella e E. Savelli, Dislessia oggi. Prospettive di diagnosi e intervento in Italia dopo la Legge 170 (Collana I Mattoncini), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 93, € 10,00 I disturbi specifici di apprendimento (DSA) sono un fenomeno complesso, poco conosciuto e ancor meno riconosciuto. La Legge 170/2010 “obbliga” a trattare questi disturbi, in ambito scolastico e sanitario, in modo appropriato. Il testo offre una definizione di DSA e in particolare di dislessia evolutiva, ne analizza il corso evolutivo, esamina lo stato attuale della ricerca, illustra le pratiche cliniche ed educative, tocca la dislessia negli adulti e infine dà uno sguardo alle prospettive future. G. Frattini, S. Melica e C. Salvetti, Movimento, sport ed espressività corporea. Percorsi per affrontare il disagio giovanile (Collana Le Guide Erickson), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 210, € 19,50 Mancanza di fiducia, rifiuto di sé e del proprio corpo, bullismo, aggressività, demotivazione: tutte espressioni del disagio giovanile. Le Autrici affrontano i diversi problemi presentando lo studio di casi specifici. Di ogni caso abbiamo la descrizione, l’inquadramento teorico, la presentazione dell’attività con cui è stato praticamente affrontato, l’analisi dell’attività svolta. C. Gemma, Scrittura e memoria. La parola allo studente (Collana Egoscritture), Erickson, Gardolo (TN) 2011, pp. 244, € 22,00 L’incontro con un insegnante è sempre gravido di conseguenze; “scrivere dei propri insegnanti” consente di rivivere quell’incontro e di incamminarsi in un tempo ormai lontano o ancora vicino all’oggi, di ripercorrere vittorie e sconfitte, di guardare l’esperienza scola-

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Giunti in redazione

a cura di Anna Asimi

stica sotto un’altra luce. Il libro presenta una ricerca condotta dall’Autrice con studenti SSIS e di Scienze della Formazione Primaria negli anni accademici 2006-2009 sulla scrittura da parte degli stessi della propria esperienza scolastica. Il viaggio nella memoria degli studenti ha portato alla composizione di microscritturebiografiche, che vengono offerte al lettore assieme alla lettura delle stesse. A.Calisi, Monachesimo ed iconoclastia. La partecipazione dei monaci al concilio di Nicea II (787), Nicholaus, Bari 2011, pp. 96, € 16,00 Il volume presenta il testo della Dissertatio ad Doctoratum dell’Autore. La ricerca indaga il ruolo svolto dal monachesimo nella storia dell’iconoclastia e nel concilio di Nicea II. Due le parti di cui si compone: la prima presenta gli atti sinodali e si sofferma sugli interventi dei monaci presenti al concilio; la seconda delinea gli avvenimenti postconciliari che portarono alla seconda ondata iconoclasta. BIBLIA, La gestualità e la Bibbia (a cura di P. Stefani), Morcelliana, Brescia 1999, pp. 142, € 12,91 Il libro presenta gli Atti del Convegno «La gestualità e la Bibbia», tenutosi a Parma nel 1996. Il tema è posto sotto la lente d’ingrandimento di diverse discipline: l’esegesi dell’Antico e del Nuovo Testamento (P. De Benedetti, D. Garrone, G. Biguzzi), l’antropologia (A. Destro e M. Pesce), la liturgia (E. Kopciowski, C. Biscontin), la danza (E. Bartolini) e l’iconografia (G. Schianchi). BIBLIA, Eros e Bibbia (a cura di P. Capelli), Morcelliana, Brescia 2003, pp. 182, € 16,00 Il volume presenta gli Atti del Convegno nazionale di Biblia «Mi baci con i baci di sua boc76

ca»: amore e sessualità nella Bibbia, svoltosi a Mantova nel 2001. Un viaggio nella sessualità che parte dal Vicino Oriente antico, si sofferma sui testi biblici in cui è presente la dimensione umana della sessualità – quelli che la considerano e celebrano quale dono divino e quelli che ne «stigmatizzano trasgressioni» e presentano «atti sessuali considerati disdicevoli» – , attraversa la tradizione ebraica e l’ebraismo dell’epoca ellenistica e romana, continua nel Nuovo Testamento e nel primo cristianesimo, prosegue nel Medioevo e approda all’oggi. «Nella speranza che, nonostante le grandi tradizioni occidentali siano state e spesso siano ancora così ostili, tutti e ciascuno possiamo arrivare – o rimanere, o ritornare – all’integrazione… tra virtualità del sesso e realtà della vita, e perché sessualità e amore non siano percepiti né vissuti come gli estremi di un diametro, bensì come i due poli di una stessa pila». BIBLIA – WWF, Gli animali e la Bibbia. I nostri minori fratelli (a cura di P. Stefani), (Collana Il Grande Codice, 2), Garamond, Roma 1994, pp. 134, € 10,00 Il libro raccoglie gli interventi pronunciati durante il Convegno nazionale di Biblia, in collaborazione con il WWF, «I nostri minori fratelli: gli animali e la Bibbia», tenutosi a Spoleto nel 1993. Un commento ebraico recita: «Quando il Santo, benedetto Egli sia, creò il primo uomo lo condusse davanti a tutti gli alberi del giardino dell’Eden e gli disse: “Guarda come sono piacevoli ed eccelse le mie opere, tutto ciò che ho creato l’ho creato per te. Stai bene attento a non guastare niente, a non trovarti a distruggere il mio mondo. Perché se avrai creato un guasto nessuno verrà dopo di te ad accomodare (il danno)“». Per una visione biblica il mondo resta di Dio…, sulle spalle dell’uomo però la gravosa responsabilità di non mandarlo in pezzi.


Gregorio di Nazianzo Discorsi teologici. Orazione 28, 6-9 [Testo tratto da Gregorio Nazianzeno, I cinque discorsi teologici (Traduzione introduzione e note a cura di Claudio Moreschini), Collana di testi patristici 58, Città Nuova Editrice, Roma 1986, pp.62-67] a cura di Anna Asimi

Che esista Dio ed esista la causa creatrice e conservatrice di tutte le cose, ce lo insegnano gli occhi e la legge di natura: gli occhi si accostano alle cose che si vedono e che sono perfettamente stabili e procedono in bell’ordine e si muovono e vanno, senza muovere, per dir così, la loro regolarità; la legge di natura, invece, deduce dall’ordine di tutto quello che vediamo l’esistenza di una causa di esso. Come, infatti, avrebbe potuto cominciare o sussistere tutto questo universo, se Dio non avesse dato la sostanza al tutto e non lo conservasse? […] Balza ai nostri occhi il principio creatore dell’universo, il principio che muove e conserva quello che ha creato, anche se non riusciamo a comprenderlo con il pensiero. […] E ciò nonostante Dio non è nemmeno questo essere che noi ci immaginiamo e ci raffiguriamo per mezzo del nostro ragionamento. E anche se mai riuscissimo a immaginare que-

sta sostanza, in un modo o nell’altro, come si potrebbe poi mostrarla? Chi potrebbe giungere, in questo modo, all’estremo culmine della sapienza? Chi è mai stato considerato degno di un dono siffatto? Chi ha mai «aperto» in tal modo «la bocca» del suo pensiero e «ha tratto lo spirito» per poter comprendere Dio per mezzo dello spirito «che scruta e conosce tutte le cose, anche le profondità di Dio»? Così non avrebbe più bisogno di procedere oltre, perché ormai possederebbe il culmine di quello che si può desiderare, l’oggetto al quale tende tutto il comportamento e tutto il pensiero dell’uomo sublime. Che cosa mai, infatti, tu penserai che sia l’essere divino, se è vero che tu hai fiducia in tutte le risorse del tuo pensiero? o a che cosa ti farà salire il discorso, quando verrà messo alla prova, tu che sei il più bravo nella filosofia e nella teologia e ti vanti senza alcun limite? Pensi forse che sia un corpo? E allora come può essere la sostanza infinita, illimitata, priva di forma, intangibile e invisibile? Oppure anche queste proprietà sono corporee? È una bella pretesa la tua! Ché la natura posseduta dai corpi non si risolve in queste qualità? Che modo grossolano di ragionare! Così Dio non avrebbe niente di più di quello che abbiamo noi. Come può, infatti, essere adorato, se è circoscritto? O come potrà evitare la conseguenza di essere composto di elementi e di decomporsi in quegli elementi che lo costituiscano o di dissolversi totalmente? Ché la composizione è l’inizio del contrasto e il contrasto l’inizio della separazione; questa, a sua volta, lo è del dissolvimento, e il 77


dissolvimento è qualcosa di totalmente estraneo a Dio e alla prima sostanza. Dunque, non c’è separazione, in Dio, perché non ci sia dissolvimento; e non c’è contrasto, perché non ci sia separazione; e non c’è composizione, perché non ci sia contrasto; pertanto non c’è nemmeno il corpo, perché non ci sia composizione. Il nostro ragionamento risale dalle ultime conclusioni per ritornare ai postulati, e a questo punto si ferma. […] E se noi diremo che Dio è immateriale, allora potrebbe essere il quinto elemento, come è parso ad alcuni, che si muove di un movimento circolare; ebbene, sia pure qualcosa di immateriale, sia il quinto elemento e incorporeo, secondo l’arbitrario moto del loro ragionamento, secondo le loro invenzioni […]. Ma in che direzione andrà questo elemento, se lo consideriamo tra gli elementi che si muovono e si spostano? Per non parlare della violenza che deve subire il creatore, se si muoverà allo stesso modo delle cose da lui create, e colui che muove si muoverà allo stesso modo delle cose che sono mosse (ammesso che ce lo concedano). Ma, a sua volta, che cosa darà il movimento a questo essere in movimento? E quale sarà l’essere che muove tutto l’universo? E quell’essere, chi lo muove? E ancora quell’altro, allo stesso modo? Si va col ragionamento all’infinito. Dunque, come può Dio non essere affatto nel luogo, se si muove? E se i nostri avversari diranno che Dio è qualcos’altro, e non il quinto elemento, se pensano che sia di natura angelica, come è possibile che anche gli angeli siano dei corpi? E di che natura sarebbero questi corpi? E Dio quanto dovrebbe essere superiore all’angelo, se è vero che l’angelo è suo servo! E se Dio è superiore a questi esseri, ecco che si fa strada a viva forza un assurdo sciame di corpi e un abisso di stoltezza, che non può trovare un termine da nessuna parte. Dunque, Dio non è un corpo. Nessuno degli uomini ispirati da Dio, infatti, ha mai detto e approvato questa affermazione, né questo discorso appartiene alla nostra «dimora». Non rimane altro che supporre che Dio sia incorporeo. Ma, nemmeno se è incorporeo, questa peculiarità ci fa comprendere o contiene la sua sostanza, così come non lo contengono neppu78

re i concetti di «ingenerato» e di «privo di inizio» e di «immutabile» e di «incorruttibile» e di tutti quelli che vengono espressi a proposito di Dio o in relazione a Dio. Che cosa deve essere, infatti, sia nella sua natura sia nella sua esistenza, perché non abbia inizio e perché non esca da se stesso e non riceva un limite? Non rimane altro, dunque, che afferrare l’essere nella sua totalità, e filosofare ed esaminare partendo da questo punto, se, almeno, abbiamo «il pensiero di Dio» e siamo perfetti nella contemplazione. Come non è sufficiente, infatti, dire che qualcosa è un corpo o che è stato generato, se vogliamo far comprendere o manifestare che quell’essere di cui stiamo parlando è fatto in questa o in quella maniera, ma si deve dire anche quale sia il sostrato di tutte queste caratterizzazioni, se vogliamo presentare all’ascoltatore in modo completo e sufficiente il concetto che abbiamo nella mente (perché questo essere corporeo e generato e soggetto a corruzione può essere anche un uomo o un bue o un cavallo) – allo stesso modo, nemmeno a proposito di Dio colui che si affanna per conoscere la natura di «colui che è» non può limitarsi a dire che cosa non è, ma deve, oltre ad affermare che cosa non è, aggiungere anche quello che è, tanto più che è più facile comprendere una cosa nel suo complesso piuttosto che escludere tutte le varie determinazioni ad una ad una. In questo modo, dalla negazione di quello che non è e dall’affermazione di quello che è, si p o t r à comprendere quello che viene pensato.


In quarta di copertina

Michelangelo Buonarroti (Caprese, Arezzo, 1475 – Roma, 1564)

“Mosè” (1513-1515 circa) di Grazia Ricciardi «L’incomparabile bellezza di Roma» riusciva a ritemprare lo spirito del padre della psicanalisi: Sigmund Freud, in uno dei suoi viaggi nella città eterna, quasi ogni giorno e per diverse ore si recava nella chiesa di San Pietro in Vincoli per contemplare il gigante di pietra, che incuteva una «calma solenne, quasi oppressiva». Alla fine era come se la statua parlasse con lui, raccontandosi. Nel 1914, sulla rivista Imago, esce il saggio Il Mosè di Michelangelo in cui egli espone finalmente le sue considerazioni, ricche di sorprendenti intuizioni, su una delle meraviglie artistiche più famose e ammirate del mondo. Qui Freud non è interessato alla psicobiografia del Buonarroti, né all’analisi della storia e della personalità del patriarca ma è teso solo a spiegare le suggestioni che la statua gli suscita. Nel marzo 1505 Michelangelo accolse con entusiasmo l’invito di papa Giulio II della Rovere a erigere un grandioso monumento funebre, e ideò in breve tempo un imponente complesso di architettura e scultura per celebrare il trionfo della Chiesa più ancora del pontefice regnante. Il progetto fu presto accantonato perché Giulio II era preso dai piani del Bramante per la nuova basilica di San Pietro in Vaticano, in cui avrebbe dovuto trovare collocazione la monumentale opera. Nel 1513, dopo la morte di Giulio II, Michelangelo firmò il secondo contratto per la tomba del pontefice e scolpì, nello spazio di tre anni, lo Schiavo ribelle, lo Schiavo morente (Parigi, Louvre) e il Mosè che esprimeva, con tormentosa energia, ideali di grandezza morale. Ma neppure

questo progetto fu realizzato, e solo nel 1545 l’ultima versione del monumento, pallido riflesso del grandioso sogno giovanile dell’artista, in gran parte affidata all’esecuzione di aiuti, poté essere collocato in San Pietro in Vincoli, concludendo la dolorosa vicenda che lo stesso Michelangelo definì la «tragedia della sepoltura». Il tema della statua deriva dall’episodio biblico di Es. 32: Mosè, ricevute le Tavole della Legge sul monte Sinai, giunge al suo accampamento e si accorge che gli Israeliti sono tornati all’idolatria pagana. Le rappresentazioni più comuni di Mosè lo dipingono adirato, con le Tavole innalzate sopra la sua testa, pronto a romperle scagliandole per terra. Freud vede Mosè nell’atto della rinuncia a dar corso alla sua rabbia: la ragione ha il sopravvento sul suo furore, il patriarca, già pronto a scattare, si controlla, resta seduto, desistendo dall’atto violento. Un’immagine che non corrisponde al condottiero della tradizione biblica, uomo iracondo e soggetto alle passioni: il Mosè di Michelangelo di Freud è capace di controllare la sua collera, che pure è presente nello sguardo, nell’impeto del balzo trattenuto, nella torsione improvvisa della testa. Egli non rompe le tavole, ma le trattiene e le salva in extremis. La gigantesca struttura di marmo, con la sua tremenda forza fisica, diventa per Freud un’espressione concreta del più alto risultato che un uomo possa conseguire con la mente e cioè «condurre con successo la lotta contro le passioni interiori per il bene della causa a cui egli si è dedicato».

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