Libri Profetici

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FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO - CATANIA -

Chiar.mo Prof. ATTILIO GANGEMI

ESEGESI AT: LIBRI PROFETICI

_______ APPUNTI DELLE LEZIONI

_______

Ezio Coco

Anno Accademico 2004 / 2005


Esegesi AT: Libri Profetici - Prof. ATTILIO GANGEMI – A.A. 2004 / 2005 – Coco Ezio

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Triennio Teologico – 2° anno – primo semestre – Gesù Redentore dell’uomo

Programma del Corso di Studi in ESEGESI AT: LIBRI PROFETICI1 1. Il profetismo in Israele; 2. I profeti preclassici (Elia, Eliseo); 3. I profeti del secolo VIII (Amos, Osea, Michea, Isaia); 4. I profeti preesilici (Geremia); 5. I profeti del tempo dell’esilio (Ezechiele, Deutero Isaia); 6. I profeti post esilici (terzo Isaia, Aggeo, Zaccaria, Malachia); 7. Esegesi: Is 7,1-17; Is 9,1-6; Is 11,1-10; Is 2,2-4; Ger 31,15-20.31-34; Ez 36,22-28; Ez 37,1-14.

Testi: ¾ W. EICHRODT, Der Heilige in Israel (Jesaia 1-12), Calwer, Stuttgar 1960; ¾ W. EICHRODT, Der Herr der Geschichte (Jesaia 13-23/28-39), Calwer, Stuttgar 1967; ¾ W. RUDOLPH, Jeremia, Mohr Tübingen 19683; ¾ W. ZIMMERLI, Ezechiel, 2 V., Neukirchener, Neukitchen – Vluyn 1969; ¾ Dispense del professore. prof. ATTILIO GANGEMI

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STUDIO TEOLOGICO SAN PAOLO, Annuario 2004-2005, Tipolitografia Anfuso, Catania giugno 2004, 62. PS: Per visualizzare e stampare correttamente questo documento nelle parti di testo in greco bisogna installare necessariamente un font che si trova nel CD di Bibleworks 4.0 ed è il seguente: “X:\BWORKS\BWGRKN.TTF”, e per le parti di testo in ebraico o aramaico il file “X:\BWORKS\BWHEBB.TTF” (dimensione carattere 18), dove per “X” si intende il nome della periferica del lettore CD.


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Nome del profeta2

AMOS

OSEA

Epoca approssimativa del ministero

760 a.C.

Sovrani contemporanei di: Babilonia Persia

Collocazione Biblica

Giuda

Israele

Ozia (Azaria)

Geroboamo II

2Re 14,23 2Re 15,7

Geroboamo II Zaccaria Sallum Menachem Pekachia Pekach Osea

2Re 14,23 2Re 18,37

760-722 a.C.

2Re 15,3220,21 2Cr 27,132,33 Is 7,1-8,22 Ger 26,17-19 2Re 15,120,21 2Cr 26,132,33 2Re 22,123,30 2Cr 34,136,1 Sof 2,13-15 2Re 22,123,34 2Cr 34,136,4

MICHEA

742-687 a.C.

Ioatam Acaz Ezechia

ISAIA (1-39)

740-700 a.C.

Ozia (Azaria) Ioatam Acaz Ezechia

NAUM

Tra il 664 e il 612 a.C.

Giosia

SOFONIA

Ca. 640 a.C. e oltre

Giosia

GEREMIA

626-587 a.C.

Giosia Ioacaz Ioiakim Ieconia Sedecia

ABACUC

Ca. 605 a.C.

Ioiakim

EZECHIELE

593-570 a.C.

Nabucodonosor

ABDIA

Ca. 587 a.C. e oltre?

Nabucodonosor

2

4

2Re 22,122,30 2Cr 34,136,21 2Re 23,3124,7 2Re 24,825,26 2Cr 36,9-21 2Re 25 2Cr 26,11-21

Questa tabella inserita nel testo non è stata fornita dal docente, ma è stata tratta da un libro di testo ad uso didattico per fornire all’allievo indicazioni storiche generali sui profeti.


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DEUTEROISAIA (40-55)

TRITOISAIA (56-66)

Seconda metà sec. VI a.C. (esilio) 538-520 a.C. e oltre 520 a.C.

AGGEO ZACCARIA MALACHIA GIOELE GIONA DANIELE

Ca. 520 a.C. e oltre Ca. 433 a.C. Sec. V IV a.C.? Sec. V IV a.C.? Sec. II a.C.

5

Ciro

Zorobabele

Dario

Esd 5,1-6,22

Zorobabele

Dario e oltre

Esd 5,1-6,22

Artaserse I

Ne 13

1-2 Mac

PREMESSA Questi appunti sono il risultato delle lezioni tenute dal professore Attilio Gangemi presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania nell’anno accademico 2004/2005. Per onestà intellettuale e per volere dello stesso professore non sarà corretto fare ulteriori copie senza il permesso del docente sopra citato, e il presente elaborato è ad uso esclusivo della classe. Per facilitare lo studio sono state riportate a piè di pagina le varie citazioni bibliche. Durante lo studio ci si potrà imbattere in errori di grammatica o di sintassi causati da errori di battitura del sottoscritto. Buono studio e buona preghiera.


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Martedì 05 ottobre 2004, ore 08,30 / 10,15

TELAIO STORICO Distinguiamo nella storia biblica tre grandi parti che si possono definire: 1. preistoria 2. storia non documentabile 3. storia documentabile La preistoria è quella parte che va dalla creazione fino alla vocazione di Abramo, questa parte è delineata nei primi undici capitoli del libro della Genesi, questi capitoli sono storici, ma dal punto di vista della storia del Dio Salvatore. I racconti stessi, poi, hanno notevoli problemi di linguaggio, ma qui non tocca a me entrare. Per storia non documentabile intendiamo quella parte di cui l’unica fonte è il racconto biblico. Non abbiamo infatti nessun riscontro nelle letterature antiche extrabibliche, qualche notizia che ci permette di confrontare il racconto biblico viene dalla archeologia, ma anche qui non si hanno molte indicazioni. Questa parte non documentabile nel racconto biblico va dalla vocazione di Abramo (Gen 12) fino alla monarchia davidica, questa parte che si estende dal cap 12 della Genesi per tutto il pentateuco e i libri di Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, si può dividere in tre grandi parti:

1 – l’epoca dei patriarchi; 2 – l’evento dell’esodo in tre punti: a) l’uscita dall’Egitto; b) l’epoca del deserto; c) la conquista della terra di Canaan; 3 – l’epoca tribale.


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Anche per questa parte si pongono problemi di linguaggio, in particolare dominano le tradizioni popolari che molte volte ci danno una storia distante dai fatti reali. La storia documentabile, invece, è quella che va dall’epoca davidica fino al NT. Questa parte, che si estende per più di un millennio a noi interessa perché in essa fiorisce l’esperienza profetica, d’altra parte quest’ultima è strettamente legata alla storia ed è assai difficile comprendere il messaggio profetico senza avere presente la storia in cui esso si colloca. La chiamiamo documentabile perché i racconti biblici possono essere confermati sia dalle letterature extrabibliche, in particolare assira, babilonese, persiana, maccabaica infine quella romana. Per l’esperienza profetica interessa soprattutto la storia dalla morte di Salomone fino all’epoca post-esilica3, si aggiunge anche che la storia di questo periodo riferita dai libri dei Re e delle Cronache è una storia che si basa sugli annali (o resoconti) di corte e perciò nei libri dei Re confluiscono gli annali della corte di Samaria e della corte di Gerusalemme. Gli episodi anche se talora un po’ gonfiati in larga parte sono attendibili. Saul rappresenta una fase intermedia tra l’ordinamento tribale e l’ordinamento monarchico, Saul radunò le dodici tribù di Israele, ma soprattutto per motivi militari e Saul più che un Re sarebbe un capo militare. Il vero passaggio alla monarchia si ha con Davide, ma anche il regno davidico fu caratterizzato da numerose campagne militari, sottomise i popoli vicini e rafforzò all’interno il regno delle dodici tribù. Per sette anni Davide regno in Ebron, poi espugnò la roccaforte dei Gerusei chiamata Salin e fondò Gerusalemme che divenne capitale. Salomone eredita così un regno forte all’interno e in pace all’esterno. Nonostante l’alone mitologico con cui Salomone ci è stato tramandato, pare che sia stato politicamente un re inetto e anche crudele, tuttavia con Salomone si verifica un fatto fondamentale per la storia bi-

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dell’esilio babilonese.


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blica, cioè la costituzione di una corte sfarzosa di stampo orientale dove sono curate l’arte letteraria, l’arte poetica, la storiografia ed è probabilmente, all’epoca di Salomone, che molte tradizioni orali ricevettero una prima formulazione scritta. Stando ai nostri calcoli Salomone muore tra il 932-931, alla sua morte, come ci informa il cap 12 del primo libro dei Re, salì al trono il figlio Roboam della dinastia davidica. Le tribù del nord si presentarono a Roboam a Sichem e gli dissero di allentare il giogo di suo padre Salomone ed esse lo avrebbero servito, da ciò deduciamo che il regno di Salomone dovette essere duro. Roboam prima si consultò con gli anziani che gli suggerivano di allentare, poi si suggerì con i giovani che gli suggerivano una mano più pesante, Roboam seguì questi ultimi e rispose che se suo padre aveva colpito con flagelli, lui avrebbe colpito con scorpioni. In seguito a questa risposta le tribù del nord unite a quelle del sud con Saul, Davide e Salomone, decisero di separarsi costituendosi in regno autonomo, si ebbero così due regni nelle dodici tribù di Israele, il Regno del Nord e il Regno del Sud. Nel regno del Nord fu fatto Re un certo capo militare di nome Geroboamo, i due anni non si lottarono, si ignorarono pur parlando la stessa lingua e adorando lo stesso Dio. Salomone aveva costruito il tempio a Gerusalemme e aveva distrutto tutti i santuari tribali centralizzando il culto solo a Gerusalemme. Abbiamo allora il seguente quadro: - Regno del Nord: vanta il numero più alto di tribù, nove tribù o nove e mezzo, perché la tribù di Beniamino pur politicamente legata al Sud, affettivamente era legata al Nord; - Il Regno del Sud si riduceva praticamente alla sola tribù di Giuda, quantitativamente, quindi, il Sud era più piccolo, esso però vantava delle cose importanti per capire Isaia: o Giuda era ritenuta la tribù che Dio aveva scelto; o Gerusalemme era la città che Dio ha scelto “dove far dimorare il Suo Nome”; o Il tempio che Dio aveva voluto; o La monarchia davidica.


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Tutte queste cose il Regno del nord non le aveva. Per quanto riguarda il tempio si ripristinò l’antico santuario di Betel (importante per capire Amos). Solo in seguito in epoca post-esilica fu costruito sul monte Karizim il tempio dei samaritani. Al Nord mancava anche la città capitale; circa ottanta anni dopo un re, un certo Omri, spianò la collina di Shomeron e costruì la città capitale: Samaria. Il regno del sud, forte degli elementi sopraindicati, considerò sempre scismatico il regno del nord, perché separandosi fece una cosa contraria al disegno di Dio, che secondo il sud voleva un solo regno (concetto ripreso da Ezechiele) sotto l’unica dinastia davidica, attorno all’unica città capitale Gerusalemme dove c’era il tempio. Tutto questo il sud lo disse predicendo una storia che noi in maniera convenzionale chiamiamo storia Jahwista, perché Dio è chiamato Jahwé. Questa storia non fa altro se non raccogliere e ordinare le tradizioni anteriori che circolavano spesso isolate e in forma orale. Non è perciò una storia critica in senso nostro, ma è una storia teologica, cioè una storia che vuol fare una teologia della storia: una storia guidata dal disegno di Dio, e questo disegno andava dall’uscita dall’Egitto fino al tempio di Gerusalemme costruito da Salomone. La prospettiva Jahwista della teologia della storia sarà l’anima di tutto il ministero profetico di Isaia. Il regno del nord non accettò facilmente questa critica, era però con le spalle scoperte ed aveva bisogno di legittimarsi risalendo ad un capostipite e dandosi un ordinamento di vita. Nel regno del nord erano fiorite tutte le tradizioni riguardanti i patriarchi, e se il sud si richiamava a Davide, il regno del nord si ricollegò agli antichi patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe. Nel regno del nord si fece allora una storia analoga a quella Jahwista del sud, che si chiama storia Elohista perché Dio è chiamato Elohim. Questa storia, analogamente al sud, fu redatta raccogliendo e ordinando le tradizioni dei patriarchi, a differenza però della storia Jahwista che fa una teologia della storia, la storia Elohista è piuttosto di indole profetica-moraleggiante individuando nei patriarchi delle regole di


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vita e dei modelli di comportamento. Nell’anno 745 un certo Tiglat Pileser III fonda l’impero neoassiro. La storia assira sarà importante per capire i profeti del secolo VIII (Amos, Osea, Isaia). L’impero assiro cominciò ad estendersi in occidente, in tutta la cosiddetta: “mezzaluna fertile”, cioè quella fascia di terra sopra il deserto arabico che dalla Mesopotamia alla Palestina ha appunto la forma di una mezzaluna. Questa fascia è fertile per la presenza di acqua. Illumineremo, a proposito di Isaia, in maniera più particolare le vicende assire che interessano i due regni, diciamo soltanto ora che alla morte di Tiglat Pileser III salì al trono il figlio Salmanassar V, il quale nel 722 assediò Samaria. Samaria era costruita su una collina e perciò ricca di difese naturali, l’assedio infatti durò circa due anni. Nel 720 il figlio di Salmanassar V, Saragon II, succeduto al padre morto in una imboscata, distrusse Samaria. La città fu incendiata e si ebbe l’esilio assiro, gli annali assiri parlano di 27000 e più deportati, ma forse il numero è esagerato. Con la caduta di Samaria finisce il regno del nord che diventa provincia assira. L’esilio in Assiria, tanto minacciato da Amos e previsto da Osea, suscitò domande: perché il Signore ha permesso questa cattastrofe? A questa domanda cercarono di rispondere un gruppo di uomini pii, di cui ignoriamo il loro nome, ma che in maniera convenzionale chiamiamo deuteronomisti ai quali si deve il nucleo centrale del deuteronomio. Questi uomini, forse poco letterati, ma di profonda fede, ebbero presenti quattro punti: 1234-

il popolo ha peccato; Dio ha punito; ma se si torna al Signore ed ai suoi comandamenti… si può sperare che nella Sua misericordia il Signore riporti in patria. Per questo motivo raccolsero in maniera organica e sistematica le

leggi del Signore, dando origine, come dicevamo, al gruppo centrale del Deuteronomio.


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Ma bisogna dire anche un idea della situazione religiosa dei due regni. Il regno del sud era più isolato, al sud confinava col deserto, e perciò meno esposto ad influssi stranieri. Il regno del nord, invece, confinava con diversi stati e perciò più esposto agli influssi idolatrici stranieri, basti pensare a tutta la vicenda di Elia e di Eliseo, fatti di racconti in sé stessi leggendari, ma la cui cornice è storica. Siamo all’epoca del re Acab che sposò la fenicia Getzebele: siamo nella seconda parte del nono secolo (830-840), Elia infatti è presentato come lo strenuo difensore della vera fede Jahwista ed Elohista, da cui nell’epoca dell’esilio babilonese, sullo schema del codice sacerdotale, si formerà il pentateuco. A riguardo di questo passaggio non sappiamo quasi nulla, sappiamo soltanto che nel 622, cento anni dopo, il re del sud Giosia, volendo purificare il tempio dagli idoli assiri trovò: “la legge del Signore”4. Tale scoperta dette origine a quella famosa riforma religiosa di Giosia che però durò pochi anni, perché nel 609, Giosia fu ucciso a Meghiddo, ci interesserà per la vicenda di Geremia. L’impero assiro conobbe un periodo notevole di splendore con i seguenti re:

o o o o o o

Tiglat Pileser III Salmanassar V Sargon II Sennacheriv Asssaradon Assorbanipal Segue a pag. 14 Æ

4

Cfr. 2Re 22.


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Con Assorbanipal l’impero assiro raggiunse il massimo splendore e si estendeva, per dirla con Isaia, “dall’Eufrate fino al Nilo”, ma dopo cominciò a declinare. Nel 640 sale al trono babilonese un certo Nabopolasar che fondò l’impero neo-babilonese, e l’impero assiro cominciò a declinare. Nel 612 cadde Ninive, capitale Assira e nel 605 l’esercito della coalizione assiroegiziana fu sconfitto definitivamente nella battaglia di Karkenish dalle truppe babilonesi comandate dal giovane generale Nabucodonosor a cui poi succederà Nabucodonosor II che salirà al trono di Babilonia nella primavera del 604. Mercoledì 06 ottobre 2004, ore 10,30 / 12,15 Scompare perciò dalla scena storica l’impero assiro e subentra l’impero babilonese. Nel 627, 22 anni prima, Geremia ha ricevuto la vocazione profetica, e perciò le varie fasi dell’impero babilonese emergeranno soprattutto nel secondo periodo del ministero profetico di Geremia. Tralasciando

le

varie

fasi

intermedie

(le

riprenderemo)

dell’impero babilonese in relazione alla storia del popolo del Signore ci interessano per il momento due date: - 597: prima deportazione dei Giudei in Babilonia: Nabucodonosor deportò senza distruggere Gerusalemme e senza distruggere il regno di Giuda, tra i deportati di questa prima deportazione c’era una famiglia sacerdotale dove c’era un ragazzetto di circa 15 anni che da lì a quattro anni dopo (593), ricevette in Babilonia la vocazione profetica: Ezechiele; - 586: dopo due anni di assedio, nell’agosto del 586, i babilonesi entrarono a Gerusalemme, distrussero il tempio, l’invasione del tempio è rivissuta con molta chiarezza nel Salmo 73.


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Con la presa di Gerusalemme finì dopo quattro secoli e mezzo anche il regno di Giuda. L’ultimo re davidico, un certo Sedecia, pagò una sua resistenza acritica: i babilonesi prima uccisero sotto i suoi occhi tutti i figli, poi gli cavarono gli occhi e lo condussero in Babilonia. Con la caduta di Gerusalemme finiscono tre cose: 1- il Regno di Giuda; 2- la monarchia davidica; 3- il tempio di Gerusalemme5. La distruzione di Gerusalemme e il conseguente esilio determinarono grande sconforto in quelli rimasti a Gerusalemme, questo sconforto si può percepire in alcuni Salmi del momento, il 73 già citato, il Salmo 76, il Salmo 101, e soprattutto in un’opera attribuita a Geremia, ma che probabilmente non è di Geremia: si tratta delle lamentazioni.

Saul Ð Davide Ð Salomone Ó Regno del Nord (Israele) (722-720: la fine del regno per mano degli assiri)

5

Ô Regno del Sud (586: la fine del regno per mano dei babilonesi)

quello di Salomone, anche se poi ricostruito dopo l’esilio sotto Esdra e Neemia, ma in epoca persiana.


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L’ESILIO BABILONESE L’esilio babilonese va dal 597/586-538. L’epoca dell’esilio dal punto di vista politico fu una catastrofe, ma dal punto di vista della Parola del Signore fu un periodo di oro, donde deduciamo che il Signore parla di più quando cadono i sostegni umani, e infatti proprio durante l’esilio risuonò di più la Parola del Signore. Limitandoci solo ad elencare, nel tempo dell’esilio avvenne: -

la riscoperta della Pasqua6; l’istituzione della Sinagoga; la formazione del codice sacerdotale; il completamento del deuteronomio; la redazione della storia deuteronomista7; la formazione di diversi Salmi. Per quel che riguarda i profeti ne abbiamo due: uno all’inizio e

l’altro alla fine. All’inizio in Babilonia c’è Ezechiele, la cui ultima data corrisponde praticamente al 572/571, per circa 22 anni. Alla fine dell’esilio, verso il 542/541, quando c’era già nella scena storica un nuovo conquistatore, Ciro Re dei Medi e Persiani, si deve collocare l’opera di un anonimo profeta, il cui nome ignoriamo, ma che per il fatto che si ispira letterariamente e teologicamente ad Isaia, in maniera convenzionale noi chiamiamo secondo Isaia oppure deutero Isaia, a questo anonimo profeta vanno attribuiti grosso modo i capitoli 40,54-55 dell’attuale libro di Isaia.

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come festa di memoriale dell’uscita dall’Egitto. Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re.


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LA FINE DELL’ESILIO BABILONESE Dopo la morte di Nabucodonosor anche l’impero babilonese cominciò a tramontare. L’ultimo re babilonese, un certo Nabonide, amante più delle belle arti che non dell’impero, aveva portato al declino l’impero babilonese. Comincia ad apparire l’impero persiano, L’Achemenide Ciro Re dei persiani, conquistò la Media e si fece proclamare re dei Medi e dei Persiani. Nel 546 Ciro conquistò la Lidia aprendosi la strada verso l’occidente e a tutti fu chiaro che sarebbe stato lui il nuovo padrone del mondo. Qui nasce la speranza del deutero Isaia che saluta Ciro (Isaia 45) come colui che Dio ha scelto e mandato per liberare il suo popolo dall’esilio. Ciro infatti nel 539 arriva a Babilonia, i babilonesi stessi lo salutano come un liberatore, stanchi del loro re Nabonide che si era inimicato anche la potente classe sacerdotale del dio Marduck preferendo il dio Assur. Conquistata Babilonia, Ciro nel 538 firma l’editto di liberazione degli ebrei, i quali così possono tornare in patria. La conclusione del secondo libro delle Cronache e l’introduzione del libro di Esdra addirittura danno a Ciro un alone religioso: egli libera il popolo perché esso torni in patria a costruire un tempio al Signore. Questa però è una interpretazione religiosa probabilmente aliena dalla mentalità di Ciro. In realtà i persiani usarono un altro metodo rispetto agli assiri e ai babilonesi, questi ultimi usavano il metodo della deportazione, i persiani invece preferivano lasciare i popoli sottomessi nelle loro terre che però non erano libere ma costituivano delle province o “satrapie persiane”. Gli ebrei tornano perciò da Babilonia, ma non liberi, bensì sotto il patrocinio persiano, guidati da un certo funzionario di razza giudea, ma lui funzionario persiano: Esdra sotto il quale avvenne una fase di ripresa.


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L’EPOCA POST-ESILICA L’epoca post-esilica sotto il dominio persiano, diversamente da quella assira e babilonese, ci rimane fondamentalmente oscura. In relazione ai persiani stessi abbiamo pochi documenti. Conosciamo qualcosa in relazione alla storia greca: i persiani si estesero fino alla Grecia da cui dovettero ritirarsi dopo la sconfitta della battaglia di Salamina nel 480 più o meno. Il ritorno dei persiani fu cantato nella tragedia di Eschilo. Per quanto riguarda la più generale storia biblica ci rimangono pochissime cose circa tre secoli sono oscuri dal punto di vista della storia biblica perché la Bibbia non ci conserva di questo periodo nessun libro storico. Per avere un’altra opera storica bisogna aspettare il secondo secolo con l’opra in lingua greca dei libri dei Maccabei (ma siamo già in altra epoca). Per quanto riguarda i profeti si verificano delle situazioni che finiscono per oscurare il carisma profetico. A questo punto possiamo elencare dei fatti senza però potere dare date precise. Tornato il popolo in patria cominciò un opera di ricostruzione, materiale e spirituale, la ricostruzione spirituale consiste nella restaurazione dell’Alleanza col Signore8, il Quale ancora una volta aveva mostrato la Sua fedeltà, bisognava cantare questa fedeltà. Ma bisognava anche ritornare al Signore e ricelebrare l’alleanza col Signore. Proprio questa fu la causa della composizione del pentateuco, della legge del Signore alla quale tornare per rivivere l’Alleanza con Lui9. Accanto alla ricostruzione spirituale si attuò la ricostruzione materiale. Si incominciò a ricostruire Gerusalemme, e in questo momento bisogna collocare un anonimo profeta, anch’esso anonimo che noi chiamiamo in maniera convenzionale “terzo Isaia” al quale bisogna attribuire grosso modo i capitoli 56-66 dell’attuale libro di Isaia.

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Cfr. Salmo 97: Cantate al Signore un canto nuovo… Cap 8 del libro di Neemia.


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Il terzo Isaia incoraggiò la costruzione di Gerusalemme presentando la città come la sposa del Signore spiritualizzata (Cfr. Isaia 60). Più complessa fu la ricostruzione del Tempio, questa ricostruzione subì dei momenti di stasi, qui si inseriscono due profeti che spingono a questa ricostruzione, Zaccaria e Aggeo. Il tempio di Gerusalemme fu perciò ricostruito nell’arco di alcuni decenni. In questa ricostruzione in un primo momento furono chiamati i samaritani e non vollero venire, ma quando poi vollero venire furono cacciati. I samaritani si ritirarono e costruirono un tempio per conto loro sul monte Karizim (Cfr. Gv 4). Per quanto riguarda il carisma profetico bisogna considerare un fatto più a monte che diciamo in maniera un po’ più completa perché ci gioverà anche per San Paolo. Redatto il pentateuco si ritenne che quella fosse ormai l’indicazione definitiva per la vita del popolo, ormai si aveva la Legge e perciò si ritenne non più necessario, anzi fu visto con sospetto, il carisma profetico, e infatti dopo la formazione del pentateuco non troviamo più in Israele grandi profeti. Possiamo citare qualche nome del secondo secolo: Malachia, ma Malachia non è il nome proprio: esso è ripreso da 3,1: “ecco io mando il mio messaggero davanti a me”. Tuttavia il carisma profetico rimase in Israele assumendo però per questa sfiducia, un aspetto più clandestino, più popolare, cioè la letteratura apocalittica. Il libro di Daniele infatti non è un libro profetico, bensì un libro apocalittico. Daniele poi, che avrà tanta importanza nei Vangeli e nell’Apocalisse, storicamente è un personaggio fittizio. Nel libro delle Cronache Daniele appare come un personaggio della corte babilonese (VI-V secolo), ma il libro è del secondo secolo. L’altro aspetto della Legge, cioè la sua traduzione in lingua aramaica (il cosiddetto Targum) e il commento alla legge che poi si svilupperà fino alla formazione del Talmud, ci interesserà di più per la teologia paolina (soprattutto Romani e Galati).


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Riassumendo possiamo distinguere nell’esperienza profetica quattro aspetti: 1- il fenomeno profetico antico in Israele la cui natura fondamentalmente ci sfugge; 2- i profeti come sapienti di corte (basti pensare a Natan nella corte di Davide); 3- il ciclo di Elia e di Eliseo caratterizzato da racconti leggendari pur collocati in uno sfondo storico; 4- i profeti classici e il profetismo classico che coincidono con i profeti scrittori (cioè profeti che hanno scritto i loro oracoli). Comincia praticamente con la seconda parte del secolo ottavo l’epoca di oro del profetismo in Israele che va praticamente dal secolo ottavo al quinto secolo. Soltanto interessa il termine profeta che in Ebraico è “D\ELQâ€? dal termine non siamo in grado di caratterizzare l’indole dei profeti. Io credo però che possiamo farlo sul termine greco. In greco il termine è “RTQHJ VJLâ€?. Questo “HJ â€? è una radice da cui poi si forma il verbo “HJOK â€?, giĂ questa radice vi porta all’idea di uno che parla. Il problema invece è questa particella “RTQâ€?, come la intendiamo essa può avere tre sensi: 1- senso locale: davanti (uno che parla davanti ad altri); 2- senso temporale: prima (uno che parla prima che i fatti avvengano); 3- senso sostitutivo (uno che parla a posto di un altro). Quale senso scegliamo? Bisogna interrogare la Bibbia stessa come lo intese e come i profeti si autointesero.

MartedÏ 12 ottobre 2004, ore 08,30 / 10,15 Possiamo interrogare i profeti stessi e comprendere quale è stata la loro coscienza, ma possiamo anche interrogare che cosa dei profeti hanno pensato gli scritti posteriori, soprattutto del NT.


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La coscienza che i profeti hanno non è quella di essere ciechi annunziatori di un futuro, bensì quella di essere portatori di un messaggio da parte di Dio. Tale coscienza è percepibile soprattutto nei profeti scrittori, cioè quei profeti che hanno scritto i loro oracoli, o che li hanno tramandati perché altri li scrivessero a posto loro. Nella situazione storica in cui vivono i profeti indicano due cose: 1- di avere avuto esperienza della Parola di Dio; 2- e di conseguenza, di rivelare da parte di Dio la strada che in quella situazione storica bisogna intraprendere. Tale coscienza si manifesta nell’uso di una particolare formula che

tecnicamente

viene

chiamata

“Botenformel”10.

La

formula

dell’ambasciatore è: “UP D\2 K.”11. Questa formula non è esclusivamente biblica, è usata anche nelle altre letterature, l’ambasciatore che deve recare un messaggio, introduce con le parole: “così dice…”, poi introduce il discorso in prima persona singolare, cioè riferisce alla lettera quello che gli è stato affidato. L’ambasciatore non può mutare nulla di quello che deve dire. Questa formula è usata dai profeti. Geremia da solo la usa circa centocinquanta volte e questa formula in Geremia non è il frutto di una infatuazione personale, ma come vedremo, è il frutto di una precisa presa di coscienza in un momento in cui lui sopraffatto dalle difficoltà mise in crisi il suo ministero profetico, basti citare un passaggio delle sue confessioni, precisamente in Geremia 20,9 dove il profeta dichiara: “non penserò più a Lui, non parlerò più in Suo nome” ma poi, come il profeta stesso rivela, sentiva dentro di sé come un fuoco ardente che gli penetrava dentro le ossa. Geremia visse un drammatico dilemma, o parlare e allora prendersi l’ostilità degli uomini, o tacere e sperimentare bruciante dentro di sé, la Parola di Dio. Il fatto che il profeta taccia non vuol dire

10 11

Dal tedesco “La formula dell’ambasciatore”. “Così dice il Signore…”.


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che non sia in lui la Parola del Signore. In Geremia 1,4 introducendo la narrazione della sua vocazione, scritta circa diciotto anni dopo, come presa di coscienza di una sua precisa realtà, il profeta scrive: “e fu la Parola del Signore a me”, è una frase più forte che contiene l’esperienza della Parola, rispetto alla traduzione italiana: “mi fu rivolta la Parola del Signore”. Ma il problema non è soltanto di Geremia, ma anche di Isaia, di Ezechiele, di Amos, di Osea. Il profeta Amos, per esempio, che come vedremo profetò nel regno del nord divenne insopportabile per gli oracoli di giudizio che era chiamato a pronunziare, e il profeta fu cacciato dal regno del nord. Leggiamo infatti in Amos 7,12: “vattene veggente, ritirati verso il paese di Giuda, la mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Bethel non devi profetizzare”, ma il profeta risponde che lui ha agito per comando del Signore, risponde infatti con le famose parole: “non ero profeta, ne figlio di profeti, ero un pastore e raccoglitore di sicomori, il Signore mi prese di dietro il bestiame e mi disse: và e profetizza al mio popolo Israele”. La stessa cosa, Isaia, il quale nei quarant’anni di ministero profetico, ebbe una sofferenza: non essere mai ascoltato e creduto, e se i profeti parlano, nonostante l’ostilità del popolo, è perché c’è la coscienza che il Signore parla attraverso di loro. Lo stesso Isaia, che scrisse la sua vocazione sette anni dopo, ebbe la chiara coscienza di dovere parlare ad un popolo che ha accecato i suoi occhi per non vedere e ha chiuso le orecchie per non udire. Non diversamente sarà Ezechiele che dovrà parlare ad un popolo ostinato e duro in terra di esilio. Tuttavia non manca nei profeti l’aspetto dell’annunzio futuro, non si tratta però di predizioni estemporanee, bensì di proiezione al futuro del presente. In un momento storico in cui c’era la massima oscurità, cioè di Gerusalemme completamente sottomessa alla potenza Assira (700-699), il profeta Isaia intuisce che non si ferma lì il disegno di Dio perché Dio secondo Isaia è il Santo di Israele, cioè il Dio di Israele che è Santo, e perciò fedele alle Sue promesse, per questo motivo preannunzia un oracolo che ancora oggi non ha trovato piena realizzazione. “Un popolo che


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camminava nella tenebra vide (vedrà12) una grande luce”. Lo stesso Geremia, in un momento particolare del suo ministero, osa scansare l’istituzione principale dell’AT, cioè l’alleanza, e ne annunzia una nuova. Per vedere realizzato questo oracolo bisogna attendere più di sei secoli, cioè il NT. Ezechiele dopo la caduta di Gerusalemme nel 586 annunzia il ritorno in patria, ma Dio ha un problema: se riporta il popolo in patria, e questo torna a peccare, deve di nuovo cacciarlo. Il problema, allora, è quello di riportare in patria un popolo che non pecca, e Dio annunzia la creazione di simile popolo: “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, porrò il mio Spirito dentro di voi”, ma anche questo oracolo dovrà attendere il NT. Restando in questo aspetto di proiezione al futuro bisogna dire una parola su quegli oracoli che avranno una precisa applicazione, in particolare ci riferiamo a due o tre oracoli, il primo lo abbiamo accennato: Isaia 7,13, si tratta dell’oracolo della Vergine, vedremo come Isaia non parlò della maternità di un vergine, ma della maternità di una giovane donna che si trova alla prima esperienza di gravidanza. Fu la versione greca dei settanta che tradusse il termine in senso di vergine, permettendo così al NT di riferirlo al mistero della Vergine Madre. Ciò significa che gli oracoli profetici hanno un progresso di approfondimento. Dobbiamo dire che è la stessa provvidenza che man mano li prepara ad esprimere una realtà più alta che si potrà comprendere solo quando si sarà verificata nella storia. Questo è il secondo esempio: il caso dei canti del servo, soprattutto il terzo canto13 e il quarto14. Questi canti non possono essere di Isaia, il contesto anzitutto dove sono inseriti è quello degli oracoli del secondo Isaia, ma non si riesce a capire come si possano inserire nel messaggio globale del Deutero-Isaia. Il terzo canto parla di un servo il quale dichia12

Perfetto Profetico. Isaia 50,4-9. 14 Isaia 52,13-53,12. 13


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ra di avere ricevuto dal Signore una lingua da iniziati, cioè il Signore lo ha reso abile parlatore, ma prima ancora il servo dichiara di avere ricevuto un orecchio da iniziati15, cioè è stato reso un abile ascoltatore, si tratta di un uomo capace di ascoltare e capace a parlare e perciò, un uomo dedito alla Parola del Signore. Ma poi il servo continua di avere dato il dorso ai flagellatori, la guancia a chi gli strappava la barba, ecc… Emerge subito in noi la domanda: “qual è il motivo di questa ostilità?”, riconosciamo che il terzo canto presenta delle lacune. Non meno problematico, o forse anche di più, è il quarto canto: chi è quest’uomo che appare colpito dal Signore mentre lui ha dato la sua vita per gli altri? Sono tutte domande alle quali a partire dal testo attuale non siamo in grado di dare una risposta, una ipotesi potrebbe essere che il terzo e quarto canto siano una spiritualizzazione di Geremia, ma questa è però è una ipotesi e rimane la domanda: chi è questo personaggio? È una domanda che si pose anche la riflessione rabbinica, i rabbini risposero che si trattava del Messia al quale però non si potevano riferire i passaggi di sofferenza, per questo cambiarono molte frasi (e le deformarono). L’oracolo del terzo e del quarto canto ricevono nuova luce dagli eventi di Cristo, i quali permettono di leggere in questo senso quegli oracoli, perciò non sono i canti che all’origine parlassero del Cristo, ma i canti ricevono nuova luce dagli eventi di Cristo. Ancora una volta ci troviamo nel problema della provvidenza che prepara gli oracoli perché esprimano una realtà superiore. Nell’anno 609, verso dicembre, Geremia tenne un discorso nel Tempio, dove annunziò la caduta del tempio stesso per opera dei babilonesi. Dopo quel discorso Geremia fu arrestato, si istruì un processo e si pronunziò contro di lui una sentenza di morte per avere annunziato la distruzione del tempio. Geremia fu salvato dall’intervento di una persona che lo stimava. Siamo nel capitolo 12 del libro di Geremia. Questo fatto presenta grosse analogie con la narrazione della Passione e infatti davanti

15

non da principiante.


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al sinedrio la sentenza di morte contro Gesù è pronunziata dopo che falsi testimoni dichiararono di averlo sentito dire: “posso distruggere questo tempio…”, sembra perciò che la fede primitiva vide adombrato nel fatto di Geremia quello che avvenne per Gesù. Riassumendo abbiamo detto tre cose: 1- gli oracoli profetici riguardano il presente. Isaia mostra che quello che sta accadendo nella storia corrisponde al disegno di Dio davanti al quale bisogna rispondere mediante una accettazione di fede. Le parole che i profeti pronunziano riguardano perciò il senso della storia nel presente; 2- alcuni oracoli dal presente si proiettano al futuro così per esempio Isaia 2: “verranno popoli numerosi e diranno venite saliamo al monte del Signore, al monte del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie…”, da Luca viene ripreso nel capitolo 2 degli Atti dove nel giorno della Pentecoste presenta a Gerusalemme ben sedici popoli e l’oracolo di Isaia 2 pronunziato a cavallo tra ottavo e settimo secolo probabilmente soggiace dietro le parole di Gesù in Giovanni 12,31: “quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”; 3- altri oracoli in sé stessi hanno un significato più concreto, ma vengono preparati dalla stessa Parola di Dio a esprimere un mistero superiore al loro stesso senso letterario. La letteratura apocalittica e il tardo giudaismo in genere intesero i profeti nel senso di annunziatori del futuro, questo aspetto fu ripreso anche dalla letteratura apocalittica la quale fece un piccolo sotterfugio: riferì i fatti presenti a persone del passato, cioè mise in bocca a persone del passato gli eventi presenti, facendone in questo modo profezie future. Ma si tratta di profezie “ex-eventu” cioè false profezie, però emerge la tendenza di trovare nel passato l’annunzio delle cose presenti. Il NT intese i profeti nel senso di annunziatori del futuro, ritenne che già i profeti insieme alla legge avevano preannunziato il mistero di Gesù. Luca nel capitolo 24 presenta Gesù che ai discepoli di Emmaus spiega le scritture, dice anzi nel verso 25: “tardi a credere a tutte quelle cose dette dai profeti”. Ma a questo punto è utile dare un’idea sull’ampiezza del termine


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profeta. Il tardo giudaismo distinse tra profeti anteriori e profeti posteriori. I profeti anteriori sono quelli (secondo il tardo giudaismo) che nel linguaggio moderno chiamiamo storia deuteronomista, cioè i libri di: Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re. I profeti posteriori sono i profeti in senso stretto: i tre maggiori e i dodici minori. La critica moderna conosce soltanto i profeti in senso stretto. Il NT sotto il termine profeta, tante volte riconduce tutto l’AT, il quale globalmente diventa profezia di Cristo (Cfr. Ebrei 1,3).

Mercoledì 13 ottobre 2004, ore 10,30 / 12,15 Nella lettera agli Ebrei leggiamo così: “Dio dopo avere parlato […] ai Padri per mezzo dei profeti, in questi giorni che sono gli ultimi parlò a noi mediante il Figlio”. L’autore della lettera agli Ebrei distingue così due epoche: 1- l’epoca dei profeti 2- e quella del Figlio. Questa parola “Profeti” non è limitativa alla sola esperienza profetica, ma abbraccia tutto l’AT. La riflessione neotestamentaria sulla scia del tardo giudaismo distingueva tra Legge e Profeti. L’autore della Lettera agli Ebrei per la sua visione negativa della legge depenna questa parola lasciando soltanto la parola profeti. In questo modo però l’autore riconduce tutto l’AT a profezia il cui scopo è stato quello di preannunziare e preparare il mistero di Cristo.


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BREVE PROSPETTO STORICO-SINTETICO Possiamo allora proporre il seguente prospetto storico: 1- secolo VIII: a- nel regno del nord: Amos – Osea; b- nel regno del sud: Isaia – Michea; 2- secolo VII-VI: a cavallo tra settimo secolo e sesto, cioè dal 627 al 586 si colloca Geremia; 3- secolo VI: a- Ezechiele (593-572/571) b- Deutero-Isaia 4- nell’epoca post-esilica collochiamo: terzo Isaia, Aggeo, secondo Zaccaria (cap. 10-14); verso il secondo secolo collochiamo: Malachia. Tutti gli altri profeti minori hanno una datazione molto incerta, forse durante l’esilio o anche appena prima collochiamo con molta relatività: Sofonia, Abacuc, Naum; dopo l’esilio forse si può collocare Gioele. Osserviamo che i profeti minori si chiamano così, non per maggiore o minore importanza, ma per la quantità degli oracoli che ci sono rimasti. L’esiguità degli oracoli non sempre permette di caratterizzare il loro messaggio e le situazioni storiche in cui profetizzano. Un’altra osservazione deve essere fatta a riguardo dei libri redatti. I libri non sono stati redatti dai profeti stessi, ma alcuni redattori redassero i loro oracoli aggiungendo talora anche del materiale di altra provenienza. I libri nel loro complesso debbono essere considerati come Parola di Dio e perciò ispirati: interviene anche l’accettazione della Chiesa nel tridentino, però se vogliamo evidenziare gli oracoli propri di un profeta e cercare di determinare l’epoca in cui furono pronunziati dobbiamo ricorrere alla critica letteraria e storica.


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AMOS All’inizio del libro di Amos troviamo una indicazione geografica e cronologica: si tratta di una visione che Amos ebbe al tempo di Ozia, re di Giuda, e al tempo di Geroboamo, re di Israele, due anni prima del terremoto. Quale sia questo terremoto a noi sfugge, gli archeologi vorrebbero collegarlo a certi ruderi che possono risalire alla metà del secolo ottavo. Ozia morì tra l’autunno del 740 e la primavera del 739 e perciò Amos profetò prima di questa data. In ogni caso egli profetizza prima della caduta di Samaria (722-720), ciò spiega il carattere fortemente negativo del suo messaggio. I due re menzionati, Ozia al sud, e Geroboamo II al nord ebbero un lungo regno (circa cinquantenni ciascuno) donde deduciamo che la prima metà del secolo ottavo dovette essere un tempo di pace. La pace è un dono di Dio però implica talora (per colpa degli uomini) degli squilibri, la pace porta al benessere, il benessere degenera in ingiustizie sociali, contro queste ingiustizie Amos leva violenta la sua voce. In particolare Amos combatte contro due mali del regno del nord, l’ingiustizia sociale contro la quale combatte nello stesso periodo (più o meno) Isaia nel primo periodo del suo ministero al sud è l’idolatria, soprattutto all’idolatria era più esposto il regno del nord, il sud infatti aveva larghi spazi in cui confina col deserto. Il regno del nord invece confinava con altre popolazioni (Fenicia, Siria), era facile che i culti pagani si infiltrassero in Israele, tanto più che nei culti pagani c’era qualcosa di allettante: la prostituzione sacra praticata come atti di culto e che veniva praticata su alture come i luoghi di culti. Questi due mali hanno caratterizzato il regno del nord all’epoca di Amos.


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Una accusa contro questo mali è soprattutto nel capitolo II16. Nel capitolo quarto ancora si ha nei versi 1-4 la stessa prospettiva: il profeta si rivolge alle vacche di Basan (abitanti del regno del nord)17. Un oracolo più unitario sembra essere nel capitolo quarto dal verso 4 fino al verso 12, dove il profeta nota lo squilibrio e la contraddizione tra pretesi atti di culto e le ingiustizie che si commettono18. Nel capitolo quinto c’è però l’esortazione a tornare al Signore, leggiamo in 5,4: “dice il Signore alla casa si Israele cercate me e vivrete”, si esorta al ritorno del Signore. Un altro oracolo unitario sembra essere contenuto nei versi 21-27 del capitolo quinto19, c’è anzitutto un rifiuto del culto, tale rifiuto sarà una caratteristica dei profeti. Anche Isaia avrà parole dure contro il 16

Amos 2,1-15: “1 Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Moab e per quattro non revocherò il mio decreto, perché ha bruciato le ossa del re di Edom per ridurle in calce; 2 appiccherò il fuoco a Moab e divorerà i palazzi di Keriòt e Moab morirà nel tumulto, al grido di guerra, al suono del corno; 3 farò sparire da lui il giudice e tutti i suoi capi ucciderò insieme con lui», dice il Signore. 4 Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno disprezzato la legge del Signore e non ne hanno osservato i decreti; si son lasciati traviare dai loro idoli che i loro padri avevano seguito; 5 appiccherò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme». 6 Così dice il Signore: «Per tre misfatti d'Israele e per quattro non revocherò il mio decreto, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; 7 essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri; e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome. 8 Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio. 9 Eppure io ho sterminato davanti a loro l'Amorreo, la cui statura era come quella dei cedri, e la forza come quella della quercia; ho strappato i suoi frutti in alto e le sue radici di sotto. 10 Io vi ho fatti uscire dal paese di Egitto e vi ho condotti per quarant'anni nel deserto, per darvi in possesso il paese dell'Amorreo. 11 Ho fatto sorgere profeti tra i vostri figli e nazirei fra i vostri giovani. Non è forse così, o Israeliti?». Oracolo del Signore. 12 «Ma voi avete fatto bere vino ai nazirei e ai profeti avete ordinato: Non profetate! 13 Ebbene, io vi affonderò nella terra come affonda un carro quando è tutto carico di paglia. 14 Allora nemmeno l'uomo agile potrà più fuggire, né l'uomo forte usare la sua forza; il prode non potrà salvare la sua vita 15 né l'arciere resisterà; non scamperà il corridore, né si salverà il cavaliere. Il più coraggioso fra i prodi fuggirà nudo in quel giorno!». Oracolo del Signore.” 17 Cfr. Amos 4,1-4. 18 Cfr. Amos 4,4-12. 19 Amos 5,21-27: “21 Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; 22 anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. 23 Lontano da me il frastuono dei tuoi canti: il suono delle tue arpe non posso sentirlo! 24 Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne. 25 Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto per quarant'anni, o Israeliti? 26 Voi avete innalzato Siccùt vostro re e Chiiòn vostro idolo, la stella dei vostri dèi che vi siete fatti. 27 Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco, dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti.”


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culto, lo stesso rifiuto che appare nei Salmi 39, 49, 50. Non che i profeti si oppongano al culto, ma un culto senza la legge del Signore non serve a niente. Allora il profeta (verso 27) annuncia l’esilio. Nel capitolo sesto nei versi 1-5 abbiamo ancora un altro oracolo sullo stesso tono che pare unitario20. Nel capitolo sette sono riferite tre visioni simboliche cioè tre visioni che annunziano una catastrofe, la visione delle cavallette, quella della siccità e quella del piombino. Con queste immagini si annunzia la catastrofe del regno di Samaria. Nel capitolo sette è riferita l’ostilità che il profeta subì in seguito al suo annunzio, il profeta riceve il comando di tacere e viene cacciato dal regno del nord. Se veramente se ne sia andato non lo sappiamo, certo però che il profeta si difende rimandando al Signore. Infine l’ultimo oracolo è nel capitolo ottavo (almeno quello più unitario), il profeta nei versi 4-8 torna ancora alla sua denunzia21. In questo capitolo il profeta annunzia nei versi 11-12 la massima punizione che Dio può infliggere: due volte ha già menzionato l’esilio, ma ora c’è quella più grave, scrive il profeta nel verso 11: “io manderò la fame nel paese, non fame di pane, ne sete di acqua, ma di ascoltare la Parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente per cercare la Parola del Signore, ma non la troveranno”22. Riassumendo Amos profetizza prima della caduta di Samaria e dell’esilio in Assiria, ciò si deduce dall’indole totalmente negativa degli oracoli. Sulla scena c’è già l’Assiria, e alcune città menzionate sono state già devastate, nella Assiria il profeta vede la punizione per le ingiustizie che in mezzo al popolo si commettono.

20

Cfr. Amos 6,1-5. Cfr. Amos 8,4-8. 22 Cfr. Amos 8,11 (Giovanni in 8,21 alluderà a questo verso di Amos). 21


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OSEA Osea profetizza pure nel regno del nord, però non sembra proprio contemporaneo di Amos per l’indole dei suoi oracoli, Osea deve essere collocato a cavallo della caduta di Samaria e infatti alcuni oracoli sono di esplicita denunzia, altri oracoli invece, anzi più numerosi sono di restaurazione e di salvezza. Gli oracoli di denunzia si collocano bene prima della caduta di Samaria, prima cioè che si verifichi la punizione da parte del Signore. Dopo che la punizione è avvenuta non si comprendono più gli oracoli di giudizio ma una caratteristica dei profeti è quella di annunziare la salvezza dopo la catastrofe. I profeti hanno cura a mostrare che Dio non intende distruggere, ma soltanto richiamare a conversione. Questo criterio storico può essere utile nella comprensione degli oracoli di questo profeta anche perché essi non ci sono pervenuti distinti, ma mescolati23. Osea è il primo profeta che nella descrizione della relazione di Dio con il suo popolo userà la metafora coniugale, cioè Dio è lo sposo e il popolo è la Sua sposa. Questa metafora coniugale sarà ripresa cento anno dopo da Geremia soprattutto nei capitolo 2 e 3, sarà ripresa anche da Ezechiele capitolo 16, sarà ripresa dal Deutero-Isaia e dal Terzo Isaia (capitolo 54-62 grosso modo), fino al NT dove nei Vangeli e in Paolo si usa l’immagine per descrivere il rapporto tra Cristo e la Sua Chiesa. Nei capitoli 1-3 troviamo alcuni passaggi che si collocano in prospettiva giudiziaria, il profeta deve compiere una azione simbolica, deve cioè sposare una prostituta. Leggiamo infatti in 1,2: “va e prenditi in moglie una prostituta e abbi da lei figli di prostituzione”. Se il profeta abbia dovuto realmente compiere questa azione possa essa rimane soltanto sul piano della descrizione letteraria non è chiaro, certo però che la denunzia 23

Cfr. ad esempio Osea 2,13-17.


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è abbastanza chiara. Il profeta paragona il popolo ad una prostituta che cioè si è allontanata da lui e si è rivolta agli idoli. La punizione è poi descritta in 2,4-15 dove il profeta esordisce dicendo: “accusate vostra madre, accusatela essa non è più mia moglie ed io non sono più suo marito”, Dio cioè ripudia la sua sposa adultera. Una caratteristica di Osea è l’uso di un linguaggio altissimamente poetico, servendosi di immagini che sono più efficaci di qualsiasi altra descrizione: circa cento anni dopo un giovane entusiasta, soprattutto felice di avere ricevuto la Parola del Signore leggerà Osea e sugli oracoli di Osea imposterà il primo periodo del suo ministero profetico, cioè Geremia. Quello che importa di Osea è sottolineare alcuni passaggi che vanno più gustati che non spiegati, si tratta di quegli oracoli di salvezza dopo la caduta di Samaria. È utile citarne qualcuno, in 2,31 Dio dichiara: “ti farò mia sposa per sempre nella giustizia, nel diritto, nella benevolenza e nell’amore”. Un oracolo molto bello, altissimamente poetico è nel capitolo sesto dove il profeta esorta: “venite, torniamo al Signore (si rifà al periodo dopo l’esilio e la caduta di Samaria), Egli ci ha straziati (con l’esilio), Egli ci guarirà, Egli ci ha percosso ed Egli ci guarirà. Dopo due giorni ci darà vita e noi vivremo alla Sua presenza”. Su questo testo la fede primitiva dirà che Gesù è Risorto il terzo giorno24.

24

Osea 6,1-6: “1 «Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. 2 Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza. 3 Affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura come l'aurora. Verrà a noi come la pioggia di autunno, come la pioggia di primavera, che feconda la terra». 4 Che dovrò fare per te, Efraim, che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce. 5 Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca e il mio giudizio sorge come la luce: 6 poiché voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti.”


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Giovedì 14 ottobre 2004, ore 08,30 / 10,15

ISAIA Di Isaia abbiamo due indicazioni cronologiche: la prima in 6,125, la seconda in 1,126. La prima in 6,1 è probabilmente dello stesso profeta, la seconda di 1,1 è dovuta probabilmente ad un redattore che però interpretò bene l’epoca di Isaia. In 1,1 sono menzionati quattro re di Giuda: Ozia, Iotam, Achaz, Ezechia. Il primo Re: Ozia, viene precisato in 6,1. Alla luce di 6,1, Ozia indica l’epoca della vocazione profetica di Isaia. Trasferendo le indicazioni bibliche sul nostro calendario l’anno della morte del re Ozia corrisponde al 740-739, i calcoli possono essere un po’ più precisi: Ozia morì nell’arco di sei mesi tra l’autunno del 740 alla primavera del 739, nell’arco di questi sei mesi avvenne la vocazione di Isaia. Continuando nella prospettiva storica, alla morte di Ozia, salì al trono il figlio Iotam che regnò non a lungo ma morì tra il 733 e il 732. Salì al trono il figlio ventenne Achaz, nemmeno Achaz ebbe lungo regno, la sua morte deve essere collocata verso il 727, alla sua morte salì al trono il figlio Ezechia. Qui noi siamo nell’ambito della storia documentabile e perciò i dati cronologici del libro di Isaia si integrano con la storia narrata nei capitoli 17-19 del secondo libro dei Re. In 2Re18,2 leggiamo che quando Ezechia salì al trono, quell’Ezechia che cinque anni prima Isaia aveva salutato come l’Emanuele quando ancora era nel grembo materno, aveva venticinque anni.

25

Isaia 6,1: “Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio”. 26 Isaia 1,1: “Visione che Isaia, figlio di Amoz, ebbe su Giuda e su Gerusalemme nei giorni di Ozia, di Iotam, di Achaz e di Ezechia, re di Giuda”;


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L’indicazione del secondo libro dei Re è sbagliata: i calcoli cronologici fanno presupporre meglio che quando Ezechia salì al trono aveva soltanto cinque anni. Ezechia muore verso il 700-699 dopo i drammatici episodi di cui parleremo verificatisi a Gerusalemme. Dopo di lui salì al trono il figlio dodicenne Manasse, quello che secondo una tardiva leggenda avrebbe fatto uccidere Isaia segandolo in due. Riepilogando, alla luce di queste indicazioni cronologiche possiamo distinguere quattro periodi nel ministero profetico di Isaia: 1234-

(740/739-733/732): sotto Iotam; (733/732-727): sotto Achaz; (727-714): sotto Ezechia minorenne; (714-699): sotto Ezechia maggiorenne.

Però la storia del regno di Giuda si intreccia con altre due storie: quella del regno del nord e quella del regno assiro. Del regno del nord è sufficiente ricordare la caduta di Samaria che fu assediata dal re assiro Salmanassar V, e fu espugnata due anni dopo dal figlio Sargon II. Ma è importante avere anche un quadro della storia assira, dove abbiamo la seguente successione: 1234-

Tiglat Pileser III (745-727); Salmanassar V (727-722/720); Sargon II (722/720-705); Sennakerib (che troveremo nell’assedio di Gerusalemme del 700)

Dal momento che la storia di Giuda si intreccia con quella assira, aiutano molto i documenti assiri. I periodi più importanti sono soprattutto: il primo, il secondo e il quarto. Il terzo periodo registra un certo silenzio del profeta, forse perché ebbe meno occasione di parlare, dal momento che essendo Ezechia minorenne, il reggente doveva essere molto equi-


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librato, non così nel quarto periodo, quando Ezechia a diciotto anni diventò re autonomo e cominciarono i guai. Su Ezechia si danno due pareri, quello dei libri dei re e quello di Isaia. Il secondo libro dei Re presenta Ezechia insieme a Giosia, un re secondo il cuore di Dio; secondo Isaia invece Ezechia fu acritico guerrafondaio, rischiò la distruzione di Gerusalemme.

PRIMO PERIODO (740/739-733/732) Il messaggio di Isaia di questo primo periodo è analogo a quello del contemporaneo Amos nel regno del nord. Anche al sud c’era stato il lungo regno di circa cinquanta anni di Ozia e si era verificato lo stesso fenomeno: la pace porta al benessere e il benessere purtroppo degenera in ingiustizie. Contro queste ingiustizie anche Isaia alzò la voce sempre in nome della fedeltà al Dio dell’Alleanza. Non possediamo molti oracoli di questo primo periodo, anzi ne possediamo pochi. Essi sono: 1- la parabola della vigna in Is 5,1-7: una parabola importante sia in sé stessa, sia per i suoi risvolti neotestamentari: su Isaia 5 si basa la famosa parabola evangelica dei cattivi vignaioli; 2- il carme poetico di Is10,1-4; Is5,8-24: a riguardo di quest’ultimo si tratta dello stesso carme che incomincia nel capitolo 10 e continua nel capitolo quinto. C’è chi avanzi l’ipotesi che il foglio possa essere stato stracciato e poi il redattore inserì le due parti dove ritenne opportuno. La parabola della vigna si chiama così perché il profeta narra le vicende di una vigna. Si legge che: “il mio diletto possedeva una vigna […] egli l’aveva vangata, sgombrata dai sassi, aveva piantato scelte viti, vi aveva costruito in mezzo una torre, e aveva scavato un tino”. Dietro questa parabola si nasconde una storia che però, a ben guardare, è limitata e probabilmente deve essere completata con un'altra storia offertaci dal


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Salmo 79. Questo Salmo, come vedremo, è probabilmente la preghiera che nell’anno drammatico 701/700 Ezechia pronunziò al tempio. Ma anche il Salmo risente della predicazione di Isaia. La storia del Salmo è la seguente: “hai divelto una vite dall’Egitto per trapiantarla hai espulso i popoli, le hai dato il terreno, i suoi rami hanno riempito la terra”. La storia evocata dal Salmo evoca l’uscita dall’Egitto, è l’epoca della conquista (con Giosuè) quando Dio per dare la terra al suo popolo cacciò gli altri popoli dal territorio. La parabola di Isaia invece evoca i circa cinque secoli di storia della presenza del popolo del Signore nella terra di Canaan. In questi secoli Dio ebbe cura come ha cura chi possiede una vigna, ma alla fine l’atteggiamento di Dio fu quello di qualsiasi vignaiolo. Nota il profeta nel verso 2: “Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica”, cioè la risposta del popolo fu del tutto opposta a quella che Dio si aspettava. Fin qua il profeta ha narrato una storia, ora interpella i suoi ascoltatori.

Venerdì 15 ottobre 2004, ore 10,30 / 12,15 Dopo questa descrizione, quasi immaginando un dialogo con i suoi ascoltatori, il profeta pone una domanda. Questa domanda è contenuta nei versi 3-4: “ordunque abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda siate voi giudici tra me e la vigna”. Attraverso il profeta è Dio stesso che parla e chiama gli abitanti di Gerusalemme a farsi giudici. Nel verso 4 si pone la domanda: “che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?”, il vignaiolo pone la domanda se in qualche cosa lui non sia stato carente. La domanda nel testo non ha risposta però quello che segue dopo presuppone una particolare risposta, quasi a dire: hai fatto tutto e non potevi fare di più. In altre parole bisogna dare a Dio atto di avere fatto tutto quello che poteva fare. Emerge chiaro allora che il difetto è nella vigna, continua il testo: “perché mentre attendevo uva mi ha fatto uva selvatica?”, c’è perciò il presupposto perché la vigna venga


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sradicata e nel verso 5 si pronunzia quasi un giudizio contro questa vigna: “ora voglio farvi conoscere che cosa sto per fare: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta […] la renderò un deserto”. Si riecheggiano le parole del Salmo 79: “perché hai abbattuto la sua cinta e ogni viandante ne fa vendemmia? La devasta il cinghiale del bosco e se ne pasce l’animale selvatico”. Fin qua la narrazione del profeta non ha fatto problema, e naturale togliere una vigna se nonostante che sia curata essa non dà frutto. Il problema invece e poi nel verso 7, alla luce del quale appare chiaro che il profeta ha pronunziato un giudizio negativo da parte di Dio, e infatti rivela che la vigna è la casa di Israele, e dagli abitanti di Giuda Dio si aspettava giustizia ed ecco invece spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco invece grida di oppressi. Troviamo in questa parabola una particolare metodologia che sarà analoga alla ripresa della metafora nella parabola evangelica dei cattivi vignaioli: cioè portare gli ascoltatori a pronunziare su sé stessi una sentenza di condanna, il popolo stesso dichiarando che la vigna va sradicata ha ammesso che sarà giusto il modo di fare del Signore che disperderà quel popolo. Il capo di accusa è che nonostante tutta la cura di Dio il popolo non ha portato quei frutti di giustizia e di rettitudine che il Signore Dio si aspettava. In questo punto Isaia è contemporaneo di Amos e la tematica è la stessa27.

SECONDO PERIODO (727-722/720) Il secondo periodo va dalla morte di Iotam fino alla morte di Achaz, a questo punto il messaggio del profeta non sarà più di stampo morale come è stato nel primo periodo, ma in questo secondo periodo emerge il confronto tra il profeta e la storia. In tale confronto, il profeta, nel regno del sud, si rivela erede dell’antica tradizione Jawhista, ricordiamo 27

Isaia 10,1-5 e Isaia 5,8-14.18-23.


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che la storia Jawhista fa una vera e propria teologia della storia. Nella storia gli avvenimenti non capitano a caso, sono ordinati dal Signore della storia che li guida secondo un Suo disegno che è sempre salvezza anche se in certi momenti assume un carattere punitivo. Per questo secondo periodo è importante la storia, per la quale abbiamo quattro fonti: abcd-

il libro stesso di Isaia che visse in quel momento; i capitoli 16-18 del secondo libro dei Re; il capitolo 28 del secondo libro delle Cronache; gli annali assiri.

Queste fonti hanno bisogno di essere lette con attenzione. mettendo insieme queste fonti possiamo ricostruire la storia e il conseguente atteggiamento del profeta di fronte ad essa. Gli annali assiri ci sono pervenuti alquanto frammentari, tuttavia quello che ci è pervenuto è sufficiente a darci un’idea di questo periodo. Da una parte essi hanno un carattere trionfalista, descrivono cioè le imprese vittoriose del re assiro, dall’altra ci dicono l’ampiezza delle sue conquiste. Per quanto riguarda questo periodo abbiamo detto che nel 745 sale al trono Tiglat Pileser III che cominciò la sua politica di espansione. Dagli annali sappiamo che egli arrivò fino alla Siria, al regno del nord e a Gaza. A riguardo del re di Gaza, gli annali assiri, che parlano in prima persona, scrivono che: “egli fuggì davanti alla mia armata (esercito assiro) verso l’Egitto”, poco dopo dirà che egli volò come un uccello. Questa e simili espressioni sottolineano la compiacenza del re assiro a incutere paura tra i popoli sottomessi. Contro questo espansionismo si creò una lega anti-assira alla quale fu invitato a partecipare anche il re di Giuda. A riguardo di Iotam in 2Re16,37 si legge che da lui vennero il re di Samaria e il re di Damasco. Iotam dovette essere renitente a questo tentativo di inserirsi nella lega anti-assira, eppure l’avanzata assira esigeva anche la partecipazione del re


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di Giuda. Alla morte di Iotam salì al trono il figlio ventenne Achaz, e la pressione dei re di Siria (Damasco) e di Israele divenne maggiore. Qui dobbiamo ricostruire mettendo insieme le varie fonti: Achaz dovette essere riluttante forse per seguire la politica del padre Iotam o anche sotto l’influsso di Isaia contrario alla lega anti-assira. I due re di Damasco e di Samaria (regno del nord) decisero di piegare Achaz con la forza. Marciarono contro Gerusalemme dando origine a quella che noi conosciamo col nome di “guerra siro-efraimita”. Questa spedizione ci è narrata dal secondo libro dei Re e dal capitolo 7 di Isaia (Oracolo dell’Emanuele). In 2Re16,5 e in Isaia7,1,ss. leggiamo: Is7,1,ss: “e avvenne nei giorni di Achaz, figlio di Iotam, figlio di Ozia, re di Giuda, salì Rezin, Re di Aram (= Siria), Epeqah re di Romelia, re di Israele in battaglia contro di essa e non poté prevalere contro di essa” 2Re16,5: “In quel tempo marciarono contro Gerusalemme Rezin re di Aram, e Pekach figlio di Romelia, re di Israele; l'assediarono, ma non riuscirono a espugnarla”. Le due frasi di seconda re e di Isaia in larga parte concordano, ma verso la fine c’è confusione. 2Re ci informa che assediarono Achaz. Tra i due testi c’è una confusione ed una corruzione testuale per cui è importante il singolare “non poté” di Isaia. I due re assediarono Achaz, ma Achaz non fu in grado (non poté) di resistere contro di essi. La narrazione del libro delle cronache, vera o gonfiata, ci informa che i due re non solo assediarono Achaz, ma anche uccisero molti giudei e altri li deportarono nel regno del nord28. In quella situazione Achaz trovò naturale chiedere l’aiuto al re assiro. Qui si inserisce Isaia e dobbiamo rifarci al capitolo 7, dove c’è un problema testuale.

28

2Cronache 28.


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I versi 5 e 6 andrebbero spostati e messi al verso 2 che spiegano benissimo la reazione di Achaz e del suo popolo, capiamo allora lo scopo della guerra siro-efraimita. 5 Poiché gli Aramei, Efraim e il figlio di Romelia hanno tramato il male contro di te, dicendo: 6 Saliamo contro Giuda, devastiamolo e occupiamolo, e vi metteremo come re il figlio di Tabeèl. Œ ź 1 Nei giorni di Achaz figlio di Iotam, figlio di Ozia, re di Giuda, Rezìn re di Aram e Pekach figlio di Romelia, re di Israele, marciarono contro Gerusalemme per muoverle guerra, ma non riuscirono a espugnarla. 2 Fu dunque annunziato alla casa di Davide: «Gli Aramei si sono accampati in Efraim». Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano i rami del bosco per il vento. 3 Il Signore disse a Isaia: «Va' incontro ad Achaz, tu e tuo figlio Seariasùb, fino al termine del canale della piscina superiore sulla strada del campo del lavandaio. 4 Tu gli dirai: Fa' attenzione e sta' tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumosi, per la collera di Rezìn degli Aramei e del figlio di Romelia.

I due re di Damasco e di Samaria marciarono verso Gerusalemme allo scopo preciso di deporre Achaz e di mettere al suo posto un certo figlio di Tabeèl, più accondiscendente ai loro progetti. Di fronte a questo progetto e alla reazione violenta di Achaz interviene Isaia e qui dalla storia passiamo alla teologia. Le parole che il profeta dice sono parole riferite da parte del Signore. È importante una indicazione: il Signore manda incontro ad Achaz, Isaia e suo figlio She’ar Iaschiuv. Isaia, a nome di Dio, deve dire le seguenti parole riferite nel verso 3: “tu dirai: fa attenzione, stai tranquillo, non temere, e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumanti (per la collera di Reèzim degli arami e del figlio di Romelia)29”. L’esortazione del profeta è molto forte, tanto più violenta. L’esortazione di Isaia nel testo non trova nessuna giustificazione: il profeta si limita a dire che quei due re sono avanzi di tizzoni fumanti. Il senso di queste parole si deduce da tutto l’insieme del capitolo 7, noi però preferiamo anticiparlo.

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Quello tra parentesi non fa altro che deformare il testo.


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Il profeta sta parlando anzitutto da parte di Dio (qui noi entriamo nel cuore della fede di Isaia), ma sta parlando ad Achaz, che viene chiamato dal profeta stesso con un nome programmatico: “casa di Davide”. Che vuol dire casa di Davide? Questa espressione richiama, non la sola persona di Achaz, ma tutta la dinastia davidica alla quale il Signore ha fatto una promessa formidabile espressa a Davide (fede Jahwista) per mezzo del profeta Natan in 2 Samuele. Questa stessa promessa sarà poi ripresa nel Salmo 88. A Davide che voleva costruire una casa, Dio promette un casato e garantisce la perpetuità della dinastia davidica.


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Martedì 19 ottobre 2004, ore 08,30 / 10,15 In 2 Samuele 7 è descritta la preoccupazione di Davide di volere costruire una casa al Signore. Il profeta Natan prima approva il progetto di Davide, poi fa sapere qual è il vero pensiero del Signore. Leggiamo infatti in 2 Samuele 7,8 una breve memoria storica dell’opera di Dio, Dio ricorda: “Io ti presi dai pascoli mentre seguivi il gregge perché tu fossi il capo di Israele […].12 Quando i tuoi giorni saranno compiuti, Io assicurerò la discendenza uscita dalle tue viscere e renderò stabile il suo trono”. In contrapposizione a Saul che Dio ha rimosso dal suo trono, a Davide promette la perpetuità della discendenza30. Perciò la tradizione vuole che la dinastia davidica rimanga per sempre sul trono. La stessa prospettiva soggiace nel Salmo 71: “il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna per tutti i secoli”. In un epoca poi in cui il re davidico è in crisi, il Salmo 88 in 28-29 ricorda a Dio la sua promessa: “gli conserverò sempre la mia grazia e la mia alleanza gli sarà fedele. Stabilirò per sempre la sua discendenza, il suo trono come i giorni del cielo”. Questa prospettiva è presente ad Isaia, e alla sua luce, il profeta legge la situazione presente. Il re davidico Achaz, renitente ad entrare nella lega anti-assira viene combattuto dai re di Samaria e Damasco, i quali vogliono deporlo e mettere a suo posto un certo Ben Tabel (figlio di Tabel). Chi sia questo figlio di Tabel non interessa, interessa il fatto che si chiama “figlio di Tabel”, cioè figlio di una persona qualsiasi.

30

Questa profezia si compirà nella Annunciazione presentata da Luca.


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Ciò è importante in un contesto in cui il profeta sta usando nomi simbolici: a- casa di Davide: Achaz (][ D) ; bcde-

Isaia (:K\ > Y \); il figlio di Isaia (significa: un resto tornerà); figlio di Tabel; Emmanuele (ODH:Q0 >)L .

Perciò i due re pretendono di deporre la casa di Davide, il re davidico cioè sulle cui spalle c’è una formidabile promessa di Dio con una persona qualsiasi. I due re stanno combattendo contro la promessa di Dio ed è chiaro che la battaglia sarà impari. Sul piano politico e militare la battaglia è impari perché i re di Samaria e Damasco, come potenza militare, sono superiori ad Achaz. Ma sul piano spirituale la battaglia è impari ma per altro verso, perché dietro Achaz c’è Dio che garantisce la sua promessa. Questo pensiero guida Isaia nel momento in cui alla casa di Davide è annunziata la venuta di quei re. Il cuore di Achaz cominciò a tremare come i rami del bosco per il vento, ma con altrettanta forza Isaia lo induce a restare calmo. Capiamo il peso delle parole del profeta, in 7,4: “fai attenzione, stai tranquillo, non temere perché il tuo cuore non si abbatta”: il profeta poggia la sua esortazione proprio sulla promessa di Dio. Qui il profeta si trovò a combattere contro l’incredulo Achaz. Vistosi assalito e riconoscendo di non volere resistere chiese aiuto alla Siria. Ci dice il secondo libro dei Re nel capitolo 16 che Achaz mandò a chiedere al re assiro di intervenire professandogli tutta la sua sudditanza: “io sono tuo servo e tuo figlio, vieni!” e sollecitò l’intervento assiro con doni di oro e di argento che prese spogliando la casa reale e il tempio. Il secondo libro delle cronache sembra andare oltre, ci informa che Samaria e Damasco non solo assediarono Achaz, ma combatterono e fecero non


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pochi prigionieri di Giuda. Si capisce allora la richiesta di aiuto di Achaz alla Siria. Tale richiesta che politicamente poteva essere saggia dispiacque al profeta. Se lui aveva assicurato che non lo avrebbero deposto in nome della promessa di Dio, il profeta avrebbe giustamente voluto che anche Achaz entrasse in questa mentalità, e se la sua stabilità dipendeva dal Signore, egli avrebbe dovuto confidare soltanto nel Signore. Di conseguenza non avrebbe dovuto ne temere i due re, ne confidare nella Siria. A riguardo della Siria, il profeta ha una idea precisa: lo rivelerà trent’anni dopo quando sarà costretto a cambiare opinione sulla Siria, ma il profeta l’aveva sempre ritenuta uno strumento di punizione nelle mani del Signore, perciò non bisognava fare nulla contro la Siria, ma attendere con fiducia il compimento dell’opera del Signore. Perciò Isaia fu amareggiato dell’atteggiamento di Achaz, cercò in tutti i modi di convincerlo e un ennesimo tentativo è descritto nel capitolo 7, nella versione italiana in 7,10 si legge l’espressione: “il Signore parlò ad Achaz”. Qui c’è un errore: non è il Signore che parla ad Achaz, ma Isaia. L’equivoco sta nel fatto ce sia “il nome del Signore”, sia “il nome di Isaia” cominciano con la stessa consonante, lo «iod», scritto abbreviato. Un copista credette di spiegare scrivendo non Isaia, ma Jahwè, il Signore, e difatti tutto il contesto è un dialogo tra il profeta e Achaz. Il profeta per indurre Achaz a credere e a confidare nel Signore, arriva addirittura a fargli una proposta: “chiedi un segno da parte del Signore, sia nel profondo in basso, sia lassù in alto”. Il segno vorrebbe convincere Achaz che in quel momento critico il Signore è presente. Il profeta non mette limiti, Achaz può chiedere il segno dovunque gli pare. Achaz rifiuta di chiedere un segno con le parole: “non voglio chiedere per non tentare il Signore”. Tentare il Signore, metterlo alla prova mediante la richiesta dei segni è un peccato gravissimo perché rivela profonda incredulità, sfiducia, dubbio, scetticismo nel Signore. Dio stesso per esempio nel Salmo 94 si lamenta: “mi misero alla prova benché avessero visto le mie opere”.


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E la stessa lamentela che farà Gesù nei Vangeli sinottici: “questa generazione perversa e adultera chiede un segno” (e Gesù annunzia quello di Giona), ma in Giovanni 12,40 l’evangelista nota che nonostante che Lui avesse fatto tanti segni perseveravano nella incredulità. In questo sfondo la risposta di Achaz potrebbe apparire profondamente religiosa, ma religiosa non è, anzi è profondamente subdola. Dicevamo come chiedere un segno è grave, ma quando è il Signore stesso che autorizza a chiedere il segno allora è sfiducia in Lui non chiederlo. Ecco il primo motivo per cui la risposta di Achaz è subdola, ma questo carattere appare meglio dalla reazione violenta di Isaia. Ma perché è subdola? Perché la richiesta di un segno mira ad alimentare la fiducia nel Signore. Se Achaz chiede un segno e lo ottiene deve fare quello che il profeta gli dice, cioè non temere i due re e non porre fiducia nella Siria. Ciò però mette nei guai Achaz perché egli già ha fatto i suoi passi verso la Siria, e se ottiene il segno deve romperla con la Siria e questa non glielo avrebbe perdonato. Ecco perché Achaz risponde in maniera subdola ed evasiva. Il profeta però tutto questo lo sa e risponde in maniera violenta: “ascoltate, casa di Davide, vi pare poco avere stizzito (dare ai nervi, creare rabbia) uomini, che volete anche stizzire il Signore mio Dio”. Il profeta si rivolge ad Achaz chiamandolo “casa di Davide”, questo appellativo nel contesto, che pur sarebbe altamente programmatico, in realtà suona come forte rimprovero: Achaz è “casa di Davide”, ma non si è comportato secondo questo nome. Il profeta lo ha indotto ad agire in conformità ad esso, cioè ad indurlo a porre la fiducia nel Signore, ma non ci è riuscito, anzi la reazione di Achaz lo ha fatto stizzire. Donde la frase: “vi pare poco avere stizzito uomini?” e in questa parola “uomini” il profeta allude a sé stesso, ma ora è Dio stesso che lo esorta e perciò Achaz sta resistendo a Dio e lo sta stizzando, reagendo e creandogli rabbia. Ma Dio è fedele, manda vanti il Suo disegno anche senza Achaz, e perciò il Signore gli dà Lui stesso quel segno che Achaz non vuole chiedere, ma in questo caso, il segno suona come rimprovero ad Achaz. Ed ecco il segno: “Pertanto il


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Signore stesso vi darĂ un segno. Ecco la giovane donna è incinta e sta per partorire un figlio e chiamerai il suo nome Emmanuele ((OOCPQWJN)â€?31. Questa traduzione discorda con quello che abitualmente si è sentito, ma altre traduzioni hanno lo scopo un po’ apologetico e non bisogna forzare i testi32. Il testo ebraico ha la parola “KP O > Kâ€? , il termine “KP O > Kâ€? non significa vergine nella lingua ebraica, la parola vergine corrisponde al termine ebraico “KO :W% â€? che si legge circa 55 volte nell’AT. “KP O > Kâ€?

indica una giovane donna sposata o meno poco importa, ma che si trova alla prima esperienza del parto o della gravidanza. Il termine “KP O > K�

nell’AT è molto raro, si legge appena otto volte, di cui due usi al plurale “WPRO > K â€? sono nel cantico e nel cantico richiamano l’harem di Salomone, quindi non ha assolutamente il senso di vergine. Inoltre il termine ha l’articolo è perciò non rimanda ad una donna o ragazza qualsiasi, ma deve rimandare ad una donna conosciuta sia da Isaia che da Achaz. Il termine “KU K â€? è aggettivo ed è chiaro che esiste solo al femminile ed indica la condizione di una donna in stato di gravidanza (quindi possiamo tradurre “ora è incintaâ€?). Segue coordinato da un “Zâ€? (wav), un altro participio, un participio presente femminile dal verbo “KU K â€?, partorire. Il participio presente non è un futuro, ma ha il senso di successione dopo l’aggettivo precedente. Assume perciò il carattere di un futuro imminente: “questa donna è incinta e sta per partorireâ€?. Il segno perciò del profeta riguarda una donna concreta ben nota che è incinta, in stato avanzato di gravidanza, ed è vicina al parto (circa quinto, sesto mese). Chi può essere questa donna? Solo una risposta è possibile: la giovane moglie del 31

Cfr. Isaia 7,14: FKC VQW VQ FY UGK MW TKQL CWXVQ L WBOK P UJOGK QP KXFQW JB RCTSG PQL GXP IC UVTK G=ZGK MCK VG ZGVCK WKBQ P MCK MCNG UGKL VQ Q PQOC CWXVQW (OOCPQWJN (dai LXX);

“CODH:Q0 >L $PY WDU T Z! %H WG O \2Z! KU K KP O > K K1(KL W$D aN O D:K \Q GRD@ 7H\, NHO � 32

Nessuno pensi che Isaia 7,14 si voglia riferire alla concezione verginale di Maria.


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ventenne Achaz. E difatti da lĂŹ a qualche mese nascerĂ Ezechia che il profeta saluterĂ come l’Emmanuele. Lamentando infatti l’incredulitĂ di Achaz, il profeta amaramente dirĂ : “sarĂ devastata la tua terra Emmanueleâ€? (cioè il re assiro devasterĂ quella terra durante la reggenza dell’Emmanuele). Dove sta allora il segno? Nel fatto che la giovane moglie di Achaz è incinta e sta per partorire, mostra la fedeltĂ di Dio. Achaz non sarĂ deposto, dopo di lui non ci sarĂ un usurpatore, ma suo figlio. La gravidanza della moglie mostra che sta continuando la dinastia davidica fondata sulla promessa di Dio. Come si arriva allora all’annunzio della Concezione Verginale che sarĂ esplicitamente affermata in Matteo e in Luca? Alla concezione verginale si arriva attraverso la versione greca dei LXX 33. Notiamo anzitutto che la versione greca data almeno cinque secoli dopo il testo di Isaia, e come capita anche per la versione Aramaica (il Targum) i traduttori non sempre traducono alla lettera:

• • •

o perchĂŠ non capirono il testo ebraico, o perchĂŠ disponevano di un’altra copia differente, o perchĂŠ, come nel nostro caso, i traduttori tradussero a senso sotto l’influsso di altre prospettive teologiche posteriori. Anzitutto tradussero il termine ebraico “KP O > Kâ€? con “RCTSG PQLâ€?

che significa vergine ma non è questa la traduzione abituale nei LXX del termine ebraico. Altre volte traducono il termine con “PGC PKLâ€? (fanciulla, ragazza di circa 15-18 anni), ciò significa che piĂš che tradurre, i LXX interpretarono. Inoltre tradussero l’aggettivo “KU K â€? (è incinta) con l’espressione “GXP ICUVTK G=ZGKâ€?. Quindi i LXX parlarono di una gravidanza futura. Il participio presente “sta per partorireâ€? fu tradotto col futuro “VG ZGVCKâ€?dal verbo “VK MVYâ€? (e partorirĂ un figlio). Concludendo i LXX 33

La Scrittura è opera di Dio, e Dio tante volte prepara ad esprimere un evento superiore alle sue possibilità letterarie.


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intesero il testo di Isaia come proiettato al futuro che parlava del parto di una vergine. Perché i LXX tradussero così? Rimane incerto. Una possibilità e che nella traduzione i LXX 0 furono influenzati dalla tematica del secondo e terzo Isaia della vergine figlia di Sion, madre di molti figli. Il testo dei LXX aprirà la strada al NT che parlerà della Vergine per eccellenza. Questo sviluppo posteriore però non interessa leggendo Isaia, ma interessa leggendo Isaia nel NT e perciò lasciando stare ogni altra considerazione torniamo a Isaia. Isaia aveva detto che quei due re erano mozziconi di tizzoni fumanti, il mozzicone del tizzone fumante è quel pezzo di legno che stato bruciato di cui ne è rimasto solo un pezzettino e spento e resta soltanto un fumo che disturba. In questa espressione il profeta vide con chiarezza quello che da lì a pochi anni si sarebbe verificato.

Mercoledì 20 ottobre 2004, ore 10,30 / 12,15 Il profeta idealizza la figura del figlio che deve nascere. Lo chiama Emmanuele (ODH:Q0 >L) cioè la particella «0 >» più il suffisso di prima persona «ODH:Q0» (con noi è). Il profeta non sa ancora come si chiamerà questo figlio. Si chiamerà poi Ezechia, ma non importa il nome concreto, importa invece il nome simbolico. La sua nascita è il segno che Dio è presente e che perciò rimane immutata la Sua promessa. Dicevamo che siamo in un contesto di nomi simbolici, ne’abbiamo indicato ben cinque: Achaz è chiamato “casa di Davide”, cioè discendente davidico, colui sul quale poggiano le promesse di Dio. Il nome stesso Isaia è un nome simbolico: Isaia (ebraico) che deriva dal verbo iscià (salvare) e dal nome di Dio Æ Dio salva. È il nome stesso diventa la presenza del Dio salvatore. Il figlio di Isaia si chiama “Scear iasciuv”. Scear significa resto, iasciuv è imperfetto qal terza persona singolare dal verbo sciuv, un resto tornerà, è la teologia di Isaia secondo la quale, anche se Dio permette in certi mo-


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menti una catastrofe, Egli lascia sempre un resto da cui riparte la sua opera di salvezza. Ăˆ nome simbolico anche quello dell’usurpatore: ÂŤOD E M % Âť (E|Q iDEHO), cioè una persona comune che a riguardo della quale il Signore Dio non ha detto niente. Il profeta idealizza questa figura dell’Emmanuele anche se poi al lato pratico dovrĂ combattere contro di lui, si chiama Emanuele ma non si comporterĂ come tale. Il profeta lo idealizza con delle descrizioni alquanto idilliache: “panna e miele mangerĂ finchĂŠ non imparerĂ a scegliere il miele ed a rigettare il maleâ€?, cioè sarĂ oggetto di cura perchĂŠ possa distinguere tra ciò che è conforme al disegno di Dio e ciò che invece non lo è. Segue poi una profezia che si rivelerĂ abbastanza vera, scrive il profeta nel verso 14: “poichĂŠ prima che il bambino impari a rigettare il male e scegliere il bene34, sarĂ abbandonato il paese davanti ai cui re tu temiâ€?. Achaz sta temendo di fronte ai due re: quello di Damasco e quello di Samaria. Il profeta annunzia la devastazione dei loro regni. Prima aveva definito questi due re dei “residui di tizzoni fumantiâ€? cioè due pezzi di legno ormai quasi tutti consumati dal fuoco e che fanno fumo. Tutto ciò si avverò ben presto, siamo nell’anno 733/732, da lĂŹ a pochissimo tempo dopo, Damasco tra il 732 e il 730 fu assediata dal re assiro e distrutta, Samaria lo sarĂ undici anni dopo, assediata da Salmanassar V nel 722, distrutta dal figlio Sargon II nel 720. Il profeta aveva ragione a chiamarli “tizzoni fumantiâ€?, il resto di una cittĂ distrutta e incendiata fa fumo. tornando però al verso 435 dove il profeta chiama i due re chiama “tizzoni fumantiâ€? qualcuno capĂŹ male questa immagine e interpretò l’immagine di tizzoni fumanti non come residuo di un incendio, ma come manifestazione di collera e di ira, per questo la frase del verso 4: “per il furore dell’ira di Reezin e di Aram e del figlio di Romeliaâ€? è una glossa posteriore che vuole spiegare ma spiega male. Fra l’altro questa aggiunta contiene un errore storico, il glossatore coordinando ha presentato tre personaggi di34

cioè prima che arrivi alla capacità di discernimento.


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stinti: evidentemente non sapeva che Reezin e Aram si identificano. Il profeta non può fare a meno di sollevare lo sguardo sulle conseguenze che l’azione di Achaz determinerà per il regno di giuda. Egli descrive tali conseguenze nel verso 17, ma prima di considerare questo verso consideriamo i versi 7-9, questi sono di indole diversa rispetto, e a differenza dei seguenti non sono in prosa, ma in forma poetica. Essi sono staccati del contesto e forse dovevano essere isolati, ma essi esprimono bene tutta la pressione che il profeta ha esercitato su Achaz, ma nello stesso tempo esprimono bene la fede di Isaia. Questi versi suonano nel seguente modo: “così dice il Signore Dio: non sussisterà, non sarà poiché capitale di Aram, Damasco, e capo di Damasco, Reezin (ancora 65 anni e cesserà Efraim dall’essere popolo) capitale di Efraim, Samaria, e capo di Samaria, il figlio di Romelia se non credete non potrete sussistere”. Abbiamo messo tra parentesi l’espressione dei 65 anni perché chiaramente un’aggiunta, è una espressione in prosa in un contesto poetico, interrompe lo sviluppo di pensiero, è strana dal punto di vista storico che Efraim cesserà di essere un popolo perché il regno del nord nel 720, dopo la caduta di Samaria, sarà costituito provincia assira, questo è vero, ma non sappiamo che cosa vogliano dire quei 65 anni perché difatti Samaria cadde dodici anni dopo. La cogliamo perciò nel testo, è il testo genuino di Isaia comprende quattro versi e ciascun verso in due parti e ogni parte nel testo ebraico ha due accenti. Siamo perciò nel contesto di una strofa poetica, c’è da pensare che sia stata scritta dal profeta stesso. Egli però non sta parlando a titolo proprio e non sta perciò riferendo una sua opinione personale, ma sta parlando a nome del Signore usando la formula dell’ambasciatore. Il Signore manda a dire una affermazione negativa assai perentoria. Abbiamo noi due espressioni in forma di imperativo apodittico negativo. La prima forma è «a:TW DO »; «DO » è una negazio35

Isaia 7,4.


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ne apodittica, potremmo tradurla “è impossibile che ciò sia”, «a:TW » è imperfetto

qal

terza

persona

singolare

femminile

dal

verbo

«a:T» TÕP . Il verbo «a:T» TÕP significa stare dritto, stare alzato, donde il senso di sussistere “non avrà consistenza”. Prima di caratterizzare l’oggetto notiamo la seconda espressione: «K\ K WL DO^Z!», anche questa formula è un imperfetto qal dal verbo «K\ K » (K \¼ - essere). Le due forme forse andavano meglio essere messe al contrario. La prima forma esclude l’inizio, la seconda forma esclude la continuità. Forse si sarebbe detto meglio: non ci sarà, ma nemmeno inizierà. Il profeta sta così escludendo in maniera completa e assoluta, ma che cosa sta escludendo? I due verbi sono al femminile, l’ebraico non ha il neutro, e per indicare un oggetto neutro si serve del femminile. Il riferimento è all’azione descritta nei versi precedenti in prosa, quella cioè di deporre Achaz e di mettere a suo posto un usurpatore, il figlio di Tabel. Ma perché questa esclusione così assoluta? Qual è il principio che permette di dedurre tale esclusione? La risposta è nei versi seguenti: in questi due versi in perfetto parallelismo il profeta nota che la capitale di Aram (la Siria) è Damasco, e la capitale di Efraim è Samaria (Shomeron nel testo ebraico), capo di Damasco è Reezin, capo di Samaria è il figlio di Romelia. Il profeta sta facendo una osservazione. Ci sono due regioni Aram ed Efraim, due capitali Damasco e Samaria, due re Reezin e il figlio di Romelia. Perché fa questa osservazione? Il profeta non continua il suo ragionamento, esso viene interrotto da un pensiero improvviso che lo assale e che disturba, quasi manda in aria, il suo ragionamento, e aggiunge l’espressione amarissima, diremmo sfiduciata: “ma se non credete non potete sussistere”. Tentiamo allora di ricostruire il pensiero del profeta: ci sono due regioni Aram ed Efraim ma ne manca una terza: Giuda; ci sono due città: Damasco e Samaria ma ne manca una terza: Gerusalemme; ci sono due re: Reezin e il figlio di Romelia ma ne manca un terzo: la casa


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di Davide (Achaz). Il profeta vorrebbe dire che due regioni qualsiasi stanno combattendo contro la regione di Giuda, quella che Dio ha lasciato alla casa di Davide, due città che non sono niente di fronte alla città che Dio si è scelto per farvi dimorare il Suo nome (il Tempio), due re banali (un qualsiasi figlio di Romelia) che non sono niente di fronte alla casa di Davide, la lotta perciò è impari, Samaria e Damasco sono superiori per la loro forza militare ma sono del tutto impari di fronte alla tribù di Giuda, di fronte a Gerusalemme, di fronte alla casa di Davide, e perciò questi re non riusciranno nel loro intento perché si trovano a combattere contro Dio e il suo disegno. Ma il profeta come dicevamo non continua il suo pensiero, è disturbato da un pensiero improvviso contenuto nelle parole: “se non credete non potrete sussistere”. Qui il profeta sta dicendo un aspetto per lui irrinunciabile: la promessa di Dio per realizzarsi esige la fede, ma è proprio di quella fede che dubita. Achaz rischia di soccombere a quei due re perché non crede e allora non può pretendere che il Signore lavori per lui. Possiamo dire che tutto il ragionamento di Isaia va ad infrangersi come un’onda contro lo scoglio dell’incredulità di Achaz. Ecco perché dicevamo che la frase è molto amara. Tornando al verso 17, che avevamo lasciato in sospeso, il profeta annunzia: “il Signore manderà su di te e sul tuo popolo e sulla casa di tuo padre giorni quali non vennero da quando Efraim si staccò da Giuda”. Il profeta annunzia una serie di guai per il regno di Giuda, questi guai troveranno poi il loro culmine 140 dopo nella deportazione del regno di Giuda in Babilonia, e la causa di tutto è non avere creduto nel Signore e avere voluto agire contrariamente a quanto stabiliva il suo disegno che il profeta aveva indicato. Tornando alla storia effettivamente Achaz non fu deposto, ma non per l’aiuto del Signore, ma per intervento di quella Assiria che lui stesso aveva invocato. L’Assiria venne e occupò tutti i territori di Damasco, Reezin dovette fuggire e occupò larga parte dei territori di Samaria. Ma Achaz non ne uscì indenne, dovette pagare il prezzo della sottomissione alla Assiria, dice il secondo libro dei re che Achaz dovette prendere l’oro e


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l’argento che si trovava nel tempio e nella casa reale e mandarli al re assiro, ma soprattutto dovette accettare gli idoli assiri nel tempio di Gerusalemme dove si celebrarono i culti assiri. Nel secondo libro dei re troviamo anche un’altra indicazione forse riferita in maniera un po’ confusa: si dice che Achaz non fece quello che è retto agli occhi del Signore, fece persino passare per il fuoco il suo figlio, evidentemente non si tratta dell’Emmanuele. Qui abbiamo un’indicazione dei culti assiri, i sacrifici dei bambini che venivano uccisi, sacrificati alla divinità è poi bruciati. L’archeologia ha messo in evidenza un luogo di quest’epoca con dei canaletti dove evidentemente doveva scorrere il sangue dei bambini. L’epilogo di tutta la vicenda perciò fu questa: Achaz si ritrovò sul suo trono ma fortemente sottomesso alla Assiria e ciò per non avere avuto fiducia nel Signore. Questa vicenda provocò grande amarezza nel profeta, il profeta era stato chiaro, nel capitolo 7 troviamo nel verso 20 un annunzio: “in quel giorno il Signore raderà con rasoio preso in prestito oltre il fiume, il capo e il pelo del corpo” il profeta descrive con l’immagine del rasoio l’Assiria che raderà, cioè devasterà e sottometterà. Il profeta esprime la sua amarezza in un oracolo contenuto nei versi 4-10 del capitolo 8: “poiché questo popolo ha rigettato le acque di Siloe che scorrono placide e trema (Achaz) per Reezin e per il figlio di Romelia, per questo il Signore gonfierà contro di loro le acque del fiume (Eufrate) impetuose ed abbondanti, irromperà in tutti i sui canali e strariperà in tutte le sue sponde. Penetrerà in Giuda, lo inonderà, fino a raggiungere il collo. Le sue ali distese copriranno tutte le estensioni del tuo paese. Seppiatelo popoli, preparate un piano, sarà senza effetti, perché Dio è con noi”. Ma il profeta ha parlato in nome di una prospettiva fondamentale quella cioè della sua fede nel Santo di Israele e ammonisce nei passi 12-15: “non chiamate congiura ciò che questo popolo ha chiamato congiura, non temete ciò che i popoli temono, il Signore degli eserciti, Egli solo è Santo e da temere, sarà laccio e trabocchetto per chi abita in Gerusalemme”. Ancora


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una volta il profeta richiama la sua prospettiva nel Santo di Israele. Il profeta da questa situazione esce amareggiato e deluso, non è stato creduto e il popolo ha pagato. Adesso Achaz è sotto l’Assiria e la sua situazione è molto grave, morirà giovanissimo, meno che trentenne, da lì a cinque anni dopo, ma il profeta vuole lasciare un memoriale di questo periodo. Il Signore stesso gli comanda di scrivere questo memoriale, nel verso 14 del capitolo 8 si legge: “si chiuda questa testimonianza, si sigilli questa rivelazione nel cuore dei discepoli”. Questo memoriale che il profeta deve scrivere probabilmente lo possediamo e deve essere individuato nei capitolo 6,7,8 e tutti e tre costituiscono il memoriale dopo della guerra siro-efraimita.

Mercoledì 03 novembre 2004, ore 10,30 / 12,15 I capitoli 6-8 sembrano essere quel memoriale che il profeta stesso redasse nel 732 dopo la guerra siro-efraimita. Questo memoriale ha tre parti: 1. capitolo 6: la vocazione; 2. capitolo 7: gli oracoli che il profeta ha pronunziato prima degli eventi; 3. capitolo 8: gli oracoli pronunziati dal profeta dopo quegli eventi. Il capitolo 6 narra la vocazione del profeta e come capita a tutti i profeti essi non scrissero mai la loro vocazione subito dopo averla ricevuta, nel caso specifico Isaia la scrisse sette anni dopo come presa di coscienza

personale,

ma

anche

come

denunzia

al

popolo.

Da

quell’esperienza tragica della guerra siro-efraimita il profeta, e questa sarà la croce di Isaia, uscì deluso diremmo frustrato, non riuscì a portare al Signore il suo popolo. La vocazione di Isaia è complessa e così come l’abbiamo nel testo non dovette uscire dalle mani del profeta. Questa vocazione subì nei secoli delle aggiunte man mano che i lettori leggevano e


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annotavano in margine le loro osservazioni. Notiamo di questo testo due sole cose. Anzitutto il profeta ambienta la sua vocazione nel tempio, egli dichiara di avere visto il Signore su un trono alto ed elevato e attorno vi stavano dei serafini. È chiaro che si ripiglia la descrizione dell’arca nel tempio. Sappiamo che l’arca era sormontata da due cherubini, l’uno di fronte all’altro. Tutto questo costitutiva il trono di Dio. Si capisce allora il Salmo 79: “tu pastore di Israele ascolta, tu che siedi sui cherubini ascolta…”. Ma quello che sorprende in questa descrizione è il canto dei serafini (che noi riprendiamo nella liturgia) che direbbero: “Santo, Santo, Santo…”. Questa espressione pone due problemi. Un primo problema è storico, un secondo problema è letterario. Il problema storico è se questa frase che è di Isaia sia stata pronunziata ora o trent’anni dopo, quando il profeta amareggiato uscì dalla storia ma cantando al Signore delle schiere e l’espressione sembra essere meglio una professione di fede che il profeta pronunziò in polemica contro la bestemmia del re assiro che osò ridurre il Signore ad un qualsiasi dio dei popoli. Contro la bestemmia il profeta professa tutta la santità del Signore. Siamo perciò inclini a ritenere questa frase pronunziata trent’anni dopo ma inserita qui da un redattore. Il secondo problema è letterario, nel testo attuale noi abbiamo un triplice Santo, tradotto allo stesso modo dalla versione greca e da quella aramaica.


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Ma ci chiediamo: il profeta scrisse realmente cosĂŹ o forse non abbiamo una frase gonfiata? Se togliamo due Santo e ne lasciamo uno solo, otteniamo un distico poetico o meglio un solo verso in due parti con rispettivamente due e tre accenti.

Y$GT KZ K\! W$DE F

DO^P U D K ON $G$E.

Questa espressione significherebbe alla lettera: “Santo (è) il Signore delle schiere (professione di fede)â€?36. Il termine ÂŤDO^P Âť è infinito assoluto del verbo DOHP (P“O| ). Il re assiro si vantava di avere assoggettato tutta la terra, no risponde il profeta, è la gloria del Signore che riempie tutta la terra. In questa forma l’aggettivo Santo assume un’enfasi particolare ed è piĂš forte l’unico Santo che non il pesante triplice Santo (uno solo vi dĂ la professione di fede). Come si spiega il triplice Santo? Un copista lesse l’unico Santo e gli sembrò debole e in margine del suo testo volle scrivere il superlativo (che in ebraico si fa anche ripetendo lo stesso aggettivo). Il copista seguente avrebbe introdotto gli altri due Santo nel testo, cosĂŹ diventano tre, ma formano un verso molto pesante. Un altro problema del testo (che non svilupperemo) della vocazione, un problema letterario, è piĂš complesso. Il profeta riceve da Dio un comando molto strano: “rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro di orecchio e acceca i suoi occhi, perchĂŠ non veda con gli occhi ne oda con gli orecchiâ€?.

36

Isaia 6,3.


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Questo problema diventa ancora più grave nel NT, cioè nella ripresa di Isaia da parte dei Vangeli (ripreso in Gv 12): “Ascoltate pure ma senza comprendere guardate pure ma senza conoscere rendi insensibile il cuore di questo popolo hanno indurito i loro orecchi hanno reso ciechi i loro occhi per non vedere con gli occhi e non udire con gli orecchi e non comprenda con il cuore ne si converta e io lo risani”37. Un redattore aggiunse le frasi riguardanti il cuore, l’espressione “il cuore di questo popolo” è necessariamente complemento oggetto, di conseguenza il verbo deve essere necessariamente imperativo. Questo imperativo si trascina nel senso tutti gli altri dando così l’idea che il profeta abbia ricevuto simile comando. Checché ne sia nei Vangeli, Isaia non ha ricevuto nessun comando, ma sta facendo una fortissima denunzia perché il popolo non ha ascoltato la sua Parola. Purtroppo questo Dio glielo aveva detto sette anni prima, purtroppo questo popolo ha chiuso orecchi e occhi e non vede e non sente. Gli oracoli nel capitolo 7 li abbiamo visti ma ora diamo una occhiata agli oracoli di dopo che esprimono tutta la fede e l’amarezza del profeta. Abbiamo notato come il profeta chiude questo periodo annunziando le tragiche conseguenze per avere Achaz confidato nella Assiria, ma chiude anche con una forte ammonizione a ritenere soltanto il Signore come Santo.

37

Ricostruzione del testo come doveva essere originariamente secondo il Professore.


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Il profeta esce per il momento di scena e probabilmente ha taciuto per circa cinque anni, ma poi nel 727 deve rompere il suo silenzio. In questi cinque anni di silenzio la storia andò avanti, il re assiro chiamato da Achaz venne e Achaz dovette pagare un pesante tributo. Abbiamo anche notato che dovette accettare i culti assiri facendo passare per il fuoco anche il suo figlio, ma intanto la profezia di Isaia si avverava. All’epoca della guerra siro-efraimita aveva chiamato i due re “tizzoni fumanti” e lo furono veramente. Nel 732 il primo tizzone fumante fu Damasco distrutta e incendiata, il secondo tizzone fumante sarà dieci anni dopo Samaria. Si apre così il terzo periodo di Isaia, nel 727 si verificano due morti, quella del re assiro (Tiglat Pileser III) e sale al trono il figlio Salmanassar V, ma anche muore meno che trentenne Achaz e sale al trono all’età di cinque anni quello che Isaia aveva salutato come l’Emmanuele, cioè Ezechia. Evidentemente fino alla maggiore età Ezechia regnò attraverso un reggente che dovette essere una persona prudente, per questo Isaia in questo periodo, sotto Ezechia minorenne, non pronunziò grandi oracoli. Ne pronunziò però alcuni non contro Giuda, ma contro i popoli vicini, questi approfittando dell’inesperienza del giovane re assiro tentarono una ribellione, in particolare la Filistea tentò una ribellione, ma il profeta la ammonì severamente. A riguardo nel capitolo 14 nei versi 2831 abbiamo un oracolo contro la Filistea. Questi versetti vanno ricostruiti nel seguente modo: versi 29.30b.31.32.30a. Il profeta ammonisce: “non gioire Filistea tutta perché si è spezzata la verga che ti percuoteva perchè dalla radice di una serpe uscirà una vipera”. Ma probabilmente i filistei mandarono al reggente di Ezechia una ambasceria per stimolarlo alla ribellione. È bella la risposta di Isaia perché rivela ancora una volta tutta la sua dimensione religiosa. Nel verso 32 il profeta dice: “che cosa bisogna rispondere ai messaggeri delle nazioni?: il Signore ha fondato Sion e in essa si rifugiano gli oppressi del mio popolo”. Gli ambasciatori punitamente devono essere licenziati. Questa risposta mostra che la gran-


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de prospettiva del profeta è quella della fiducia nel Signore. Nella fiducia del Signore si avrà tranquillità e benessere (30a): “i poveri pascoleranno nei miei prati e i miseri vi riposeranno tranquilli”, quindi non c’è bisogno di ribellarsi. Una seconda ribellione venne da Samaria, nel 724 Samaria si ribellò al re assiro e non pagò il tributo. Il re assiro venne nel 722, Salmanassar V assediò Samaria e nel 720 la espugnò e la incendiò. Ma Samaria benché staccata da Giuda appartiene tuttavia al popolo del Signore e il profeta annunzia anche per Samaria la sua caduta. In 28,1 scrive: “guai alla corona superba degli ubriachi di Efraim”, corona superba perché costruita su una collina come una corona, ma superba perché non si fonda sul Signore. E il profeta annunzia: “dai piedi verrà calpestata la corona degli ubriachi di Efraim” caduta il 720. Fin qua, come dicevamo, è rimasto tranquillo sotto la guida prudente del reggente. I guai incominciano quando Ezechia diventò maggiorenne e cominciò a regnare a titolo proprio. Da diciottenne Ezechia prima fu creduto il pivellino facilmente manovrabile poi si montò la testa e fece quello che lo portò alla rovina. Come pivellino due colossi cercarono di manovrarlo contro l’Assiria, cioè Babilonia ed Egitto. Qui la storia ci aiuta, il capitolo 20 ci riferisce di una sua malattia anche grave (non sappiamo quale fosse), il profeta lo esortò a dare disposizioni perché sarebbe morto ma Ezechia lanciò una preghiera drammatica a Dio e il Signore gli fece sapere che non sarebbe morto. Questo e ciò che leggiamo nel capitolo 20 nel secondo libro dei re, ma tutto questo è riportato anche nei capitoli 38-39 del libro di Isaia, che ci danno un carme che costituisce la preghiera di Ezechia: “io dicevo a metà della mia vita, me ne vado alle porte degli inferi, sono privato del resto dei miei anni”. Ezechia difatti guarì e allora narrano sia il secondo libro dei re capitolo 20, sia il capitolo 39 di Isaia, che vennero legati ambasciatori da Babilonia a congratularsi con lui, ma non fu una visita di cortesia. Ven-


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nero a stimolare Ezechia a ribellarsi alla Assiria, il giovincello Ezechia ne rimase lusingato di essere attenzionato da un colosso come Babilonia. Narrano i due testi sopraccitati che Ezechia mostrò il suo arsenale e le sue ricchezze. Tutto ciò non sfuggì ad Isaia che fece sputare ad Ezechia il vero motivo di quella visita e il profeta deve amaramente annunziare (Isaia 39,6): “tutto ciò che hanno accumulato i tuoi antenati sarà portato a Babilonia e non resterà nulla”, il profeta annunzia che Ezechia perderà tutta la ricchezza che sta ostentando agli inviati di Babilonia. Ma un altro colosso pensò di strumentalizzare il giovanetto Ezechia: il faraone. Il profeta vede con trepidazione gli inviati dall’Egitto e pronunzia guai (18,1-6): “guai paese dagli insetti ronzanti (Egitto), che ti trovi oltre il fiume di Etiopia”. Il profeta ha stima degli egiziani li chiama messaggeri veloci, un popolo alto e abbronzato, un popolo potente e vittorioso, però tutto questo è visto con trepidazione. Il profeta sente quasi uno squillo di tromba, tutto questo non sfugge al Signore: “Io osservo tranquillo dalla mia dimora come il calore sereno alla luce del sole” ma il profeta contro l’Egitto dovrà fare un triste annunzio perché contrario al disegno di Dio (18,6): “saranno abbandonati tutti insieme agli avvoltoi e alle bestie selvatiche”. Probabilmente è in questo periodo che il profeta per ordine di Dio deve compiere l’azione simbolica spiegata nel capitolo 20: il Signore comanda al profeta di togliere il sacco dai fianchi e i sandali dai piedi. Narra il testo che Isaia andò spoglio e scalzo. Ma Dio stesso pone una domanda: “come mai il mio servo Isaia è andato spoglio e scalzo per tre anni?”. Dio stesso spiega che in quel modo il profeta sta annunziando che anche l’Egitto sarà sottomesso all’Assiria e sarà spogliato, cosa che avvenne sotto il regno di Assurpanipal. Ma Ezechia non si limitò a ricevere le pressioni di Babilonia e di Egitto, ma si mise in testa di prendere lui l’iniziativa per fare delle ribellioni. E qui entrò in aperto contrasto con Isaia. L’occasione Ezechia l’ebbe quando nel 705 muore Sargon II e sale al trono Sennacheriv.


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Qui troviamo una serie di oracoli violenti che ci limitiamo però solo a indicare, sono sei dello stesso periodo ma probabilmente indipendenti: 9 Isaia 28,7-13; 9 Isaia 28,14-22; 9 Isaia 28,23-29;

9 Isaia 29,1-5; 9 Isaia 29,9-14; 9 Isaia 29,15-16.

Martedì 09 novembre 2004, ore 08,30 / 10,15 Pure importanti sono gli oracoli contenuti nel capitolo 30 e in parte nel capitolo 31. Questi oracoli, il profeta li pronunziò quando la ribellione di Ezechia da tacita diventò manifesta. Ezechia preparò tutto per la ribellione e il profeta vedeva con trepidazione tutto questo. Ezechia era fiducioso nella sua forza militare e nell’aiuto che gli proveniva (o almeno sperava che gli provenisse) dall’Egitto. Ma il profeta vede tutto ciò con molta tribolazione perché la ribellione che si stava preparando non corrispondeva al disegno di Dio, e quello che non corrisponde al Suo disegno è destinato a fallire. Forse bisogna salvare la buona fede di Ezechia, i libri dei re parlando dei re sia del nord come del sud, danno valutazioni differenziate. Per i libri dei re, redatti nel regno del sud, e quindi con la mentalità del regno del sud, sono tutti peccatori e il loro peccato è duplice, hanno perpetuato il peccato di Geroboamo, restando separati da Giuda e dal regno davidico, contrariamente a quanto il Signore aveva stabilito. I re del sud invece si dividono in tre categorie, quelli empi che positivamente furono idolatri, altri personalmente buoni ma che non ebbero la forza di opporsi all’idolatria, i re buoni secondo il cuore di Dio furono due (secondo il libro dei re): Ezechia e circa ottanta anni dopo Giosia (640/609). Infatti su Ezechia il secondo libro dei re dà un giudizio positivo, in 2Re18,6 si legge che Ezechia fu attaccato al Signore, non se ne allontanò e osservò i suoi decreti. Alla ribellione Ezechia fu mosso da un desiderio religioso: liberare Gerusalemme e il tempio dagli idoli che il


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padre Acaz aveva introdotto nel tempio all’epoca della guerra siroefraimita. L’intenzione di Ezechia era buona ma il profeta Isaia si sforzò di fargli sapere che la strada della ribellione alla Assiria era contraria al disegno di Dio e perciò tutto si sarebbe rivolto a suo sfavore. Ezechia non ascoltò Isaia e fece quanto aveva progettato. Leggiamo in 2Re18,7:”egli si ribellò alla Assiria e non gli fu più sottomesso”, qui ha inizio una storia che vedrà il profeta in primo piano. La risposta della Assiria alla ribellione non si fece attendere. Per la storia di questo periodo ci riferiamo ai capitoli 18 e 19 del secondo libro dei re, ci riferiamo ai capitoli 36 e 37 di Isaia dove è narrata analoga storia forse in maniera più dettagliata rispetto al secondo libro dei re. La terza fonte sono gli annali assiri. Nel 705 in una imboscata era morto il re assiro Sargon II, ed era salito al trono il figlio Sennacheriv, siamo più o meno tra il 701 e il 700. Sennacheriv in seguito alla ribellione di Ezechia venne nel territorio di Giuda, leggiamo in Isaia 36,1: “nell’anno quattordicesimo del re Ezechia, Sennacheriv re di Assiria assalì e si impadronì di tutte le fortezze di Giuda (cioè devastò il territorio del regno del sud)”, restava Gerusalemme che lui cinse di assedio, l’assedio dovette essere duro ma Sennacheriv non andò subito alla distruzione di Gerusalemme. Fece un ultimo tentativo per risparmiare la città, e il tentativo fu quello di incitare alla resa. Il re assiro mandò una ambasceria agli assediati di Gerusalemme incitando alla resa, dalle mura i capi giudei chiesero ai legati di parlare in lingua aramaica (Cfr. Isaia 36,11), ma gli inviati preferirono parlare in ebraico proprio perché il popolo capisse. Gli inviati offrono la resa fondandosi su quattro motivi, leggiamo in Isaia 36,4 le parole: “così dice il grande re, il re di Assiria” e qui si dicono i quattro motivi che renderebbero ragionevole la resa di Ezechia. Il primo motivo è che loro non possono resistere al re assiro; il secondo motivo è che loro non possono confidare sull’aiuto dell’Egitto nel quale Ezechia aveva sperato, leggiamo infatti in Isaia 36,6 le seguenti parole: “ecco tu confidi


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nell’Egitto, in questo sostegno di canna spezzata, che penetra la mano e la fora a chi vi si appoggia (tale è il faraone per chiunque confida in lui)”, l’immagine con cui i legati assiri definiscono il faraone è molto pertinente, la canna spezzata non solo non serve a nulla ma chi prende in mano quella canna si taglia. Anche questa motivazione storicamente è valida, ma prima del re assiro l’aveva detta Isaia quando aveva definito il faraone “Rachav l’ozioso” e aveva detto che la fiducia nell’Egitto sarebbe stata motivo di vergogna. Il terzo motivo della resa è la prospettiva di un benessere, leggiamo infatti in Isaia 36,16: “(dice il re di assiria) fate la pace con me e arrendetevi e allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e potrà bere l’acqua della sua cisterna”. Questi tre motivi per i quali chiede la resa sono del tutto condivisibili da parte di Isaia, il quale sosteneva che la resa rientrava nel progetto di Dio. Dio infatti aveva mandato l’Assiria non per distruggere il suo popolo, ma per punirlo e purificarlo, ma ciò sarebbe finito. Nel frattempo bisognava accettare la punizione senza ribellarsi e con grande fiducia in Dio, Isaia del resto aveva paventato (temuto) questo momento fin dal primo periodo del suo ministero quando aveva denunziato i crimini del popolo. Ma l’Assiria adesso avanza un quarto motivo per la resa, di fronte al quale il profeta prende radicalmente le sue distanze dalla Assiria. Il quarto motivo è che non bisogna confidare nemmeno nel Signore, perché il re assiro è più potente del Signore. Nelle guerre antiche si credeva che combattendo i popoli combattevano le rispettive divinità e vinceva la divinità più potente. Il re assiro vanta che le sue divinità sono più potenti delle divinità degli altri popoli e come ha sottomesso le divinità di altri popoli, così sottometterà Jahwè, oscuro Dio di un popolo minuscolo. In altre parole il re assiro ha bestemmiato mettendosi al di sopra del Santo di Israele e riducendo il Signore a un semplice dio comune. Ma qui il profeta cambia opinione sulla Assiria e contro di essa pronunzia un “guai”, ci restano a riguardo due carmi, il primo carme è nel capitolo 10


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nei versi 5-15, il secondo carme è invece dal verso 22 in poi del capitolo 37 di Isaia. Mentre Isaia scriveva ciò, il popolo dentro le mura fu fortissimamente impressionato, e finalmente Ezechia quando già gli assiri stavano per espugnare la città e avessero anche cominciato a scavare dei cunicoli sotto le mura per potere penetrare nella città per distruggerla. Ezechia finalmente l’unica cosa sensata che avrebbe potuto fare, si mise cioè in preghiera, si recò al tempio e lì pregò il Signore Dio. Il secondo libro dei re e Isaia 37 ci danno un sunto della preghiera di Ezechia, ma forse questa preghiera dovette essere più intensa e forse conserviamo questa preghiera. La preghiera suona così: “Tu pastore di Israele ascolta, Tu che guidi Giuseppe come un gregge, assiso sui cherubini rifulgi, davanti ad Efraim, Beniamino e Manasse”, capiamo che si tratta del Salmo 79(80).

Mercoledì 10 novembre 2004, ore 10,30 / 12,15 Altri studiosi individuano questa preghiera nel Salmo 43. La preghiera di Ezechia fu esaudita mentre gli Assiri erano già sul punto di espugnare la città improvvisamente Sennacheriv tolse l’assedio e tornò in Babilonia. Per qual motivo? Il capitolo 37 di Isaia propone come motivazione un fatto originario: l’angelo del Signore di notte devastò l’accampamento assiro. Ci chiediamo se questo non possa essere un modo iperbolico per descrivere una moria a causa di una epidemia, o forse il vero motivo è che a Sennacheriv giunsero notizie di rivolte in Babilonia. Allora decise di lasciare l’assedio, tanto più che lasciava Gerusalemme abbastanza debilitata impose un pesante tributo. Gerusalemme continuò ad essere un regno ma del tutto sottomesso alla Assiria. In tutto ciò si verifica quello che il profeta trenta anni prima, all’epoca della guerra siroefraimita aveva detto, all’emmanuele aveva preannunziato, ancora nel grembo materno la devastazione da parte di quella assiria che il padre


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Acaz aveva chiamato contro i due re. Partito il re assiro il popolo esultò e quello fu un momento di massima amarezza per il profeta. Il popolo si diede alla pazza gioia, salì sulle case, sulle terrazze e il profeta vede tutto ciò e quello per lui è un momento di pianto. Questo pianto del profeta ci è riferito nei versi 1-4 del capitolo 22, e il profeta osserva: “che hai tu dunque che sei salita tutta sulle terrazze, città rumorosa e tumultuante, città gaudente”. Secondo il profeta quello non è il momento di gioire, casomai il momento di ringraziare il Signore, cosa che il popolo non fece e il profeta continua: “i tuoi caduti non sono forse caduti di spada e non sono forse caduti in battaglia? Tutti i tuoi capi non sono forse fuggiti, fatti prigionieri senza un tiro di arco?”. Il profeta rimprovera il popolo di non avere veduto i suoi caduti, di non avere visto la sua disfatta, e osserva tacitamente che quello non è il momento della pazza gioia. Questa vista provoca nel profeta un senso di profonda amarezza ed esclama: “per questo vi dico stornate da me lo sguardo, voglio piangere amaramente”, non che il profeta non sia stato contento che gli assiri non abbiano distrutto la città, ma l’amarezza consiste nel fatto di constatare che ancora una volta il popolo non ha capito niente della azione del Signore. E questa amarezza il profeta la descrive in un testo che, non sappiamo perché, un redattore ha messo all’inizio del libro nel capitolo primo, ma appartiene probabilmente a quest’ultimo periodo. Il Signore si lamenta (Isaia 1,2): “Ho allevato e fatto crescere dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me”. In ciò il popolo si è rivelato meno delle bestie (Isaia 1,3): “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce, e il mio popolo non comprende”, questa è l’amarezza del profeta. Il profeta rivolge un rimprovero e dichiara la vera colpa del popolo (Isaia 1,4b): “hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo di Israele, si sono voltati indietro” eppure Dio ha fatto di tutto per richiamarlo, ha usato anche l’assiria come strumento di punizione, ma tutto è stato inutile.


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Il profeta utilizza perfino l’immagini di un flagellato, nel verso 5 si legge: “perché volete ancora essere colpiti accumulando ribellioni?”. Poi continua con quella immagine: “la testa è tutta malata, tutto il cuore langue, dalla pianta dei piedi alla testa non c’è in esso una parte illesa, ma ferite e lividure”, quasi a dire che tutto il corpo è stato colpito, che non c’è una parte che non sia stata colpita e che non c’è più dove colpire. Nel verso 7 il profeta applica: “il vostro paese è devastato, le vostre città sono arse dal fuoco”. Nei versi 10-20 del capitolo primo il profeta richiama alla giustizia, scrive il profeta: “che mi importa dei vostri sacrifici senza numero, sono sazio degli olocausti di montoni, smettetela di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me” poi il profeta aggiunge: “imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”, tuttavia non è chiaro se questa esortazione così pressante del capitolo primo, in cui Dio dichiara che non gli interessa niente il culto quando si trascura la giustizia, se questa pressante esortazione debba collocarsi nell’ultimo periodo di Isaia o non piuttosto nel primo periodo come la parabola della vigna e come il testo di Isaia 10,1-4 che continua poi nel capitolo quinto.

EPILOGO Siamo già arrivati al momento dell’epilogo, è il momento in cui escono di scena non solo il re assiro, ma anche Isaia e anche Ezechia. Ezechia l’emmanuele morì da lì a pochissimo tempo, a trentadue anni circa, stroncato dagli avvenimenti che lui stesso aveva provocato. Gli successe il figlio dodicenne Manasse che regnò 50 anni perché godette la pace assira e la godette perché fu ligio alla Assiria accettandone anche culti e divenendo apertamente idolatra. Il fatto che Isaia sia morto fatto segare in due da Manasse è una


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leggenda di molto posteriore, si trova nel libro apocrifo “il martirio di Isaia” che non va oltre il primo secolo a.C. Isaia esce di scena deluso perché in 40 anni di ministero profetico non riuscì a riportare il popolo al Signore. Il pianto del capitolo 22 e l’immagine del flagellato nel capitolo primo, servono bene a mostrare l’amarezza del profeta. Ma il profeta che esce dalla scena deluso esce pure con tanta gioia nel cuore e la sua gioia deriva dal fatto di avere creduto nel Santo di Israele, è il canto di Isaia con cui chiude il suo ministero profetico e quello che abbiamo già detto: “Santo è il Signore delle schiere, riempie la terra la sua gloria”. Ma il Santo di Israele apprezzò l’opera di Isaia e lo ricompensò squarciandogli il futuro e mostrandogli dove và a finire il suo disegno. Nel futuro non c’è distruzione anche se nulla al momento presente poteva dare speranza di ripresa. Ed ecco allora qual è il futuro del Santo di Israele, un futuro che a questo momento ha quasi 29 secoli da Isaia solo in parte si è realizzato, questo futuro è descritto in tre oracoli che all’origine dovevano costituire una trilogia unitaria, ma che poi un redattore avrebbe smembrato e avrebbe dislocato in diversi punti. Questi oracoli sono nell’ordine tematico:

1. Isaia 9,1-5; 2. Isaia 11,1-11; 3. Isaia 2,2-4. Noi adesso analizzeremo solamente il testo del primo oracolo di Isaia 9,1-5.


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Isaia 9,1-5 Testo ebraico Versetto 1

a> K

a\NLO KRK

Forma grammaticale

Traduzione letterale

sostantivo singolare con articolo

il popolo

participio presente plurale con articolo dal verbo

O K (camminare) E e

di quelli che camminano

Y [R%

sostantivo singolare con la particella l’articolo

:DU

perfetto qal 3° plurale, dal verbo (vedere); perfetto profetico con valore di futuro

vedranno

sostantivo singolare

una luce

aggettivo

grande

U$D O$G*

KD U

nella tenebra

participio presente plurale costrutto dal

EY \

\EHY \2

(sedere, dimorare); nominativerbo vus pendens

U D %

sostantivo con la particella luogo

WZ P O F U$D +J Q aK \OH>@

E di stato in OF ) di mor-

sostantivo composto: ombra (

WZ P ) = terra di ombra di morte

te (

sostantivo

i dimoranti

in terra oscurissima una luce

perfetto qal 3° singolare da

+J Q

brillò

O>

particella (sopra) con un suffisso di 3° persona maschile

sopra di essi

Versetto 2

W \%LU!KL \$*K $O^ 7 O ' J!KL K[ P )LK

perfetto hiphil 2° singolare dal verbo

KE U (essere numeroso)

hai reso numeroso

sostantivo singolare con articolo

il popolo

particella negativa

non

OG *

perfetto hiphil 2° singolare dal verbo hai reso grande (essere grande) sostantivo singolare femminile con articola gioia lo N.B. La frase suona strana e contraria al contesto. Il Qerè, con 20 Mss, la versione siriana e il targum leggono ( ): ÂŤil popolo, a lui hai reso grande‌. Forse però è meglio spiegare per corruzione testuale. L’espressione potrebbe essere ricon(letizia). Tradurremo allora: ÂŤhai moltiplicato la gioia, hai reso dotta al termine grande la letiziaÂť.

$O\$*K

DO\$*K

KO \*L

:[P I A\Q S O

perfetto qal 3° persona plurale da

O

[P I

a\Q,3 [faccia] + suffisso

+ il termine 2° persona singolare

gioiscono al tuo cospetto


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W[ P IL. U\FL4 % UY D@. :O\J,\ aT / [ % OO Y

78

sostantivo femminile costrutto con la comparativa

come la gioia

. %

sostantivo + lo stato in luogo l’articolo

e

. + articolo + UY D)@ perfetto qal 3° plurale da O\*, infinito costrutto piel da TO [ con % di comparativa (

stato in luogo ed il suffisso di 3° plurale

nella messe cosĂŹ come esultano nel loro dividersi

sostantivo maschile singolare

la preda

particella causale

poichĂŠ

sostantivo maschile singolare con segno di accusativo

il giogo

Versetto 3

\.L O>R WD $O%?VX 7DHZ! K-HP $PN YL ME YH IJ(12K $% W 7R[LK a$\. \ G!PL

OE VR) con suffisso di 3° sin-

sostantivo ( golare

del suo peso

congiunzione con segno di accusativo

e

sostantivo (si propone di leggere

WM $P: la sbarra)

il bastone (la sbarra)

sostantivo con suffisso

della sua spada

sostantivo

scettro

participio con articolo da

IJ Q

di colui che opprime

%

particella che introduce oggetto e suffisso perfetto hiphil 2° persona singolare (radice

a lui hai spezzato

WW[)

sostantivo con particella comparativa

.

come nel giorno

nome proprio di luogo

di Madian

particella causale

poichĂŠ

aggettivo

ogni

sostantivo

calzare

participio presente

calzante

Versetto 4

\.L ON $DV DHVR Y> U % KO P ILZ! KO O $JP a\PLG E KW \!K Z!

sostantivo con la particella

%

sostantivo

e vestito

participio poal da sostantivo plurale con la particella

in strepito

OO * (avvolgere)

% di mezzo

perfetto qal 3° singolare femminile da

intriso in sangui sarĂ


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KS UHI OL WO NRD@P 9DH

K\ K con valore di futuro sostantivo con O finale

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in incendio

KO N D )

sostantivo singolare costrutto (

cibo

sostantivo

di fuoco

\.L GO \ G/ \8

particella causale

poichĂŠ

sostantivo singolare

un fanciullo

:QO %H 7 Q,

Particella di vantaggio con suffisso di prima persona plurale

per noi

Sostantivo

un figlio

:QO

Particella di vantaggio con suffisso di prima persona plurale

\KL7 Z KU I 0LK O> $PN YL

imperfetto qal da 3° pers. femminile

e sarĂ

sostantivo con articolo

il dominio

particella

sopra

Sostantivo segolato con suffisso di 3° sing. maschile

la sua spalla

Versetto 5

DU T <,Z $PY DO 3 >H$\ /DH U$%*, \ELD@ G> UI a$OY

Perfetto profetico pu’al 3° sing. da (generare) “fu generatoâ€?

G/ \

/!

Perfetto niphal profetico da (dare) 3° sing. Maschile

7 Q

/!

K\ K (essere)

imperfetto qal inverso da re) Si propone di leggere sarĂ chiamato

sarĂ generato

fu dato per noi

DU T (chiama-

DUHT \,Z (niphal)

e chiamerĂ

Sostantivo con suffisso maschile

il suo nome

sostantivo

una cosa mirabile

> \

Sostantivo o participio da (colui che discerne oppure consigliere?)

colui che discerne oppure consigliere?

Sostantivo

Dio

Aggettivo

forte

Sostantivo

padre

Sostantivo

di eternitĂ

Sostantivo costrutto

principe

Sostantivo

di pace


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I primi due versi poetici segnano il passaggio dalla tenebra alla luce, ma notiamo i due verbi “videro” e “splendette” nel testo ebraico sono due forme al perfetto, ma non sono verbi al passato: si tratta di un perfetto cosiddetto profetico, il profeta vede come già accaduto quello che invece ancora appartiene al futuro. Traducendo perciò in maniera più larga dovremmo dire: “il popolo dei camminanti nella tenebra vedrà una grande luce; i sedenti in terra di ombra di morte una luce spunterà su di essi”. Con l’immagine (che poi sarà ripresa da Giovanni nel NT) di luce e tenebra il profeta descrive la situazione del popolo. Attualmente il popolo “cammina” nella tenebra. Il verbo camminare equivale qui (GO K ) a vivere, però notiamo l’indole dinamica di questo verbo camminare che contrasta con il verbo seguente “sedenti” che è un verbo statico: chi vive nella tenebra è come se avesse un esperienza di morte perché il buio paralizza. I due verbi, camminare e sedere, esprimono la totalità della vita umana, quasi a dire che il popolo a questo momento è totalmente avvolto nella tenebra. Questa tenebra è fitta, è ombra di morte, ma questa situazione che coincide con l’oppressione assira, che il popolo al momento sperimenta, e da essa è totalmente dominato, non deve durare a lungo: nel futuro di Dio c’è una grande luce. Vedranno questa luce perché spunterà una luce, la luce in questo contesto esprime liberazione: Dio rivela al profeta che la tenebra della sottomissione alla Assiria non durerà a lungo (o meglio non durerà per sempre).

Giovedì 11 novembre 2004, ore 08,30 / 10,15 Nel verso due si sta passando dal tema del superamento della tenebra mediante l’avvento della luce al tema della gioia. La gioia che è conseguenza della presenza della luce. Le due frasi sono praticamente sinonime però la loro ripetizione


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dà l’idea di una gioia intensissima. Il soggetto dei due verbi al plurale è Dio, autore della gioia e autore per il passaggio dalla tenebra alla luce. La gioia che dà il Signore è veramente gioia del tutto contraria a quella gioia pazza del capitolo 22. Nel verso seguente il profeta descrive gli effetti della gioia del popolo. Il profeta descrive questa gioia nei suoi effetti, il popolo gioisce, ma è importante l’espressione “davanti a Te”. È una espressione densissima che assume anche il carattere di un ringraziamento, ma ha anche il carattere di una festa. Le feste ebraiche erano tre:

1. I tabernacoli; 2. Le settimane; 3. Gli azzimi. La Pasqua, o il Pesach, era una antichissima festa di nomadi pastori, che in primavera, prima di mettersi al viaggio alla ricerca di nuovi pascoli, celebravano questa festa che era anche una festa di scongiuro per scongiurare i mali nel cammino, ma anche festa di unità cioè si esprimeva la speranza di ritrovarsi tutti uniti. La Pasqua è festa pastorizia, è perciò è la festa propria dei pastori nomadi e fu celebrata per tutto il tempo che Israele fu nomade, quando poi, dopo la conquista da nomade divenne sedentario e adottò la forma di vita dei sedentari, il lavoro della terra (agricoltura), adottò la festa agricola autunnale dei cananei, la festa cioè autunnale delle capanne. Salomone poi smembrò questa festa in altre due: la festa primaverile che celebrava il raccolto dell’orzo chiamata degli azzimo chiamata così perché coincideva con il “Rosch Ascianà” (Capodanno). Il lievito è simbolo di vecchiume, la mancanza di lievito esprime inizio di vita nuova. La seconda festa smembrata è quella delle settimane, si prescrive che bisogna contare una settimana di settimane (cioè sette settimane) e celebrare un'altra festa al Signore (donde l’espressione “pentecostè emra”), la festa delle settimana celebrava il raccolto del grano. All’epoca dell’esilio babilonese (VI secolo) si ripristinò la Pasqua col


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senso di memoriale celebrata il primo giorno degli azzimi. Ma la festa primordiale è quella dei Tabernacoli o Capanne, detta così perché si andava in campagna e li si abitava in tende. Si celebrava il raccolto del mosto e dell’olio ed era una festa di gioia, cioè la gioia era un elemento di quella festa. Narra il capitolo quinto del libro dei Giudici che in campagna le ragazze di Silo solevano danzare (quindi gioia), quando Salomone centralizzò il culto nel tempio anche la festa dei tabernacoli si celebrava al tempio. Bisognava presentarsi davanti al Signore con i frutti della terra e gioire davanti a Lui. Queste osservazioni ci fanno ritenere che la gioia di cui parla il profeta è la gioia di una festa, la festa delle capanne. Questa gioia sarà intensissima e il profeta la paragona a due immagini. La prima immagine è “come la gioia (che si ha) nella messe”, la messe e il suo raccolto è sempre motivo di gioia. L’immagine della gioia nella messe è tanto più intensa perché il popolo poteva solo sognarla, gli assiri avevano devastato tutto e certamente quell’anno il raccolto non c’era. La seconda immagine è la gioia che si ha quando ci si spartisce la preda, anche questa immagine è molto efficace, è l’immagine della belva che ha conquistato lottando la sua parte di preda e il popolo aveva assistito a questa scena vedendo la gioia avida dei soldati assiri che si contendevano avidamente quel po’ di preda, di bottino, che riuscivano a conquistare. Le due immagini della messe e della preda concorrono bene a esprimere l’intensità della gioia. Nei versi seguenti il profeta descrive i tre motivi della gioia, tre motivi legati progressivamente come il primo che si appoggia sul secondo dandoci poi un progresso tematico leggendoli al contrario. La prima motivazione è il fatto che Dio ha spezzato (spezzerà: tutti perfetti profetici), il giogo del suo peso, il suo giogo pesante.


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Poi il profeta aggiunge un’altra parola “bastone” (meglio leggere “sbarra”) della sua spalla. Il genitivo richiama meglio la parola sbarra. Abbiamo due oggetti paralleli: Il giogo

La sbarra

del suo peso

della sua sbarra

Tutta l’immagine richiama il giogo che si mette sul collo dei buoi quando arano, si mette il giogo sul paio di buoi e la sbarra, salvo errore, sarebbe quel legno che lega il giogo all’aratro. Tutta l’immagine esprime bene l’idea di un popolo sottomesso, la sottomissione è totale. Tutto questo giogo è inteso come lo scettro. Lo scettro è immagine regale che esprime dominio; si tratta dello scettro di colui che opprime a lui. L’oppressore cioè per dominare sui popoli oppressi si serve del giogo. Ma è molto efficace, anche come assonanza letteraria il verbo “W 7R[LK ” (hai spezzato, cioè spezzerai). L’intervento di Dio che scende a spezzare il giogo oppressore non è nuovo nella storia, altre volte Dio lo ha fatto, e la storia antica permette di sperare per il futuro. Il profeta ricorda o meglio allude ad un evento passato “come nel giorno di Madian”, all’epoca di Madian, Dio spezzò il giogo che i madianiti imposero ad Israele. La Bibbia ci riferisce simile fatto nei capitoli 6-7 del libro dei Giudici, quando i madianiti vinsero e sottomisero Israele. Dio spezzò il loro giogo suscitando un giudice, Gedeone, che sconfisse i madianiti. Ecco il primo motivo della gioia: oggi il popolo sottomesso al giogo assiro, ma Dio lo spezzerà e ciò sarà gioia. Ma non serve a niente spezzare il giogo se non si toglie la causa che lo ha provocato, perché un popolo per opprimere l’altro deve combatterlo e allora la causa dell’oppressione è la guerra e il profeta annunzia l’eliminazione della guerra. Leggendo questo brano viene in mente il Salmo 45 che forse è della stessa epoca di questo brano: “venite, vedete le opere del Signore,


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Egli ha fatto portenti sulla terra, farĂ cessare la guerra fino ai confini della terra, spezzerĂ le lance, brucerĂ con il fuoco gli scudiâ€?38. La fine della guerra è descritta con le seguenti parole: “ogni calzare che calza con strepito (e ogni) vestito intriso nel sangueâ€?. Notiamo le parole: “ $DV â€? questa parola si legge solo qui nella Bibbia ed indica una calzatura pesante usata dagli eserciti assiri. In genere in battaglia i soldati usavano calzature leggere per potere camminare piĂš speditamente, gli assiri invece avevano calzature pesanti e quando gli eserciti camminavano era rumore forte. Il profeta forma un verbo “ $DV â€? dal sostantivo di prima, alla lettera “eâ€? calzare, calzante in strepito; potremmo dire calzare che incede, che avanza rumorosamente. Segue poi l’altra espressione: “vestito intriso in sangui (sangui perchĂŠ è al plurale: a\PLG E )â€? Il vestito intriso di sangue è quello dei morti sul campo di battaglia che rimangono li, sono feriti e il sangue uscendo ha inzuppato i vestiti. Si tratta di vestiti induriti per il sangue di cui sono intrisi. Il plurale “sanguiâ€?, salvo errore, vuol dare l’idea dell’estensione ampia della battaglia. Ma notiamo le due immagini: esse esprimono l’inizio e la fine della battaglia, l’inizio è “i soldati che avanzanoâ€?, la fine è “i soldati che restano sul campo uccisiâ€?. Le due immagini, di inizio e di fine, esprimono la totalitĂ della battaglia, cioè tutta la battaglia, tutta la guerra scomparirĂ , non ci saranno eserciti che avanzano, e di conseguenza non resteranno morti sul campo. Tutte queste cose saranno bruciate, bruciati i calzari, per cui i soldati non avanzano, e bruciati i vestiti per cui non ci saranno morti. L’espressione del profeta è quella: “sarĂ in incendio, cibo di fuocoâ€? (YDH WO NRD@P KS UHI OL KW \!K Z!): il fuoco eliminerĂ tutte queste cose. Questa seconda motivazione spiega la prima, non ci sarĂ piĂš guerra, e di conseguenza non ci saranno vinti e oppressi.

38

Cfr. Isaia 2.


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Ma la guerra è sempre scatenata da una persona, un re, un capo. Nella terza motivazione che il profeta introduce si rivela fortemente polemico contro il re che ha scatenato tutto quel disastro e ingenuamente si è trasformato in guerrafondaio. Si tratta di Ezechia che ha seguito la sua testa e non la Parola del Signore che gli veniva trasmessa attraverso il profeta. Ed ecco allora che il profeta annunzia n nuovo principe che non sarà più guerrafondaio come Ezechia. Ed ecco allora la terza motivazione “un fanciullo fu generato (sarà generato39) a noi, un figlio fu dato (sarà dato) a noi”: Un fanciullo

Un figlio

fu generato

fu dato

a noi

a noi

Con due frasi parallele il profeta annunzia la nascita di un figlio, ma figlio di chi? Semplice, di Dio. I due verbi sono passivi di un passivo che chiamiamo “passivo divino” cioè è Dio stesso che genererà un figlio e Dio lo donerà. La generazione di un figlio non riguarda la nascita fisica, bensì la costituzione regale: il re che saliva sul trono era costituito figlio di Dio40. Dio perciò annunzia la costituzione di un principe al quale sarà dato il potere.

39 40

Futuro Profetico. Cfr. Salmo 2,7: “figlio mio sei tu, oggi io Ti ho generato”.


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Continua infatti a questo principe il Signore conferirà il potere: “e sarà

il

motivo

sopra

la

sua

spalla”

($PN YL O> KU I 0LK \KL7 Z) , subito dopo il profeta indica i nomi di questo principe (e chiamerà il suo nome: $PY DU T <,Z) : 1 – colui che discerne una cosa meravigliosa; 2 – Dio forte 3 – Padre di eternità (Padre per sempre) 4 – Principe di pace

Salvo errore, questi quattro nomi che caratterizzano il principe si strutturano in maniera concentrica.

Venerdì 12 novembre 2004, ore 10,30 / 12,15 I quattro nomi vorrebbero essere anche programmatici, il primo nome esprime azione e anche il quarto esprimerebbe azione “principe di pace” (cioè principe che attua la pace), mentre i due nomi intermedi “Dio forte” e “padre di eternità” (cioè padre per sempre) avrebbero invece un valore stativo, cioè di situazione. Data la diversa indole di questi nomi possiamo raggrupparli a due a due in uno schema concentrico. Il primo si ricollega al quarto, il secondo si ricollega al terzo. Come interpretiamo se la lettura che proponiamo del primo nome come colui che discerne una cosa meravigliosa e giusta, troviamo il suo contenuto nel quarto nome: “principe di pace”, cioè la cosa meravigliosa che pensa, decide, decreta è la pace, ciò in contrapposizione ad Ezechia che non fu principe di pace, ma principe di guerra, passo infatti larga parte del suo regno a lasciarsi fomentare e lui stesso a fomentare delle ribellioni. Più difficili da interpretare sono i due nomi centrali che indicano uno stato “Dio forte” e “Padre per sempre”. Propo-


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niamo perciò una interpretazione: i due nomi centrali esprimerebbero quasi (lo diciamo col linguaggio moderno) il valore sacramentale del figlio che deve nascere, nel fatto che è principe di pace, in lui si manifesta il Dio forte e il padre per sempre. Ci chiediamo, lasciando la domanda aperta, se in questi due nomi Isaia non stia insensibilmente spostando un riferimento: 30 anni prima ha annunziato l’emmanuele che corrispondeva ad Ezechia, ma Ezechia da Emmanuele non si è comportato, ha agito diversamente dal disegno di Dio, il figlio che nascerà invece sarà veramente l’Emmanuele, cioè manifesterà il “Dio forte” e il “Padre per sempre”. Concludendo questo oracolo facciamo una breve riflessione ed una rilettura. La riflessione è la seguente: l’oracolo rimane aperto e in nessun modo questo figlio futuro potrà essere identificato col figlio di Ezechia, l’idolatra Manasse, il quale fu ligio alla Assiria anche nel culto e regnò cinquanta anni. Alla morte di Manasse, verso il 643-42 salì al trono il figlio Ammon che però regnò solo due anni, poi nel 640 salì al trono il figlio Giosia e nell’anno 13 del regno di Giosia (627) fu la parola del Signore su Geremia, figlio di Kelchia. Però mai a Giosia che pur tuttavia fu religioso è riferito l’oracolo di Isaia 9, quindi nemmeno Giosia fu identificato con l’oracolo che rimane aperto verso un futuro che il profeta non conosceva ma che noi conosciamo abbastanza bene. Non è casuale che questo oracolo, almeno in alcuni punti sia presente nella mente dell’autore del quarto Vangelo e anche di Matteo che introduce il ministero di Gesù citando l’ultimo verso del capitolo 8, “terra di Zabulon, terra di Neftali […]” in cui l’accostamento è facile.


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La rilettura globale è la seguente: ci sarà un tempo di gioia e le motivazioni per questa gioia sono tre che progressivamente si leggono meglio al contrario: 1. nascerà un figlio (cioè sarà intronizzato un figlio) che sarà un principe di pace cioè un principe la cui caratteristica e la cui opera è la pace; 2. dal momento che c’è un principe di pace non verranno più eserciti ed ogni strage di guerra scomparirà; 3. scomparsa la guerra, scomparirà di conseguenza l’oppressione e il giogo che il vincitore impone sul collo del vinto. Gioia e luce si relazionano, c’è gioia perché spunta la luce (Cfr. Signore Luce del mondo), ma al contrario la luce è determinata dalla gioia. Iesse era il padre di Davide dai cui figli Dio si era scelto un re, ma quello che aveva scelto era quello che il padre invece a priori aveva scartato. L’oracolo del capitolo 11 si relaziona idealmente al figlio di cui si parla nel capitolo 9. Possiamo notare una cosa azzardata di Isaia, secondo il secondo libro di Samuele, Dio aveva promesso a Davide la perpetuità della discendenza, promessa ripresa dal Salmo 88 e anche dal Salmo 131. Ma Isaia non risale a Davide, bensì a Iesse suo padre. Così non annunzia un nuovo discendente davidico. Ma addirittura Isaia parla della rifondazione dinastica parlando di un virgulto di Iesse, uno che non discende ma sta accanto, forse in antagonismo alla dinastia davidica. La prerogativa di questo re sarà quella di essere animato dallo Spirito del Signore, quasi a rivivere una nuova creazione (Cfr. con Genesi), e lo Spirito del Signore che si posa sul re avrà i suoi effetti. Nel re si manifesterà Sapienza e Intelligenza, Consiglio e Fortezza spirito di conoscenza e di timore del Signore. Conseguenza della presenza dello Spirito e conseguenza dei frutti che in lui si verificano, si determina un agire concreto di questo discendente. Nella descrizione di questo agire concreto si nota serpeggiante una certa polemica contro questo modo di fare. “Questo virgulto non giudica secondo le apparenze e nemmeno per senti-


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to dire, giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”. La polemica sta nel fatto che circa 35 anni prima, Isaia insieme ad Amos avevano battagliato contro tutte le ingiustizie sociali, queste ingiustizie non si verificano sotto un re guidato dallo Spirito del Signore. La conseguenza sarà la pace, che il profeta, incallito Jawhista, descrive in maniera paradisiaca, con il modello della pace tra gli animali: “la belva coabiterà pacificamente con l’animale debole”, c’è qualche frase aggiunta, ma salvo errore, il vero 8 che parla di un lattante che gioca sulla buca dell’aspide, oppure il bambino che mette la mano nel covo di serpenti velenosi dovrebbe essere una aggiunta che globalmente corrisponde al senso, ma cambia un pochino41 la pacifica coabitazione tra gli animali, ma la pacifica relazione tra uomo e animali. Segue nel verso 9 una conclusione che riassume tutto e trasferisce agli uomini la pacifica convivenza tra gli animali. Scrive il profeta: “non agiranno più iniquamente, ne saccheggeranno in tutto il mio santo monte perché la sapienza del Signore riempie il paese”. Tentiamo una rilettura sintetica di questo brano, ma prima notiamo un'altra cosa: nel verso 10 leggiamo: “in quel giorno la radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli e le genti la cercheranno con ansia”. Qui ci troviamo di fronte ad un oracolo diverso, ma il NT che legge l’antico non ha gli strumenti critici che abbiamo noi. Questo verso 10 probabilmente soggiace tra altri testi al quarto vangelo, ci riferiamo a 12,32: “quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”. Questo testo strutturalmente sta in relazione a 12,20 di Giovanni che parla della venuta dei greci che chiedono di volere vedere Gesù.

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anche sulla metrica del testo ebraico.


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Rileggendo sinteticamente questo brano avremmo cinque quadri: 1. 2. 3. 4. 5.

il virgulto della radice di Iesse; animato dallo Spirito di Dio42; gli effetti dello Spirito43; un modo di agire equo44; la pace dei rapporti caratterizzata come la pace tra gli animali.

A questi quadri ne aggiungiamo un sesto: la pace universale su monte santo del Signore. Ma il profeta sa benissimo che molte volte c’è la guerra non perchè la si voglia fare, ma perché ad essa trascinano altri popoli e perciò la vera pace sarà possibile quando tutti i popoli cercheranno la pace. E questo il profeta annunzia nell’oracolo dei versi 2-4 del capitolo 2: il profeta annunzia la centralità del monte santo del Signore: “alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà elevato al di sopra delle cime dei monti e più alto dei colli45. Al monte del Signore affluiranno tutti i popoli, verranno popoli numerosi e diranno”. Il profeta annunzia l’affluenza di tutti i popoli verso il monte del Signore. Si avverte in questa descrizione una antitesi con un altro episodio della Scrittura: Genesi 11 (La torre di Babele): in quel tempo furono gli uomini a crearsi un centro di gravità per non disperdersi, ma il narratore genesiaco ha una tesi, il germe della divisione è insito nel cuore umano e perciò il centro di gravità che l’uomo costruisce finisce per diventare causa di ulteriore divisione: “i popoli si dispersero e le lingue si confusero”. Non così quando il centro di gravità è posto dal Signore, esso non sarà più causa di divisione bensì causa di unità, e il centro di gravità che Dio pone è il Suo monte Santo, cioè Sion, dove Salomone costruì il tempio. 42

Cfr. Vangeli sinottici, battesimo di Gesù. che poi la tradizione cristiana riprende nei doni dello Spirito Santo. 44 ripreso da Isaia 42. 45 Il profeta annunzia perciò la centralità di Sion. 43


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Ma quello che è importante è il motivo per cui i popoli affluiscono al monte del Signore e il profeta riferisce le parole con cui i popoli reciprocamente si esortano. Le parole sono le seguenti: “venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe perché ci indichi le Sue vie, e noi possiamo camminare nei suoi sentieri”. I popoli si esortano ad andare al monte del Signore perché c’è un evento che in esso si verifica: “perché da Sion esce la legge e da Gerusalemme la Parola del Signore”. Queste parole che affermano un evento sono ben costruite anche dal punto di vista letterario: “Da Sion esce la legge e la Parola del Signore da Gerusalemme”. L’evento che si verifica sul monte del Signore, che eleva, non materialmente, ma spiritualmente il monte del Signore, e che determina la decisione dei popoli di andare al monte del Signore è la manifestazione della legge e della Parola del Signore. Possiamo notare in questa descrizione una tacita polemica. Stavolta però contro il re assiro che cercò anche lui di attuare una pace tra i popoli, ma la attuò con un metodo del tutto opposto a quello che usa il Signore; il metodo del re assiro è indicato dalle sue stesse parole riferite nel capitolo 10: “ho rimosso i confini dei popoli” cioè il re assiro ha imposto la sua pace imponendo il suo dominio e annullando l’autonomia dei popoli. Il Signore agisce diversamente, Egli manifesta la Sua Parola e dal Suo monte Santo, ma allora i popoli non saranno oppressi ma spontaneamente e liberamente andranno al Signore, facendosi Lui o il Suo monte Santo centro di unità e attirando mediante la manifestazione della sua legge il Signore realizza l’unità dei popoli, questi non si vedranno imposta una unità, ma liberamente e per propria decisione andranno al Signore.


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Fin qua abbiamo commentato solo i versi 2-3, l’oracolo continua nel verso 4, ma ad una lettura più attenta appare qualche vuoto nel testo. In ogni caso gli effetti dell’opera del Signore saranno la pace. Leggiamo nel verso 4: “Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli” cioè il Signore sarà al centro dei popoli e sarà Lui a guidarli. Allora la pace sarà una gioiosa realtà, l’arsenale militare non serve più, e che cosa ne facciamo di quelle armi? Le destiniamo ad altri usi: “forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci” cioè gli strumenti militari saranno convertiti in strumenti agricoli da lavoro e c’è bisogno di questi strumenti perché nella pace l’agricoltura aumenta. A ventinove secoli di distanza questo oracolo è ancora tutto da realizzare però è Parola di Dio e perciò rimane integro come una grande promessa che c’è all’orizzonte degli uomini. Si richiama il Salmo 45: “farà cessare le guerre fino ai confini della terra, romperà gli archi, spezzerà le lance, brucerà con il fuoco gli scudi”. Anche questo oracolo soggiace a diversi passaggi del NT. Ne citiamo due soli: Atti di Luca capitolo 2 cioè il racconto della Pentecoste, dove, salvo errore, sono allusi due testi, uno per contrapposizione, l’altro per continuità. La contrapposizione è con Genesi capitolo 11 dove si verificò la dispersione e la confusione delle lingue. Adesso a Gerusalemme c’è un nuovo centro di gravità e allora ogni popolo sentirà dire nella propria lingua le opere meravigliose di Dio e saranno queste a condurre in unità i molteplici linguaggi umani. Ma la relazione per continuità è proprio con Isaia 2. scriveva Isaia che da Sion esce la legge e da Gerusalemme la Parola del Signore, ma la legge che esce, secondo Luca è la legge nuova che viene promulgata, lo Spirito. E si capisce perché Luca descriva la presenza di ben 16 popoli, non si tratta di presenza materiale, ma di presenza spirituale, perché i popoli che Luca elenca sono popoli di tutto il mondo allora conosciuto e se rileggiamo attentamente sono come un circolo attorno Gerusalemme. Il Signore ha manifestato la Sua legge e


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i popoli sono venuti. È chiaro che il racconto lucano della Pentecoste deve essere visto più col linguaggio teologico che non in senso materiale46. Il secondo testo è quello che abbiamo già citato: “quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”. Il tempio del Signore stavolta è Gesù che promulga una legge nuova (Giovanni 13,34): “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate tutti gli altri, come Io ho amato voi”. In seguito a questa promulgazione avviene l’attrazione “attirerò tutti a me”.

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D’altra parte del fenomeno della Pentecoste Luca non ne parlerà più.


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Martedì 16 novembre 2004, ore 08,30 / 10,15

GEREMIA In Ger1,147 il redattore ci dà le generalità di Geremia, scrive parole di Geremia, figlio di Chelchia, dei sacerdoti che in Anatoth nella terra di Beniamino. Da questa introduzione sappiamo due cose: che apparteneva ad una famiglia sacerdotale come lo sarà anche Ezechiele, ma di Isaia non sappiamo nulla a riguardo, ed era dal villaggio di Anantoth nella tribù di Beniamino. La sua appartenenza a Beniamino spiega due cose, sia che il profeta nel primo periodo profetò per le tribù del nord deportate in Assiria cento anni prima, sia il fatto che nel secondo periodo lo troveremo a Gerusalemme. La tribù di Beniamino infatti politicamente apparteneva al sud, ma affettivamente apparteneva al nord. Nel verso 2 leggiamo: “e fu la Parola del Signore su di lui”. Questa espressione è molto forte perché già ci indica la caratteristica di Geremia, la frase non indica soltanto che il Signore gli ha parlato, ma anche che su di lui si è verificato l’evento della Parola del Signore. E la caratteristica di Geremia è proprio quella di essere a servizio di questa Parola, che per lui sarà fonte di tanta gioia, ma insieme fonte di tanta amarezza. È questa la caratteristica di Geremia, a differenza di Isaia, che sarà l’uomo credente nel disegno del Santo di Israele il quale ha un piano nella storia che è sempre di salvezza. Continua ancora il testo, che non è di Geremia, ma di un redattore, che però è preciso nelle indicazioni storiche che ci offre. Nel verso 2 il redattore data l’evento della Parola del Signore, donde capiamo che l’esperienza della Parola del Signore non è un fatto emotivo, ma un pre47

“Parole di Geremia figlio di Chelkia, uno dei sacerdoti che dimoravano in Anatòt, nel territorio di Beniamino”.


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ciso evento storico (analoga prospettiva avrà Luca quando, analogamente a Geremia, daterà l’evento della Parola di Dio su Giovanni il Battista, nell’anno 15° dell’impero di Tiberio). A riguardo di Geremia il redattore data l’evento della Parola nei giorni del re Giosia, figlio di Ammon nell’anno 13° del suo regno. Nel verso 3 continuano ancora le indicazioni cronologiche: “nei giorni di Ioiachim, figlio di Giosia, re di Giuda, fino all’anno di Sedecia, re di Giuda, fino cioè alla deportazione in Babilonia nel quinto mese”. Alla luce di queste indicazioni collochiamo Geremia nella sua epoca storica, l’anno 13° di Giosia corrisponde secondo i nostri calcoli all’anno 627. Giosia infatti salì al trono nel 640. Il padre Ammon aveva regnato solo due anni, dal 642 al 640, mentre il padre Manasse aveva regnato per lungo tempo dalla morte del padre Ezechia. È utile offrire l’elenco dei re di Giuda:

1. 2. 3. 4.

Ozia (muore 740-39): vocazione di Isaia; Iotam (739-733); Achaz (733-32/727); Ezechia l’Emmanuele (727-714 Ezechia minorenne), (714-699 Ezechia maggiorenne); 5. Manasse (699/642); 6. Ammon (642/640); 7. Giosia (640/609); 8. Ioacaz (giugno 609 - settembre 609); 9. Ioiachim (settembre 609 - 597: anno della prima deportazione in Babilonia); 10. Ioiachin (597 pochi mesi, poi fu deportato in Babilonia); 11. Sedecia (597/586: anno della seconda deportazione).

Il quinto mese di cui parla il testo è agosto del 586, mese della distruzione del tempio e della caduta del regno di Giuda. In questa cronologia l’inizio del ministero profetico di Geremia è del 627, e il termine di Geremia è nel settembre del 586. Il profeta scomparirà di scena come scomparì silenziosamente Isaia. Alcuni facinorosi costrinsero Geremia a fuggire in Egitto, e lì del profeta si sono perse le tracce.


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Parallelamente alla storia del regno di Giuda è da inquadrare il profeta nella storia extra-biblica perché come Isaia, anche lui avrà grande parte nella situazione politica del suo popolo. Abbiamo lasciato Isaia al momento dell’assedio di Gerusalemme, assedio che Sennacheriv improvvisamente tolse. Alla morte di Sennacheriv successe il figlio Assaragon e dopo di lui il figlio Assurpanipal con cui l’impero assiro raggiunse il suo massimo splendore. Arrivò fino all’Egitto, realizzando il segno profetico di Isaia che dovette andare per tre anni nudo. Alla morte di Assurpanipal l’impero assiro cominciò a declinare anche perché cominciò a sorgere un’altra potenza, quella babilonese che soppianterà l’impero assiro. Nel 640, lo stesso anno dell’inizio del regno di Giosia salì al trono Babilonese un certo Nabopolasar che cominciò una politica di espansione. L’impero assiro cominciò man mano a declinare, nel 612 cade Ninive, nel 605 la coalizione assiro-egiziana sarà sconfitta a Carchenisch sul fiume Oronte, dal luogotenente babilonese che l’anno dopo salirà al trono: Nabucodonosor II. L’impero babilonese durerà perciò dal 640 al 539 soppiantato dall’impero dei Medi e dei Persiano. Ciro il Grande, cantato come l’unto del Signore dal deutero-Isaia, nel 539 conquisterà Babilonia, e nel 538 firmerà l’editto di liberazione degli ebrei. Questo quadro storico ci dice che come non si poté prescindere per Isaia dalla storia assira non si può prescindere per Geremia dalla storia babilonese. Possiamo distinguere il ministero profetico di Geremia in due periodi, il primo periodo dal 627 alla morte di Giosia (609), il faraone, un certo Necao, si dirigeva in quell’anno verso l’Assiria per dare manforte. Il piccolo Giosia credette di potergli sbarrare il passo, ma fu ucciso a Meghiddo e qui incomincia il secondo periodo di Geremia che durerà fino all’esilio babilonese. Il primo periodo durò perciò diciotto anni, ma non siamo in grado di caratterizzarlo in maniera più precisa, diciamo soltanto che questo fu il


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periodo più bello del profeta. Egli in questi diciotto anni riflettendo e dipendendo sul suo grande predecessore Osea cantò la salvezza delle tribù del nord deportate cento anni prima in terra di esilio. Il profeta in questo primo periodo gusterà pienamente la gioia di essere profeta. Nel secondo periodo invece sarà chiamato ad essere profeta di giudizio per il regno del sud, e ciò sarà per lui motivo di persecuzione, di amarezza.

PRIMO PERIODO Dicevamo che questo primo periodo fu il più importante dal punto di vista emotivo per il profeta. Dicevamo che in questo periodo sperimentò tutta la gioia di essere profeta, e di questo primo periodo se ne ricorderà con gioia nel secondo periodo quando invece sperimenterà tutta l’amarezza di essere profeta. Vedremo come lui effonderà tutto il suo animo nelle famose confessioni (da non confondere con le lamentazioni che probabilmente non sono di Geremia) e in queste confessioni arriverà persino a rimproverare Dio, ricorderà nel capitolo 15: “quando le tue parole mi vennero incontro io le divorai con avidità, la Tua Parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” ma al presente non è così, e il profeta si rivolge a Dio con le parole (Cfr. Ger15,16-19): “Tu sei diventato per me come un torrente infido dalle acque non perenni” (Dio nel primo periodo ha versato la sua acqua, ma poi è andato in secca). In 20,7 rimprovera Dio con le parole: “mi hai sedotto e mi hai lasciato sedurre, mi hai trattato come una ragazza minorenne”. Il profeta arriva a maledire il giorno in cui nacque, queste parole rivelano il fortissimo contrasto tra i due periodi che si verificò nell’animo prima di un ragazzo ventenne, poi di un uomo circa quarantenne. Ma andiamo al primo periodo, dicevamo che in questo periodo, sulla scia di Osea, cantò il ritorno dall’esilio delle tribù del nord, deporta-


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te in Assiria. Da questi oracoli appare un Geremia profondamente entusiasta, gioioso, che non ha nulla di brontolone e soprattutto un bravo poeta e poi anche un bravo oratore. Non ne possediamo molti di oracoli di questo periodo, a noi restano nei capitoli 2 e 3 che lui stesso scrisse quando, dopo la proibizione del 604 di entrare nel tempio, il Signore gli comandò di scrivere un rotolo. Questo rotolo coincide probabilmente con i capitoli 1,6 ed ha tre parti: 1. la vocazione che il profeta scrisse circa 18 anni dopo; 2. cap 2-3: gli oracoli di salvezza del primo periodo; 3. cap 4-6: gli oracoli di giudizio contro Giuda del secondo periodo. Mercoledì 17 novembre 2004, ore 10,30 / 12,15

CARME DI GEREMIA 3,4-4 Il profeta nella prima strofa (1a. 1b. 1c. 1d.) comincia con una domanda se la donna può tornare al primo marito. La domanda è presa dal capitolo 24 del Deuteronomio dove però sia ha un’altra dinamica. Scrive il Deuteronomio che quando un uomo ha ripudiato la sua moglie e questa diventa moglie di un altro, il primo marito non può riprenderla. Secondo il Deuteronomio, la proibizione riguarda l’uomo che non può riprendere quella donna, in Geremia invece abbiamo prospettiva inversa: non l’uomo che non può riprendere la donna, ma la donna che non può tornare all’uomo. Il motivo per cui la donna non può tornare all’uomo è espresso nel terzo verso (1c.), la donna è stata contaminata. In questa prima strofa abbiamo nel testo ebraico una reinterpretazione, il testo originale di Geremia, come attesta la versione greca dei LXX diceva che la donna non può tornare all’uomo. Nel terzo verso si dice che quella terra è stata contaminata, ma non è questo il testo originale di Geremia che parlava non della contaminazione della terra, ma della contaminazione della


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donna. Qui ci dovette essere un reinterpretazione di Geremia all’epoca dell’esilio si volle dire che il popolo esiliato non può tornare alla terra perché è stata contaminata, ma il testo originale di Geremia parlava del possibile ritorno della donna all’uomo. Il verso 1d. tradisce il desiderio della donna di tornare al suo uomo. Fuor di metafora tradisce il desiderio del popolo di tornare al suo Dio, ma Dio vede spacciato questo desiderio perché quella donna ha fornicato con molti amanti, cioè il popolo si è prostituito con tutti gli idoli. La prima strofa perciò dichiara l’impossibilità della donna di tornare al suo uomo perché si è contaminata con tutti i suoi amanti. In parole povere, il popolo, che si è prostituito coi suoi idoli, non può pretendere di tornare al Signore. Vorrebbe tornare, ma non è detto che il Signore la riprenda. La seconda strofa è contenuta nei versi 2a. 2b. 2c. 3a. La seconda strofa è una denunzia delle cole del popolo, l’espressione “alza i tuoi occhi ai colli” equivale a dire: dai un’occhiata a tutti i colli attorno a Te, uno per uno. I colli equivalgono qui ai luoghi dell’idolatria, i culti idolatrici si praticavano sulle alture, sulle colline e in questi luoghi si praticava il culto naturistico tipicamente cananeo che consisteva nella prostituzione sacra. Da qui il fatto che alture e colli diventarono sinonimo di idolatria. In questa prospettiva si capisce il Salmo 120: “alzo gli occhi verso i monti, da dove mi potrà venire l’aiuto?”, questa frase esprime l’amarezza di un salmista che ha confidato negli idoli, ma dagli idoli è rimasto deluso donde la risposta del salmo: “il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto cielo e terra”. In Geremia il popolo sposa è invitato a passare in rassegna tutti i luoghi idolatrici per vedere se c’è ne qualcuno dove non si sia prostituita: si tratta di una sfida e la risposta è che non c’è alcun luogo, ma essa non è stata violentata con forza, ma si è offerta facendosi trovare lungo le strade per essere più facilmente accessibile. Ezechiele calcherà l’immagine e dirà che mentre abitualmente sono gli uomini che


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pagano una prostituta perché si dia, era invece la prostituta che pagava gli uomini perché venissero a lei. Il profeta rimprovera che quello che la donna pagava era ciò che il Signore sposo le aveva donato. L’accusa è che si serviva del dono di Dio per attirare i suoi amanti. L’immagine dell’arabo nel deserto è molto efficace, l’arabo del deserto non ha dimora e lo si trova facilmente lungo le strade. La conseguenza di tale azione di prostituzione è espressa nel verso 2,5: “la terra è stata profanata”. Con questa frase il profeta vuole tacitamente spiegare l’esilio in terra di Assiria: il popolo non poteva più stare in quella terra, era divenuta terra impura, ma impura perché il popolo stesso l’aveva resa impura. E Dio stesso non fu più largo a concedere i suoi favori, cosa che il profeta nel verso 3a. descrive con l’immagine della pioggia: furono trattenute le piogge e pioggia serotina non ci fu. In quella zona della terra dove una lingua di terra fertile si incunea nel deserto, le piogge sono due ogni anno, quella cosiddetta mattutina in primavera e quella cosiddetta serotina in autunno. Quando una delle due piogge non c’è si determina semplicemente la siccità che porta alla carestia. È una immagine oppure è un fatto reale? La siccità è la carestia, è difficile rispondere, di una siccità nel ciclo di Elia, ma siamo distanti quasi due secoli dal profeta, in ogni caso, restando sul piano delle immagini, la terra ha subito una conseguenza dalle colpe del popolo. Si richiama in un certo senso Genesi, dove il peccato genesiaco si è esteso fino alla terra che ormai all’uomo produce soltanto vegetazione selvatica: spine e cardi. La terza strofa è ancora più forte nell’accusa, dove si denunzia non solo il peccato, ma la sfacciataggine a peccare. La terza strofa è contenuta nei versi 3b. 4. 5a. 5b. “e fronte di meretrice”3b.: cioè: faccia da prostituta. Alla sfacciataggine di essere apertamente quello che si è, si aggiunge anche la sfida a Dio, Dio è chiamato: Padre mio e amico della giovinezza, cioè il mio amico da sempre dall’epoca del tempo del deserto, tempo di fidanzamento. Queste parole “Padre mio e amico della giovi-


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nezza” sono molto belle se al titolo dato corrisponde una conseguenza di vita. Dire a Dio «Padre mio» implica comportarsi da figli, dire a Dio «amico della giovinezza» implica restargli fedele. Ma qui, come appare dal contesto, queste parole sono pronunziate come un paravento per sentirsi sicuri nel male che si fa. Dio è Padre e amico e perciò anche se si adira si adirerà per poco tempo, poi gli passa. In questo modo si è sicuri dell’impunità, non c’è nulla da temere da Colui che chiamiamo Padre e amico e perciò non ci farà nulla per il male che facciamo. Il profeta nota una profonda divergenza tra quello che si dice a Dio e il modo come si agisce. Questo il profeta vede e questo rimprovera nell’ultimo verso della terza strofa (5b.). In questo verso abbiamo tre frasi: «hai detto», «hai fatto i mali», «hai potuto», cioè: quello che hai detto lo hai detto come protezione per fare il male, e il male che hai fatto, lo hai fatto con successo. La quarta strofa è quasi un fortissimo contrasto tra l’animo di Dio e l’atteggiamento del popolo, si direbbe che Dio è in lotta, tra quello che sente nel cuore e quello che vede al dì fuori. Che cosa sente Dio? Dio ha avuto sempre un desiderio che ora evoca con nostalgia: «Io dissi come vorrei porti tra i miei figli», Dio è chiamato Padre, e il Suo desiderio era quello di potere realmente annoverare il popolo tra i suoi figli. Questa strofa segna un fortissimo passaggio dalla requisitoria alla nostalgia di Dio. Dio ha desiderato che quel popolo gli fosse figlio e di conseguenza dargli la terra dei popoli. Al momento storico non è così, il popolo non ha la terra dei popoli perché è stato esiliato e se è stato esiliato è in discussione la stessa figliolanza. Ma non l’ha interrotta Dio, Dio bramava essere Padre di quel popolo, ma Padre sul serio: sentirsi chiamato Padre, ma sul serio, e perciò implicando che il popolo non si allontanasse da Lui. Nelle prime tre strofe dominava la metafora coniugale, nella quarta strofa si passa all’immagine del Padre: sono due immagini che dipendono entrambe da Osea capitoli 1-3 (la prostituta), e capitolo 11 (il padre e i figli). Purtroppo però questo rapporto di paternità e figliolanza è stato in-


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franto, non lo ha infranto Dio, ma il popolo e ciò è espresso nel quarto verso dove si riprende la metafora coniugale, leggiamo infatti «come infrange la fede una donna per il suo amico così ha infranto la fede in Me, casa di Israele». Però se Israele ha interrotto il suo rapporto di figliolanza con Dio, in Dio il sentimento rimane vivo. Ed è qui la prospettiva della quinta strofa nei versi 21a. 21b. 22a. 22b. Dio si sente tradito ma il suo affetto rimane vivo (Cfr. la parabola del Figliol Prodigo), e una persona innamorata fa attenzione se la persona amata che se n’è andata non abbia qualche tenue segnale di cambiamento. L’affetto e la nostalgia di Dio prevalgono sullo sdegno delle prime tre strofe. Dio mette da parte il Suo risentimento, fa prevalere l’affetto, e l’affetto lo porta a raffinare l’orecchio per sentire meglio e nell’affetto sente qualcosa che lo sdegno gli impediva di sentire, e allora sente qualcosa: «tornate figli ribelli, voglio guarire le vostre defezioni». Quello che Dio percepisce è il pianto amarissimo dei figli di Israele, Egli lo sente sui colli, cioè sui luoghi degli idoli dove Israele credette di trovare la sua felicità. I colli sono stati una menzogna, lo leggeremo nell’altra bellissima confessione del capitolo 31: «i colli hanno attirato ed hanno ucciso. Israele si è smarrito e piange come un bambino che si è perduto, e non trova più la strada, prigioniero del suo stesso piacere». E il motivo del pianto è indicato subito dopo: «hanno pervertito le loro vie», cioè hanno cambiato direzione di cammino, e ciò perché hanno dimenticato il Signore. Possiamo leggere le tre cose all’inverso: 1. hanno dimenticato il Signore; 2. hanno seguito un altro cammino; 3. si sono smarriti nel labirinto degli idoli senza essere certi di potere tornare come che si vede ormai costretto in una situazione irreversibile.


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Ma proprio questo pianto fa scattare tutta la profonda commozione di Dio. Di fronte a questo pianto Dio da spazio assoluto al Suo sentimento, hanno perduto la via, ma Lui la ricostruisce. Non sanno se possono tornare, ma Dio esorta a tornare. Nel verso 22a. leggiamo: «tornate figli ribelli, voglio guarire le vostre defezioni». Si avverte anche qui Osea (ascoltato dal giovane Geremia): «venite, torniamo al Signore, Egli ci ha colpiti, Egli fascerà, ci ha feriti, Egli ci fascerà»48. Geremia dirà: «voglio guarire le vostre defezioni». Dio non sta dicendo voglio guarire le ferite provocate dai colpi, e Dio ha colpito mandando in terra di esilio. Ma la guarigione è nella causa, guarire le defezioni significa creare un cuore che non si allontani. circa sessanta anni dopo Ezechiele parlerà di un «cuore nuovo» per cui Dio non si limiterà soltanto a riportare in patria, ma Dio toglie la causa. Si crea un popolo che non pecca. Guarire le defezioni significa perdonare quelle passate e prevenire quelle future. È proprio qui che Israele riscopre il suo Dio, ritrova il Dio di sempre, quel Dio che mette fiducia, donde la confessione del verso 22 di Geremia: «ecco veniamo a Te, poiché Tu (sei) Jahwè il nostro Dio». In questa esperienza di ritorno, il popolo sperimenta due cose: chi è il Signore, e chi è il Signore per lui (relazione). È il Salvatore che torna a salvare.

48

Cfr. Osea 6,1 e ss.


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Carme di Geremia 3-4,4 la. lb. 1c. ld.

2a. 2b. 2c. 3a.

I Se rimanda un uomo la sua moglie e va via da lui E diventa ad un altro uomo, forse che potrà tornare a lei (LXX: a lui) ancora? Forse che non è stata contaminata quella terra (LXX - Vg: quella donna?) E tu che hai fornicato con molti amanti, tornerai a me, dice il Signore? II Alza i tuoi occhi ai colli e vedi: dove non sei stata violata? Sulle vie sedevi per loro, come l'arabo nel deserto, ed hai profanato la terra con le tue prostituzioni e con la tua malizia e furono trattenute le piogge e pioggia serotina non tu

III E fronte di meretrice tu a te: hai rifiutato di vergognarti Non da ora chiami a me: Padre mio, amico della mia giovinezza tu? 5a. Forse che si adirerà per sempre o conserva (ira) in perpetuo? 5b. Ecco (queste cose) hai detto ed hai fatto i mali ed hai potuto (vv 6-13) - (vv 14-18)49. 3b. 4.

19a. 19b. 19c. 20.

21a. 21b. 22a. 22b.

49

IV Ed io dissi: come ti porrò tra i miei figli Darò a te una terra di desideri, eredità assai gloriosa dei popoli E dissi: Padre mio chiamerà a me e da me non si allontanerà Come infrange la fede una donna per il suo amico, cosi hai infranto la fede in me, casa di Israele V Una voce! sui colli si sente il pianto amaro dei figli di Israele Poiché hanno pervertito le loro vie: hanno dimenticato il Signore loro Dio Tornate figli ribelli: guarirò le vostre defezioni Ecco veniamo a te poiché tu Jahvè, nostro Dio

I versetti 6-13 e 14-18, anche se presenti nel testo di Geremia, secondo il professore, non appartengono a Geremia, ma sono delle aggiunte del redattore.


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23a. 23b. 24. 25.

4,1a. 4,1b. 4,2a. 4,2b.

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VI Veramente fallaci sono i colli, lo strepito dei monti Veramente nel Signore nostro Dio la salvezza di Israele Boscet ha mangiato la fatica dei nostri padri dalla nostra giovinezza (pecore e i loro buoi, i figli e le loro figlie) Ci corichiamo nella nostra ignominia e ci copre la nostra infamia, poiché contro il Signore nostro Dio abbiamo peccato (noi e i nostri padri dalla nostra giovinezza fino ad oggi e non abbiamo ascoltato la voce del nostro Dio) VII Se ti convertirai, Israele, a me potrai tornare Se rimuoverai i tuoi idoli, dal mio cospetto non vagherai E giurerai: viva il Signore, in verità, diritto e giustizia, e saranno benedette in te le genti e in te si glorieranno

VIII 4,3a. Poiché così dice il Signore agli uomini di Giuda e di Gerusalemme 4,3b. Arate per voi un campo e non seminate nelle spine 4,4a. Circoncidetevi per me (per il Signore) e togliete il prepuzio del vostro cuore 4,4b. Perché non esca come fuoco la mia ira e si accenda e non c'è chi spegne (a causa della malizia delle vostre opere) Martedì 30 novembre 2004, ore 08,30 / 10,15

GEREMIA 31, 15-20 Il profeta, profeticamente coglie il pianto della madre, che è un pianto amarissimo, un pianto che non può essere consolato perché i suoi figli non ci sono più. La menzione di Rachele (sterile, moglie di Giacobbe, ebbe due figli) è importante perché il profeta sta parlando alle tribù del nord, dopo la scissione le tribù del sud, Giuda, puntarono sulla discendenza davidica. Le tribù del nord, invece si riferirono ai patriarchi che diventarono il punto di riferimento e infatti le tradizioni dei patriarchi non nascono a sud, bensì al nord. Forse qui potremmo avanzare una mezza ipotesi se Geremia non scelga Rama per ambientare il pianto di Ra-


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chele, e non Bethehem perché Bethehem è legata alla discendenza davidica. Il pianto di Rachele non può essere consolato perché i figli non ci sono più. Potrebbe essere consolata se i figli potessero tornare, e chi può fare tornare i figli? L’allusione è alla dispersione in terra assira cento anni prima. Una sola persona potrebbe fare tornare i suoi figli e questa sola persona è l’unica che potrebbe consolare e difatti consola (parliamo del Signore Dio). Qui allora l’introduzione delle parole del Signore che sono una risposta al pianto di Rachele e se è lecito cogliere i sentimenti umani nel testo, si direbbe che Dio è stato raggiunto dal pianto della madre al quale non ha saputo resistere. Dio risponde esortando Rachele a cessare dal piangere, Dio lo ha raccolto ed a esso risponde. Al pianto della madre Dio risponde non con una vaga consolazione, ma facendo una precisa promessa: torneranno dalla terra del nemico. Abbiamo qui un annunzio che forse nella storia non si verificò mai, si verificò il ritorno dall’esilio di Babilonia, ma dall’esilio assiro (720) la storia non ci dice nulla anzi dopo la deportazione nel regno del nord (a Samaria) furono deportati dagli assiri, arabi dal deserto dando origine ad una razza ibrida: i samaritani che furono considerati estranei fino al NT. La risposta di Dio comprende cinque tappe: nella prima parte c’è l’esortazione a cessare dal pianto, le altre quattro parti contengono la motivazione di questo invito. Le quattro parti stanno in relazione parallela a due a due. La seconda e la quarta frase stanno in parallelo: c’è

c’è

una ricompensa

una speranza

alla tua opera

alla tua discendenza

Nella prima frase la promessa è a Rachele, nella seconda frase la promessa è alla sua discendenza. Sembra di cogliere nel testo un rapporto di causalità tra le due promesse: la prima è causa della seconda. Dio ha


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accolto il pianto della madre. Si può notare che il pianto di Rachele non è presentato come un pianto di preghiera: anzi è un pianto sconsolato di una persona chiusa in sé stessa, ma anche tale pianto arriva a Dio come implorazione. E in forza di quel pianto, Dio promette a Rachele, ma il contenuto della promessa alla madre, è la promessa fatta ai figli. La terza e la quinta frase stanno pure in parallelo: torneranno

torneranno

dalla terra del nemico

alla loro terra

Le due frasi sono complementari, la prima esprime il moto da luogo, la seconda il moto a luogo. Le quattro frasi insieme contengono la promessa e l’impegno assoluto di Dio alla discendenza di Efraim. La menzione della discendenza determina un diverso orientamento, Dio sposta l’attenzione dalla madre ai figli. Il pianto della madre riassumeva il pianto dei figli, e dal pianto della madre, Dio risale a quello dei figli . Continua il soliloquio di Dio ma rivolto stavolta ai figli. L’infinito assoluto dal perfetto danno l’idea di forte intensità, non si tratta soltanto di un sentire materiale, ma di un sentire pressante che esige ascolto e Dio dichiara: “sento bene Efraim che geme in sé” e Dio ripete le parole di supplica di Efraim. Anche qui possiamo cogliere una molteplicità di sfumature. Efraim dichiara di avere accettato il castigo di Dio, accettare un castigo significa giustificarne le cause e significa anche accettare di correggersi. Efraim si paragona ad una immagine molto bella. Efraim si paragona ad un animale selvatico che non è stato sotto la mano del padrone, ma la preghiera dimostra come attraverso il castigo Efraim si è lasciato addomesticare, cioè non è più scappato dalle mani del suo Dio, il castigo lo ha fatto tornare in sé stesso, e tutto questo lo dichiara a Dio perché Dio lo veda e accolga la bellissima supplica espressa subito dopo. Efraim ha


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un desiderio: tornare al Signore. Ma la frase rivela tacita una preoccupazione: il Signore accoglierà l’espressione “fammi tornare” può avere due sfumature, o dammi la capacità di tornare oppure dammi il permesso di tornare. In ogni caso il tornare dipende da Dio, e qui sta la vera supplica. Se Dio fa tornare allora il ritorno sarà possibile. La forma inversa dei verbi (o perfetto inverso o imperfetto inverso) ha sempre una sfumatura di successione e anche talora una sfumatura di subordinazione. Nel caso specifico vediamo nel testo una sfumatura finale o consecutiva: fammi tornare perché possa tornare oppure fammi tornare ed io potrò tornare. In ogni caso la forma all’imperfetto tollera bene la forma modale del potere. La possibilità per Efraim di tornare non dipende dalla propria conversione, ma dal Dio che accoglie. La preghiera è bruciante ed è accompagnata da una bellissima confessione, il primo motivo della supplica è perché Efraim riconosce che solo il Signore è il suo Dio. Questa dichiarazione è ancora più forte per i fatto che chi la pronunzia ha avuto esperienza di essersi smarrito tra gli idoli ed ha capito che solo il Signore è l’unico Dio. La seconda motivazione è la vera confessione. Efraim ricorda di essersi pentito del suo allontanarsi. Battere l’anca equivale al nostro battersi il petto come riconoscimento della propria colpa, una colpa che non è stata senza conseguenze che sono descritte nella prima parte: “mi vergogno e anche sono preso da rossore perché ho portato l’ignominia della mia giovinezza”. La giovinezza nel linguaggio profetico richiama l’epoca dell’Egitto, e come dicevamo in questo primo periodo Geremia risente del suo antico predecessore Osea. In Osea 11,1 leggiamo: “quando Israele era giovane io lo amai e fin dall’Egitto lo ritenni mio figlio”. Geremia parla dell’ignominia, cioè della vergogna in tempo di schiavitù. Il popolo ha rivissuto l’esperienza dell’Egitto e tutto ciò lo ha fatto tornare in sé stesso. Capire la propria colpa è implorare il ritorno da Dio.


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Che cosa fa Dio? Dio non risponde direttamente ad Efraim, ma pronunzia tra sé e sé uno dei soliloqui più alti di tutta la Scrittura. Dio dice a sé stesso se per caso non gli sia un figlio caro, da dove lo deduce? Da una semplice riflessione sulla propria psicologia: si tratta di psicologia umana trasferita a Dio. Dio è arrabbiato con Efraim, lo ha cacciato in esilio, lo ha allontanato da sé come un uomo allontana una persona cara da cui si è sentito offeso, e bisogna dimenticare quella persona cara. Per poterla dimenticare si mettono davanti tutti i difetti, si dice male di quella persona, ma succede che più se ne parla male e più prepotentemente quella persona balza nel cuore. Così ha fatto Dio con Efraim. “Sicché tutte le volte del mio parlare contro di lui con forza lo ricordo ancora”. Tutte le volte che ne dice male il ricordo torna. Da questo fatto Dio deduce e si chiede se Efraim non sia un figlio caro, si arrende all’evidenza, deve ammettere che lo ama, e allora le ultime parole “intensamente lo amo, ho compassione di lui”.


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Mercoledì 01 dicembre 2004, ore 10,30 / 12,15 Il testo di Geremia 31,34 è di fondamentalissima importanza perché su di esso poggia gran parte del NT a cominciare dalla formula della istituzione del calice soprattutto nella redazione lucano-paolina. È ovvio che il testo di Geremia è come uno schizzo ancora vago ma che troverà la sua realizzazione nel NT soprattutto insieme all’oracolo di Ezechiele 36, sarà importante per tutto il problema del superamento della legge nelle lettere ai Romani e ai Galati. In questo oracolo, unico nell’AT, il profeta ha l’ardire di scalzare quella che era l’istituzione più importante dell’AT, cioè l’alleanza sinaitica. Anche il terzo Isaia parlerà di patto di pace, ma il patto di pace è una riproposizione dell’Alleanza Sinaitica. Anche Qumran parlerà di Nuova Alleanza, ma si tratta ancora di una riproposizione


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di quella sinaitica. Detto questo affrontiamo il testo. Nel verso 31 il profeta preannunzia, da parte di Dio, dei giorni in cui stipulerà una Nuova Alleanza. Il problema fondamentale è dato dall’aggettivo “nuova” che in greco si distingue ma non in ebraico. La lingua greca distingue tra l’aggettivo “ ” e “

”. “ ” significa nuovo nel tempo, cioè attuato da poco in relazione a cose della stessa indole fatte prima. Il “

”, invece, indica una novità di diversa indole cioè qualitativa, la cosa nuova è diversa, di diversa natura, di diversa specie, rispetto alla precedente. Chiaramente il profeta intende in questo contesto una Alleanza qualitativamente nuova: ciò si deduce dal confronto con la frase negativa che introdurrà subito dopo, ma soprattutto dalle caratteristiche con cui egli caratterizzerà questa Nuova Alleanza subito dopo. Di conseguenza annunziando, come dirà la lettera agli Ebrei, una Nuova Alleanza, automaticamente è abrogata l’Alleanza Sinaitica. dicevamo come il profeta su questo punto è arditissimo: non ha nessun seguito nell’AT: nessuno riprenderà l’aspetto della Nuova Alleanza. Persino Ezechiele che cinquant’anni dopo approfondirà l’opera di Dio nel cuore umano, passando dalla legge scritta nel cuore di Geremia alla radicale sostituzione del cuore, ma non parlerà di Nuova Alleanza. L’oracolo di Geremia così rimane aperto fino al NT. Perché nessuno pensi che si tratti della Legge Sinaitica, il profeta esplicitamente dichiara che non è quella alleanza. Nell’Alleanza Sinaitica Dio aveva mostrato la sua cura, c’è qui una diversa prospettiva rispetto al libro dell’Esodo. Nell’Esodo Dio prima fece uscire poi fece attraversare un po’ il deserto e infine li condusse al Sinai dove diede i comandamenti. Il libro dell’Esodo riferisce i comandamenti nel capitolo 20, ma fa precedere il decalogo da una introduzione di indole deuteronomista nei versi 3,5: “voi avete visto ciò che ho fatto agli egiziani, come vi ho condotti su ali di aquila, vi ho fatti venire a me, adesso se voi ascoltate la mia voce e osserverete il mio patto sarete a me (mi apparterrete) come popolo di


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possesso peuliare”. Questo testo di indole deuteronomista sottolinea il fatto che nemmeno l’Alleanza Sinaitica si poneva in prospettiva giuridica, ma mirava ad un rapporto personale con Dio. Geremia identifica il giorno in cui Dio stipulò l’Alleanza, non con l’avvento al Sinai che, secondo Esodo 19,1 avvenne al terzo mese, ma con il giorno in cui Dio prese per mano per fare uscire dal paese di Egitto. Geremia perciò identifica la stipulazione dell’Alleanza con tutto l’evento dell’Esodo. D’altra parte lo stesso passaggio del Mar Rosso, tradizione sviluppata dalla tradizione più antica del passaggio dello “Jamsuf” (il mare dei giunchi), si colloca in prospettiva teologica, Dio non squarta l’animale ma ha aperto il mare, cioè ha introdotto il suo popolo nell’Alleanza. È bellissima l’immagine: “nel giorno che li presi per mano” torna l’immagine del papà che mano con mano conduce suo figlio, immagine già proposta da Osea e ripresa ancora da Geremia. L’immagine è molto bella, è affettivamente carica ed esprime tutto il senso della paternità di Dio. Dio al grido del popolo in Egitto ha risposto, lo ha preso per mano (le dieci piaghe rientrano anche in questa prospettiva) e lo fece uscire dall’Egitto. Fa contrasto nel testo l’azione di Dio con la risposta del popolo. L’alleanza fu violata, e in questa violazione il profeta legge tutta una storia che và dall’uscita dall’Egitto fino alla caduta di Samaria. Il libro dell’Esodo non manca di sottolineare la ribellione del popolo che non gradì tante volte l’opera di Dio e bramò tornare in quell’Egitto da cui Dio lo aveva liberato. Pensiamo al momento quando il popolo si trovò davanti il mare e di dietro gli egiziani, Dio rispose aprendo il mare. Pensiamo al capitolo 16, il popolo mormorò per mancanza di cibo e rimpianse l’Egitto, Dio rispose donando la manna. In Esodo 17 c’è la stessa mormorazione per la mancanza di acqua e Dio rispose facendo scaturire l’acqua dalla roccia. Ma il peccato più grave coincide col momento della stipulazione dell’Alleanza Sinaitica. Conosciamo l’episodio del vitello di oro: il popolo mentre Mosè è sul monte a ricevere i comandamenti, il po-


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polo chiede ad Aronne che costruisca un idolo, il vero peccato non è al limite la costruzione dell’idolo, ma la professione di fede che il popolo formula davanti all’idolo: “questo Israele è il Dio che ti ha fatto uscire dalla terra di Egittoâ€? cioè il popolo attribuisce all’idolo l’evento di salvezza in forza del quale Dio si ritiene Dio di quel popolo e dona i suoi comandamenti. Perciò il popolo trasgredisce non solo il primo comandamento di non avere altro Dio, ma intacca lo stesso fondamento dell’Alleanza, cioè l’evento di Salvezza. Dal momento che non è stato Lui a compiere l’evento di Salvezza, Dio è abusivo nel dare i comandamenti. L’alleanza perciò viene violata nel suo stesso nascere. Leggiamo che Mosè ruppe le tavole di pietra, sul significato delle leggi scritte su tavole di pietra torneremo piĂš avanti, ma adesso sottolineamo il senso della rottura: l’alleanza è stata rotta. Narra il testo che Mosè riscrisse le tavole, ma non si dice che quella fu una ri-stipulazione. Lasciando stare ulteriori considerazioni della storia seguente, Geremia nota che l’alleanza è stata violata e da allora in poi non è mai piĂš seguita una nuova ri-stipulazione, perciò al momento in cui Geremia scrive, l’alleanza è violata. La frase seguente è un pochino difficile: “benchĂŠ io fossi il loro Signoreâ€?, la versione greca interpreta la frase in senso negativo, che la versione latina traduce nel seguente modo: “et ego neglecsi eosâ€?, ma forse il senso è piĂš positivo dando come sintatticamente è possibile, alla congiunzione “ â€? in senso concessivo: “benchĂŠ io fossi Signore, il loro Signoreâ€?. Dio nota il contrasto, in questo senso, tra il fatto di essere Signore di quel popolo, cioè di appartenere a quel popolo in forza dell’evento di salvezza e la risposta negativa del popolo. Dal momento che l’alleanza è stata violata e non esiste piĂš, Dio annunzia per mezzo del profeta, di volere ricostituire l’alleanza, ma non piĂš quella sinaitica, ma diversa. Si spiega l’introduzione del verso 33. Dopo questa introduzione il profeta passa a descrivere le caratteristiche della Nuova Alleanza. Esse sono tre piĂš una, le prime tre sono ca-


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ratteristiche positive, l’altra è caratteristica negativa, la quale, per il suo stesso carattere negativo, benché introdotta alla fine, costituisce la condizione previa perché le tre positive possano realizzarsi. La prima caratteristica positiva è la seguente: il testo di Geremia è in prosa, ma una prosa ben congegnata stilisticamente. Questa frase infatti si costruisce in maniera concentrica e alternata insieme.

1. pongo 2 . la mia legge 3. nel loro intimo 4. e sul loro cuore 5. scriverò 6. essa Stanno in relazione i due verbi “porre” e “scrivere”. Il primo è generico, il secondo è specifico. Ma soprattutto è importante la relazione tra “intimo” e “cuore”, queste due espressioni esprimono l’intimo più profondo dell’uomo. Si avverte in questa descrizione la differenza ed anche una certa polemica con l’alleanza sinaitica. In quest’ultima la legge era scritta su tavole di pietra cioè non con penna e calamaio, ma con chiodo e martello (scolpita), ciò significa che la legge sinaitica aveva un carattere indelebile e immutabile, di conseguenza nessuno poteva dire di non leggere bene o che le lettere fossero sbiadite. Qui rimane aperta una riflessione che colmerà Paolo nella lettera ai Romani, cioè, la legge esterna per il suo carattere di esterna fa scattare automaticamente il meccanismo della ribellione e la voglia di trasgredire. Lasciando aperto questo aspetto capiamo il senso della parola “cuore”. Il cuore come la realtà più intima dell’uomo è la sede dell’intelligenza (nel senso che si può capire col cuore). Col cuore si ama, nel cuore si annida la volontà umana. Dal momento che Dio annunzia di scrivere la legge nel cuore, vuol dire che cambierà il rapporto dell’uomo verso la legge, non più una legge che


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gli si impone dall’esterno e spesso anche in maniera pesante50, scritta invece nel cuore umano la legge di Dio sarà conosciuta, sarà amata e sarà voluta, quindi non la legge che si impone sull’uomo, ma l’uomo che come sua esigenza profonda ed interiore si apre alla legge. Qui però emergono diverse lacune e diverse domande alle quali probabilmente il giovane Geremia non sa rispondere, ma alle quali risponderà bene il NT. Anzitutto quando si verificheranno quei giorni futuri in cui Dio stipulerà questa Nuova Alleanza, quando cioè Dio scriverà questa legge nel cuore questo quando rimane aperto. Rimane aperta la domanda: “come Dio scriverà questa legge? Ma soprattutto qual è questa legge che Dio scriverà?”. Il giovane Geremia risponderebbe che sono i comandamenti, che lui almeno in parte elenca nel capitolo 7, ma noi, anche alla luce del NT dobbiamo contestare Geremia: il decalogo è sempre giuridico e per giunta formulato negativamente, è ben difficile che il cuore umano accolga e si innamori di una norma giuridica negativa. Il profeta non può saperlo, però il suo oracolo esige non solo un diverso modo di intendere la legge da esterna a interiore, ma esige lo stesso mutamento della legge e siccome nel cuore umano può entrare solo una persona, la Legge Nuova dovrà essere necessariamente una Persona. Anticipando il secondo quadrimestre citiamo tre testi paolini: Rm5,5: ”l’amore di Dio” (cioè il Dio che ama) è stato fuso nei nostri cuori; Ef3,17: ”Cristo abiti mediante la fede nei nostri cuori”; Gal4,4:”Dio ha mandato lo Spirito del Suo Figlio nei nostri cuori che grida: Abbà o Padre”, ma a tutto questo risponderà il NT, Geremia rimane aperto. Possiamo passare alla seconda caratteristica della Nuova Alleanza, scrive il profeta nel verso 33b: “e sarò per loro (apparterrò a loro) ad essi Dio ed essi saranno a me popolo”. Questa formula non è nuova, già appariva nell’alleanza con Abramo, e questo rapporto di reciproca appartenenza era la caratteristica e la pretesa dell’alleanza sinaitica. Ma dov’è 50

La legge sinaitica spesso minacciava la morte.


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la novità? Sta che nella rottura dell’antica alleanza, questa clausola, secondo Geremia non si era realizzata mai. Dal momento che, scrivendo la legge nel cuore, Dio si crea un popolo che non trasgredisce l’alleanza, allora questo rapporto di reciproca appartenenza potrà finalmente essere realizzato. E così passiamo alla terza clausola: l’insegnamento interiore.


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Venerdì 03 dicembre 2004, ore 08,30 / 10,15 La terza caratteristica positiva dell’Alleanza è la conoscenza interiore di Dio, la frase è molto lunga, ma niente ci autorizza a depennare qualche parola. È importante però cogliere anche l’articolazione strutturale della frase, in prosa, ma in prosa ben articolata. Avremmo il seguente schema: 1) non insegneranno più; 2) uomo il suo prossimo; 3) uomo il suo fratello; 4) dicendo conosci Dio. In questa prima parte del verso è completamente esclusa la presenza di maestri. Viene a cadere un tipo di insegnamento che deve portare alla conoscenza di Dio: insegnare a conoscere Dio non è più compito di un uomo: l’esclusione di qualsiasi attività umana emerge dalla duplice ripetizione del termine “uomo”. Questa caratteristica è più ardita della prima e deve essere compresa anche alla luce del NT, prima però consi-


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deriamo la seconda parte che introduce la motivazione della affermazione precedente. La motivazione è che “tutti essi conosceranno me” e il profeta

rimarca

questa

universale

conoscenza

di Dio

aggiungendo

l’espressione seguente: “dal più piccolo di loro fino al più grande” (cioè nessuno escluso). Come interpretiamo questo testo? In Geremia alla lettera. Ma Geremia, come abbiamo detto, si proietta in un futuro che lui intuisce ma che non sa precisare. Il NT riprenderà questo aspetto soltanto accennato possiamo citare Giovanni 6,45 dove Gesù dichiara: “e saranno tutti conoscitori di Dio […] chiunque ha udito dal Padre ed ha imparato viene a me”. Gesù ancora dirà: “nessuno viene a me se il Padre non lo attrae”. Più complesso il problema è nella prima lettera di Giovanni (che non tratteremo adesso in questa sede), ma Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi riconosce che per quanto riguarda la fede i Tessalonicesi non hanno bisogno di essere istruiti, come interpretiamo? Da una parte bisogna ammettere questa realtà (c’è un insegnamento interiore), dall’altra non si può esasperare perché oggi siamo nel tempo della coesistenza tra bene e male e il cristiano che pur già possiede la capacità di essere istruito interiormente corre anche il rischio di scambiare la voce dello spirito con quella del peccato. A questo punto c’è ancora bisogno del maestro, non perché il maestro debba insegnare, ma perché aiuti a comprendere qual è il vero insegnamento interiore. Queste caratteristiche sono proposte dal profeta in un progresso tematico: la legge scritta nel cuore porta alla presenza di Dio e di conseguenza Dio stesso diventa maestro. Il testo di Geremia non è chiaro ma pone alcune basi per il NT, non lo so se il profeta lo pensasse, ma si può tirare la conclusione che Dio stesso diventa quella legge interiore che determina poi l’agire umano. In ogni caso il profeta sottolinea quest’aspetto interiore; in 32,40 riprende la stessa prospettiva, scrive: “stipulerò per loro una alleanza eterna cosi ché non mi allontanerò più per beneficarli


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[…] porrò il mio timore nel loro cuore e da me più non si allontaneranno”, con altro linguaggio è espressa ancora la realtà della Nuova Alleanza: Dio promette di essere Dio del popolo e lo benefica, l’uomo da Dio non si allontanerà perché Dio porrà nel suo cuore il suo timore. Si capisce che il termine “timore” non è sinonimo di paura, anche questo termine nel linguaggio biblico diventa un termine polivalente che implica anche profonda adesione e si apre alla prospettiva dell’amore. Detto questo passiamo alla quarta caratteristica, quella negativa, la quale, per il fatto che è negativa, deve essere logicamente prima di quelle positive. Le caratteristiche positive non si potranno attuare se prima Dio non compie un opera di purificazione, per questo la caratteristica negativa sarà appunto la remissione dei peccati. È importante anche la formazione strutturale della frase che è possibile proporre anche in maniera concentrica:

1) sarò propizio; 2) alle loro colpe; 3) e dei loro peccati; 4) non ricorderò più. La relazione tra i due verbi “sarò propizio” e “non ricorderò” e la relazione tra i due sostantivi indica che la remissione sarà assoluta come indicano i due verbi, totale come indicano i due sostantivi. Dicevamo come questo oracolo sta alla base di molti testi del NT. Citiamo la formula della istituzione soprattutto nella formulazione lucana: “questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue per la remissione dei peccati”. Si prende praticamente l’introduzione e la caratteristica negativa. Paolo, salvo errore, nei capitoli 1-8 della lettera ai Romani propone due parti: la prima parte (capitoli 1-4) sul peccato e la sua remissione (caratteristica negativa), la seconda parte è la vita secondo lo Spirito (è la prima caratteristica positiva). L’oracolo di Giovanni è unilaterale, crea una opposizione antiteti-


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ca tra le due alleanze: nuova e sinaitica. L’alleanza sinaitica ad esempio fu stipulata mediante un sacrificio. La nuova alleanza proposta da Geremia, invece, non prevede nessun sacrificio, anzi se dobbiamo esasperare il contrasto che il profeta introduce tra le due alleanze dovremmo concludere che il profeta esclude qualsiasi sacrificio. Il NT invece non esclude l’alleanza sinaitica, ma la fonde con la nuova alleanza. Ciò appare dalla stessa formula della istituzione dove il verbo participio: “effuso” richiama tutto il rituale sacrificale levitico, come anche l’espressione: “per voi” oppure: “per molti” richiama il quarto canto del Servo (Isaia 53). Ma soprattutto tale fusione appare più chiara nella lettera agli Ebrei secondo la quale anche la Nuova Alleanza è stipulata con un sacrificio, ma non più con quello di animali, bensì con quello di Cristo.

SECONDO PERIODO A differenza del primo periodo dove è difficile o addirittura impossibile distinguere i vari momenti della storia del profeta, nel secondo periodo possiamo invece stabilire con più precisione i vari momenti del profeta. Ciò per due motivi, il primo motivo è perché in questo secondo periodo il ministero di Geremia si svolgerà al sud anche se non sappiamo come il profeta, in questo secondo periodo, fosse giunto a Gerusalemme. Nel primo periodo pare che non sia stato a Gerusalemme, ciò appare da tre indizi: il primo è che non si spiegherebbero i bellissimi oracoli di salvezza in un posto: Gerusalemme, contro il quale Geremia sarà fortemente critico, inoltre un oracolo di salvezza si spiega dopo che Dio ha operato il giudizio, lo ha operato al nord (la caduta di Samaria), ma ancora al sud non è stato operato. C’è un terzo indizio offertoci dal secondo libro dei Re. Nell’anno 622 (durante il primo periodo), Giosia il re di Giuda, fece la purificazione del tempio e trovò la legge del Signore, leggiamo nel capitolo 22 che Giosia per autenticare quella legge si rivolse non a Gere-


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mia, ma ad una profetessa di nome “Hulda”. Strano che Geremia non fu consultato (se era lì) quando invece avrà una notevole incidenza alla corte regale nel secondo periodo. La presenza di Geremia a Gerusalemme si intreccia con la storia babilonese, mentre nel primo periodo al nord non c’era più storia con la caduta di Samaria. Il secondo motivo della precisione cronologica è il fatto che di questo periodo abbiamo diversi resoconti storici trasmessici dallo scrivano o segretario, un certo “Baruc”. La prima data di questo secondo periodo ci è riferita nel capitolo 26, leggiamo nel verso 1 le seguenti parole: “all’inizio del regno di Jojakim, figlio di Giosia, re di Giuda, fu rivolta questa parola da parte del Signore”. È la prima indicazione cronologica dopo quella del capitolo primo nell’anno XIII di Giosia. Per stabilire l’inizio del regno di Jojakim rivediamo un attimo la storia: secondo i nostri calcoli nel giugno del 609 muore Giosia nel tentativo di sbarrare il passo al faraone che andava in Assiria a dare manforte al regno Assiro ormai in fase di spegnimento (612, tre anni prima era caduta Ninive). In questo tentativo Giosia fu ucciso. Il popolo elesse re non il primogenito di Jojakim ma il secondogenito Joakaz che però regnò solo due mesi, nel settembre dello stesso anno il faraone tornando dalla Assiria depose Joakaz lo deportò in Egitto, e mise sul trono il primogenito Jojakim. Siamo verso settembre e perciò il tempo fino a primavera non sarà il primo anno, ma l’anno di inizio, perciò la data che stiamo considerando deve andare tra settembre 609 e la primavera 608. In questo tempo troviamo Geremia nel tempio che tiene un discorso. Questo discorso ci è stato tramandato in due forme, nella reinterpretazione o rielaborazione deuteronomista del capitolo 7 e nel resoconto di Baruc, nel capitolo 26. mentre il racconto deuteronomista indugia e amplia l’aspetto parenetico, Baruc ci offre sole una sintesi del discorso dandoci i fatti antecedenti, ma soprattutto quelli conseguenti. Nel discorso di Geremia, il profeta approfittando del fatto che il popolo va al tempio, rivolge questa esortazione: “miglio-


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rate la vostra condotta e le vostre azioni”, il profeta esorta a migliorare la condotta ed a non fidarsi alle parole menzognere di chi dice: “il tempo del Signore, il tempo del Signore, il tempo del Signore”, il profeta sta criticando quel modo di comportarsi fidandosi di una impunità da parte di Dio garantita dalla presenza del tempio. La triplice ripetizione sta ad indicare che questo era un ritornello costante tra il popolo, esso tradisce la convinzione, ma che Geremia vuole smontare, che la presenza materiale del tempio avrebbe preservato da ogni catastrofe. Forse questa convinzione dovette nascere novant’anni prima, all’epoca di Isaia, quando gli Assiri improvvisamente tolsero l’assedio, si credette che la causa era stata la presenza del tempio. Nei versi seguenti il profeta elenca i peccati che il popolo commette: “ma voi confidate in parole false e a voi non vi giova…”. Il popolo commette questi peccati, poi crede che basta andare al tempio e trovare la propria impurità: “poi venite e vi presentate alla mia presenza al tempio… e poi dite siamo salvo per poi ricompiere i vostri abomini”. Il profeta esce un immagine e paragona la casa del Signore ad un covo di ladri che commettono scorribande, trovano rifugio nel loro covo per poi riprendere le loro razzie. Fin qua il profeta è stato violento, ma poteva essere anche ignorato. Non sarà ignorato in quello che dirà dopo, dal momento che il popolo concepisce il tempio come la garanzia per continuare nei propri peccati, il profeta annunzia la distruzione del tempio e dichiara: “Dio è capace di distruggere il Suo tempio”. Porta un precedente, distrusse il Suo santuario di Silo quando era sacerdote “Eli”, l’arca fu rubata dai filistei ed Eli morì di crepacuore. L’esempio di Silo, di circa sette secoli prima, deve far capire che Dio può distruggere il Suo tempio e permettere (verso 15) la deportazione come avvenne per le tribù del nord. Il discorso di Geremia, proprio per l’annunzio della distruzione del tempio, non passò inosservato, Geremia fu arrestato e si istruì un processo contro di lui e si deliberò contro di lui sentenza di morte: “sentenza


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di morte contro quest’uomo perché ha profetizzato contro questa città come avete udito”. I capi del popolo perciò contro Geremia decretarono la condanna a morte. Geremia si difese, e l’unica difesa a suo favore era quella vera: anche a lui dispiaceva parlare, ma non poteva fare diversamente perché così gli aveva comandato il Signore. Geremia evitò la morte perché tra quei capi ci fu qualcuno che prese le sue difese, un certo “Achikam”. Qui segue un silenzio di Geremia per circa quattro anni; del profeta non ne sappiamo più niente fino all’altra data, riferita in 25,1 che è il quarto anno del regno di Jojakim che ci riporta all’anno 604. Sul piano politico intanto era avvenuto un fatto: muore in Babilonia Nabopolasar e sale al trono il figlio Nabucodonosor intronizzato nella processione del dio Marduc nella primavera del 604.

Martedì 07 dicembre 2004, ore 08,30 / 10,15 Dopo quell’episodio seguì un tempo di silenzio del profeta. Lo ritroviamo quattro anni dopo. Nel capitolo 19 abbiamo narrata un’altra vicenda del profeta, anche qui abbiamo due redazioni: anzitutto il capitolo 25 che a noi rimane ancora in redazione deuteronomista, nella narrazione di Baruc, invece, il racconto è riferito nel capitolo 19 fino al verso 6 del capitolo 20. In 25,1 abbiamo una indicazione cronologica, narra Baruc: «questa parola fu rivolta a Geremia per tutto il popolo di Giuda nell’anno quarto di Jojakim» tenendo conto che il primo anno cominciava dalla primavera del 608, l’anno quarto di Jojakim ci riporta alla fine del 605 e agli inizi del 604. Nel 605 era avvenuta la famosa battaglia di Karkemish dove la coalizione assiro-egiziana era stata definitivamente sconfitta dai Babilonesi comandati dal figlio di Nabopolasar, Nabucodonosor. Lo stesso anno 605 muore Nabopolasar e sale al trono Nabucodonosor che sarà ufficialmente intronizzato nella primavera del 604 in occasione della processione del dio Marduk. Sconfitta l’Assiria, Nabucodo-


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nosor intraprese le sue spedizioni sui ruderi dell’antico impero assiro. Cominciava ad essere chiaro che i babilonesi si sarebbero sostituiti all’impero Assiro e ciò cominciò ad essere chiaro anche per Geremia. I testi del capitolo 25 e del capitolo 19 ci riferiscono perciò un discorso in questo sfondo storico. Questi due testi sono arrivati a noi un pochino manomessi e confrontandoli possiamo ricostruire nel seguente modo : 1) l’azione simbolica prima del discorso; 2) il discorso tenuto nel tempio; 3) le conseguenze del discorso. L’azione simbolica consiste nel fatto che il profeta deve comprare una brocca di terracotta e deve recarsi con alcuni anziani del popolo ed alcuni sacerdoti nella valle di Ben-Hinnòn a Gerusalemme e lì davanti ai loro occhi spezzare quella brocca. A questo punto c’è l’annunzio di Geremia in 19,10: «spezzerò questo popolo e questa città come si spezza un vaso di terracotta che non si può più aggiustare», l’azione simbolica perciò mira ad annunziare la distruzione di Gerusalemme. Siamo nell’anno 604 e questa distruzione si verificò esattamente diciotto anni dopo. L’azione simbolica nei profeti è importante perché essa non si limita soltanto all’aspetto intellettivo, ma nella concezione antica, l’azione simbolica imprime nella storia quasi un dinamismo che orienta la storia stessa verso ciò che l’azione simbolica indica. Agli occhi di tutti perciò Geremia ha impresso nella storia un movimento che culmina appunto nella distruzione della città. Il discorso stesso, ancora una volta, è riferito in maniera succinta nel capitolo 19 da Baruc, in maniera più diffusa dal redattore deuteronomista nel capitolo 25. Il profeta esordisce ricordando come dall’anno tredicesimo di Giosia fino al momento presente51, ma non è stato solo lui a parlare al popolo: il Signore ha inviato con assidua premura i suoi servi, i 51

L’indicazione «23 anni» nel verso 3 probabilmente è una aggiunta, ma è giusta.


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suoi profeti, Geremia perciò non è il solo, ma uno dei tanti che il Signore ha mandato, l’esortazione era sempre la stessa: abbandonare la propria condotta, abbandonare gli idoli. Ma siccome il popolo non ha ascoltato, Dio stesso decide di mandare una calamità, leggiamo nel verso 25,8 le parole: «per questo dice il Signore degli eserciti: poiché non avete ascoltato le mie parole ecco Io manderò a prendere tutte le tribù del settentrione». L’allusione è chiaramente ai babilonesi anche se il profeta si astiene da dirlo esplicitamente. Nel capitolo 25 non è chiaro però fin dove arrivano le parole di Geremia e quelle dei deuteronomisti, in ogni caso il profeta annunziò la distruzione della città, leggiamo infatti nel verso 9: «voterò costoro allo sterminio e li ridurrò ad oggetto di orrore». Nel verso 10 si introduce un testo che appartiene però probabilmente ad una rilettura posteriore, leggiamo infatti: «farò cessare in mezzo a loro le grida di gioia e le voci di allegria, la voce dello sposo e la voce della sposa, il rumore della mola e il lume della lampada», immagini che indicano la totale devastazione. C’è un progresso rispetto al discorso del 609 (il primo), mentre allora il profeta aveva soltanto minacciato la distruzione del tempio, ora annunzia con chiarezza una catastrofe. Nemmeno da questo discorso il profeta ne uscì indenne, le conseguenze ci sono narrate ancora da Baruc nei versi 1-6 del capitolo 20. Geremia fu arrestato dal capo del tempio, un certo Pashkur, che fece flagellare Geremia e lo rinchiuse per tutta la notte in uno strumento di tortura. Il giorno dopo però Geremia fu liberato, ma ancora una volta il profeta dipende dalla Parola del Signore, e se la flagellazione e la chiusura nello strumento di tortura avrebbero scoraggiato chiunque e avrebbero indotto a rimangiarsi le parole dette, il profeta non può farlo, perché non sono parole sue. Anzi il profeta rincara la dose e stavolta esplicitamente menziona i babilonesi, leggiamo infatti nel verso 4: «metterò tutto Giuda nella mani del re di Babilonia, il quale li deporterà in Babilonia». Il profeta


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predice anche un saccheggio della città e del tempio che avvenne già nel 597, sette anni dopo, leggiamo nel versetto 20,5: «Consegnerò tutte le ricchezze di questa città e tutti i suoi prodotti, tutti gli oggetti preziosi e tutti i tesori dei re di Giuda in mano ai suoi nemici, i quali li saccheggeranno e li prenderanno e li trasporteranno a Babilonia». Infine il profeta fa una profezia anche per il suo aguzzino, Pashkur, al quale preannunzia nel verso 20,6: «Tu, Pashkur, e tutti gli abitanti della tua casa andrete in schiavitù; andrai a Babilonia, là morirai e là sarai sepolto, tu e tutti i tuoi cari, ai quali hai predetto menzogne». Il capitolo 36 è ambientato nella stessa epoca del discorso precedente, cioè nell’anno quarto di Jojakim, Baruc ci riferisce di un comando che il profeta riceve dal Signore, egli deve prendere un rotolo e scrivere tutte le cose che il Signore ha detto attraverso il profeta dal tempo di Giosia fino al momento presente. Narra il testo, nel verso quattro, che Geremia chiamò Baruc, il quale scrisse sotto dettatura. Il profeta comanda a Baruc di trovare l’occasione per leggere quel rotolo nel tempio, nella speranza che il popolo capisca e si converta. Geremia motiva tutto ciò col fatto che egli è impedito di entrare nel tempio, ciò significa che dopo il discorso del 604, insieme alla fustigazione e alla tortura, ricevette anche il comando di non mettere mai più piede nel tempio. Ma il comando è dato a Geremia, non al Signore di non parlare, e se il profeta è impedito di parlare sceglie la forma scritta affidandola a Baruc che non è impedito. Il testo, nel verso 9, ci dà un’altra indicazione cronologica: l’anno quinto di Jojakim in occasione di un digiuno indetto per il quale il popolo era radunato Baruc lesse il rotolo, questa lettura fece impressione, tanto che i capi chiesero che lo si rileggesse davanti a loro e decisero che fosse letto davanti al re. Al re Jojakim non si presentò Baruc al quale fu consigliato di nascondersi, lo lesse uno dei capi, ma Jojakim con molto orgoglio, man mano che il rotolo si leggeva lo bruciava. Baruc aveva sottolineato che quello che aveva scritto era tutto quello che Geremia aveva dettato.


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Leggiamo nel verso 18 le parole di Baruc: «di sua bocca Geremia mi dettava tutte queste parole ed io le scrivevo nel libro con l’inchiostro». Jojakim dopo avere bruciato il rotolo comandò che sia Baruc, come Geremia fossero arrestati ma, leggiamo nel verso 26: «il Signore li aveva nascosti» ma l’azione orgogliosa di Jojakim non annulla la Parola del Signore, il quale comanda ancora a Geremia di riscrivere quel rotolo, ancora una volta Geremia dettò quel rotolo a Baruc e dice il testo (verso 32): «apportandovi delle aggiunte». Questo rotolo comprendeva gli oracoli dal tempo di Giosia fino al momento presente, probabilmente possediamo questo rotolo, esso dovrebbe coincidere con i capitoli 1-6 dell’attuale libro, questi capitoli infatti contengono oracoli proprio dal tempo di Giosia fino al momento presente. Questi capitoli infatti si possono dividere in tre parti: 1) la vocazione (capitolo 1), ampliata con delle visioni simboliche52; 2) gli oracoli del primo periodo (capitoli 2-4,2); 3) gli oracoli del momento presente (capitoli 4-6), che annunziano una sventura. In questi capitoli il profeta annunzia la catastrofe babilonese, in 4,6 leggiamo: «alzate un segnale verso Sion, fuggite, non indugiate perché io mando da settentrione una sventura, il leone (Nabucodonosor) è balzato dalla boscaglia». Il profeta esorta alla conversione, leggiamo nel verso 9: «per questo vestitevi di sacco, lamentatevi e alzate grida perché l’ira del Signore non si è allontanata da noi». Il profeta deve annunziare una sciagura ed è molto diversa la sua attività da quella del primo periodo, ma il profeta stesso ne soffre e arriva addirittura a somatizzare, leggiamo infatti in 4,19: «le mie viscere, le mie viscere, sono straziato, le pareti del mio cuore, il cuore mi batte forte, no riesco a tacere perché ho udito uno squillo di tromba, un fragore di guerra, si annunzia rovina sopra rovina e tutto il paese è tutto devastato». Leggiamo ancora in 5,15: 52

Quella del mandorlo e quella della pentola.


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«ecco manderò contro di voi una nazione da lontano, una nazione di cui non conosci la lingua, divorerà le tue messi e il tuo pane, i tuoi figli e le tue figlie». E così per tutti questi capitoli che sono un drammatico annunzio di distruzione ma insieme un forte appello alla conversione. Abbiamo detto che Jojakim aveva cercato Baruc e Geremia per farli arrestare, ma il Signore li aveva nascosti. E il Signore li nascose per un certo periodo e infatti di Geremia per circa sette anni non sappiamo più nulla, fino cioè al 597 quando vennero i Babilonesi, gli stessi gerosolimitani cedettero di propiziarsi i babilonesi uccidendo Jojakim e gettando il suo cadavere dalle mura. A suo posto misero sul trono il figlio Jojakin che regnò appena qualche mese, perché il 597 fu l’anno della prima deportazione in Babilonia. Nabucodonosor deportò senza distruggere, deportò Jojakin mettendo sul trono un discendente davidico collaterale, un certo Sedecia. Tra i deportati di questa prima deportazione c’era una famiglia sacerdotale a cui apparteneva un ragazzetto (di circa 11 anni), che da li a quattro anni, in babilonia, avrebbe ricevuto la vocazione profetica, parliamo di Ezechiele. In tutti questi sette anni di Geremia non sappiamo nulla, ma a questo punto noi possiamo considerare l’animo del profeta, lui stesso, a differenza degli altri, ci permette di capire il tormento del suo animo, in un contrasto violento tra la bellezza della missione profetica del primo periodo e la situazione del momento presente del tutto opposta. Conserviamo le cosiddette “confessioni di Geremia” da non confondere con le lamentazione, queste ultime si collocano dopo la caduta di Gerusalemme e molto verosimilmente non sono di Geremia. Vedremo che le lamentazioni possono essere accostate al Salmo 73 come anche al Salmo 101.


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Nelle confessioni il profeta sfoga il suo animo, ci fa capire tutta la sua amarezza che tocca il fondo fino a maledire il giorno in cui è nato, amarezza però che poi man mano è rischiarata da profonda luce. Non siamo in grado di datare con maggiore precisione queste confessioni, debbono però essere messe tra il 609 e il 604, la vocazione che costituisce la prima parte del rotolo sembra riferirsi al momento in cui il profeta ha superato la sua crisi ed ha preso ulteriore coscienza della sua missione profetica. Queste confessioni, tranne qualcuna, ci sono giunte in maniera frammentata ed è difficile ricostruirle in maniera organica e anche assegnarle a dei momenti precisi. L’ordine attuale del libro non rispecchia né l’ordine storico e nemmeno l’evoluzione dell’animo del profeta. Riusciamo ad individuare i seguenti passaggi riferibili appunto alle sue confessioni: 9 11,18-20 9 12,3-6 9 15,10-11.15-21

9 17,14-18 9 18,18-23 9 20,7-11-13

Questi testi ci mettono sulla scia per riferire alcuni salmi, io al profeta attribuirei il Salmo 31 e 38.


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Giovedì 09 dicembre 2004, ore 08,30 / 10,15

CONFESSIONE DI GEREMIA 20,7-13 Distinguiamo quattro quadri :

- 1° quadro: Versi 7-10, dove il profeta, da una parte rimprovera Dio, e dall’altra descrive il suo dramma interiore («tutti i miei amici spiavano la mia caduta…»); - 2° quadro: Verso 11. Rappresenta un momento di ritorno, di lucidità del profeta, quasi che il profeta rientra in sé stesso. Tutta la parte precedente è stata pronunziata nell’amarezza dell’animo, in un momento in cui il profeta nemmeno ragionava. Adesso, quasi rientrando in sé stesso, il profeta fa una sua riflessione; - 3° quadro: Verso 12. La presa di coscienza che il Signore è vicino induce ad affidarsi a Lui nella preghiera; - 4° quadro: Verso 13. La preghiera di affidamento porta ad una conseguenza: il profeta si apre alla gioia. Questa confessione ci permette di cogliere in sintesi tutta l’evoluzione dell’animo del profeta. Ci dà infatti quattro atteggiamenti progressivi: c’è il momento del totale disorientamento, quando il profeta è quasi sommerso dalle difficoltà. In un secondo momento, il profeta ha la forza di recuperare fiducia, quasi prendendo le distanze da quello che succede attorno, rientra in sé stesso e riflette. Nella riflessione prende coscienza che il Signore è con lui. Presa questa coscienza, si passa alla preghiera e nella preghiera si sperimenta la gioia. Il Signore ancora non lo ha liberato, ma il profeta è certo che il Signore lo libererà e questo è il motivo della sua gioia. Su questo sfondo si colloca il racconto della vocazione.


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Venerdì 10 dicembre 2004, ore 10,30 / 12,15

VOCAZIONE DI GEREMIA 1,1-19 Nella prima frase Baruc, a cui è dovuta questa introduzione, ci dà le generalità del profeta. Da qui sappiamo che proveniva dai sacerdoti che erano in Anatot, un villaggio non molto distante da Gerusalemme, nella terra di Beniamino. Questa prima introduzione riguarderebbe un po’ tutta la figura di Geremia nella sua complessità personale; dopo, Baruc, passa a introdurre la specifica vocazione. Notiamo l’espressione «fu la Parola del Signore su di lui». La versione italiana, scrivendo «a lui fu rivolta la Parola del Signore» sembra svuotare la forza dell’espressione originale: l’espressione ebraica non indica soltanto che il Signore gli parlò, ma che sul profeta si verificò l’evento della Parola. Nelle parole seguenti, Baruc, data con estrema cura questo avvenimento. Scrive infatti: «nei giorni di Giosia, figlio di Ammon, re di Giuda». Anzi, Baruc, precisa che si tratta del tredicesimo anno che appartiene al suo regno (640 inizio – 627 tredicesimo anno). È importante questa indicazione cronologica. Non siamo nella prospettiva di una presa di coscienza psicologica personale, ma nella prospettiva dell’evento della Parola del Signore su di lui. Come il profeta abbia percepito l’evento della Parola, questo non ci viene detto, e nemmeno è detto negli altri profeti: Isaia descrive la sua consacrazione profetica mediante una visione al tempio e anche Ezechiele descriverà con una visione con linguaggio tipicamente babilonese. Però sfugge la precisa percezione dell’evento. Baruc però introduce un’altra indicazione. Leggiamo infatti la menzione dei giorni di Joiakim, figlio di Giosia. Sappiamo che Joiakim salì al trono nel settembre del 609. Nel cap. 36, Baruc ci dà un’altra indicazione crono logica: nell’anno quarto di


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Ioiakim. Quest’anno fu l’anno del secondo discorso di Geremia al tempio e insieme l’anno in cui, per ordine del Signore, dovette scrivere il rotolo. Le due indicazioni del 13° anno di Giosia e del regno di Joiakim sono giuste: il rotolo, infatti, propone una selezione di tutti gli oracoli da quel tempo (627) al 604. Non deve perciò appartenere alla penna di Baruc l’ultima indicazione cronologica. Questa ultima indicazione ci riporta nel quinto mese dell’11° anno di Sedecia. Il quinto mese (agosto) ci riporta la mese di agosto del 586, quando cioè il tempio fu distrutto e avvenne la seconda deportazione. La menzione di Sedecia è dovuta perciò ad un redattore posteriore che volle dare la completa indicazione dell’opera di Geremia. L’indicazione però è giusta perché il ministero profetico di Geremia finì nell’autunno seguente , quando fu costretto da un gruppo di facinorosi ad andare in Egitto, e da allora in poi, del profeta non sappiamo più niente. Dopo questi versi introduttivi che ambientano gli oracoli dei capitoli 1-6, si introduce la vera e propria vocazione di Geremia. Le parole con cui è espressa, in cui Geremia parla alla prima persona, rivelano che Baruc stia scrivendo sotto dettatura. Abbiamo anzitutto una introduzione. La formula introduttiva alle parole del Signore non serve soltanto ad introdurle, ma sottolinea l’evento stesso della Parola. Possiamo notare che il termine « ! » ( ), è singolare, mentre le parole che Dio pronunzierà sono tante. Forse il profeta distingue tra «l’evento della Parola», come fatto assoluto, e le parole concrete con cui essa si è manifestata. Andando alle parole dirette, esse sono formulate in maniera poetica: abbiamo un tristico (3 versi) di cui, i primi due versi hanno quattro accenti ciascuno, il terzo verso invece ne ha tre.


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I primi due versi hanno quattro parole ciascuna, ed ogni parola costituisce un accento. La particella ÂŤ% "*" Âť ( - prima che), ripetuta due volte all’inizio, assume un carattere molto enfatico: Dio rivendica di essere prima del profeta stesso e di avere compiuto una azione anteriore a quella che è avvenuta nel tempo. La prima azione avvenuta nel tempo è quella di essere formato. Il verbo ÂŤ8 D "Âť ( ) è un imperativo di prima persona singolare dal verbo ÂŤ / Âť ( – plasmare, formare). L’espressione seguente ÂŤ

*" " Âť ( ) indica specificamente il grembo della madre anche du-

rante la sua gestazione, Dio rivendica di essere Lui l’artefice. Ăˆ lui che ha formato il profeta, cosĂŹ come dirĂ il Salmo 138, che per tanti versi richiama Geremia. Il Salmo dice: ÂŤSignore, Tu mi scruti e mi conosciÂť, ma poi, piĂš avanti, quasi riprendendo l’immagine del Dio ricamatore, continua: ÂŤSei Tu che mi hai formato nel grembo e mi hai intessuto nel seno di mia madreÂť. Il salmista richiama l’opera della creazione nel grembo materno per sottolineare che tutto di lui è ben noto a Dio, essendone l’artefice. Ma Dio, in Geremia, rivendica una azione ancora piĂš a monte, espressa col verbo ÂŤ8 ( ! Âť ( – ti ho conosciuto). Il verbo ÂŤ ! Âť ( ) significa conoscere, ma nel linguaggio ebraico non si ferma soltanto all’aspetto intellettuale. Conoscere, in questo caso, ha una complessitĂ di sensi, quasi a dire: ti ho previsto, ti ho scelto, ti ho chiamato. Donde capiamo che non c’è prima la formazione umana e poi la chiamata, ma al contrario, prima la chiamata e poi la formazione umana (nel grembo materno).


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La seconda frase ripete, piÚ o meno, quello che ha detto prima, ma con qualche progresso. Leggiamo nella seconda frase anzitutto la stessa forma avverbiale % "*"  ( – prima che), inoltre dal verbo 8 D "

(

–

che

ti

formassi)

si

passa

al

verbo

ÂŤ / ( Âť ( - uscissi): Dio considera tutto il processo dal concepimento alla nascita. Ancora, dal termine ÂŤ

*" " Âť

( ), che richiama

l’organo interno (grembo) della madre si passa a ÂŤ% " " Âť ( ), l’organo esterno. In questo modo, Dio sottolinea l’assoluta prioritĂ sul profeta. Si passa infine dal verbo ÂŤ8 ( ! Âť ( – ti ho conosciuto), al verbo ÂŤ8 ( 5 Âť ( - ti ho santificato). Santificare, qui significa appartenere al Dio Santo, anche se nella seconda frase abbiamo un progresso, in realtĂ esprimono la totale opera di Dio nei confronti del profeta. Dio sta dicendo che il profeta intrinsecamente appartiene a Lui. E il suo essere profeta non è un fatto accidentale che si aggiunge alla sua persona, ma un fatto costitutivo essenziale. Il terzo verso, costituito di solo tre parole, comprende tre accenti:

 ( ! ), % ) 1  (lª"# ) e 8 (  ( ! ). Facendo l’analisi

ÂŤ

logica il termine   ( ! ) è predicato del complemento oggetto. La seconda parola % ) 1  (lª"# ) è un dativo di vantaggio, la terza parola

8 (  ( ! ) è il verbo con il suo complemento oggetto. Se il pro-

ÂŤ

feta avesse dovuto seguire l’ordine logico, avrebbe dovuto dire: ÂŤti ho costituito(1) profeta(2) per le genti(3)Âť. L’ordine seguito, però, enfatizza ciascun elemento e la frase deve essere letta con maggiore lentezza: si direbbe che nella pronunzia ogni parola viene marcata.


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In questa terza frase è espressa la missione del profeta, ma è una missione non staccata dalle frasi precedenti. Emerge il seguente progresso: 9 ti ho conosciuto; 9 ti ho santificato; 9 ti ho costituito. La costituzione, perciò, si fonda nelle stesse azioni di conoscere e santificare. Quasi a dire che il profeta non può esistere se non come profeta; e dare le dimissioni a Dio equivale semplicemente a non esistere. Non è che il profeta non lo sapesse prima, ma queste parole assumono un più profondo significato alla luce degli eventi precedenti: quanto bramò non essere profeta. Lo sa benissimo che non può esistere se non come profeta, per questo arrivò a maledire, in un momento di totale prostrazione, il giorno in cui nacque. Ma maledire il giorno in cui si è nati, alla luce di queste parole, equivale a contestare Dio per averlo conosciuto e averlo santificato. Il profeta adesso riprende coscienza di questa sua originale vocazione e, tale presa di coscienza, deve essere il frutto di un travaglio superato. È importante la destinazione della sua missione profetica:

% ) 1 » (lª"# ) per le genti, perciò alla sua missione profetica Dio non

«

pone limiti ed i destinatari di questa sua missione, possono essere chiunque: dal popolo ai capi, dal popolo ai popoli. Su tutti è costituito profeta. Ma dal momento che non potrà, umanamente parlando, essere profeta di tutti, allora dovrà attendere che sia Dio ad indicargli dove, in concreto, deve andare. Nei versi 6-8, segue un dialogo tra Dio e il profeta. Il profeta ricorda di avere avuto un piccolo battibecco con Dio stesso. Di fronte alla chiamata di Dio il profeta reagisce, però la sua obiezione si riferisce soltanto all’ultima frase di Dio: «profeta per le genti ti ho costituito». Nella


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sua obiezione dimentica le prime due frasi, ma nella sua risposta, saranno presenti a Dio. Il profeta, di fronte alla missione di essere profeta, e perciò di dovere parlare, fa un sospiro ÂŤah‌. Qualcuno bestialmente, da questa intenzione ha dedotto che Geremia fosse balbuziente. Il profeta avanza l’obiezione di non sapere parlare. Anche qui il verbo ÂŤ ! Âť ( ) non indica una incapacitĂ a parlare, ma indica piuttosto una incompetenza. Il profeta è giovane, e questa è la motivazione che avanza. Un giovane non ha esperienza e, soprattutto, in un consesso di anziani deve tacere. Il profeta perciò si sente inadeguato al compito che Dio gli affida. Ma Dio, come suole sempre fare, smonta le obiezioni. La risposta di Dio poggia sul presupposto che Geremia appartiene a Lui e, dal momento che gli appartiene, egli non dovrĂ agire di testa sua. Per questo Dio smonta l’obiezione. La risposta di Dio si articola in quattro frasi concrete in struttura poetica con tre accenti ciascuna. Le quattro frasi sono: 1. 2. 3. 4.

non dire giovane io; poichÊ dovunque ti manderò, andrai; tutto ciò che ti comando dirai; non temere dalla loro faccia poichÊ con te io per liberarti.

Dio smonta le obiezioni. Essere giovani significa non avere esperienza di come parlare e cosa dire, ma questa obiezione non vale perchĂŠ il profeta non deve parlare con sue parole, ma deve dire ciò che Di gli comanda di dire. Donde il fatto che al profeta non è lecito mitigare, o in qualsiasi modo, mutare quello che il Signore gli comanda di dire. La seconda (o prima) obiezione, insita nell’essere giovane, è il fatto di non avere autoritĂ sufficiente per parlare alle persone a cui Dio lo manda, siano essi anziani o capi. Certo che il profeta non ha autoritĂ , ma lui deve parlare non con propria autoritĂ , ma con quella di Colui che lo manda. La seconda frase infatti, ÂŤdovunque ti manderò, andraiÂť, Dio smonta ogni obiezione del profeta sottolineando che dovrĂ parlare con Sue parole e con Sua autoritĂ , ciò perchĂŠ appartiene a Dio. Ma proprio perchĂŠ appar-


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tiene a Dio, costi quel che costi, non può esimersi. L’ultima frase suona strana perchĂŠ Dio esorta a ÂŤnon temereÂť, anzi dice: ÂŤnon temere dal loro cospettoÂť e questa frase pronominale indica che l’allusione è a persone ben concrete e determinate. Concretamente sono quei ÂŤ% ) 1 Âť (lÂŞ"# – per le genti) al quale Dio lo manda. Ma piĂš strana ancora è la motivazione per cui Dio comanda di non temere, il fatto cioè che Dio sarĂ con lui per liberarlo. Questa frase non rispecchia il tempo quando avvenne la vocazione, ma il tempo in cui fu scritta, dopo che il profeta aveva subĂ­to ciò che aveva subĂ­to. MercoledĂŹ 15 dicembre 2004, ore 10,30 / 12,15 Nel verso 9 il profeta descrive l’azione mediante la quale viene costituito profeta. Non si tratta di una visione come Isaia e come lo sarĂ anche per Ezechiele, ma di una percezione quasi fisica della mano di Dio sopra la sua bocca. Il soggetto di questa azione non è Dio, bensĂŹ la Sua mano, Dio comandò alla Sua mano di toccare la bocca del profeta. Tale azione è accompagnata da parole precise. Nelle parole di Dio notiamo due forme avverbiali introduttive: l’avverbio ÂŤ #$ Âť ( ) e quattro parole dopo l’imperativo del verbo ÂŤ Âť ( - vedere). L’imperativo significherebbe ÂŤvediÂť ma anch’esso ha una forma avverbiale. Abbiamo un testo un po’ squilibrato in quanto due forme avverbiali introducono testi quantitativamente disparati. Probabilmente ci deve essere stata una manomissione testuale: o un copista dimenticò quelle parole e le aggiunse dopo, oppure ritenne di potere aggiustare il testo spostando questi versi dopo. Se spostiamo i sei infiniti dopo l’espressione ÂŤnella tua boccaÂť otteniamo un testo quantitativamente proporzionato e inoltre piĂš coerente come senso perchĂŠ apparirebbe chiaro quale sia lo scopo per cui Dio pone sulla bocca del profeta le sue parole. Passiamo ai sei infiniti: ÂŤ Âť; ÂŤ. Âť; ÂŤ! ' Âť;


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ÂŤ> ' Âť; ÂŤ Âť; ÂŤ * Âť, anche i sei infiniti pongono qualche problema: sono tutti infiniti costrutti con il prefisso ÂŤlamedÂť con valore finale, ma si ottiene un testo lunghissimo e inoltre un testo non preciso nel senso. Possiamo mettere in relazione il primo infinito con l’ultimo e otteniamo l’immagine di una pianta: estirpare una pianta per piantarne un’altra. Come pure possiamo mettere insieme il secondo infinito “distruggereâ€? in relazione al quinto “edificareâ€? e si ottiene l’immagine di una casa che va distrutta per essere edificata. Possiamo proporre questi quattro verbi strutturalmente nel seguente modo:

1) estirpare; 2) distruggere; casa

pianta

3) edificare; 4) piantare. Il soggetto di queste azioni non è chiaro, probabilmente non è il profeta, ma è Dio, e ciò è suggerito dalla stessa costruzione sintattica: Dio ha detto: ÂŤecco pongoÂť, a questo verbo “pongoâ€? seguono bene i quattro infinito finali: ÂŤegli pone per estirpare e piantare, distruggere ed edificareÂť. Però nel compiere questa azione Dio si serve del profeta e per mezzo di lui dovrĂ prima estirpare e distruggere, poi edificare e piantare. GiĂ in questi quattro verbi sono adombrate le difficoltĂ del profeta: sradicare e distruggere non piace, e in questa azione di contestazione della mentalitĂ degli uomini il profeta troverĂ difficoltĂ . Tra questi quattro verbi ne troviamo altri due: ÂŤdevastareÂť e ÂŤdemolireÂť, a differenza degli altri che si relazionano per opposizione, questi due invece si relazionano per continuitĂ e non fanno altro che ribadire quello che era stato indicato nei primi due verbi. Avremmo cosĂŹ una sottolineatura dell’azione negativa del profeta. Il fatto che sottolineano una


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azione negativa, il fatto che creano uno squilibrio nel testo e il fatto infine che non si relazionano per opposizione ma per continuità, suggeriscono che questi due verbi siano una aggiunta di qualcuno che volle esasperare l’azione negativa del profeta. Rileggendo tutta l’azione della consacrazione profetica di Geremia potremmo proporre tre osservazioni: 1) La prima riguarda l’indole dell’azione che il profeta riceve, abbiamo letto «mandò il Signore la Sua mano e fece toccare la mia bocca», sia la parola mano, sia la parola bocca rimandano ad un contatto fisico: quando e come sia avvenuto questo sfugge, ma il profeta precisa non di avere avuto una visione, bensì l’esperienza di un contatto fisico; 2) La consacrazione profetica è accompagnata dall’evento della Parola sul profeta: Dio pone le Sue parole, il soggetto sarà sempre Dio e Dio ha un programma: estirpare come una pianta per poi ripiantarla, demolire come una casa ma per poi edificarla. La Sua azione solo in un primo momento sarà negativa, ma poi si risolverà in azione positiva, ma, questo il testo non lo dice ma lo suggerisce, a condizione che si accetti l’opera negativa. Ciò rivela che nel disegno di Dio non c’è mai una azione negativa fine a sé stessa, ma c’è una azione negativa finalizzata a qualcosa di nuovo; 3) Delle parole con cui Dio accompagna la Sua azione troviamo due aspetti: quello di porre le Sue parole, e quello di costituire sopra i regni…, cioè Dio dà la Sua Parola e conferisce autorità. Sono esattamente le due cose che si nascondevano nella obiezione di Geremia di essere giovane: Dio aveva smontato questa obiezione risolvendo i due aspetti che nella obiezione si nascondevano. Il profeta aveva obiettato di non avere esperienza di parola e di non avere autorità per parlare. Dio risponde prima negativamente, poi positivamente.


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Possiamo proporre le parole di Dio nel seguente modo:

1) dovunque ti manderò tu andrai; (verso 7) 2) tutto ciò che ti comando dirai; (verso 8) 3) ecco pongo le mie parole sulla tua bocca; (verso 9) 4) ecco ti costituisco sopra i regni; (verso 10a) Il profeta riceve il comando di andare dove Dio comanda (1) e ci andrà con la autorità di Dio (4); il profeta dirà quello che Dio gli comanda (2); perché Dio pone le Sue parole sulla sua bocca (3). Finita la descrizione della consacrazione profetica, il racconto della vocazione si interrompe dal verso 13 fino al verso 16 incluso. Qui sono introdotte due visioni simboliche che non appartengono al racconto originale, ma che furono aggiunte in un secondo momento, ma dato il modo ottimale con cui sono inserite, dobbiamo concludere che siano state aggiunte dal profeta stesso quando compose il suo rotolo. Le due visioni non sono nemmeno unite tra di loro, ma rivelano al loro interno l’opera redazionale del profeta stesso. Dio interroga il profeta su che cosa egli vede: evidentemente Dio sta mostrando al profeta un oggetto, il profeta lo riconosce come un ramo di mandorlo. Alla lettera il termine ebraico (! ) indica «colui che veglia», e il mandorlo è chiamato «vigilante» perché è il primo albero a fiorire dopo il tempo invernale. Perché Dio mostra al profeta quel ramo di mandorlo? Appare dalla risposta che Dio dà. Dio loda Geremia perché ha visto bene, effettivamente era un ramo di mandorlo, e Dio paragona sé stesso a quel ramo di mandorlo. Come il ramo di mandorlo veglia in quanto è il primo a svegliarsi dopo il sonno dell’inverno così Dio veglia, cioè non dorme sulla sua parola per farla. Il senso di questa visione si comprende bene: il profeta si era lamentato con Dio perché lo aveva costretto a dire parole dure, lo aveva costretto ad annunziare sciagure, ma poi non aveva fatto nulla. Gli ascoltatori magari intimoriti a principio, poi avevano schernito Geremia


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prendendolo per bugiardo. E il profeta aveva chiesto a Dio che se proprio gli faceva annunziare delle sciagure almeno le facesse venire per non essere lui schernito. Attraverso questa visione Dio fa sapere al profeta che la Sua parola non è caduta, Egli veglia sulla Sua Parola per realizzarla e veglia come un mandorlo perché la Sua Parola non si perda e non cada nel nulla. Perciò Egli realizzerà quello che attraverso il profeta ha annunziato. Passiamo alla seconda visione, notiamo l’aggettivo femminile “ ) ”, per la seconda volta il profeta lega questa seconda visione alla precedente e se questa seconda visione all’origine poteva essere autonoma, ora nella presente redazione completa la precedente. Nella precedente visione del mandorlo, Dio aveva detto che vegliava sulla Sua Parola, ma non aveva detto come e quando l’avrebbe realizzata. La seconda visione risponde a questo problema. Dal punto di vista letterario essa è introdotta allo stesso modo della precedente. Dio rivolge identica domanda: «che cosa vedi Geremia?» e il profeta risponde con una formula analoga: «e dissi pentola di terracotta soffiata io vedente e la sua faccia dal cospetto», soffiata cioè posta su un fuoco soffiato, ravvivato, e pertanto il contenuto della pentola bolle. Questa pentola però ha una precisa posizione, la faccia della pentola è il suo orlo orientato verso settentrione, e perciò non si tratta di una pentola posta in verticale, ma di una pentola posta in posizione obliqua. Quando cioè si inclina un recipiente per poterlo bere dovete metterlo in posizione obliqua verso la bocca. Il contenuto di quel recipiente si versa dalla parte verso cui la pentola è inclinata. Dio spiega: dal nord sarà aperta la calamità su tutti gli abitanti della terra, Dio annunzia che la calamità sarebbe avvenuta dal nord, cioè dal nord scendendo attraverso la Assiria e il Libano sarebbe venuta la calamità cioè l’invasione Babilonese. Dio continua spiegando: ecco io sto per chiamare a tutte le tribù i regni. Questa visione deve collocarsi prima di essere inserita nel racconto della vocazione di Geremia, tra il 609 e il


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604. Nel 609 il profeta aveva annunziato la caduta del tempio, quattro anni dopo aveva parlato esplicitamente dei babilonesi. Qui ancora è vago, parla delle tribù e dei regni del nord, ma già nel 605, la vittoria dei babilonesi sulla coalizione assiro-egiziana aveva lasciato intravedere che sarebbero stati i babilonesi i nuovi padroni del mondo. Se è permesso fare una riflessione, i profeti portatori della Parola di Dio sono lucidissimi lettori della storia, come lo fu Isaia lo è anche Geremia. Ma i profeti sanno anche che la storia è in mano al Signore, per questo esortano a tornare a Lui. I versi 15b, 16, non sono stati considerati perché non sono probabilmente di Geremia, ma sono delle riflessioni aggiunte da altri dopo che si verificarono gli eventi: «essi verranno e ognuno porterà il trono contro le porte di Gerusalemme […]». Invece nei versi 17-19 abbiamo le ultime parole di Dio, possiamo anzi distinguere tra il verso 17a ed i versi 17b-19. Nel verso 17a Dio comanda al profeta di non perdere tempo e di mettersi all’opera: «e tu cingerai (cingiti) i tuoi fianchi», cingersi i fianchi equivale a mettersi all’opera, quando si portava un vestito lungo lo si alzava fino ai ginocchi cingendolo ai fianchi con una corda per non essere ostacolato nel lavoro. Il profeta perciò è comandato di mettersi all’opera e di andare a riferire tutto quello che Dio gli ha detto. I versi 17b-19 contengono parole di minaccia e di conforto, possiamo classificarle in quattro frasi alternate:

1) non atterrirti dal loro cospetto perché non ti faccia atterrire al loro cospetto; 2) ti costituirò una città di fortificazione, colonna di ferro e muro di bronzo; 3) ti muoveranno guerra; 4) ma non prevarranno perché Sono con te per liberarti.


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Dio comanda al profeta di non spaventarsi davanti agli uomini, se si spaventa ed indietreggia, sarà Lui a spaventarlo, e nelle confessioni abbiamo letto la supplica del profeta: «non mi atterrire». Dio però promette al profeta di renderlo durissimo, ecco le tre immagini: città fortificata; colonna di ferro; muro di bronzo. Una città fortificata si prepara a sostenere una guerra e la si fortifica non per evitare la guerra, ma per sostenerla. Il profeta ricorda che Dio glielo aveva detto che gli avrebbero mosso guerra, cosa che è avvenuta, ma al profeta ha promesso solennemente che non lo avrebbero sopraffatto e ciò per un solo motivo: perché Dio era con lui per liberarlo.


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Sabato 08 gennaio 2005, ore 08,30 / 10,15

GLI ANNI DAL 604 AL 586 Nel 604 sale al trono di Babilonia Nabucodonosor che cominciò la sua politica di espansione. Nel dicembre del 604, Nabucodonosor distrusse la città di Aschalon, Ioiakim che regnava dal 609 si sottomise. Ricordiamo però che Ioiakim era stato voluto sul trono di Giuda dal faraone Necao. Ricordiamo che nel giugno 609 era morto Giosia, era salito al trono il figlio secondogenito Ioachaz, ma il faraone due mesi dopo aveva deposto Ioachaz deportandolo in Egitto e aveva messo al trono il figlio primogenito Ioiakim. Quest’ultimo perciò era premuto dal faraone a ribellarsi contro Babilonia. Ioiakim perciò mantenne la sua fedeltà a Babilonia solo per tre anni, poi si ribellò. In seguito, a questa ribellione, vennero i Babilonesi e assediarono Gerusalemme. Si temeva il peggio, gli abitanti di Gerusalemme, perciò, nel tentativo di ottenere grazia dai babilonesi, uccisero Ioiakim e per mostrare che erano favorevoli ai babilonesi, gettarono il suo cadavere fuori dalle mura. A riguardo conserviamo un oracolo contro Ioiakim in Geremia 22,13-19, l’oracolo si conclude con le parole: «sarà sepolto come si seppellisce un asino, lo trascineranno e lo getteranno al di là delle porte di Gerusalemme». Un altro passaggio contro Ioiakim è in 36,30 dove leggiamo: «il suo cadavere sarà esposto al calore del giorno e al freddo della notte». Il capitolo 24 del secondo libro dei re ci informa che alla morte di Ioiakim salì al trono il figlio diciottenne Ioiakin (di cui ne parla la genealogia di Mattteo), che però regnò pochissimo tempo.


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Ioiakin si sottomise prontamente ai babilonesi e ciò evitò la distruzione della città. Nabucodonosor si accontentò di prendere del bottino e di deportare dei notabili di Gerusalemme. Siamo nel 597, anno della prima deportazione in Babilonia. Tra i deportati c’era il giovane re Ioiakin che continuò ad avere onori regali, ma tra i deportati, in questa prima deportazione c’era una famiglia sacerdotale il cui figlioletto quindicenne da lì a quattro anni (593) avrebbe ricevuto la vocazione profetica: stiamo parlando di Ezechiele. Nabucodonosor mise sul trono un discendente davidico collaterale, un certo Sedecia di indole mite, ma fortemente pauroso e si trovò tra le pressioni di alcuni notabili per la ribellione e le pressioni di Geremia per la sottomissione ai Babilonesi, cedendo però ai primi e questa fu la causa di quello che successe. Negli undici anni che intercorrono tra le due deportazioni, Geremia ebbe un ruolo attivo e sofferto. Non troviamo oracoli particolarmente significativi, ma abbiamo una attività del profeta che gli procurò delle amarezze. Sedecia per quattro anni mantenne il suo giuramento ai Babilonesi, ma nel 593, istigato da una corrente filo-egiziana si ribellò. A riguardo ricordiamo tre capitoli del libro di Geremia, il capitolo 27, il capitolo 28 e il capitolo 29. Il capitolo 29 contiene una lettera che Geremia inviò agli esuli in Babilonia nella prima deportazione. In questo capitolo nei versi 4-7 leggiamo delle parole che manifestano la grande lungimiranza anche politica del profeta. Egli esorta a diffidare di tutti quei profeti che invece annunziano un ritorno imminente. Da una parte il profeta esorta (dal verso 5): «costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti, prendete moglie e mettete al mondo figli e figlie, cercate il benessere del paese in cui siete stati deportati, pregate il Signore per esso perché dal suo benessere dipende il vostro benessere». In altre parole il profeta sta dicendo di costruirsi una vita in Babilonia senza nessun tentativo di ribellione. Tuttavia il profeta esorta ad attendere la salvezza dal Signore e infatti nel


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verso 11 leggiamo: «Io infatti conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza, mi cercherete e mi troverete perché mi cercherete con tutto il cuore. Mi lascerò trovare da voi, cambierò in meglio la vostra sorte, e vi radunerò da tutte le nazioni». In altre parole il profeta sta dicendo che Dio non ha abbandonato gli esuli, è presente anche in Babilonia, chiede che ci si rivolga a Lui e promette la Salvezza. In Gerusalemme però il profeta deve dare un altro messaggio, il capitolo 27 mostra come il profeta scoraggi tutti coloro che annunziavano un ritorno imminente. In 27,2 si parla di una azione simbolica che il profeta deve compiere: mettere sul suo collo un giogo. In questo modo il profeta deve annunziare un tempo di sottomissione al re di Babilonia. Nel verso 16 dello stesso capitolo, il profeta deve rivolgere una ammonizione: «dice il Signore: non ascoltate le parole dei vostri profeti che vi predicono che gli arredi del tempio saranno subito riportati da Babilonia». Nabucodonosor nel 500 aveva preso parecchio bottino dal tempio, con la restituzione degli arredi si voleva dire che il popolo deportato sarebbe tornato presto, Geremia invece esorta: «siate piuttosto soggetti al re di Babilonia». In questo contesto si situa la disputa tra Geremia e un certo profeta Anania, disputa riferita nel capitolo 28. Anania predicava da parte del Signore il seguente messaggio: «Io romperò il giogo del re di Babilonia e dopo due anni farò tornare in questo luogo (nel tempio) tutti gli arredi presi dai babilonesi». Geremia contraddice Anania dichiarandogli che non era quella la parola del Signore. Anania spezzò il giogo che Geremia portava sul suo collo. In seguito a questa disputa il profeta rimase solo, leggiamo infatti in 28,11: «il profeta Geremia se ne andò per la sua strada», però il profeta, come sempre avvenne nella sua vita non poteva mutare la Parola del Signore e il Signore manda a dire: «và e riferisci ad Anania la Parola del Signore: tu hai rotto un giogo di legno ma al suo posto ne farò uno di ferro», e poi rivolgendosi direttamente ad Anania


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Geremia continua: «quest’anno tu morirai perché hai predetto la ribellione contro il Signore». Nota il narratore che Anania morì in quello stesso anno. Nonostante l’esortazione del profeta Sedecia si ribellò e non pagò il tributo, siamo nell’anno 588. Nel 587 Nabucodonosor iniziò l’assedio di Gerusalemme che avrebbe portato alla piena distruzione. Il profeta Geremia ebbe dal Signore l’incarico di esortare alla resa, tutto ciò è descritto nei versi 1-7 del capitolo 34. Il profeta fa sapere che il Signore ha decretato la caduta di Gerusalemme e che anche Sedecia sarebbe stato deportato, tuttavia se si fosse arreso sarebbe morto lui in pace. Gli avvenimenti di quest’ultimo anno e mezzo sono descritti nei capitoli 37-38, questi capitoli sono un poco manomessi e non è facile ricostruire. Durante l’assedio i babilonesi furono attaccati dagli egiziani e dovettero perciò allentare l’assedio. Geremia esortava però a non farsi illusioni perché sarebbero tornati. Qui però avvenne un fatto riguardante il profeta: approfittando che l’assedio era stato allentato, il profeta uscì da Gerusalemme, per andare (al suo paese Anatoth), come ci informa il testo di Geremia 37,12, per prendere una parte di eredità, ma mentre usciva fu arrestato dai custodi gerosolimitani con l’accusa che passava ai caldei (cioè i babilonesi). Il profeta fu preso, fu percosso e gettato in una prigione oscura dove rimase per molti giorni. Frattanto i babilonesi erano tornati e Sedecia mandò a prendere Geremia e gli chiese se avesse una parola da parte del Signore, il profeta ribadisce che lui sarà dato in mano ai babilonesi. Tuttavia, in quella occasione, il profeta chiese a Sedecia di essere liberato da quella prigione, il re lo esaudì e lo fece custodire nell’atrio della prigione. A Gerusalemme c’era una corrente filo-egiziana che esortava alla resistenza ad oltranza ai babilonesi. Geremia al contrario esortava alla resa. Nel capitolo 38 al verso 2 leggiamo le parole che il profeta deve dire da parte del Signore. Rivolgendosi al popolo il profeta diceva: «chi rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste. Mentre chi passa ai caldei (babilonesi) vivrà». Queste parole ed altre simili furono giudicate disfattiste, Geremia fu pre-


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so dall’atrio della prigione dove si trovava, fu legato e fu calato in una cisterna dove non c’era acqua, ma soltanto fango, Geremia affondò nel fango, fu liberato e tirato fuori da quella cisterna per l’intervento di un servo che era stato già al servizio di Giosia; a questo servo il profeta annunzia la salvezza. Siamo ormai verso la fine e il re Sedecia ha un ultimo colloquio con Geremia , lo manda a prendere dalla prigione e ancora una volta chiede una Parola da parte del Signore. Il profeta risponde esortando alla resa, quella resa lo avrebbe salvato, ma Sedecia non si arrese per paura dei sostenitori della resistenza ad oltranza. Il capitolo 39 ci descrive la presa di Gerusalemme, leggiamo nel verso 2 che nel quarto mese dell’undicesimo anno di Sedecia (586), i babilonesi aprirono una breccia nelle mura e penetrarono nella città. Sedecia fuggì attraverso una porta secondaria, ma fu raggiunto a Gerico e su di lui fu pronunziata una sentenza. Avviene qualcosa che è fondamentale nella storia del popolo del Signore: la caduta di Gerusalemme e l’esilio babilonese. I fatti di quel momento sono evocati in maniera molto viva dal Salmo 73 (74) scritto pochissimo tempo dopo la caduta: «o Dio perchè ci respingi per sempre53 […] ruggirono gli avversari nel tuo tempio (cioè entrarono a Gerusalemme), […] hanno dato alle fiamme il Tuo santuario». Questi fatti sono narrati anche nel capitolo 25 del secondo libro dei re, Sedecia pagò duramente la sua ribellione, sotto i suoi occhi uccisero i figli, gli cavarono gli occhi, lo incatenarono e lo deportarono… ma probabilmente sarà morto per la strada. Presa Gerusalemme i babilonesi procedettero alla selezione per la deportazione, cercarono Geremia ma non fu trovato, i babilonesi avevano fatto della città di Ribla il luogo di smistamento per i deportati e anche Geremia era tra quelli che dovevano essere deportati. I babilonesi però stimavano Geremia forse perché aveva esortato alla resa.

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Dà l’idea di un abbandono che sembra non possa essere più ricostruito.


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Dalla storia Nabucodonosor non emerge come figura crudele, soltanto teneva alla fedeltà del giuramento, per questo apprezzava l’opera di Geremia. Al profeta fu posta una alternativa: o andare in Babilonia, non prigioniero, ma onorato, oppure restare a Gerusalemme. Geremia scelse la seconda cosa, stando ai calcoli il tempio sarebbe caduto il 17 agosto del 586, con questa data dopo quattro secoli finisce il regno davidico.

Saul Ð Davide Ð Salomone Ó Regno del Nord (Israele) (722-720: la fine del regno per mano degli assiri)

Ô Regno del Sud (586: la fine del regno per mano dei babilonesi)

Da questo momento in poi il regno davidico è finito, non si ricostituirà mai più, tranne il breve periodo degli Asmonei (dopo i Maccabbei) alla fine del secondo secolo nascerà quella che sfocerà nel NT come attesa messianica. I babilonesi sui pochi abitanti rimasti costituirono come capo un certo Godolia. Siamo già a settembre e paradossalmente il raccolto di quell’anno era particolarmente abbondante e si poteva sperare in una ripresa, un gruppo di facinorosi (cap 40-43) uccisero però Godolia temendo una ritorsione dai babilonesi decisero di fuggire in Egitto. Consultarono Geremia, il quale però, esortò a non fuggire ed a confidare nella magnanimità dei babilonesi spiegando che la spada che volevano evitare li avrebbe raggiunti in Egitto. Non ascoltarono Geremia, anzi costrinsero il profeta a scendere con loro, e qui perdiamo le tracce del profeta.


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Martedì 11 gennaio 2005, ore 08,30 / 10,15 Geremia così scompare nell’autunno del 586, costretto da un gruppo di facinorosi che, dopo avere ucciso Godolia per evitare la rappresaglia Babilonese, decisero nonostante il parere contrario del profeta, di fuggire in Egitto, costringendo il profeta a fuggire con loro. Questi fatti, in maniera più ampia, sono narrati nei capitoli 40-43 del libro di Geremia. Questa fuga in Egitto forse determinò l’origine della presenza di una colonia di ebrei in Egitto, attestata storicamente già nel quinto secolo a.C. E infatti si sono trovati dei documenti di quest’epoca scritti su papiro nell’isola (è un isolotto del Nilo) così chiamata “Elefantina”. Tornando all’epoca dell’esilio, con le sue due deportazioni: 597 e 586, quest’epoca fino all’editto di Ciro del 539 fu un epoca drammatica e tragica dal punto di vista politico, ma fu un epoca di oro dal punto di vista della Parola del Signore; più che mai Essa risuonò in terra di esilio. Durante l’esilio, infatti, noi abbiamo: 1 – l’origine di alcune istituzioni; 2 – un’ampia redazione storiografica; 3 – la parola profetica; 4 – la preghiera. Le istituzioni fiorite in tempo di esilio sono soprattutto due: la celebrazione della Pasqua e l’istituzione sinagogale. La Pasqua, antichissima festa primaverile dei nomadi pastori, fu dimenticata (o almeno non abbiamo testimonianze) dopo l’ingresso alla terra di Canaan (al tempo di Giosuè), soppiantata dalle feste agricole ananaiche, quella autunnale dei tabernacoli e quella poi primaverile degli azzimi, e quella estiva delle settimane o pentecoste. Un tentativo di riesumazione dell’antica festa pasquale ci fu all’epoca di Giosia (640-609) e forse pare anche all’epoca di Ezechia (732-699). La pasqua era una antichissima festa primaverile di unità e di scongiuro: i nomadi pastori prima


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di mettersi in viaggio alla ricerca di nuovi pascoli, celebravano questa festa del passaggio, che coincideva col capodanno formulando l’augurio di ritrovarsi di nuovo insieme (festa d’unità) e cercando di scongiurare i mali (aspetto apotropaico) che potevano incontrare nel cammino. Giosia alla fine del settimo secolo cercò di riprendere questa festa come festa di unità: approfittando infatti della debolezza dell’Assiria (612 cade Ninive), cercò di ricostituire l’antico regno davidico partendo appunto dalla festa pasquale, ma il tentativo non riuscì perché fu ucciso nel 609. La festa pasquale fu ripresa all’epoca dell’esilio (se leggete Esodo 12 vi accorgerete che quel brano non è un racconto, ma è un rituale), ma con un nuovo significato, quello di “Ziccaron” o “memoriale”, in terra di Babilonia si comprese che si stava vivendo la stessa situazione che circa sette secoli prima, i padri avevano vissuto in terra di Egitto, ma il Signore aveva ordinato di celebrare una festa e li aveva fatti uscire dall’Egitto. La celebrazione pasquale era così una professione di fede nel Dio potente, una professione di speranza nel Dio Salvatore, ma insieme facendo memoria mediante il rito della liberazione dall’Egitto, il popolo si coinvolgeva in essa. Ora sta avvenendo la liberazione dei padri e noi siamo liberati insieme a loro; oppure al contrario il memoriale trasferisce all’epoca dei padri coinvolgendo nella loro liberazione. L’uscita da Babilonia è perciò un fatto certo, anche se concretamente avverrà quando avverrà, ma già nel memoriale la liberazione è avvenuta. La festa pasquale fu legata alla festa degli azzimi che durava una settimana: la pasqua era il primo giorno. La seconda istituzione è la sinagoga. Sinagoga è parola greca che traduce i due termini ebraici “qaal” oppure “‘edah”. Il termine sinagoga ha due sensi, indica o il luogo del raduno oppure il raduno stesso. In terra di esilio il popolo non può più celebrare i sacrifici perché manca il tempio e allora invale l’uso di radunansi (siunago) per leggere e ascoltare quello che il Signore aveva detto. Di questo uso sinagogale, che vuole in parte sopperire alla man-


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canza del tempio, è attestato da Ezechiele, ma tale uso sinagogale, appare anche nel Deuteronomio, il quale redatto definitivamente durante l’esilio, rivela una struttura sinagogale: Mosè che al popolo radunato propone la legge del Signore (quindi è una trasposizione a Mosè di un epoca posteriore). Dal punto di vista della storiografia ricordiamo due cose del tempo dell’esilio: la formazione del codice sacerdotale e la redazione deuteronomista. Del codice sacerdotale diciamo solo una cosa: mediante la riproposizione della legge del Signore si vuol fare un’atto di fede nel Dio Salvatore, è un atto di speranza nel fatto che Dio, ancora una volta avrebbe salvato. Dio per definizione è Salvatore, riporterà in patria e perciò non bisogna dimenticare nulla della sua legge, specialmente per quel che riguarda gli atti cultuali. La storia deuteronomista è tutta la redazione di Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re. La storia deuteronomista si prefigge uno scopo preciso, quello cioè di mostrare che Dio aveva ragione a mandare in esilio anzi era stato molto paziente perché tutta la storia del popolo del Signore nella terra promessa era stata una storia di peccato. Il libro di Giosuè sottolinea la fedeltà di Dio che ha mantenuto la sua promessa introducendo nella terra. Il libro dei Giudici che rispecchia l’epoca tribale (dalla conquista a Saul) presenta i quattro elementi della teologia del deuteronomio: 1 – il popolo pecca; 2 – Dio punisce (manda i Filistei); 3 – il popolo si converte e torna a Dio; 4 – Dio manda il giudice a salvare ed a liberare dal peccato.


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Il primo e il secondo libro di Samuele e il primo e secondo libro dei Re sono fortemente negativi, descrivono da Saul in poi una storia di peccato, ma mostrando questa storia di peccato, questi libri, agli esuli in babilonia, vogliono dire tre cose: 1 – Dio è stato giusto a punire; 2 – vogliono suggerire tacitamente il ritorno al Signore; 3 – nella speranza che il Signore riporti in patria.

LA PREGHIERA Come attestano diversi Salmi, in terra di esilio, il popolo pregò. Non ci interessa adesso trattare dei Salmi, ma è anche vero che diversi Salmi nascono in terra di esilio, come anche molti Salmi nasceranno in epoca post-esilica. Per quanto riguarda i Salmi del tempo di esilio, a questo periodo risale il Salmo 50, anche se la riflessione rabbinica lo farebbe risalire all’epoca davidica, quando Davide chiese perdono dopo il peccato con Betsabea. Ma una analisi storico-letteraria del testo rivela che il testo è posteriore a Davide di circa sei secoli, esso si ricollega di più alla teologia di Ezechiele. All’epoca dell’esilio possono risalire i cosiddetti “Beshreibendesloblied”54 che letteralmente si traduce: Descrivente lode inno, quindi “inno di lode che descrive” o che propone una storia. Quello che a noi più direttamente interessa è la parola profetica, in particolare nell’epoca dell’esilio, compagni degli esuli, troviamo due profeti: Ezechiele e un anonimo profeta che in maniera convenzionale chiamiamo Deuteroisaia. Ezechiele si pone nel primo periodo dell’esilio (593-572/571) e il secondo verso la fine dell’esilio, quando già sulla scena storica c’era la figura di Ciro, re dei Medi e Persiani.

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Termine coniato dalla teologia tedesca.


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Chi è Geremia? Il libro di Geremia contiene oracoli del profeta inseriti in uno sfondo narrativo. Tale sfondo è prezioso perché ci permette di ricostruire i vari momenti della vita del profeta e ricostruire l’evoluzione del suo animo. Questo sfondo narrativo spesso preciso è dovuto probabilmente al suo “segretario” Baruc che condivise diversi momenti della vita del profeta. Alla luce anche delle narrazioni di Baruc, mentre Isaia era il teologo della storia guidata da un disegno di Dio, Geremia appare piuttosto come l’uomo interamente dedito alla Parola di Dio e profondamente coinvolto nelle vicende della Parola. Il profeta è chiamato a vivere le sorti della Parola di Dio che lui trasmette, quando questa Parola è bella e annunzia salvezza, il profeta ne gioisce ma rimanda a Dio stesso: ciò avvenne nel primo periodo che egli ricorderà sempre con grande nostalgia. Quando invece la Parola di Dio annunzia giudizio e non piace agli uomini, allora sarà il profeta ad attirarsi tutte le ostilità, vivendo un grande conflitto55 nell’animo del profeta tra la necessità a cui per nascita non può sottrarsi di annunziare la Parola del Signore e le ostilità degli uomini che spesso causarono grossi momenti di crisi. Il profeta si trova come in un bivio: o parlare e subire l’ostilità degli uomini, o tacere e vivere nelle proprie ossa una Parola di Dio che brucia. Il profeta soffrì soprattutto il ritardo dell’adempimento della Parola del Signore, il Signore ritarda, ma realizza: veglia sulla Sua Parola, il profeta infatti dovette annunziare venticinque anni prima (609), quello che si verificò 25 anni dopo (586). Tuttavia Geremia rimase vivo nella coscienza del popolo, possiamo dire alcune cose senza però poter essere più precisi.

55

Vedi le Confessioni.


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Quattro cose in particolare vogliamo dire: 1. Geremia fu oggetto di lettura; il profeta stesso scrisse diversi oracoli e questi oracoli dovettero accompagnare il popolo in terra di esilio, ciò si deduce da una certa dipendenza degli oracoli di Ezechiele da quelli di Geremia. Basti pensare al cuore: Geremia aveva parlato della legge scritta sul cuore, Ezechiele parlerà del cambiamento del cuore. 2. Sembra che ci siano rimasti oracoli di Geremia al di fuori del suo libri. Sembra che diversi Salmi possano essere attribuiti a Geremia e diversi Salmi sembrano descrivere il dramma interiore del profeta. Ne vorremmo citare due in particolare: il Salmo 68: «Salvami o Dio, l’acqua mi giunge alla gola, affondo nel fango e non ho sostegno […] Chi spera in Te a causa mia non sia confuso» e il Salmo 21: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Il Salmo 21 però rivela due mani, una mano originale che può essere quella del profeta; la seconda mano è dell’epoca dell’esilio, quando il Salmo sembra essere riferito al popolo dal verso 23. 3. Sembra che la figura di Geremia sia stata oggetto di riflessione posteriore, il profeta dovette assurgere a ideale di uomo di sofferenza. C’è un problema nella scrittura dato dai cosiddetti “quattro canti” del servo: Isaia 42,1-5; Isaia 49,1-6; Isaia 50,3-9; Isaia 52,13;53,12, questi canti sono inseriti nel libro di Isaia, e nel testo dove si trovano, soprattutto il primo e il secondo sono reinterpretati e riferiti collettivamente al popolo chiamato “mio servo Giacobbe” o Israele, tuttavia questi canti debbono essere composizioni autonome prima di essere inserite nel libro di Isaia. Nell’esegesi bisogna distinguere tra il senso originale e il nuovo riferimento a Gesù nel NT. In questa distinzione emergono diversi problemi ai quali non siamo in grado di dare risposte certe: chi li ha scritti? Quando furono scritti? Di chi si parla? La difficoltà poi aumenta perché a noi pervenuti lacunosi (terzo canti) e


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appesantiti da diverse aggiunte (quarto canto). Questi canti crearono problemi alla riflessione rabbinica (vedi il Targum di Isaia56). Solo il NT li riprenderà in senso stretto, alla luce degli eventi di Gesù: «uomo dei dolori che conosce il patire». Possiamo tuttavia avanzare qualche supposizione: diversi passaggi richiamano Geremia, per esempio nel secondo canto leggiamo: «Il Signore fin dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome», il seguito del canto: «invano mi sono affaticato» rispecchia bene l’esperienza di Geremia. Ma soprattutto più vicino a Geremia sembra essere il terzo canto: «il Signore mi ha dato una lingua da iniziati (mi ha reso bravo parlatore) […] ogni mattina fa attento il mio orecchio come gli iniziati […] il Signore mi ha aperto l’orecchio ed io non ho opposto resistenza». Questi indizi lasciano pensare che i canti del servo possano essere all’origine una spiritualizzazione e idealizzazione della figura di Geremia. 4. il libro di Geremia fu oggetto di riflessione da parte del NT, lasciando stare l’oracolo della legge scritta nel cuore il libro di Geremia sembra essere presente nelle narrazioni evangeliche della passione di Gesù. Possiamo infatti stabilire un certo parallelismo tra la narrazione di Baruc del capitolo 26 dopo il discorso del 609, e il processo di Gesù davanti al sinedrio. In Ger26, Geremia è accusato di avere annunziato la distruzione del tempio e si dice di lui: «sentenza di morte contro quest’uomo». Nei vangeli i falsi testimoni portano l’accusa che Gesù ha detto: «posso distruggere questo tempio e in tre giorni ricostruirlo», c’è il passaggio di Caifa se è il Figlio di Dio, Caifa chiede il parere e tutti rispondono: «è reo di morte». Se questa relazione è vera, Geremia per i Vangeli appare come la prefigurazione del Cristo sofferente.

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I rabbini da una parte li riferirono ad Isaia, almeno dall’altra depennarono o sostituirono tutte le frasi dolorose.


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Mercoledì 12 gennaio 2005, ore 10,30 / 12,15

EZECHIELE Probabilmente riusciamo meglio a penetrare nell’animo di questo terzo grande profeta. Tuttavia attraverso i suoi oracoli e anche attraverso le sue azioni simboliche possiamo comprendere qualcosa della sua persona. Non si può dire che Ezechiele non sia stato coinvolto, anche a livello emotivo nella Parola di Dio che deve proporre. La prima indicazione cronologica è contenuta nei primi tre versi del capitolo primo. Ci sono due indicazioni: quella del verso 1: «il quarto mese del trentesimo anno», ma questa indicazione è più oscura, mentre è più chiara quella che abbiamo nel verso 2. La prima indicazione cronologica è dovuta probabilmente ad un glossatore. La seconda indicazione cronologica è il «cinque dl mese dell’anno quinto della deportazione di Ioiakin»57. Nella cronologia dei re, il tempo che va dall’inizio del regno fino al capodanno è chiamato “anno di successione” e non rientra nel computo; l’anno primo sarà quello che inizia col capodanno. Un’altra osservazione è importante: Ioiakin deportato continuò ad essere in Babilonia il punto di riferimento degli esuli, per cui, mentre a Gerusalemme datavano sul nuovo re Sedecia, in Babilonia gli esuli datavano invece su Ioiakin che pur essendo deportato consideravano ancora re. Il quarto mese del quinto anno della deportazione di Ioiakin dovrebbe corrispondere al luglio del 593. La stessa introduzione ci informa che Ezechiele era sacerdote. Ciò spiega il motivo della deportazione: nella prima deportazione deportò molte famiglie di capi e notabili58 e ciò fu un male perché accanto a Sedecia rimase gente di mezza misura la cui ostinazione e mancanza di intelligenza portò alla catastrofe.

57 58

deportato nella prima deportazione. e quindi anche la famiglia di Ezechiele.


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Un’altra indicazione la troviamo nel capitolo 40 ed è l’ultima indicazione cronologica del profeta: «all’inizio dell’anno ventiquattresimo della nostra deportazione», siamo perciò verso il 572/71. All’interno di questo periodo possiamo introdurre un’altra distinzione: nel capitolo 33 nel verso 21 leggiamo una indicazione cronologica intermedia: «il cinque del dodicesimo mese dell’anno dodicesimo della nostra deportazione», il dodicesimo mese corrisponde a marzo e perciò siamo nel marzo del 585, circa sette mesi dopo giunse a Babilonia un fuggiasco che si era salvato dalla catastrofe dell’agosto del 586 e che era corso59 a dare la notizia della caduta di Gerusalemme agli esuli in Babilonia. In questo testo (33,21-22) si legge che all’arrivo del fuggiasco il Signore aprì la bocca di Ezechiele e il profeta non fu più muto. Qui noi abbiamo una manomissione testuale e infatti qualcosa di analogo è anticipata nel capitolo terzo: il profeta, come leggiamo nel verso 3, 26-27, riceve da Dio un annunzio: «ti saranno messe addosso delle funi, ti farò aderire la lingua al palato e resterai muto e così non sarai più per loro uno che li rimprovera, ma quando ti aprirò la bocca tu riferirai a loro». Al profeta è preannunziata una paralisi e deve restare muto. È difficile però precisare se sia stata paralisi fisica o non piuttosto in senso morale che il profeta registra una assenza della Parola del Signore. Alla luce di queste indicazioni possiamo dividere il ministero profetico di Ezechiele in due periodi: il primo periodo per sette anni dal 593 al 586, cioè fino alla caduta di Gerusalemme, poi, dopo i sette mesi di paralisi, inizia il secondo periodo che va dall’arrivo del fuggiasco (marzo 585) fino all’ultima data che abbiamo (572/71).

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sette mesi di cammino.


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Ma un altro aspetto dobbiamo considerare: in 3,16 leggiamo le parole che Dio rivolge al profeta: «figlio dell’uomo60 ti ho posto come sentinella per la casa di Israele, quando sentirai dalla mia bocca una Parola tu dovrai avvertirli da parte mia, se io dico al malvagio “tu morirai” e tu non lo avverti, il malvagio morirà, ma della sua morte chiederò conto a te». Queste parole si leggono nel capitolo 3, ma si leggono anche nel capitolo 33, dove nei versi 6-7 si ripete che il profeta è stato costituito: «sentinella del popolo». L’anticipazione al capitolo terzo è dovuta ad un redattore, ma il vero posto di queste parole è nel capitolo 33. In questo capitolo 33 nel vero 10 si leggono le parole di Dio: «voi dite “i nostri delitti e i nostri peccati sono sopra di noi e in essi ci consumiamo in che modo potremmo vivere”», continua così rivolgendosi al profeta: «dì loro “come è vero che Io vivo” Oracolo del Signore, non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva». Nel capitolo terzo nei versi 26-27 però leggiamo: «Ti farò aderire la lingua al palato e resterai muto e non sarai più il loro censore (accusatore)». Tutte le indicazioni sopra proposte ci permettono di caratterizzare i due periodi del ministero profetico di Ezechiele nel primo periodo in cui profetizza contemporaneamente a Geremia61, Ezechiele deve essere censore-accusatore, deve cioè rimproverare al popolo i suoi peccati e mostrare che Dio non è stato ingiusto: ciò il profeta come vedremo lo farà bene. Ma nel secondo periodo il profeta non sarà più censore, bensì sentinella. Dio ha compiuto il giudizio, ma adesso intende ricostruire il suo popolo e il profeta è chiamato ad essere la sentinella che vigila su un popolo che Dio intende rinnovare.

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È una espressione che spesso Dio utilizza per rivolgersi al profeta, questo linguaggio sarà successivamente adottato anche da Daniele. 61 Geremia a Gerusalemme, mentre Ezechiele a Babilonia.


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A questo secondo periodo appartengono tutti gli oracoli di salvezza: il ripudio dei pastori e l’annunzio di un nuovo pastore nel capitolo 34 (capitolo che costituisce la matrice di Gv 10), l’annunzio del cuore nuovo (capitolo 36), l’annunzio delle ossa aride (37,1-11), la visione dei due legni (37,12 e ss.) che costituisce la matrice del dialogo tra il giudeo Gesù e la donna samaritana in Gv 4. Emerge una inversione di indole nei due periodi di Ezechiele rispetto a Geremia, Geremia nel primo periodo fu profeta di salvezza e poi profeta di giudizio; Ezechiele al contrario prima fu profeta di giudizio e poi profeta di salvezza. Una caratteristica di Ezechiele, non assente però negli altri profeti ma in lui più marcata, è l’uso del linguaggio simbolico e una maggiore abbondanza di visioni: ad Ezechiele infatti possiamo far risalire l’origine di quella che poi sarà chiamata “letteratura apocalittica” che poi sfocerà nel NT con l’apocalisse di Giovanni62. A differenza di Isaia e Geremia e anche di diversi profeti minori i cui libri ci sono pervenuti completamente manomessi dai redattori e per noi diventa difficile capire il criterio che i redattori hanno seguito, il libro di Ezechiele ci è pervenuto, tranne in qualche punto particolare, più organico. Possiamo così proporre una divisione organica dei 48 capitoli in cui il libro si articola.

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Sarà utile notare il passaggio dalla profezia alla apocalittica. L’apocalittica infatti, con Daniele, sembra essere la profezia che assume un carattere più misterioso e anche clandestino.


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Possiamo distinguere in tutto il libro cinque parti: 1. 2. 3. 4. 5.

capitoli 1-3: la vocazione e la missione del profeta; capitoli 4-24: gli oracoli del censore; capitoli 25-32: gli oracoli contro i popoli;63 capitoli 33-39: gli oracoli della sentinella; capitoli 40-48: la descrizione di tutte le misure del tempio anche nei minimi particolari.64

Nel contesto dei capitoli 40-48 è importante il capitolo 47 in cui il profeta vede scorrere dal lato orientale del tempio come un fiume che man mano ingrossa, questo fiume è ricco di pesci e dove arriva porta vita. Il profeta deve misurarlo e attraversarlo ma man mano l’acqua lo raggiunge nelle parti superiori del corpo. A riguardo di questa descrizione possiamo notare un testo antecedente ed uno conseguente. Il testo antecedente è un po’ più ipotetico, si può stabilire infatti una relazione tra la descrizione di Ezechiele e quella Jawhista del fiume che attraversa il giardino di Eden in Genesi 2.

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Il profeta propone in questa parte diversi oracoli contro i popoli. Si tratta di oracoli di giudizio, con i quali, Dio annunzio il giudizio contro questi popoli. La Bibbia italiana di Gerusalemme giustamente introduce i vari oracoli. Globalmente converrebbero delle lamentazioni giudiziarie contro quei popoli che hanno oppresso il popolo del Signore. Notiamo a riguardo che ad essi, in diversi punti, allude il libro dell’Apocalisse, servendosi di essi come un linguaggio. 64 Per capire però questa parte bisogna mettersi ad una mentalità analoga a quella del codice sacerdotale. A riguardo possiamo notare che si pone il problema sulla relazione tra Ezechiele e il codice sacerdotale. I due scritti sono contemporanei e in alcuni punti Ezechiele rivela una certa somiglianza, anche sul piano letterario. Ezechiele infatti ama esprimersi con frasi brevi in prosa , ma che assumono un ritmo poetico. È difficile risolvere il problema sopra indicato e cioè se Ezechiele dipenda dal codice sacerdotale o lui da buon sacerdote abbia influito nella sua composizione. Ma lo spirito del codice sacerdotale è una professione di fede nella potenza del Signore e una apertura di speranza nel ritorno in patria. Dal momento che c’è la speranza di tornare in patria non bisogna dimenticare nulla delle tradizioni di Israele in terra di esilio. Soprattutto ciò si riferisce all’aspetto cultuale: in un momento in cui non si possono celebrare i sacrifici, perché il tempio non c’è più, non bisogna dimenticare nulla perché tutto sarà ripreso. In questa prospettiva si collocano i capitoli 40-48 di Ezechiele pur monotoni per le misure che il profeta propone. Contiene la speranza che il tempio sarà ricostruito e si riprenderanno i sacrifici. La speranza della ricostruzione del tempio, però, presuppone la speranza del ritorno in patria.


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Questo accostamento però è più ipotetico perché ci si possa chiedere se il profeta non abbia presente la descrizione della creazione dell’uomo in Genesi 2,7, nella sua descrizione delle ossa aride che sono vivificate mediante lo Spirito di Dio. Possiamo infatti stabilire il presente confronto:

Genesi 1. La terra 2. Lo Spirito 3. Un essere vivente

Ezechiele 1. Ossa aride 2. Lo Spirito 3. Una grande folla

Ma quello che è più importante è come fu ripresa in alcuni testi del NT. Ne indichiamo due: Apocalisse 22,1-4: «il fiume che attraversa la città santa» dove si intrecciano Genesi ed Ezechiele. Ma soprattutto in Giovanni 7,38 leggiamo: «nel giorno della grande festa stette Gesù e gridava: “fiumi dal suo grembo escono di acqua viva”65», ma il testo di Gv 7,38 richiama l’apertura del costato da cui esce acqua. L’immagine del colpo di lancia richiama la roccia del deserto, la fonte di Zaccaria 13 e richiama anche Ezechiele 47 tenendo conto che nel capitolo 2, Gesù si presenta come il tempio da ricostruire in tre giorni. L’ordine dei cinque punti che abbiamo indicato permette di cogliere attraverso il libro una evoluzione storica. La seconda parte, gli oracoli del censore, precedono la caduta di Gerusalemme e il profeta dovrà accusare il popolo. Per punire il suo popolo Dio però si è servito dei popoli, ma i popoli erano soltanto strumento di punizione, ma si sono inorgogliti e dopo avere operato il giudizio, sul Suo popolo Dio interverrà a punire i popoli (quindi gli oracoli contro i popoli).

65

Ciò disse dello Spirito.


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Dopo avere punito i popoli, c’è allora l’apertura verso la salvezza che prevede il ritorno in patria e che culminerà nella travagliata ricostruzione del tempio. Anticipando quello che diremo in seguito, dopo il giudizio nella caduta di Gerusalemme, Dio decide come sempre nei profeti, la salvezza. Decide cioè di riportare il popolo in patria, ma non può riportarlo così semplicemente, perché lo ha cacciato per i peccati e se lo riporta in patria, e il popolo tornerà a peccare; Dio sarà costretto a cacciarlo ancora una volta e perciò la salvezza è stata inutile. Bisogna riportare in patria un popolo che non torna più a peccare, e Dio allora deve, e annunzia, creare un popolo che non pecca66. A riguardo però non possiamo non stabilire un primo confronto con Geremia, non è improbabile che Ezechiele abbia conosciuto gli oracoli di Geremia, almeno quelli del primo periodo, portati in Babilonia dagli esuli. Geremia aveva annunziato la Nuova Alleanza con due caratteristiche fondamentali:

o la remissione dei peccati; o la legge scritta nel cuore. La stessa cosa dirà Ezechiele: Dio annunzierà il perdono dei peccati e la trasformazione del cuore. Il cuore nuovo che Dio intende dare sarà appunto ciò che rende impeccabile il popolo e così trasformato interiormente potrà essere ricondotto in patria.

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l’impeccabilità del cristiano affonda qui le sue radici.


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Giovedì 13 gennaio 2005, ore 08,30 / 10,15 La vocazione di Ezechiele è descritta nei capitoli 1-3. in questi capitoli, dove magari ci sono delle aggiunte, possiamo notare tre aspetti: - la manifestazione della gloria di Dio; - le parole rivolte al profeta; - la costituzione o consacrazione profetica mediante una azione simbolica. Nelle vocazioni di Isaia e Geremia avevamo anche la visione simbolica. Isaia nel capitolo 6 aveva parlato della visione nel tempio in cui vide il Signore seduto su un trono alto ed elevato. Una visione simbolica è presupposta anche da Geremia quando narra che il Signore stese la mano, gli toccò la bocca e gli parlò. In Ezechiele la visione è estesa per tutto il capitolo primo, possiamo leggere qualche passaggio per darci l’idea: «io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal settentrione ed un turbinio di fuoco, al centro apparve la figura di quattro esseri animali, avevano sembianze umane, avevano quattro ali»67. Il tipo di linguaggio usato da Ezechiele con le immagini che propone sembrano essere di stampo babilonese riprendendo immagini che solitamente si trovavano nei templi babilonesi. Di questa descrizione notiamo, anzitutto il profeta stesso alla fine spiega che tale gli apparve la Gloria del Signore. La Gloria del Signore è inafferrabile ed inesprimibile. Il linguaggio simbolico aiuta in qualche modo a descrivere. È chiaro che chi scrive per immagini si esprime in maniera approssimata perché sa benissimo di non potere esprimere la vera realtà. Questa descrizione di Ezechiele è importante perchè dà origine al linguaggio simbolico che troviamo nei testi posteriori. Alla visione simbolica ricorrerà il primo Zaccaria (capitoli 1-6). Il linguaggio simbolico sarà ripreso dal libro di Daniele e poi passerà nella apocalittica posteriore dando origine a delle immagini che in sé stesse 67

Ez 1,4.


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sono irreali, ma ciò che è importante non è il singolo particolare bensì l’idea globale che attraverso quelle immagini si vuole esprimere. In particolare la visione di Ezechiele con i quattro esseri in sembianze umane passerà nel capitolo 7 del libro di Daniele, dove il veggente68 attraverso questi quattro esseri in sembianze di animali descrive quattro regni sostituiti dalla visione di un simile a figlio di uomo che và verso l’antico dei giorni al quale è dato il potere, la gloria e il regno. In Daniele il «simile a figlio di uomo» ha un aspetto collettivo (cioè si riferisce al popolo dei santi), poi però assumerà nei libri apocrifi di Enoch e del quarto libro di Esdra un carattere individuale aprendo così la strada alla attribuzione del titolo “figlio dell’uomo” a Gesù. Le parole che il Signore così manifestato rivolge al profeta non sono dissimili da quelle rivolte ad Isaia o a Geremia, una caratteristica che emerge, almeno nei grandi profeti è quella di dovere parlare ad un popolo fondamentalmente restio. In 2,2 infatti il profeta riceve le seguenti parole: «figlio di uomo, io ti mando agli israeliti, un popolo di ribelli che si sono rivoltati contro di me». Nel verso 7 dello stesso capitolo leggiamo le parole: «tu riferirai loro le mie parole, ascoltino o no, perché sono una razza di ribelli». Come aveva detto ad Isaia ed a Geremia, anche ad Ezechiele Dio annunzia che dovrà parlare ad un popolo fondamentalmente restio alla Parola del Signore. Il terzo aspetto è quello della consacrazione . anch’esso espresso in maniera simbolica, il profeta deve mangiare un rotolo. Dio dirà in 3,2: «figlio di uomo, nutri il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo». Narra il profeta che egli mangiò il rotolo e fu alla sua bocca dolce come il miele. In questo modo si descrive l’evento della Parola del Signore e la conseguente costituzione profetica di Ezechiele. La scrittura, Antico e Nuovo testamento, è una, ed è utile perciò notare la ripresa dell’antico testamento da parte del nuovo. In particolare ci riferiamo al

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lo chiamiamo veggente perché Daniele non rientra nella letteratura profetica.


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libro dell’Apocalisse, che dipende molto nel suo linguaggio da diversi libri tra cui fondamentalmente Ezechiele e Daniele, oltre non pochi Salmi. L’Apocalisse riprende l’immagine del rotolo da mangiare nel capitolo 10. Ma tutta la descrizione della vocazione di Ezechiele fa da sfondo alla visione del figlio dell’uomo nel capitolo primo della Apocalisse. In Ezechiele si dice che l’autore di fronte a quella visione cadde con la faccia a terra e udì una voce che parlava. L’autore di Apocalisse riprende questa frase al contrario: prima sente una voce e si volta per vedere quale fosse questa voce che gli parlava, poi di fronte alla visione del figlio dell’uomo (visione irreale), cade a terra come tramortito.

LE AZIONI SIMBOLICHE (ORACOLI) DEL CENSORE Come abbiamo notato l’azione simbolica era già presente in Isaia e Geremia. Isaia dovrà portare un giogo sul collo, lo stesso farà Geremia. Geremia poi deve spezzare una brocca (capitolo 19), deve gettare un indumento nel fiume e tirarlo fuori tutto fradicio. Geremia deve praticare un breccia nelle mura ed uscire in atteggiamento di fuggiasco annunziando il tentativo di fuga di Sedecia al momento dell’assedio. Ezechiele riprende il linguaggio delle azioni simboliche. Nei capitoli 4 e 5 possiamo individuare tre azioni simboliche: 1 - versi 4,1-3: l’assedio di una città graffito su un mattone di argilla; 2 - versi 4,9-11: fare un pane con diversi rimasugli di cereali; 3 - versi 5,1-2; prendere una spada affilata come rasoio, tagliare con essa tutti i peli del corpo e poi colpirli con quel rasoio. Tra la prima e la seconda azione simbolica, nei versi 4-8, ne troviamo un’altra che è del profeta, ma non appartiene alla trilogia sopra indicata, è inserita qui dal redattore. Come pure, la seconda azione simbolica è fusa con un’altra sempre del profeta, ma la fusione è dovuta al redat-


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tore. Nella prima azione simbolica il profeta deve prendere un mattone di argilla, graffire una città, disporre attorno ad essa un assedio con macchine belliche, poi prendere una lastra di ferro e metterla come un muro tra lui e la città graffita e tenere fisso lo sguardo su di essa. Questa azione simbolica rivela un problema che emerge anche nel contemporaneo Geremia. Il fatto che Nabucodonosor nel 597 deportò senza distruggere la città e mettendo su trono Sedecia indusse a credere che l’esilio sarebbe stato di breve durata e che gli esuli sarebbero rimpatriati69. Ezechiele compie questa azione sotto gli occhi dei giudei, i quali potevano pensare che quella azione simbolica di una città assediata riguardasse Babilonia, ma il profeta rivela che si tratta di Gerusalemme. Di conseguenza il fatto che Nabucodonosor non distrusse la città era solo momentaneo, ma difatti poi la distruzione sarebbe avvenuta. Il profeta con questa azione simbolica annunzia l’assedio di Gerusalemme che sarebbe cominciato tra il 588 e il 587. Saltiamo i versi 4-8 che sono azione simbolica della paralisi del profeta, il profeta deve giacere sul fianco sinistro per 190 giorni e poi sul fianco destro per 40 giorni. Il riferimento è probabilmente a quei sette mesi di silenzio tra la caduta di Gerusalemme e la venuta del fuggiasco a dare la notizia della caduta della città. La seconda azione simbolica consiste nel fatto che il profeta deve prendere grano, orzo, fave, lenticchie, metterle insieme e farne del pane. Questo pane deve essere mangiato in maniera assai razionata: 20 sicli al giorno70, come anche l’acqua è pure razionata: 1/6 di hin, questa seconda azione si riferisce alla carestia che si verifica nell’assedio; una città assediata era tagliata fuori da tutti i rifornimenti della campagna e idrici: resistere fino a quando vi erano delle scorte nella città. La pluralità dei cereali sta ad indicare che per fare un pane si prendono tutti i rimasugli di qualsiasi genere che si trovano in casa. Il pane che così si fa è molto pe69 70

Ricordiamo la disputa tra Geremia ed Anania nel capitolo 28. Circa 200 grammi di pane.


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sante e indigesto. Ma poi il profeta riceve il compito di cuocere questa focaccia su escrementi umani e qui il profeta reagisce e Dio gli permette di cuocerla su escrementi di animali. Si tratta qui di due azioni simboliche differenti ma messe insieme dal redattore, e ciò si deduce dal fatto che la seconda azione di cuocere su escrementi cambia prospettiva. La prima azione ci riporta al tempo dell’assedio, la seconda azione, sottolineando il fatto che il pane così cotto è un pane impuro, ci riporta meglio al momento della deportazione. La prima azione simbolica sottolinea la limitatezza del cibo nel tempo dell’assedio, la seconda azione, indica che si mangia in terra straniera e perciò in terra impura. Ma lasciando stare la seconda azione, la prima continua tematicamente la precedente. L’azione del mattone indica l’assedio, l’azione del pane indica la carestia. Gerusalemme sarà assediata e gli assediati patiranno la fame. La terza azione simbolica è quella della spada affilata come rasoio, il testo precisa, “come un rasoio di barbiere”: il profeta deve tagliarsi con essa barba e capelli, pesare i peli tagliati e farne tre parti: una parte la brucerà in mezzo alla città del mattone graffita, una parte dovrà tagliarla con la spada attorno alla città, la terza parte infine deve disperderla al vento, ma poi inseguirla con la spada affilata. Questa terza azione simbolica che sarà spiegata nei versi seguenti riguarda l’esito dell’assedio. I peli tagliati indicano gli abitanti di Gerusalemme: un terzo di essi moriranno nell’incendio, un terzo di essi tenderanno la fuga ma saranno colpiti appena fuggono, un terzo difatti fuggiranno, ma saranno raggiunti ed uccisi. Le tre azioni simboliche: mattone, pane, rasoio esprimono così i tre momenti della caduta di Gerusalemme, assedio, carestia, presa della città. Queste tre azioni simboliche non sono datate, certo debbono collocarsi prima della caduta di Gerusalemme (dopo non avrebbero senso) e perciò si collocano globalmente nell’arco dei sette anni, tra la vocazione (593) e la caduta della città (596). Con queste azioni, il profeta indica che nella prima deportazione non si era compiuto il giudizio di Dio, ma che si sarebbe compiuto con la caduta della città.


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Queste tre azioni simboliche si collocano all’inizio della parte riguardante il censore, ma c’è ne sono altre due molto belle collocate alla fine della stessa parte, nel capitolo 24. Sono le due azioni della pentola che bolle e della delizia degli occhi che Dio toglie. Il capitolo 24 è datato il 10 del decimo mese dell’anno nono (della deportazione), e quindi dovremmo andare verso dicembre del 588. Ma le due azioni simboliche sembrano rispecchiare diversa epoca, la data indicata può riferirsi bene alla azione simbolica della pentola, ma l’azione simbolica della delizia degli occhi che Dio toglie rispecchia meglio il momento della caduta avvenuta circa due anni dopo. L’azione simbolica della pentola si riferisce perciò al momento in cui i babilonesi vanno verso la città e la assediano. Il profeta deve prendere una pentola con diversi pezzi di carne e accendervi il fuoco fino a che la carne si riduce ad una poltiglia e l’acqua si versa. La pentola è immagine della città che ha provocato l’ira di Dio ed ora Dio interviene a distruggerla, e infatti nel verso 9 leggiamo: «guai alla città sanguinaria, anch’io farò grande il rogo». Più bella e più commovente è la seconda azione simbolica che il profeta deve compiere, o meglio, deve subire, nella sua persona. Nel verso 15 leggiamo le parole del Signore: «figlio dell’uomo, io ti tolgo all’improvviso colei che è la delizia dei tuoi occhi, ma tu non fare l’avveduto, non piangere, non versare una lacrima, sospira in silenzio, e non fare il lutto dei morti», anzi il profeta deve assumere atteggiamenti di gioia: avvolgersi il capo con il turbante, mettere i sandali ai piedi, non velarsi la bocca e non mangiare il pane del lutto. Nel verso seguente il profeta spiega questa azione: «al mattino avevo parlato al popolo e la sera mia moglie morì». La delizia degli occhi del profeta che Dio gli toglie è la moglie che muore. Di fronte a quella morte il profeta deve reprimere e deve nascondere qualsiasi dolore. Il senso di questa azione simbolica è spiegato dopo: il popolo chiede al profeta il senso di tutto e il profeta annunzia: «annunzia agli israeliti, così dice il Signore: “Ecco io faccio profanare il mio santuario, orgoglio della vostra forza e delizia dei vostri


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occhi”». Dio così annunzia la caduta del tempio mediante l’azione simbolica delle morte della moglie di Ezechiele. Per capire questa azione simbolica bisogna fare un passo indietro e risalire all’epoca di Isaia quando Sennacheriv, sul punto di espugnare la città (700-669) non la espugnò, ma tolse l’assedio. Si disse che ciò era dovuto al fatto che nella città c’era il tempio che rendeva la città inespugnabile e forse a quest’epoca bisogna far risalire il Salmo 47 che descrive la sontuosità del tempio. Che il Salmo possa riferirsi a quell’epoca è suggerito dai versi 58 dove si dice: «ecco i re si sono alleati […] ma lo sgomento li ha colti, doglie come di partoriente»71. Il tempio era ritenuto qualcosa di intoccabile, ricordiamo Geremia che nel 609 per averne annunziato la distruzione rischiò la condanna a morte.

Venerdì 14 gennaio 2005, ore 10,30 / 12,15 All’attività del censore appartiene l’attività di denunzia, il profeta è chiamato a denunziare, anche con violenza, le colpe del popolo. a riguardo abbiamo due capitoli che sono appunto forte accusa: il capitolo 16 e il capitolo 20. Entrambi i capitoli hanno il carattere di un Midrash cioè sono una rilettura della storia dal punto di vista del peccato del popolo e il profeta, appunto, nota una storia di peccato. Il profeta Ezechiele considera sette secoli di storia72 (leggere a riguardo il capitolo 16 e il capitolo 71

Sennacheriv che toglie l’assedio. Ezechiele 20,1-8: «Il dieci del quinto mese, anno settimo, alcuni anziani d'Israele vennero a consultare il Signore e sedettero davanti a me. Mi fu rivolta questa parola del Signore: «Figlio dell'uomo, parla agli anziani d'Israele e di' loro: Dice il Signore Dio: Venite voi per consultarmi? Com'è vero ch'io vivo, non mi lascerò consultare da voi. Oracolo del Signore Dio. Vuoi giudicarli? Li vuoi giudicare, figlio dell'uomo? Mostra loro gli abomini dei loro padri. Di' loro: Dice il Signore Dio: Quando io scelsi Israele e alzai la mano e giurai per la stirpe della casa di Giacobbe, apparvi loro nel paese d'Egitto e giurai per loro dicendo: Io, il Signore, sono vostro Dio. Allora alzai la mano e giurai di farli uscire dal paese d'Egitto e condurli in una terra scelta per loro, stillante latte e miele, che è la più bella fra tutte le terre. Dissi loro: Ognuno getti via gli abomini dei propri occhi e non vi contaminate con gl'idoli d'Egitto: sono io il vostro Dio. Ma essi mi si ribellarono e non mi vollero ascoltare: non gettarono via gli abomini dei propri occhi e non abbandonarono gli idoli d'Egitto».

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20). Il capitolo 16 considera tutta la storia del popolo di Israele con l’immagine di una bambina che diventa adulta. Nel verso 1 il profeta riceve un comando da Dio: «così dice il Signore a Gerusalemme: “tu sei per origine dal paese dei cananeo, tuo padre era amorreo e tua madre hittita”». In questa indicazione il profeta affonda le radici molto lontano, si sta rivolgendo a Gerusalemme e fissa la sua origine nell’oscurità dei popoli. La sua origine si perde nell’anonimato dei popoli. Nel verso 4 leggiamo un’altra indicazione: «alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu reciso l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per purificarti, non ti fecero le frizioni col sale, né fosti avvolta in fasce». Il profeta descrive quattro azioni tipiche ad un bambino nel parto di modo che possa passare dalla dipendenza materna alla autonomia di una vita. Soprattutto è importante, nell’economia dell’immagine, la recisione dell’ombelico, quando essa manca non si vive di sangue autonomo, ma del sangue materno si dipende. L’allusione sembra essere al tempo della schiavitù in Egitto. Lì il profeta vede la vera nascita del popolo e infatti, anche nel capitolo 20 iniziava la sua storia dal tempo dell’Egitto. Se leggiamo il capitolo primo del libro dell’Esodo, esso incomincia con l’indicazione che i figli di Israele si erano moltiplicati come le stelle del cielo. L’allusione è chiaramente alla prima promessa ad Abramo, quella di una discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia sulla riva del mare. L’esodo si pone poi nella prospettiva della realizzazione della seconda promessa: la terra. Nella attuazione della prima promessa si vede la nascita del popolo, ma la seconda promessa non attuò subito, anzi la sua realizzazione fu impedita con tutti i mezzi dal faraone. Tutto questo ci aiuta a capire l’immagine di Ezechiele: «alla tua nascita non ti fu reciso l’ombelico». Il popolo in Egitto nacque, ma non acquistò la sua autonomia di popolo. A questa prima azione non ne seguirono altre tipiche della cura di un bambino. Il testo di Ezechiele ancora continua: «occhio pietoso non si volse su di te per far di una sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in pie-


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na campagna». Si tratta di immagini, ma che richiamano bene la storia del popolo. Narra il libro dell’Esodo che il popolo fu costretto a dura schiavitù a costruire città Egiziane, ma il faraone obbligò non solo a fare i mattoni, ma anche ad acquisirsi la paglia necessaria. Questo confronto è lecito anche se, dal momento che siamo nell’economia dell’immagine, non tutti i particolare debbono essere identificati. Il profeta ancora continua: «passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel tuo sangue e dissi: “vivi nel tuo sangue”». Questo dibattersi nel proprio sangue richiama l’immagine di un bambino già maturo per vivere autonomamente, ma è costretto a vivere del sangue della madre. Si ha quasi un conflitto tra due tipi di sangue. Dio passa e vede ciò, l’allusione è ancora all’Esodo, leggiamo infatti: «il popolo gemette sotto il peso dei duri lavori e il suo gemito giunse fino a Dio e Dio si ricordò della Sua alleanza con Abramo, Isacco, Giacobbe». Il capitolo terzo dell’Esodo narra la vocazione di Mosè, Dio gli dice: «ho visto l’afflizione del mio popolo, io ti mando dal faraone a liberare il mio popolo». Tutta questa storia sembra essere compendiata nell’espressione di Ezechiele: «passai accanto a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel tuo sangue». Subito dopo, il profeta, fa un salto della storia. Leggiamo infatti: «crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza. Il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà, ma eri nuda e scoperta». Nell’economia dell’immagine, con questa descrizione, il profeta sembra alludere a tutto il cammino del deserto fino al Sinai. L’espressione «nuda e scoperta» ha un senso metaforico: si riferisce ad una donna che non appartiene a nessuno. Abbiamo così l’immagine di una crescita, ma senza però stabilire una appartenenza. Nel verso 8 leggiamo: «passai vicino a te e ti vidi, ecco la tua età era quella dell’amore. Io stesi il lembo del mio mantello e coprii la tua nudità, giurai alleanza con te e divenisti mia». Stendere il lembo del proprio mantello su una donna e coprire così la sua nudità significa sceglierla e farla propria. L’allusione è chiaramente all’alleanza sinaitica quando


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Dio si presentò al popolo come il suo Dio. Ricordiamo la formula con cui è introdotto il decalogo: «Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto». La formula «Io sono il Signore tuo Dio» esprime la causa e la conseguenza dell’uscita dall’Egitto. È la causa: perché Dio ha fatto uscire perché era il Dio di quel popolo, ma è la conseguenza perché facendo uscire il popolo d’Israele dall’Egitto, Dio si è consacrato come appartenente al popolo, ma l’alleanza è bilaterale essendosi manifestato come Dio del popolo; esige che anche il popolo si manifesti come popolo di Dio. Per questo motivo Dio dà i suoi comandamenti. In 2,15-19 il profeta elenca tutte le opere di Dio. Tutta la descrizione si muove sul piano metaforico, non sono perciò da identificare i singoli particolari, ma globalmente esprimono la cura di Dio. Tutta la descrizione globalmente presenta la cura di Dio. Essa, come indicano le immagini, fu totale. L’indicazione: «diventasti sempre più bella fino ad essere regina» può essere una allusione alla instaurazione della monarchia davidica. Nel verso 14 leggiamo: «la tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza». I libri dei re ci narrano come la regina di Saba venne per ammirare lo splendore e la sapienza di Salomone. Sembra che il profeta descriva, con l’immagine di una bambina che diventa donna, tutta una storia dalla schiavitù in Egitto al tempo che precede l’esilio babilonese. Sono considerate due parti: la prima parte và dalla schiavitù in Egitto alla monarchia davidica, e in questa prima parte si descrive tutta l’opera di Dio in tre momenti: la liberazione dall’Egitto, l’alleanza sinaitica, l’instaurazione della monarchia davidica: dalla schiavitù in Egitto al regno. Dalla monarchia davidica al momento presente è invece descritta una storia di peccato vista come una prostituzione: il popolo si servì dei doni di Dio per prostituirsi. Nel capitolo 16 Ezechiele si colloca sulla linea dei profeti precedenti che avevano usato l’immagine sponsale per descrivere il rapporto tra Dio e il popolo. a differenza però di Osea e Geremia, che avevano riferito l’immagine alle tribù del nord, e soprattutto Osea era stato violento


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all’epoca della invasione assira e aveva cantato la caduta di Samaria come il ripudio della sposa da parte di Dio, così Ezechiele, riferendo l’immagine a Gerusalemme annunzia la sua distruzione e il conseguente esilio. Come abbiamo detto siamo ancora nei sette anni di ministero profetico che precedono la caduta di Gerusalemme, ma il profeta con molta lungimiranza preannunzia la caduta di Gerusalemme. La caduta di Gerusalemme e il conseguente esilio del 586 segna a Gerusalemme la fine del ministero profetico di Geremia, ma segna anche in Babilonia l’inizio del secondo periodo del ministero profetico di Ezechiele. Dopo i sette mesi di paralisi, all’arrivo del fuggiasco, il profeta inizia il suo secondo periodo. Dovette durare circa 14 anni, l’ultima data infatti, nel capitolo 40, ci riporta verso l’anno 572/71. In questi 14 anni Ezechiele dovrà assolvere al compito di sentinella. Gli oracoli che ci rimangono sono molto pochi, ma quelli che abbiamo sono fondamentali e soprattutto essi costituiscono un fondamento importante su cui poggia il NT. Dio ha compiuto un giudizio, ma si direbbe che sia stato Lui il primo a soffrirne. Questo, il profeta, rivela riferendo le parole di Dio nel capitolo 33. Il popolo si lamenta e macera nei propri peccati e dichiara: «i nostri delitti e i nostri peccati sono sopra di noi. Come potremo vivere?». Queste parole che manifestano tutto lo scoraggiamento del popolo schiacciato dai suoi peccati rivelano una attività profetica di denunzia delle colpe del popolo. Il profeta rivela che c’è una strada per uscire dal proprio peso e riferisce le parole del Signore che rivelano anche il vero pensiero di Dio: «come è vero che Io vivo, oracolo del Signore, Io non godo della morte del peccatore, ma che si converta e viva». Mandando in esilio, Dio non ha inteso distruggere, ma ha inteso chiamare a conversione. C’è stata una lamentela del popolo che accusa Dio di avere agito ingiustamente: «i figli del popolo vanno dicendo: “non è giusto il modo di agire del Signore”», ma Dio replica: «è ingiusto il Mio modo di agire, o il vostro?». Il popolo si lamenta di subire la punizione per le colpe dei


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padri, ma Dio annunzia: «giudicherò ciascuno di voi secondo il suo modo di agire». Al popolo Dio chiede che superi il suo peccato, si converta a lui e viva. Il profeta ha il compito di vegliare come sentinella perchè il popolo non pecchi e se il profeta non ammonisce il peccatore sarà lui responsabile della sua morte. Tuttavia Dio sa che il popolo non è del tutto colpevole. Più colpevoli sono i suoi capi che lo hanno fatto traviare, e nel capitolo 34 Dio si scaglia contro i capi: «guai ai pastori di Israele che pascono sé stessi, i pastori non dovrebbero pascolare il gregge?». Dio descrive la colpa dei capi: «vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore grasse, ma non pascolate le mie pecore». Dio guarda con occhio commosso e pietoso il popolo esiliato ed esclama: «per colpa dei pastori si sono disperse73 le mie pecore e sono preda di tutte le bestie selvatiche». Ancora con commozione, Dio osserva: «vanno errando le mie pecore in tutto il paese e nessuno và in cerca di loro». Dio stesso allora intenta un giudizio contro i pastori, li destituirà del loro compito74: «non li lascerò più pascolare il mio gregge», ma Dio stesso avrà cura e si farà pastore; «ecco Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura»; più avanti dirà: «andrò in cerca della pecora perduta […], ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferità e curerò quella malata». Tuttavia Dio eserciterà il Suo compito di pastore non direttamente. Ezechiele riprende l’antica tradizione di Davide, divenuto re, dopo essere stato preso dal gregge; e in Davide si riassumono le due prerogative di re e pastore. Dio continua in 34,23: «susciterò75 per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore».

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Allusione al popolo in esilio. Basti pesare a Giovanni 10. 75 Verbo importante che nell’AT richiama la resurrezione. 74


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Martedì 18 gennaio 2005, ore 08,30 / 10,15 Nei versi 16-18 di Ezechiele 36, Dio giustifica il fatto dell’esilio: «ha dovuto cacciarli dalla terra perché l’avevano resa impura con le loro abominazioni». Ma il peccato continua in terra di esilio, il profeta continua al verso 20: «Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese». Nel verso 20 Dio recrimina contro il popolo perché in terra di esilio ha disonorato il Suo Santo Nome, e lo ha disonorato proprio facendosi cacciare, perché i popoli, vedendo il popolo in esilio, non hanno pensato alle colpe del popolo stesso, ma hanno concluso che se erano in esilio è perché il loro Dio, o non è stato capace a salvarli, o forse non ha voluto salvarli. In ogni caso è stata messa in dubbio sia la potenza che la fedeltà di Dio. Tutto ciò costituisce il «disonorare il Nome Santo di Dio»76. Dio reagisce di fronte alla profanazione del Suo Nome, e intende mostrare tutta la Sua grandezza. Troviamo qui un particolare diverso rispetto ai profeti precedenti. Da Osea a Geremia, Dio aveva annunziato la salvezza per amore del popolo77, ora secondo Ezechiele il motivo per cui agisce è il Suo Santo Nome. Dio intende manifestare tutta la sua Santità. Dio decide di manifestare la sua Santità e quella del Suo Nome, cioè mostrare che Lui non ha niente in comune con tutti gli altri idoli e che è al di sopra di tutti. Dal momento che il Nome di Dio è stato profanato mediante il dubbio sulla sua potenza, allora decide di manifestarla davanti gli occhi dei popoli. Dio lo farà operando proprio quello su cui si è posto il dubbio, cioè, riportando il popolo nella sua terra. La frase fondamentale è al verso 24: «vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra, vi condurrò sul vostro suolo». Dio annunzia di riportare in patria il popolo, però nel 76 77

Espressione tipica di Ezechiele. «Ti ho chiamato d’amore eterno», dirà Geremia, riferendosi al suo popolo.


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sottofondo del testo si intuisce un problema: non può riportare in patria “Sic et simpliciter” il popolo, perché se poi in patria il popolo tornerà a peccare dovrà di nuovo cacciarlo, è questa per esempio la minaccia del Salmo 94 post-esilico: «perciò ho giurato nel Mio sdegno, non entreranno nel luogo del riposo». Il problema è quello di riportare in patria un popolo che non pecchi, e Dio allora annunzia, prima ancora di riportarlo in patria di renderlo impeccabile. In questa azione influisce l’oracolo di Geremia della Nuova Alleanza che Ezechiele dovette conoscere. L’oracolo di Geremia prevedeva due momenti: anzitutto la remissione dei peccati (Geremia 31) commessi sotto la prima alleanza e poi la legge scritta del cuore. Ezechiele con il suo linguaggio tipicamente sacerdotale descrive entrambe le cose. Anzitutto annunzia la remissione dei peccati: «vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli». Sia l’immagine dell’aspersione, sia la menzione dell’acqua, sia il tema della purificazione appartengono al linguaggio cultuale tipico del NT. Annunzia perciò la remissione dei peccati mediante un lavacro di purificazione, che salvo errore, sta alla base di quei riti di purificazione documentati a Qumran e che stanno alla base della attività di Giovanni il Battista. La positiva salvezza è descritta con un linguaggio particolare, ma che riguarda come Geremia ancora il cuore. Nel capitolo 18, nei versi 30-32, il profeta riferisce una esortazione da parte di Dio: «convertitevi ed esistete da tutte le vostre iniquità […] formatevi un cuore nuovo ed uno spirito nuovo», mai l’uomo potrà formarsi un cuore nuovo ed uno spirito nuovo se Dio non gli trasforma il cuore, per questo Dio annunzia l’opera positiva di trasformazione del cuore. Qui Ezechiele si rivela più radicale di Geremia (da cui però dipende). Geremia parlava di legge del cuore rivelando che il problema era sul luogo dove la legge è scritta (non su tavole di pietra, ma sul cuore), e rivelando anche che la legge era inadeguata. Ma Ezechiele rivela che il problema addirittura è quello del cuore. Questo deve essere cambiato (il cuore). Da qui l’annunzio del grande passaggio dal cuore di pietra (insensibile, innatura-


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le in un uomo fatto di carne e che pertanto non palpita, non vive non ama, è insensibile ad un cuore di carne che palpita, che ama, che brama, in una parola che vive), al cuore di carne. Come tale trasformazione del cuore avverrà il profeta lo rivela: «porrò il Mio spirito dentro di voi: sarà lo spirito perciò ad operare il grande passaggio dal cuore di pietra al cuore di carne». Ma notiamo il testo di Ezechiele: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo […] porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi». I limiti di questo oracolo emergeranno sia dal confronto con Geremia, sia soprattutto dal modo come il NT riprenderà questo oracolo. Ma qui notiamo un modo come il cuore nuovo permetterà l’osservanza dei comandamenti? L’idea stessa del cuore rimanda all’aspetto dell’amore, un cuore di carne è sensibile ad amare, non ad osservare i comandamenti. In questo senso sembra che Ezechiele riveli un vuoto che sarà colmato dal Deuteronomio. Il Deuteronomio nel capitolo 6 parla di amare Dio: «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze», e concretizzare l’amore verso Dio nell’osservanza dei comandamenti. Il passaggio dall’amore verso Dio, all’osservanza dei comandamenti è facile, ma l’amore verso Dio è un amore con tutto il cuore. Qui ci sembra di trovare ciò che riempie il vuoto di Ezechiele. Se è lecito interpretare Ezechiele alla luce del Deuteronomio (che poi sono contemporanei), dovremmo dire che il cuore nuovo mira ad amare Dio concretizzare tale amore con l’osservanza dei Suoi comandamenti. Possiamo allora riassumere nel seguente modo: Dio deve riportare in patria un popolo che non pecca, ma prima deve renderlo impeccabile mediante la trasformazione del cuore. Il Deuteronomio suggerisce un passaggio intermedio, quello cioè di amare Dio. Probabilmente Ezechiele non nota questo passaggio perché a lui interessava mostrare come l’osservanza dei comandamenti è il frutto di un cuore rinnovato. Il profeta sottolinea che tale trasformazione avverrà mediante lo Spirito: «porrò


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il mio spirito dentro di voi». Probabilmente quest’ultima frase è una aggiunta, ma corrisponde bene al pensiero di Ezechiele perché è anticipata dal seguente capitolo 37 dove l’opera dello Spirito avrà una parte fondamentale. Si capisce bene il fatto che se la trasformazione del cuore dipende dallo Spirito, perché essa avvenga bisogna attendere il dono dello Spirito. Alla luce del NT emergono qui due domande alle quali Ezechiele non risponde: quando Dio darà il Suo Spirito? e come lo darà? (Giovanni lo ricollegherà al mistero della Croce). Dio può concludere: «abiterete nella terra che Io diedi ai vostri padri, Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo». Dio promette due cose, in seguito a tale trasformazione: il ritorno in patria e la piena realizzazione della alleanza. Si avverte in quest’ultimo punto l’influsso di Geremia. 9 Il dono dello Spirito; 9 L’impeccabilità del popolo; 9 Il ritorno in patria e la realizzazione della Alleanza. Il popolo recepì il messaggio di Ezechiele e si mise in preghiera. Da questo oracolo è scaturita una preghiera: il Salmo 50. Il capitolo 37 contiene una visione simbolica ed una azione simbolica. La visione simbolica è quella delle «ossa aride», il profeta vede un campo di ossa secche, inaridite, dove non c’è il benché minimo segno di vita. Dio pone una domanda: «figlio dell’uomo, potranno rivivere queste ossa?», il profeta non può rispondere. Dal punto di vista umano, naturale, quelle ossa non potranno mai rivivere, ma il profeta non può rispondere no, perché potrebbe così offendere la potenza di Dio. Quelle ossa naturalmente non possono rivivere, ma potranno rivivere se Dio lo vuole. Ecco perché Ezechiele si trincera nella risposta: «Signore Dio, tu lo sai». E Dio annunzia: «profetizza su queste ossa e dirò loro: “ossa inaridite, udite la Parola del Signore”». Dio annunzia la venuta dello Spirito che permetterà alle ossa di rivivere. Il profeta riceve il comando di profetizzare allo Spirito,


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cioè di chiamarlo e di invocarlo. Lo Spirito viene e quelle ossa si rivestono di carne, di nervi e di pelle, ma non c’è ancora vita in loro. Il profeta deve di nuovo profetizzare allo Spirito: «dice il Signore Dio: “vieni o Spirito dai quattro venti e soffia su questi morti perché rivivano”». Venne lo Spirito ed apparve un grande esercito di persone, sterminato. Come possiamo vedere, l’intervento dello Spirito è duplice: prima ricostituisce la materia e poi dà la vita. Ci permettiamo di avanzare una supposizione in questa duplice azione, sembra che nello sfondo ci sia il racconto genesiaco della creazione dell’uomo che avviene pure in due momenti: Dio plasma la materia e poi soffia il Suo alito vitale e l’uomo diventa un essere vivente. Se è vera la dipendenza la Genesi, Ezechiele fa un passo avanti: attribuisce allo Spirito di Dio sia la costituzione della materia, sia la sua animazione. Ma Dio stesso spiega il senso di questa visione simbolica nei versi 11-14, e spiega che quelle ossa sono la casa di Israele, dispersa in esilio, che sperimenta una terribile situazione di morte. Ma la vera situazione di morte non è l’esilio, è l’atteggiamento del popolo che ha perduto ogni speranza. Dio si lamenta: «essi vanno dicendo: “le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”». È una mancanza di speranza che poggia sul disconoscimento della potenza di Dio, e Dio qui fa un annunzio formidabile: «dice il Signore Dio: “ecco Io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, riconoscerete che Io sono il Signore quando avrò aperto i vostri sepolcri e vi avrò resuscitato dalle vostre tombe. Farò entrare in voi il mio Spirito e rivivrete, vi farò riposare nel vostro paese”». Dio annunzia tre cose:

1- l’apertura delle tombe; 2- il dono dello Spirito; 3- il ritorno in patria.


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Ma anche questo oracolo deve attendere il NT. L’apertura delle tombe di cui parla Ezechiele ha ancora un senso metaforico: si tratta del ritorno dall’esilio, ma il NT darà un senso materiale. Probabilmente è Ezechiele che influisce quando il NT parlerà dell’esperienza di una tomba aperta. Nella lettera ai Romani, Paolo con chiarezza riferirà ciò allo Spirito di Dio. Nel capitolo ottavo Paolo scrive: «se lo Spirito di Colui che ha resuscitato il Suo Figlio da morte abita in voi, Colui che ha resuscitato Gesù Cristo dai morti resusciterà anche i vostri corpi mortali mediante lo Spirito dato a loro». Il NT vede realizzato l’oracolo di Ezechiele in due stadi: il primo stadio è l’apertura della tomba di Gesù, il secondo stadio sarà l’apertura delle tombe umane determinata dallo Spirito effuso dal Signore Risorto. Alla luce di Ezechiele possiamo anche leggere un passaggio evangelico che non è materialmente storico, ma è storico in maniera prolettica. Alla morte di Gesù (citiamo Matteo): «si aprirono le tombe e molti corpi di santi resuscitarono, entrarono nella città santa ed apparvero a molti»: non è un fatto materiale-storico, ma prolettico. Abbiamo infatti l’apertura delle tombe e l’ingresso nella città santa. Il profeta deve compiere una azione simbolica: prendere due legni, scrivere su uno: «casa di Israele» e sull’altro: «casa di Giuda» e deve poi metterli insieme. Mediante questa azione simbolica il profeta annunzia la ricostituzione dell’unico regno davidico. Il regno di Giuda e il regno di Israele torneranno ad essere un solo regno. Questa azione simbolica è importante perché, salvo opinione migliore, sta dietro il racconto di Giovanni 4, cioè l’incontro tra il giudeo Gesù e la donna samaritana. In quel racconto è il nuovo Davide, Gesù, che incontrandosi con la samaritana, ricostituisce l’unico regno davidico.


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Sabato 22 gennaio 2005, ore 10,30 / 12,15

IL SECONDO E TERZO ISAIA Gli oracoli del secondo e terzo Isaia ci restano negli attuali capitoli 40-66. Fino a cinquant’anni fa si credeva che tutto il libro di Isaia dal capitolo primo al capitolo 66 fosse del profeta. Negli ultimi 50 anni, quando la critica letteraria e storica ha avuto finalmente cittadinanza anche nella Chiesa Cattolica, si è capito che larga parte non può appartenere all’antico profeta. I profeti non sono annunziatori estemporanei ma riflettono e annunziano la Parola del Signore nella storia in cui vivono. La storia che presuppongono i capitoli 40-66 non può essere quella dell’antico profeta della seconda metà del secolo VIII. In Isaia 45,1 leggiamo: «così dice il Signore del suo eletto, di Ciro». La menzione di Ciro, re dei medi e persiani, ci porta nella seconda metà del secolo VI (quindi dopo due secoli). All’interno però dei capitoli 40-66 bisogna pure operare una distinzione, e infatti in alcune parti si ha un messaggio di speranza e di fiducia, in altre parti si canta invece lo splendore di Gerusalemme. Dobbiamo perciò concludere che i capitoli 40-66 rispecchiano due epoche diverse, l’epoca cioè immediatamente precedente alla fine dell’esilio, l’epoca seguente al ritorno dell’esilio, quando si cominciò a ricostruire la città distrutta dai babilonesi nel 586. All’interno di questi capitoli non è facile distinguere gli oracoli dell’anonimo profeta che scrisse prima della fine dell’esilio e che noi chiamiamo Deutero-Isaia o secondo Isaia dagli oracoli che scrisse dopo la fine dell’esilio e che noi chiamiamo terzo o trito-Isaia.


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A principio della critica si faceva questa distinzione: capitoli 40-55: Deutero-Isaia78; capitoli 56-66: Terzo Isaia79. La distinzione però non è precisa perché anche all’interno dei capitoli 40-55 alcune parti80 non possono appartenere al secondo Isaia perché presuppongono un’altra situazione. In realtà nei capitolo 40-66 ci troviamo di fronte ad un blocco redazionale, redatto probabilmente dal terzo Isaia, il quale inglobò gli oracoli suoi e del suo predecessore: secondo Isaia. Possiamo perciò distinguere gli oracoli mediante la critica letteraria e la critica storica. Perché chiamiamo secondo o terzo Isaia? Per due motivi: primo perché a noi sono stati tramandati nel corpo del libro di Isaia inoltre perchè, almeno il secondo, si ispirano come linguaggio e come mentalità all’antico Isaia. Ma questi profeti restano fondamentalmente anonimi. Possiamo pensare che il redattore posteriore che redasse tutto il libro di Isaia (da 1 a 66) li mise lì anche per riferire questi oracoli ad un grande profeta e perciò farli accettare meglio (pseudonimia).

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O secondo Isaia. O trito Isaia. 80 Capitolo 49, 52 e 54 per esempio. 79


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SITUAZIONE STORICA A differenza dell’impero assiro che durò circa 140 anni (7458160582), l’impero babilonese durò di meno, circa 100 anni (64083-53984). Inoltre mentre nell’impero assiro avevano avuto una serie di re grandi, nell’impero babilonese, tutta la grandezza si esaurì nel lungo regno di Nabucodonosor. Alla sua morte si succedettero tre re inetti e poi salì al trono un certo Nabonide inetto, amante delle belle arti ma non di politica, il quale tra l’altro si inimicò la potente classe sacerdotale del dio Marduc preferendogli il dio Assur. I babilonesi presto furono stanchi di lui. Verso il 550-555 sale al trono di Persia un certo Ciro della dinastia degli Achemenidi, il quale, vinto il re Ciassarre dei Medi, si annetté la Media e si proclamò, re dei medi e persiani. Verso il 546 conquistò la Lidia e allora fu chiaro a tutti che era lui il nuovo padrone del mondo. Conquistata la Lidia ebbe la via aperta verso Babilonia. È in questi anni, tra il 546 e il 541, quando già Ciro era nella scena storica e si orientava verso Babilonia, che si collocano gli oracoli del Deutero-Isaia. per completare la storia, nel 539, Ciro arriva a Babilonia la conquista senza nemmeno combattere perché i babilonesi stessi, stanchi del loro re Nabonide, gli aprono le porte. Nel 538 (l’anno dopo) firma l’editto di liberazione degli ebrei, i quali possono tornare in patria ma non da popolo libero, bensì sotto l’alto patrocinio persiano, guidati da due giudei che però agivano da funzionari persiani: Esdra e Neemia. Il ritorno in patria non era perciò vera liberazione, ma si spiega perché i persiani, a differenza degli assiri e dei babilonesi, solevano non deportare, ma costituire in loco delle province chiamate “le satrapie”.

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Salita al trono di Tiglat Pileser III. Battaglia di Karchemish. 83 Salita al trono di Nabopolasar. 84 L’arrivo di Ciro a Babilonia. 82


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Detto questo entriamo subito nel deutero-Isaia che vede nella scena storica il cammino di Ciro e lo saluta come colui che il Signore ha mandato a liberare il suo popolo. Per capire il messaggio del DeuteroIsaia partiamo dal carme del capitolo 40, dai versi 12 in poi. Nei versi precedenti 1-11, l’annunzio era stato quello “a preparare la via al Signore”. «una voce grida: preparate la via del Signore appianate nella steppa la strada del nostro Dio». Queste parole si capiscono rileggendo la storia presente. attraverso Ciro il Signore sta venendo a liberare il suo popolo. Per capire però il messaggio del Deutero-Isaia bisogna avere presente non solo la storia politica, ma anche la situazione spirituale del popolo: più o meno la stessa situazione di trent’anni prima, quando Ezechiele aveva lamentato la demoralizzazione del popolo e mediante la visione delle ossa aride, aveva annunziato il ritorno in vita e l’apertura delle tombe. La stessa situazione di demoralizzazione denunzia il DeuteroIsaia, in Isaia 40,27 il profeta quasi rimprovera: «perchè dici Giacobbe e tu Israele ripeti: la mia sorte è nascosta al Signore e il mio diritto è trascurato dal mio Dio». Il popolo si sentì in terra di esilio abbandonato dal suo Dio e soffrì fortemente la tentazione di aderire agli idoli. I popoli degli idoli prosperano, il popolo del Signore è in esilio, e allora conviene aderire agli idoli. Emerge nel Deutero-Isaia una forte polemica contro l’idolatria, una polemica che troveremo anche in alcuni Salmi della stessa epoca, pensiamo al Salmo 134 e al Salmo 113. Il Deutero-Isaia vuole distogliere l’attenzione dagli idoli adottando un genere letterario che noi caratterizziamo, in lingua tedesca con la parola: “Streitgëricht”85. Il Deutero-Isaia immagina come un grande tribunale dove il giudice è il popolo 85

Che sarebbe una disputa giudiziaria.


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e dove si presentano due imputati: rispettivamente Dio e gli idoli. Il popolo deve giudicare chi è il vero Dio e in quel contesto giudiziario per garanzia di essere il vero Dio, ognuno deve esibire le sue opere. Le opere che Dio esibisce sono tre:

1 - La creazione; 2 - L’esodo; 3 - La vocazione di Ciro. La creazione è la prima opera che Dio esibisce, in essa Egli manifesta la Sua potenza e nella creazione manifesta la Sua fedeltà verso il suo popolo; se Dio non fosse stato fedele avrebbe riportato la sua creazione nel caos primordiale. Questo è anche il messaggio di un testo quasi contemporaneo: il racconto della creazione in Genesi 1 che va letto in questo sfondo storico. È in questo periodo che si sviluppa una teologia della creazione che poi troveremo anche nel libro di Giobbe. A riguardo possiamo citare diversi passaggi. Già nel capitolo 40, nel verso 26 Dio dichiara: «levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri? Egli li fa uscire in numero preciso e li chiama tutti per nome». Nel verso 28 continua: «non lo sai? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra, Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore dello spossato». In 42,5 ancora leggiamo: «così dice il Signore Dio che crea i cieli e li dispiega, distende la terra e dà respiro alla gente che vi abita». Ancora in 44,24 leggiamo: «sono Io il Signore che ho fatto tutto, che ho spiegato i cieli da solo, ho disteso la terra e quanto è in essa».


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È molto più bello l’oracolo di 48,12-15 dove sono messe insieme le due opere: creazione e chiamata di Ciro. «Ascoltami, Giacobbe, Israele che ho chiamato: Sono io, io solo, il primo e anche l'ultimo. Sì, la mia mano ha posto le fondamenta della terra, la mia destra ha disteso i cieli. Quando io li chiamo, tutti insieme si presentano. Radunatevi, tutti voi, e ascoltatemi. Chi di essi ha predetto tali cose? Uno che io amo compirà il mio volere su Babilonia e, con il suo braccio, sui Caldei. Io, io ho parlato; io l'ho chiamato, l'ho fatto venire e ho dato successo alle sue imprese».

A riguardo dell’Esodo citiamo un testo particolare 43,14-21, un testo che si rivela abbastanza unitario: «Così dice il Signore vostro redentore, il Santo di Israele: «Per amor vostro l'ho mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe, e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutto. Io sono il Signore, il vostro Santo, il creatore di Israele, il vostro re». Così dice il Signore che offrì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi insieme; essi giacciono morti: mai più si rialzeranno; si spensero come un lucignolo, sono estinti. Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. Mi glorificheranno le bestie selvatiche, sciacalli e struzzi, perché avrò fornito acqua al deserto, fiumi alla steppa, per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi».

Anche la terza opera, la chiamata di Ciro, è celebrata già il Isaia 43,14: «per amore vostro l’ho mandato contro Babilonia, e quanto ai Caldei cambierò i loro clamori in lutto» . In 44,26 Dio continua: «Io dico a Ciro, mio pastore, egli soddisferà tutti i miei desideri», ma la venuta di Ciro è celebrata soprattutto nei versi 1-7 del capitolo 45: «Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l'ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. Io marcerò davanti a te; spianerò le asperità del terreno, spezzerò le porte di bronzo, romperò le spranghe di ferro. Ti consegnerò tesori nascosti e le ricchezze ben celate, perché tu sappia che io sono il Signore, Dio di Israele, che ti chiamo per nome. Per amore di Giacobbe mio servo e di Israele mio eletto io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non v'è alcun altro; fuori di me non c'è dio; ti renderò spedito nell'agire, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall'oriente fino all'occidente che non esiste dio fuori di me. Io sono il Signore e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo».


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Da questa esibizione di tre opere Dio può concludere di essere Lui il vero Dio, da questo giudizio esce trionfatore. È importante una espressione che troviamo tre volte nel deutero-Isaia in 41,4; 44,1 e 48,12. Leggiamo la 44,6 dove Dio esclama: «così dice il Signore: Io sono il primo ed Io l’ultimo», questa frase sarà ripresa dalla Apocalisse che conierà l’espressione: «alfa e omega», cioè la prima ed ultima lettera all’alfabeto greco. Dio è il primo, cioè è il primo nella lista degli idoli, ma è anche l’ultimo, il che significa che Lui esaurisce tutta la lista delle divinità. Può perciò concludere: «fuori di me non c’è Dio». Nel Deutero-Isaia appare la tendenza a sottolineare la trascendenza di Dio, ma questa trascendenza è sottolineata, non per separare Dio dal suo popolo, ma per renderLo ancora più presente. Dio trascende gli idoli e perciò in Lui il popolo deve sperare. Per questo in 45,15 leggiamo: «veramente Tu sei un Dio misterioso, Dio di Israele, Salvatore […], se ne andranno con ignominia fabbricanti di idoli. Israele sarà salvato dal Signore con salvezza perenne». Dio però lamenta di non esser stato capito dal suo popolo in 45,18-19: «Io Sono il Signore, Io non ho parlato in segreto, in un luogo oscuro della terra, non ho detto alla discendenza di Giacobbe: “cercatemi in un orrida regione”»86. Ancora Dio chiede che si abbia fiducia, non negli idoli: «non hanno intelligenza quelli che portano un idolo scolpito e pregano un Dio che non può salvare». Dio rivendica di essere l’Unico Salvatore: «volgetevi a Me e sarete salvi, paesi tutti della terra perché Io Sono il Signore e non v’è n’è altri». Dio ancora continua: «davanti a Me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua»87. Rimane però un problema: se Dio è il Salvatore ed è Lui, Dio potente, perché ha permesso l’esilio? Ezechiele aveva diffusamente e violentemente risposto rimandando ai peccati del popolo. il Deutero-Isaia, invece, preferisce rimandare al disegno misterioso di Dio e perciò non sembra dare risposta e positiva. In 40,12 leggiamo: «chi può misurare con il cavo 86 87

Queste Parole le utilizzerà Gesù davanti ad Anania od Anna. Che poi sarà ripreso in Filippesi 2,11.


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della mano le acque del mare? Chi può calcolare con il palmo l’estensione dei cieli? Chi può pesare con il moggio la polvere della terra? Oppure con la stadera le montagne?». L’uomo è incapace di comprendere le stesse realtà terrene, a maggior ragione è incapace di comprendere il pensiero di Dio, scrive infatti: «chi può dirigere lo Spirito del Signore? e dargli suggerimenti come suo consigliere?». Il deutero-Isaia rimanda perciò all’imperscrutabilità del disegno di Dio. Il popolo tornò in patria, l’epilogo del secondo libro delle Cronache e l’inizio del libro di Esdra, spiegano in maniera teologica il ritorno dall’esilio. Il re persiano manda il popolo in patria perché ricostruisca il Tempio del Signore. Tornato in patria, il popolo intraprende l’opra di ricostruzione (sotto Esdra e Neemia) materiale e spirituale. La ricostruzione spirituale consiste nel rinnovare l’alleanza col Signore e qui si colloca la redazione del Pentateuco che è la Legge che il popolo deve osservare per ristabilire l’alleanza col Signore. Si torna a ricostruire la città materiale, e la sua ricostruzione è cantata dal terzo Isaia. Citiamo 48, 54, 60, 62, 65, Dio che fa cieli nuovi e terra nuove (riprese anche dopo dalla Apocalisse). Ma si riprende anche la ricostruzione del Tempio, questa ricostruzione fu lunga e laboriosa e conobbe anche fasi di alterne vicende e di stasi. Alla ricostruzione esortarono profeti post-esilici, tipo Aggeo, tipo i capitoli 1-8 di Zaccaria. Ci fu anche un fatto spiacevoli: i giudei ritenevano i Samaritani razza ibrida. In un primo momento i Samaritani furono chiamati a partecipare alla ricostruzione del Tempio ma non vollero venire, ma quando decisero di venire furono esclusi e si costruirono un Tempio per conto loro sul monte Karizim.

Finito di realizzare martedì 22 febbraio 2005 alle ore 23:00. eziococo@tiscali.it


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