TESARIO PER L’ESAME ORALE DI BACCALAUREATO

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TESARIO PER L’ESAME ORALE DI BACCALAUREATO – Studio Teologico S. Paolo (CT) – A.A. 2006 / 2007 – Coco Ignazio

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FACOLTÀ TEOLOGICA DI SICILIA

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA – Viale O. da Pordenone, 24 – Tel. 095.22 27 75

TESARIO PER L’ESAME ORALE DI BACCALAUREATO Anno Accademico 2006 – 2007

I – Area biblica 1. La questione del Pentateuco: origine, contenuto, teologia

Pag. 02

2. Caratterizzazione dei profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele) in relazione al loro tempo

Pag. 08

3. Confronto tra la tradizione sinottica e Giovanni (struttura e contenuti)

Pag. 15

4. L’epistolario paolino: sviluppo teologico del pensiero di Paolo

Pag. 23

II – Area dommatica 5. L’origine della fede nel Risorto

Pag. 31

6. Il divenire della cristologia classica, dal giudeo-cristianesimo fino al concilio Costantinopolitano III Pag. 35 7. La Chiesa come comunione e il suo impegno ecumenico

Pag. 52

8. La teologia della grazia da Lutero a Giansenio

Pag. 63

III – Area morale 9. Fede, celebrazione del sacramento e impegno morale: analisi di questi tre momenti nei sacramenti dell’iniziazione cristiana e del matrimonio e possibile recupero nella pastorale, oggi Pag. 71 10. Lo statuto personale dell’embrione

Pag. 74


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I – Area biblica

A cura di Padre Attilio Gangemi

1. LA QUESTIONE DEL PENTATEUCO: ORIGINE, CONTENUTO, TEOLOGIA Per Pentateuco intendiamo i primi 5 libri della Bibbia. Pentateuco è parola greca: penta (cinque) teuche (contenitore), si tratta dei cinque contenitori dove erano messi i vari rotoli. Il termine rabbinico è Torah (legge). Questo nome fu dato in epoca post-esilica quando fu formato il pentateuco. I nomi dei singoli libri sono i seguenti: -

Genesi, che è parola greca e significa origini, in ebraico è chiamato Berescit. Il termine Genesi è improprio, esso può riferirsi soltanto ai primi 11 capitoli e soprattutto ai primi tre dove è descritta una quadruplice origine: del mondo, dell’uomo, del peccato, della salvezza;

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Esodo, parola greca che vuol dire uscita, in ebraico si chiama el scemot (questi i nomi). Anche questo nome di Esodo è improprio, si può riferire soltanto ai primi 15 capitoli cioè fino al cantico di Mosè che conclude una descrizione che è più un memoriale liturgico che non una narrazione storica. Dal capitolo 16 al 24 e fino poi a 32 è descritta la vita nel deserto, fino cioè all’alleanza sinaitica. Dal capitolo 33 fino alla fine l’Esodo è di indole legale, cioè contiene delle leggi;

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Levitico è aggettivo, sottintende in greco la parola nomos (legge) e il nome proviene dal fatto che la maggior parte delle leggi sono di indole cultuale. In ebraico si chiama vaicrà (e chiamò…);

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Numeri, è il quarto libro di Pentateuco: termine totalmente improprio perché può essere riferito soltanto ai primi due capitoli che parlano del censimento. È più appropriato il termine ebraico bamid bar (nel deserto) perché descrive la vita del popolo nel deserto. È bella una osservazione: questo libro è segnato dalla recrudescenza del peccato che Dio punisce, ma il libro sembra essere un inno alla fedeltà di Dio che nonostante il peccato mantiene la sua promessa.

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Deuteronomio, è parola greca (Deuteros + nomos = seconda legge), si chiama seconda in relazione alla prima del levitico, ma difatti è legislazione più antica (è quindi secondo nella posizione dei libri, ma non nel tempo). In questi cinque libri parti narrative e parti legali si intrecciano. Genesi è tutto narrativo, Esodo

è solo per metà narrativo (fino al capitolo 24) poi è legale, Levitico è tutto legale, Numeri è narrativo con delle parti legali, Deuteronomio in una cornice narrativa è tutto legale.


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Origine L’origine del Pentateuco affonda le sue radici molto lontano e la sua composizione si sviluppa in almeno otto secoli. Qui però è indispensabile avere il quadro storico: possiamo distinguere la storia in tre parti: a) dalla creazione alla vocazione di Abramo (il linguaggio è ripreso spesso dal mito, ma attenzione non è mito: riprende solo il linguaggio mitico); b) dalla vocazione di Abramo alla monarchia davidica (abbiamo una storia non documentabile sia perché mancano paralleli extrabiblici, sia perché i racconti spesso sono racconti popolari, tante volte lontani dalla storia reale). Questa storia si può dividere in 3 parti: i. l’epoca dei patriarchi; ii. l’epoca dell’esodo fino alla conquista; iii. l’epoca dei giudici. In questo periodo, cioè in questi secoli, nascono le tradizioni popolari, cioè il popolo ricorda il suo passato e lo narra trasmettendo oralmente di padre in figlio. Queste tradizioni popolari sono un mondo complessissimo, essi possono riguardare i luoghi (per esempio il santuario Bethel), le persone (i patriarchi), i fatti passati. Queste tradizioni popolari furono trasmesse in luoghi diversi tra persone diverse per lungo tempo. c) Storia documentabile: la storia documentabile và da Salomone fino alla fine per circa 1000 anni. Si chiama documentabile per tre motivi: i. anzitutto perché da questo momento in poi, la storia di Israele si intreccia con altri popoli, questi popoli sono nell’ordine: Assiri (745-712); Babilonesi (640-538); Persiani; Greci; i Seleucidi (Siria – Libro dei Maccabei); i romani; ii. Salomone creò una corte di stampo orientale ed a corte fiorirono le arti letterarie, storiografiche, e dalla trasmissione orale si passò man mano alla scrittura. Questo secondo motivo permette il terzo, cioè: iii. La redazione degli annali di corte sia in Samaria (Regno del Nord), sia in Giudea (Regno del Sud). Noi non possediamo questi annali in sé stessi, ma li possediamo inseriti nel primo e secondo libro dei re e nel secondo libro delle Cronache (che mi danno precise storie documentabili).


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Contenuto Nello sfondo di questa storia collochiamo i vari stadi della formazione del Pentateuco: -

(La storia Jawhista – regno del Sud) Nell’anno 932/31 muore Salomone, il cui regno dovette essere crudele. Alla sua morte le tribù del nord si presentarono a Sichem dal figlio Roboam, chiedendogli di allentare il giogo del padre e lo avrebbero servito. Roboam non accettò il consiglio degli anziani che lo esortavano alla mitezza, ma quello dei giovani che lo esortarono a maggiore durezza «se mio padre vi ha colpito con flagelli io vi colpisco con scorpioni». In seguito a questa risposta le tribù del nord si separarono costituendosi autonome, scegliendo come santuario Bethel; la capitale Samaria fu costruita dal re Omri circa 90 anni dopo. Il regno del sud ridotto poco più della semplice tribù di Giuda, non condivise tale divisione e accusò il regno del nord di peccare in quanto separandosi era venuto meno al disegno di Dio che voleva un solo popolo, sotto l’unico re davidico, con una sola città, Gerusalemme, attorno all’unico tempio che Salomone aveva costruito. Questa accusa, il regno del sud, la lanciò redigendo una storia che è chiamata “storia Jawhista” per il fatto che Dio è chiamato Jawhè. Questa storia fu redatta nel seguente modo: si raccolsero tutte le varie tradizioni orali, o forse già alcune scritte e si misero insieme, secondo un ordine progressivo che và dal giardino genesiaco (Gen. 2) fino al tempio di Salomone. Noi non possediamo questa storia; deduciamo la sua esistenza dalla Bibbia stessa, ma nella Bibbia questa storia è frammentaria, ma ricostruendo, possiamo comprendere che il suo scopo era teologico, cioè fare una teologia della storia, mostrare che nella storia si era sviluppato un preciso disegno di Dio al quale le tribù del nord erano venute meno separandosi. Si aggiunge poi che il regno del nord per il fatto che, era più a contatto con i popoli confinanti, facilmente cadde nell’idolatria (Cfr. il ciclo di Elia e di Eliseo).

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(La storia Elohista – Regno del Nord) Il Regno del nord non accettò facilmente l’accusa, doveva difendere la sua legittimità, e un regno si legittima quando può risalire al suo capostipite, come pure il regno del nord aveva anche il problema di darsi una regola di vita. Fece allora una storia analoga (siamo verso l’VIII secolo) a quella Jawhista, storia che chiamiamo Elohista, dal nome usato Elohim. Questa storia mette insieme soprattutto le tradizioni dei patriarchi, le cui tradizioni erano fiorite soprattutto al nord (vedi Bethel con Giacobbe, ecc), con questo storia il regno del nord si ricollegò ai patriarchi come il regno del sud si ricollegava a Davide. La storia Elohista in quello che riusciamo ad individuare è piuttosto di stampo morale, essa a noi è giunta in maniera frammentaria e le parti attribuite ad essa, talora sono discutibili, ma sembra che il suo scopo sia stato quello di legittimare il regno del nord ricollegandosi ai patriarchi, sia quello di prendere i patriarchi come modello di vita.


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(la storia deuteronomista) È fondamentale la data del 722/720. In questa data noi abbiamo l’assedio di Samaria iniziato da Salmanassar V (722) e concluso con la distruzione di Samaria nel 720 per opera del figlio Sargon II. Questa data segna, dopo due secoli, la fine del regno del nord che diventa provincia assiria. Vedremo come in questo periodo ci sono nel regno del nord i due profeti Amos e Osea. La caduta di Samaria pone una domanda: perché il Signore ha permesso questo? Il regno del sud risponde: perché è il degno epilogo della scissione; il regno del nord vede la causa nella idolatria e nell’allontanamento dal Signore. Ma il Signore non può annullare per sempre la sua promessa, e questa è la convinzione di un gruppo di persone profondamente religiose. Non conosciamo questi uomini, ma li chiamiamo con un nome generico i “deuteronomisti”, uomini di profonda fede ma alquanto poveri nel linguaggio (l’ebraico del deuteronomio è il più semplice). Questi uomini avendo individuato che la causa della caduta di Samaria era l’allontanamento dal Signore, pensarono che si poteva sperare nel Signore dopo essere tornati a Lui ed alla Sua legge. Per questo raccolsero in un corpo unico tutte le leggi lanciando così un messaggio agli esuli a tornare alla legge del Signore nella speranza che poi il Signore avrebbe salvato. Questo corpo di leggi costituisce la parte centrale dell’attuale deuteronomio grossomodo dal capitolo 4 al capitolo 28. La caduta di Samaria dovette spingere diversi del regno del nord verso il regno del sud. Tale passaggio dovette facilitare al sud la conoscenza di questo nucleo del deuteronomio, cioè in parole povere, quelli che passarono dal nord al sud, portarono con sé le tradizioni del nord e nulla ci vieta di pensare che in tale passaggio si possa avere avuto una certa fusione tra la storia Elohista e quella Jawhista. Dovette giungere al sud anche quel nucleo del deuteronomio. Non sappiamo di più, ma è un fatto che nell’anno 622, cento anni dopo la caduta di Samaria, il re Giosia, facendo una purificazione del tempio di Gerusalemme, trovò una copia della legge del Signore che servì come punto di partenza alla sua riforma (che però fallì perché lo uccisero).

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Giungiamo così all’epoca più critica, ma più esaltante: l’esilio babilonese, con le sue due deportazioni (597 e 586), che misero fine al regno del sud. L’epoca dell’esilio, che dura fino al 538, fu un’epoca catastrofica. Segnò la fine del regno di Giuda, la fine della dinastia davidica, e vide la distruzione del tempio. Ma fu un’epoca di oro dal punto di vista della Parola del Signore: mai risuonò tanto quanto in quel periodo. In quel periodo abbiamo quattro cose: a) le istituzioni che nascono (la ripresa della pasqua e l’istituzione sinagogale); b) la storia (la storia deuteronomista e il codice sacerdotale); c) i profeti (Ezechiele e il Deutero-Isaia); d) le preghiere (nascono diversi salmi tra cui il Salmo 50)


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Fermiamo l’attenzione soltanto sul secondo punto. Per storia deuteronomista si intende quella parte che comprende i libri Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re. Ogni libro di questi ha la sua storia anche molto antica. Però la storia di questi libri fu reinterpretata dai deuteronomisti, i quali, videro la causa dell’esilio babilonese proprio nella storia. Tutta la storia dalla conquista al momento attuale fu una storia di peccato, perciò Dio ha avuto ragione a mandare in esilio, anzi data la sua longanimità lo ha fatto troppo tardi, ma la storia deuteronomista vuole essere un tacito invito a tornare al Signore nella speranza che il Signore riporti in patria. -

Passiamo al codice sacerdotale. Si chiama così perché redatto da un gruppo di sacerdoti. Il codice sacerdotale raccoglie in tempo di esilio tutte le leggi del Signore. Può sembrare una raccolta arida come anche è arido Genesi 1,1-6,4 (la creazione in 6 giorni). In realtà il codice sacerdotale nasconde una professione di fede ed una professione di speranza. La professione di fede riguarda la potenza di Dio e la sua benevolenza. Dio è potente a salvare e Dio vuole salvare: questa è la tesi del racconto di Genesi 1 (la creazione). Ma Dio sicuramente salverà, così come ha salvato sette secoli prima i padri, facendoli uscire dall’Egitto. Per questo motivo si riprende la festa pasquale come memoriale di quella salvezza. Data la fede nel Signore bisogna sperare che prima o poi si tornerà in patria, per questo non bisogna dimenticare le sue leggi soprattutto quelle riguardanti i sacrifici che oggi (durante l’esilio) non si possono offrire perché il tempio non c’è. Conservare tutte le prescrizioni significa esprimere la speranza che si potranno un giorno mettere in pratica nella propria terra.

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Nell’anno 539 Ciro conquista Babilonia, l’anno dopo firma l’editto di liberazione degli ebrei, i quali possono tornare in patria anche se non liberi, ma sotto l’alto patrocinio persiano. Il ritorno in patria sembrò una cosa inaudita: il Signore aveva mostrato ancora una volta la Sua fedeltà, bisognava perciò ringraziarlo e stipulare con Lui, ancora una volta, una alleanza, cioè tornare alla Sua legge. Ed allora si volle redigere la legge del Signore, e si fece un’opera redazionale: si prese cioè, come schema, il codice sacerdotale e si inserirono man mano le altre parti provenienti dalle altri tradizioni, cioè l’antica Jawhista, l’antica Elohista e il Deuteronomio. Si forma così la legge del Signore (la Torah), ovvero il Pentateuco, Neemia 8 ci informa che lo scriba Esdra lesse la legge del Signore dalla mattina alla sera. Oggi si è concordi nel ritenere che quella legge che lo scriba Esdra lesse sia appunto il Pentateuco già formato. Durante l’esilio era avvenuto un cambiamento linguistico: prima dell’esilio l’ebraico era la lingua popolare e l’aramaico la lingua internazionale (come oggi l’inglese), dopo l’esilio il popolo non capì più l’ebraico ma parlava l’aramaico, per questo, mentre Esdra leggeva i traduttori traducevano. Il capitolo 8 di Neemia sembra ricalcare il capitolo 24 del libro dell’Esodo, come schema: Mosè proclamò la legge del Signore e rispose “Amen”, Esdra proclamò la legge del Signore e rispose “Amen”.


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La teologia Il pentateuco così formato ha una sua teologia. I rabbini hanno insistito sull’aspetto della legge e loro intendono per legge anche le parti narrative, perché legge in quanto esempi di vita. Tuttavia il pentateuco presenta una teologia che possiamo definire storica e che vuol essere tutta la rilettura della storia di Israele. Scorgiamo due linee: una discendente ed una ascendente. La linea discendente và dalla cacciata genesiaca fino alla schiavitù in Egitto. Emerge il senso della storia presente, il popolo era nella terra di Dio ed ha peccato, e Dio lo ha cacciato. Ma il Signore è intervenuto liberando dalla schiavitù, prima dall’Egitto ora da Babilonia ed ha di nuovo ricondotto alla terra promessa. Per restare nella quale è indispensabile una condizione: osservare i comandamenti del Signore. Il problema è la terra: per restare nella quale è indispensabile quella condizione. Tutto il pentateuco che può essere ridotto alla frase di Deuteronomio 4,1: «osserva i comandamenti perché tu viva ed entri nella terra» sembra essere un avvertimento agli esuli rimpatriati: «il Signore è stato fedele, ma voi tornate alla Sua legge, altrimenti vi caccia di nuovo perché nella terra di Dio rimane soltanto chi osserva i suoi comandamenti».


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2. CARATTERIZZAZIONE DEI PROFETI MAGGIORI (ISAIA, GEREMIA, EZECHIELE) IN RELAZIONE AL LORO TEMPO Il profetismo in Israele è molto antico e non è facile caratterizzare il fenomeno nelle epoche più antiche. La Bibbia ci parla di profeti presso la corte di re, il caso più eclatante è quello di Natan alla corte di Davide, al quale è preannunziata la perpetuità della discendenza davidica. Resta però un problema, quello che la Bibbia attribuisce a Natan: è veramente di lui oppure è una riflessione dei secoli seguenti attribuita a lui? Lasciamo aperto il problema. Notiamo soltanto che la profezia di Natan è ripresa nel Salmo 88. Un’altra parola si potrebbe dire per quello che tutta la tradizione biblica ha ritenuto come il prototipo dei profeti, cioè Elia. Di Elia e di Eliseo dopo, la Bibbia ci presenta un ciclo organico di racconti contenuti tra il primo e il secondo libro dei Re. Questi racconti sono legati in maniera di successione, ma ha ben analizzarli essi sono frutto di un lavoro redazionale e all’origine dovevano circolare indipendenti. Questi racconti hanno un carattere leggendario e mirano ad esaltare queste figure che dovettero restare vive nella tradizione. I racconti sono leggendari, la cornice dove sono inseriti è storica. Elia è presentato come lo strenuo difensore della vera religiosità Jawhista e si trovò a combattere, nel regno del Nord, in un momento in cui era molto viva l’idolatria introdotta dalla moglie fenicia certa Gedzabele, del re Acab (seconda metà del IX secolo). L’ultimo particolare su Elia è la famosa leggenda di Elia rapito su un carro. La riflessione rabbinica spiegò che era stato rapito perché Dio lo aveva preservato per preparare la venuta del messia (Cfr. Malachia 3,23). Il NT riferì l’attesa di Elia a Giovanni il Battista. Caratterizzazione dei profeti maggiori Fermiamo però l’attenzione sui profeti classici o i profeti scrittori, quei profeti cioè che hanno scritto i loro oracoli. Prescindiamo da Daniele che non è un profeta, bensì un autore apocalittico, ma Daniele è un falso nome, perché Daniele è un personaggio della corte persiana (V secolo), ma il libro è scritto durante la persecuzione di Antioco IV Epifanie (giugno 168 – dicembre 165). I profeti scrittori compaiono soprattutto dal secolo VIII in poi. Nel secolo VIII abbiamo al nord: Amos e Osea, al sud: Isaia, e Michea. Amos, nel regno del nord, per la violenta denunzia contro le ingiustizie sociali, deve essere collocato prima della caduta di Samaria (722). Amos preannunzia in maniera violenta due castighi: l’esilio ma soprattutto la mancanza della parola di Dio. Osea negli oracoli è disordinato, sono mescolati oracoli di violenta denunzia, con oracoli di salvezza, altamente poetici. Il redattore li mise insieme, ma questa diversità di oracoli ci fa presupporre che Osea abbia profetato a cavallo della caduta di Samaria. Gli oracoli di giudizio prima, quelli di


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salvezza dopo. Tra gli oracoli di salvezza ricordiamo cap 2: «ecco la attirerò nel deserto e le parlerò al suo cuore». Osea è il primo profeta che si serve della metafora coniugale per caratterizzare il rapporto tra Dio sposo e il popolo sposa. Di Osea ricordiamo il capitolo 6: «venite torniamo al Sginore, Egli ci ha colpiti ed egli ci guarirà, ci ha feriti ed egli ci fascerà il primo e il secondo giorno e il terzo vivremo alla sua presenza». Questo oracolo è importante perché su di esso il NT formula la professione di fede: «è risorto il terzo giorno secondo le scritture». Infine di Osea abbiamo il canone del capitolo 14 che ci è rimasto in maniera unitaria ed è profondamente poetico. Isaia Profetizza nel regno del Sud L’impero Assiro

Dinastia di Giuda

Tiglat Pileser III (745-727)

Ozia (muore nel 740-739)

Salmanassar V (727/722-20)

Iotam (739/732)

Sargon II (722-20/714)

Acaz (732/727)

Sennacheriv (714 / inizi VII secolo)

Ezechia (727/699)

Assaradon

Poi il figlio Manasse

Assurpanipal (*) (*) Seguono poi Assaradon, Assurpanipal, con il quale l’impero Assiro arriva fino all’Egitto, ma poi va a decadere, nel 612 cade Ninive, nel 605 l’impero assiro crolla per sempre. Secondo 6,1, Isaia fu chiamato nell’anno della morte del re Ozia, la morte di Ozia deve essere collocata tra l’autunno del 740 e la primavera del 739. Distinguiamo in Isaia quattro periodi: 1) sotto Iotam (740/733-32); 2) sotto Acaz (733-32/727); 3) sotto Ezechia l’Emmanuele minorenne (727/714); 4) sotto Ezechia l’Emmanuele maggiorenne (714/699). 1)

primo periodo: è sulla linea di Amos. Propone una denunzia violenta delle ingiustizie sociali. In questo periodo sono importanti: a. la parabola della vigna (5,1-11); b. il carme di giudizio che inizia in 10,1-4 e continua nel capitolo 5: qualcuno dovette manomettere questo carme;

2)

secondo periodo: il re Acaz fu premuto per entrare nella lega anti-assira soprattutto da Samaria (regno del nord) e Damasco. I due re per aggirare la resistenza di Acaz decisero di muovere guerra contro di lui e deporlo per avere un re ligio ai propri piani.


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Mettendo insieme il secondo libro dei Re e gli accenni di Isaia ricostruiamo nel seguente modo: Acaz in maniera del tutto servile implorò l’aiuto della Assiria, aiuto richiesto con abbondanza di doni. Qui emerge il contrasto tra Isaia ed Acaz. Acaz ritenne di doversi alleare con l’Assiria, Isaia contesta: lui non teme né allearsi con l’Assiria, né temere i due re, ma soltanto avere fiducia in Dio che ha predisposto un momento passeggero di punizione. Isaia qui rivela la sua mentalità Jawhista, secondo cui Dio è il Signore della storia ed anche l’Assiria è in mano sua, deve soltanto non fare niente ed avere fiducia in Dio tanto più che non riusciranno a deporlo perché lui è sul trono garantito da Dio mediante il giuramento a Davide. Dal punto di vista militare i due re, di Samaria e Damasco, sono più forti, ma dal punto di vista più profondo, è più forte di lui perché è garantito da Dio. Acaz è titubante perché ha fatto i suoi passi con l’Assiria, ma il profeta per ridurlo a fidarsi di Dio gli propone di chiedere un segno. Acaz titubante non lo vuole chiedere perché ha paura della Assiria, ma il profeta stesso glielo dà con le famose parole: «ecco la giovane donna è incinta e sta per partorire un figlio che sarà chiamato “Emmanuele”». Il senso del segno è il seguente: la giovane donna è probabilmente la moglie del ventenne Acaz, il fatto che è in uno stato di avanzata gravidanza indica che nei piani di Dio, sul trono di Davide, non siederà un usurpatore, ma il figlio di Acaz, discendente davidico. Isaia si ricollega alla profezia di Natan (il senso verginale emergerà nella versione greca: «ecco la vergine, concepirà e partorirà un figlio»). Il testo di Isaia, attraverso la versione greca dei LXX è preparato ad esprimere il mistero neotestamentario della concezione verginale di Gesù (o di Maria). L’epilogo fu tragico, siamo nel 733-32, e Isaia chiamerà il re di Samaria e Damasco, due “tizzoni fumanti”: Damasco diventerà tizzone fumante nel 730, Samaria diventerà tizzone fumante nel 720. Acaz dovette pagare pesantemente l’intervento assiro, fu ridotto a vassallo assiro e dovette pagare un pesante tributo. 3)

Nel 727 muore Acaz e sale al trono l’Emmanuele Ezechia a cinque anni, regnò per mezzo di un reggente, il quale dovette essere persona prudente e noi per il tempo di Ezechia minorenne non abbiamo nulla,

4)

il problema comincia quando Ezechia diventa maggiorenne. Decide di liberarsi dalla Assiria, prima da giovane inesperto si lascia istigare da Babilonia e dall’Egitto, che gli chiederanno aiuto, ma poi lo lasceranno sono in un secondo momento. Ezechia, prende l’iniziativa e si fa acriticamente promotore di una ribellione contro l’Assiria. Qui noi abbiamo diversi interventi di Isaia, che ancora una volta propone, come salvezza la fiducia in Dio. Il profeta contesta qualsiasi alleanza, ma soltanto la fede in Dio: «Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, chi crede in lui sarà salvo». Il profeta rimprovera Ezechia per le alleanze con l’Egitto, dirà nel capitolo 30: «siete scesi in Egitto senza consultarMi, accumulando peccato su peccato, ma la protezione del fa-


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raone sarà vostra vergogna». Ezechia si ribella. L’Assiria viene ed assedia Gerusalemme, i legati del re assiro esortano alla resa per quattro motivi: i.

non siete in grado di resistere al grande re assiro;

ii.

non potete confidare nell’Egitto perché è come una canna spezzata, chi la prende si taglia le mani;

iii.

se fate pace con me mangerete i frutti della vostra campagna;

iv.

non potete confidare nel vostro Dio perché sono stati sottomessi idoli più importanti dei popoli.

Il re assiro pronunzia una bestemmia e qui Isaia cambia opinione su di lui, se prima lo considerava uno strumento di punizione, ora pronunzia una minaccia contro di lui. Qui noi abbiamo i due carmi contro l’Assiria del capitolo 10 e del capitolo 37. In seguito alla bestemmia, il re Assiro, ormai non è più strumento di Dio, siamo nel 700, Sennacheriv ha già assediato Gerusalemme, la città sta quasi per capitolare, Ezechia si mette in preghiera, preghiera rimastaci nel salmo 79 o nel salmo 43. Improvvisamente il re Assiro toglie l’assedio e il popolo si dà alla pazza gioia. Isaia è fortemente amareggiato, è deluso, frustrato, non è riuscito a portare al Signore il suo popolo, tuttavia la sua fede è grande: esce dalla storia deluso umanamente, ma inneggiando al Santo di Israele: «Santo è il Signore delle schiere, la sua gloria riempie la terra». Ma il Santo di Israele ha apprezzato l’opera di Isaia, e lo premia rivelandogli un futuro a lunghissima scadenza, nel disegno di Dio c’è: 1-

(9,1-5) la cessazione del tempo di oppressione, la liberazione, e la nascita di un principe di pace;

2-

(11,1-9) sotto il suo regno di sarà la pace, descritta con l’immagine dell’animale più forte che sa convivere con il più debole;

3-

(2,2-4) la pace tra i popoli perché tutti saranno orientati ed attirati dalla legge del Signore.

Geremia Il profeta stesso data la sua vocazione dall’anno XIII del re Giosia. L’anno XIII di Giosia corrisponde al 627. Distinguiamo il ministero di Geremia in due parti: 1) la prima parte va per 18 anni dal 627 al 609. In questi 18 anni il profeta profetò per le tribù del nord deportate 100 anni prima in terra di Assiria. Questo periodo è un periodo politicamente più tranquillo: l’Assiria è in decadenza, l’impero neobabilonese fondato nel 640 ancora non si è affermato sulla scena storica. Di questo primo periodo sappiamo ben poco del profeta e ci restano anche pochi oracoli. Certo fu il periodo più bello della sua vita e di esso se ne ricorderà in futuro nei momenti più tragici. Gli oracoli che ci restano di questo periodo


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sono: il capitolo 2 dove Dio rivolge un accorato rimprovero alle tribù deportate. Il capitolo 3 ha il cantico dove Dio annunzia che riprenderà la sua sposa nonostante che la legge dica il contrario. Ma soprattutto è importante il capitolo 31 dove probabilmente dal profeta stesso sono redatti diversi oracoli, all’origine autonomi, ma tutti riportati alla tematica iniziale: «in quel giorno Io sarò Dio per tutte le tribù di Israele ed essi saranno il mio popolo». Importantissimo è l’oracolo che annunzia la nuova alleanza (31,31-34), la cui caratteristica fondamentale è la legge scritta nel cuore. 2) Il secondo periodo comincia nel 609. Giugno 609 è ucciso Giosia dagli egiziani che vanno ad aiutare l’Assiria ormai decadente. Viene messo sul trono il secondogenito di Giosia, Ioacaz, ma il faraone tornando dalla Assiria, lo deporta in Egitto e mette sul trono il primogenito Ioiachim. Ricordiamo: a. 609, discorso nel tempio, dove il profeta annunzia la distruzione del tempio che gli procura una sentenza di morte, alla quale però riesce a salvarsi; b. 604, secondo discorso al tempio, che gli procura l’arresto, la flagellazione e per tutta la notte rimase chiuso in uno strumento di tortura. Questi discorsi di Geremia ci restano in due forme: in forma deuteronomista cioè i deuteronomisti rielaborarono i discorsi di Geremia, e in forma delle narrazioni di Baruc. Baruc ci offre diverse circostanze storiche: i. Discorso del 609, nella forma deuteronomista è nel capitolo 7, nella narrazione di Baruc, è nel capitolo 26; ii. Il discorso del 604 in forma deuteronomista è nel capitolo 25 ed in forma della narrazione di Baruc nel capitolo 19 fino a 20,2; In questi discorsi il profeta esortò soprattutto nel 604 alla conversione perché all’orizzonte si prospettava una minaccia: la venuta dei babilonesi. Il profeta fu perseguitato e siccome le sue minacce non si verificavano subito, fu anche deriso. Egli è circa quarantenne e ci permette di comprendere il suo animo attraverso le sue confessioni contenute tra i capitoli 11 e 20 dove arrivò a maledire il giorni in cui nacque: «perchè il grembo di mia madre non fu la mia tomba?». Ma la confessione più importante è nel capitolo 20, dove il profeta rimprovera Dio per averlo sedotto, e il profeta descrive il tormento del suo animo, si trova in un bivio: se parla si attira l’ostilità degli uomini, ma se non parla la parola di Dio gli brucia dentro di sé. il profeta supera questo momento e il frutto di tale superamento è il racconto della sua vocazione in cui lui prende coscienza che la vocazione è anteriore alla sua nascita e che lui intrinsecamente appartiene a Dio. Ricordiamo le parole: «prima che tu fossi concepito nel grembo ti ho conosciuto e prima che tu uscissi da tua madre ti ho santificato, ti ho costituito profeta per le nazioni». Il profeta aveva obiettato di non sapere parlare, cioè di non avere l’esperienza di parlare e di non avere, essendo giovane, l’autorità a parlare. Dio gli smonta le obiezioni, lui non dovrà parlare con le sue parole, ma con quelle che Dio gli mette sulla sua bocca. E dovrà presentarsi non per


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sua autorità, ma per quella di Dio. In parole povere, il profeta comprende di essere a totale servizio della Parola di Dio e Dio può mettere sulla sua bocca qualsiasi parola. Ma Dio non lo aveva ingannato, fin dalla vocazione gli aveva detto una parola che lui non aveva capito: «ti muoveranno guerra, ma non prevarranno perché io sono con te per liberarti». Tutto qui è l’essenza di Geremia, il resto è storia. Geremia continuò ad essere maltrattato soprattutto durante l’assedio di Gerusalemme è sorto alla resa e per questo fu ritenuto un disfattista, e incarcerato è gettato persino in una cisterna a fondo nel fango. Alla caduta di Gerusalemme, Geremia però fu ben trattato dai babilonesi per errore anche lui era stato smistato per essere deportato. Ma poi fu liberato ed i babilonesi gli proposero o di venire in Babilonia onorato, oppure di restare in Giudea. (Sedecia pagò moltissimo: uccisero i suoi figli e gli cavarono gli occhi). Geremia scelse la seconda cosa, i babilonesi, scelsero come capo dei rimasti un certo Godolia che alcuni facinorosi uccisero. Si temeva la ritorsione babilonese, questo gruppo volle scendere in Egitto, Geremia interrogato rispose di restare in patria e di confidare nella benevolenza dei babilonesi spiegando che la spada che volevano evitare li avrebbe raggiunti in Egitto. Geremia fu costretto a partire con loro. Siamo all’autunno del 586, qui perdiamo le tracce del profeta, ma forse Geremia dovette essere oggetto di riflessione e siamo convinti che il terzo e il quarto canto del servo di Jawhè di Isaia siano una spiritualizzazione della sua persona. Ezechiele Ezechiele profetizza in Babilonia, appartenendo ad una famiglia di sacerdoti deportata nella prima deportazione nel 597. Quattro anni dopo riceve la vocazione profetica. Nel primo periodo 593/586, per sette anni, ebbe il compito di censore (accusatore), in questi sette anni è contemporaneo di Geremia. Geremia a Gerusalemme ed Ezechiele in Babilonia. In questo primo periodo il profeta parla mediante azioni simboliche, ricordiamo soprattutto quelle dei capitoli 4 e 5: a)

il graffito della città (assedio);

b)

il pane con ogni rimasuglio (la carestia);

c)

i peli tagliati, bruciati, simbolo dei caduti o nell’incendio o uccisi.

Ezechiele perciò annunzia la caduta di Gerusalemme, l’altra azione simbolica è al capitolo 24 ed è la morte della moglie che annunzia l’abbattimento della delizia degli occhi al popolo (il tempio). In questo periodo è importante la rilettura della storia di Israele («quando nascesti nessuno ti recise l’ombelico»), con l’immagine di una bambina che divenuta donna è sposata da Dio (l’alleanza), ma che infatuata della sua bellezza si prostituisce con gli idoli. Il profeta sperimenta cinque mesi di paralisi fino all’arrivo di un’esule che annunzia la caduta di Gerusalemme (gennaio 585). Il profeta riprende a parlare, parlerà per 14 anni, ma non più come


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censore, bensì come “la sentinella” che deve vigilare su un popolo che Dio intende rinnovare. Sono importanti il capitolo 34, dove Dio polemizza contro i pastori, ha amarezza per le pecore che vanno errando e decide di farsi lui stesso pastore: «Io cercherò le mie pecore». Il capitolo 34 mette però insieme probabilmente due tradizioni di cui la seconda è l’annunzio di Davide pastore. Questo capitolo sta alla base di Giovanni 10 e delle parabole dei sinottici del pastore in cerca delle sue pecore. Ma soprattutto è importante il capitolo 36 costruito sulla falsa riga del capitolo 31 di Geremia. Geremia aveva: a) legge scritta nel cuore; b) remissione dei peccati; Ezechiele annunzia a) l’effusione di acqua viva, mediante la quale Dio purifica; b) non la legge scritta nel cuore, ma la sostituzione del cuore «vi darò un cuore nuovo». Ezechiele ha un problema: riportare il popolo in patria, ma Dio non può riportare così semplicemente il popolo perché se lo riporta e torna a peccare dovrà cacciarlo un’altra volta. Bisogna che Dio riporti in patria un popolo che non pecca. Proprio per questo motivo si annunzia la sostituzione del cuore che avverrà mediante lo Spirito: «porrò il mio Spirito dentro di voi». Così il popolo sarà pienamente osservante della legge di Dio e potrà dimorare nella propria terra. Questo oracolo, come quello di Geremia 31, è uno dei capisaldi del NT. È importante, è apertissima al NT la visione simbolica delle ossa aride del capitolo 37. Ossa aride riportate in vita mediante lo Spirito: «vieni o Spirito dai 4 venti…». Il profeta spiega che quelle ossa aride sono la casa di Israele che vanno piagnucolando e si lamentano che Dio ignora il loro destino, ma ecco il grande annunzio: «Io apro le vostre tombe, vi risuscito dai vostri sepolcri, o popolo mio». Si tratta ancora di una metafora, l’apertura delle tombe è simbolo della cessazione dell’esilio babilonese. Il NT riconoscerà che si è aperta una tomba in senso reale, e alla luce di Ezechiele deve essere letto quel particolare di Matteo che alla morte di Gesù molte tombe di aprirono e molti corpi di santi resuscitarono. Infine per concludere, sono importanti i capitoli 40-48, dove il profeta in maniera molto pedante descrive le misure del tempio, anche nei minimi particolari. Quella descrizione, come il codice sacerdotale, è una professione di fede e di speranza: «Dio farà tornare in patria e si potrà ricostruire il tempio». Per questo motivo non bisogna dimenticare le sue misure. Nell’ambito di questi capitoli è importante il capitolo 47: il fiume di acqua che sgorga dal lato orientale del tempio (Cfr. Gv. 19,33-34: «uno dei soldati gli aprì il costato e subito uscì sangue ed acqua»).


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3. CONFRONTO TRA LA TRADIZIONE SINOTTICA E GIOVANNI (STRUTTURA E CONTENUTI) Sia i Vangeli sinottici, sia il vangelo di Giovanni si riconducono, nonostante le loro differenze all’unica radice che è la tradizione evangelica nella Chiesa primitiva. Mentre Gesù predicò il regno, la chiesa apostolica annunziò la sua morte e la sua resurrezione. Non si tratta di un cambiamento, meno che mai, di un travisamento delle parole di Gesù, ma della convinzione profonda che il regno di Dio era instaurato ed iniziato dal suo mistero di morte e resurrezione. Si sa che l’evento della croce disorientò tutti e sembrava essere la smentita di Gesù di Nazareth, decantato messia, ma che non poteva essere tale dal momento che era morto in croce. E la sua morte, come appare dalle narrazioni evangeliche, dovette essere la grande vittoria di una fascia del giudaismo. Ma tutto viene capovolto nell’esperienza del risorto. Stabilito che quel Gesù che era apparso vivo e che era lo stesso Gesù morto in croce, si pose il primo e fondamentale problema. Perché ha patito? Perché è morto? La risposta a queste domande si poteva avere soltanto rileggendo le Scritture. Ovviamente le scritture hanno bisogno di essere anch’esse illuminate e si crea così una interagenza: gli eventi permettono di scoprire il senso profondo delle Scritture, le Scritture assurgono al ruolo di profezia e diventano linguaggio per esprimere quegli eventi, non nella loro materialità, ma nel loro profondo significato. Alla luce delle Scritture si capì che la morte di Gesù, ben lungi dall’essere la sua sconfitta, era invece la sua missione fondamentale. Per questo motivo, la prima cosa che bisognava narrare nella chiesa, prima ancora di altre opere come i miracoli, era appunto la passione. Se leggiamo la narrazione della passione ci accorgiamo che essa è farcita di linguaggio delle scritture, oppure se gli evangelisti riferiscono alcuni fatti e non altri, è perché in quei fatti che narrano vedono realizzate le Scritture. Così, la chiesa apostolica, annunzia la resurrezione e narra la passione. La resurrezione si può annunziare, ma non narrare perché essa rimane fondamentalmente un mistero nascosto in Dio. Il titolo della croce, riferito da tutti i vangeli, assume una connotazione messianica: sulla croce Gesù appare come il messia e lo scherno che travisa le parole del salmo 21: «Elohi, Elohi…» [costui chiama Elia], nella penna degli evangelisti concorre alla caratterizzazione messianica della croce. Benché la passione sia l’evento centrale, tuttavia Gesù non fece solo questo, ma nella sua attività, insegnò, narrò parabole, operò dei miracoli, e di queste cose la chiesa primitiva non poteva tacere. Riprese i miracoli, ma il fatto che essi sono narrati dopo la passione mostra che essi non sono invenzione della chiesa primitiva. Se fossero stati un’invenzione allora bisognava depennare la passione perché sono due realtà in sé stesse inconciliabili. Esse però si possono conciliare partendo dalla passione, e in questo caso, essi appaiono come il frutto della resurrezione di Gesù. Gesù operò i miracoli per mostrare che il regno di Dio era già arrivato (Isaia 35), la chiesa primitiva narrò i miracoli per


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mostrare in ambito catechetico l’opera del risorto nella chiesa. In altre parole, la chiesa primitiva non inventò i miracoli, ma li reinterpretò in chiave pasquale, ecclesiale, sacramentale: con essi la chiesa primitiva volle descrivere le opere che il risorto compie nella chiesa attraverso i sacramenti. In un primo tempo, queste narrazioni circolarono isolate ed oralmente, in seguito furono scritte e sembra che siano state raccolte in un libretto di cui poi si servirono gli evangelisti. La tradizione sinottica I vangeli ci attestano che nel suo insegnamento Gesù predilesse il linguaggio parabolico. Le parabole sono diverse: alcune comuni ai tre evangelisti (la parabola del seminatore, la parabola dei cattivi vignaioli), altre parabole sono comuni a due evangelisti, vedi per esempio la parabola del banchetto nuziale o la parabola dei due figli presentata in maniera embrionale da Matteo e sviluppata nella parabola del Figliol Prodigo di Luca; anche la parabola del Pastore in cerca della pecora. Altre parabole sono proprie di ciascun evangelista, proprie di Matteo per esempio sono: la parabola della zizzania, la parabola dei due debitori, la parabola delle dieci vergini, la parabola del tesoro nascosto in un campo o del mercante in cerca di perle preziose. Proprie di Luca sono la parabola del buon samaritano, del ricco epulone, dei servi chiamati a tutte le ore, del fariseo e pubblicano che pregano nel tempio, la parabola della donna che ha perduto una moneta. Marco, che dà poco spazio alle parabole non ne ha nessuna propria. Anche per le parabole si dovette tenere lo stesso criterio che per i miracoli; in un primo tempo dovettero essere narrate oralmente e isolatamente, in un secondo momento dovettero ricevere forma scritta e furono raccolte. Più complesso è il problema sui discorsi, dove emerge l’opera redazionale degli evangelisti o, della tradizione precedente. È chiaro che Gesù non tenne i discorsi così come sono riferiti, gli evangelisti dovettero redigere delle frasi, delle parole che ricordavano della predicazione terrena di Gesù. Comuni ai tre evangelisti sono il discorso missionario, il discorso escatologico, pur smembrato da Luca, Matteo ci riferisce il discorso della montagna a cui dedica ben tre capitoli (5-7) e poi il discorso ecclesiale del capitolo 18. Mentre però si formava questo materiale, si formava anche lo schema evangelico. Gli atti degli apostoli in diversi passaggi permetterebbero, anche in sommi capi, di delineare la storia della formazione del telaio evangelico. Soprattutto è importante il capitolo 10 degli atti degli apostoli, dove Pietro, nel contesto del discorso in casa del centurione Cornelio propone un annunzio che già offre un primo telaio evangelico.


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Questo telaio di Atti 10 comprende i seguenti punti: 1) la predicazione di Giovanni e l’inizio del ministero di Gesù dalla Galilea; 2) il ministero di Gesù in Galilea caratterizzato da attività miracolose; 3) gli eventi in Giudea; 4) la sua morte; 5) le apparizioni del Risorto. Questo schema sembra essere posteriore rispetto allo schema di Giovanni, ma anteriore a quello dei sinottici, ed infatti già divide il ministero di Gesù in due parti: Galilea prima e Giudea dopo. Prescindendo per il momento da Giovanni, lo schema di Atti 10 si evolve sino a formare lo schema pre-sinottico, cioè lo schema anteriore ai tre vangeli. Lo schema presinottico comprende i seguenti elementi: 1) la trilogia degli inizi: a. i racconti di Giovanni il Battista b. il battesimo di Gesù; c. le tentazioni Matteo conserva questi tre episodi, Marco che non ha le tre tentazioni fonde il terzo punto con il secondo e ne fa un solo racconto; Luca, tra il battesimo e le tentazioni, introduce la genealogia, facendo così quattro episodi. 2) Ministero in Galilea, la cui indole è gloriosa. Gesù opera miracoli, narra parabole, è osannato dalla folla. Questa parte, del ministero in Galilea, inizia dall’arresto di Giovanni il Battista e culmina nella professione di fede di Pietro. 3) Il cammino di Gesù verso Gerusalemme che parte dalla professione di fede di Pietro e culmina nell’ingresso a Gerusalemme. Questo cammino è scandito dalle tre predizioni della passione. Luca sviluppa di più questa parte del cammino e ne fa la parte centrale del suo vangelo. 4) Gli eventi in Giudea caratterizzati da due linee: a. l’aspetto giudiziario-escatologico; b. e la congiura contro Gesù. 5) La narrazione della passione che ha tre inizi: a. L’inizio più antico in cui concorda anche Giovanni, cioè la cattura; b. Un inizio più ampliato che è la preghiera al Getsemani; un inizio molto largo, che è la cena. 6) I racconti delle apparizioni del Risorto, che gravitano attorno a due punti fondamentali: a. Apparizione alle donne, con valore ecclesiale; b. a apparizione ai discepoli.


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Possiamo fare delle osservazioni a questo schema: anzitutto in questo schema non entra né l’infanzia, né la vita privata. I Vangeli dell’infanzia sono propri di Matteo e Luca. Essi sono dei tutto diversi e dietro le pieghe delle loro narrazione si nasconde la fisionomia del Risorto. La totale assenza di riferimenti a circa venticinque anni di vita nascosta rivela che la tradizione evangelica non intese fare nessuna biografia di Gesù, né, salvo errore, poteva farla: una biografia si fa di una persona che in terra è già passata, il risorto non è una persona passata, bensì un perennemente vivo nella Chiesa. Si aggiunge che il vero Gesù non è quello della vita terrena, bensì il risorto della chiesa. Per questo motivo la fede primitiva lasciò nel silenzio la vita nascosta e della vita pubblica riprese soltanto quello che poteva dare il senso dell’opera di Gesù nella chiesa. Concludiamo perciò che i vangeli che riprendono la precedente tradizione evangelica, non sono la biografia di Gesù, ma hanno due scopi: -

anzitutto descrivere quello che il risorto insegna ed opera nella chiesa,

-

inoltre delineare un cammino di coinvolgimento nel mistero di Gesù, da parte di colui che desidera mettersi alla sua sequela. Nello schema evangelico si può individuare uno schema di vita cristiana. Il cristiano che riceve

l’annunzio della chiesa (Giovanni il Battista) e viene battezzato, nel suo cammino sperimenta la tentazione a tornare indietro, ma se supera la tentazione intraprende un cammino di ascolto nella chiesa che lo porta alla professione di fede (la professione di fede di Pietro). Fatta la professione di fede intraprende un cammino di sequela che passa attraverso le tre predizioni della passione e inoltra nel mistero della passione dopo il quale si fa esperienza del risorto. I singoli evangelisti riprendono lo schema presinottico, ma non in maniera pedissequa: -

Matteo incentra la sua narrazione sui cinque discorsi fondamentali;

-

Marco divide il suo vangelo in due parti avendo come punto culmine la professione di fede e come punto di partenza la prima predizione della passione.

-

Luca, come abbiamo detto, sviluppa il corpo centrale del suo vangelo attorno al cammino di Gesù. Ma il terzo vangelo fa un tutt’uno con gli atti degli apostoli. Il terzo vangelo è il cammino del messia dalla Galilea a Gerusalemme, dove si manifesta, il cammino degli Atti e il cammino del vangelo da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra.


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Giovanni Giovanni in parte coincide, ma in parte diverge dalla tradizione sinottica. Coincide sia nello schema evangelico, sia anche in diversi contenuti. Lo schema giovanneo sembra essere più antico rispetto a quello dei vangeli sinottici, anche se il quarto evangelista scrive più tardi e rivela una teologia più elaborata rispetto a quella dei sinottici. Lo schema giovanneo comprende i seguenti punti: 1) la missione di Giovanni, visto però non come il precursore, bensì come il testimone; 2) attività pubblica di Gesù che si estende fino al capitolo 12. In questa parte Gesù agisce in pubblico, si incontra con diversi personaggi, opera miracoli, è attorniato dalla folla; 3) attività privata, dal capitolo 13 al capitolo 17, dove Gesù è soltanto coi 12; 4) la narrazione della passione; 5) i racconti post-pasquali. Dal punto di vista del materiale, Giovanni, in alcune parti concorda, in altre è completamente originale. Possiamo anzi dire che il 70 % dei racconti giovannei sono del tutto originali. Elenchiamo soltanto qualche episodio, proprio di Giovanni: -

le nozze a Cana;

-

l’incontro con Nicodemo;

-

l’incontro con la donna Samaritana;

-

lo sviluppo del Buon Pastore;

-

la Resurrezione di Lazzaro; Suoi propri sono i capitoli 13-17, anche se non mancano dei particolari che richiamano la tradizione sinottica. Nella narrazione della passione citiamo soltanto tre racconti propri:

-

processo davanti ad Anna;

-

la madre presso la Croce;

-

l’apertura del costato. Sembra che il punto di partenza del Vangelo di Giovanni sia l’episodio della apertura del costato, attorno ala quale si sviluppano tre cerchi concentrici: 1) la passione, letta all’inverso; 2) capitoli 13-17, la manifestazione e il coinvolgimento nella agape; 3) capitoli 1-12, dove Gesù compie le sue opere che esigono come risposta la fede.


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Notiamo che Giovanni omette completamente le parabole proponendo invece alcune metafore: -

il pane della vita (cap. 6);

-

la luce del mondo (cap. 8);

-

la porta delle pecore (cap. 4);

-

il buon pastore (cap. 5);

-

la resurrezione e la vita (capp. 11-25);

-

la via, la verità e la vita (cap. 14,6);

-

la vite ed i tralci.

Mentre però le parabole descrivono il regno di Dio, queste metafore riguardano la specifica persona di Gesù. Restando sul piano della divisione, nella prima parte (1-12) possiamo distinguere quattro sezioni: 1) prima sezione (1,1-2,11), sullo schema di tre giorni: a. la luce si manifesta (1,1-18); b. la luce raduna i discepoli (1,19-51) nei tre “l’indomani”; c. introduce al banchetto escatologico (nozze di Cana); 2) seconda sezione (da 2,11 fino al capitolo 4), su uno schema geografico: a. incontro con Nicodemo (Giudea); b. incontro con la samaritana (Samaria); c. guarigione del figlio di un funzionario regio (Cana in Galilea); 3) terza sezione (capp. 5-7), gravitante attorno a due feste: cap. 6 Pasqua e cap. 7 i tabernacoli; 4) quarta sezione (da 8,12 fino a tutto il cap. 12): la sezione della luce: a. si manifesta come “Io sono” (l’identità divina – capitolo 8); b. la luce illumina un cieco (cap. 9); c. si fa pastore (cap. 10); d. conduce alla vita (cap. 11); e. è glorificato (cap. 12). I capitoli 13-17 sono molto complessi, ma li riduciamo ad uno schema molto semplice: a - l’evento dell’agape (cap. 13); b - il coinvolgimento nell’agape (capp. 14-16); c - il termine del cammino: il Padre (cap. 17). Scendiamo ulteriormente nella prospettiva giovannea. Tutto il vangelo sembra essere costruito attorno alla storia della Parola, e il vangelo vorrebbe descrivere tutta la storia della Parola da Dio a Dio passando attraverso la storia degli uomini. Si direbbe che tutto il vangelo voglia descrivere la manifestazione della Parola in mezzo agli uomini per coinvolgere in sé gli uomini e condurli a Dio. si ca-


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pisce perché Giovanni inizi il suo vangelo parlando della preesistenza eterna della Parola che è intervenuta nella creazione, è diventata essa stessa uomo e vive la vicenda umana. Ciò spiega perché dopo avere usato abbondantemente il termine «logos» nel capitolo 1, Giovanni non lo userà mai più. Il Logos è Gesù di Nazareth, e Gesù di Nazareth è il Logos al punto che davanti ad Anna potrà dire: «Io ho parlato apertamente al mondo» e davanti ad Anna non ci sta il semplice Gesù di Nazareth, ma ci sta l’eterna Parola di Dio. Nel descrivere la storia della Parola, Giovanni ha presente Isaia 55,9-10, dove l’opera della Parola di Dio è paragonata all’opera della pioggia. In Isaia 55,9-10, abbiamo tre linee: 1. discendente (dal cielo agli uomini); 2. orizzontale (l’opera in mezzo agli uomini); 3. ascendente (il ritorno dagli uomini a Dio). Il cammino discendente è rimpolpato dalla prospettiva dei libri sapienziali, soprattutto Siracide 24. In Isaia l’opera della pioggia è descritta come un “far fruttificare la terra”. Ma Isaia non descrive l’opera della Parola, la descrive invece Giovanni. Il punto di partenza è l’evento dell’agape: Gesù ama in quanto il Padre lo ha amato, e il fatto che il Padre lo ha amato è un comando di amare ed un insegnamento come amare. Gesù ama e raggiunge gli uomini mediante il dono dello Spirito. L’amore di Gesù che si attua nel dono della sua vita raggiunge i discepoli (lavanda dei piedi) e li abilita a compiere un cammino nella via dell’amore vicendevole. I discepoli dovranno amarsi perché così ha fatto Gesù. Essi compiono, avendo ricevuto questo comando, ed essendo stati resi capaci, un cammino attraverso la strada dell’amore vicendevole. L’amore vicendevole è paragonato ad un cammino di esodo: «vi do un comandamento nuovo: che perseveriate nell’amore vicendevole come Io amai voi». L’iniziatore del cammino è Gesù; i discepoli debbono continuare in questo cammino. Il termine del cammino è Gesù «se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore»: l’amore vicendevole permette due cose: -

di giungere all’amore di Gesù

-

e di permanere in esso.

Però l’elemento simbolico dell’asciugatoio in 13,4 e la descrizione delle donne presso la croce indicano che attraverso l’amore vicendevole non si arriva direttamente a Gesù, ma si arriva alla chiesa, dove però c’è Gesù. A Gesù si arriva attraverso la chiesa. Ma Gesù è radicato nell’amore del Padre; raggiungendo perciò Gesù, attraverso Gesù i discepoli arrivano al Padre. E questo è il compimento dell’opera della Parola.


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Riassumendo: Gesù conduce al Padre coinvolgendo gli uomini nella sua agape, e li coinvolge manifestando l’agape e rendendo capaci gli uomini di compiere un cammino attraverso l’amore vicendevole che conduce a Lui. Questa sembra una originalissima rilettura dell’opera di Gesù di Nazareth ed è una prospettiva del tutto diversa dai Vangeli sinottici. La prospettiva dei vangeli sinottici è il tempo della chiesa nell’attesa che il Signore torni nella sua parusia. E questa è anche la prospettiva della Apocalisse. Il quarto vangelo sembra invece avere dinamica inversa: non la chiesa che cammina verso il Signore che torna, bensì la storia degli uomini che, dietro Gesù, sta compiendo un cammino verso il Padre. Se questa prospettiva è giusta si possono comprendere le parole di Gesù alla Maddalena: «cessa di toccarmi perché ancora non sono salito al Padre, ma vai dai miei fratelli ed annunzia loro: “salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». Il tempo della chiesa è un tempo di annunzio di un cammino che si sta verificando nella storia umana verso il Padre, al termine del quale saranno complete le mistiche nozze tra Cristo e la sua chiesa.


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4. L’EPISTOLARIO PAOLINO: SVILUPPO TEOLOGICO DEL PENSIERO DI PAOLO 1. Prima e seconda lettera ai Tessalonicesi Nella prima lettera ai tessalonicesi, Paolo non ha ancora sviluppato la sua tematica fondamentale che sarà nelle lettere ai romani ed ai Galati. Si avverte ancora il suo legame con la tradizione primitiva e in diversi punti risente della tradizione sinottica. Anzi si può stabilire un confronto tra i capitoli 4 e 5 e i discorsi escatologici dei vangeli sinottici. Ci deve essere stato un equivoco riguardante il tempo della venuta del Signore. La predicazione primitiva annunziava il suo ritorno, un ritorno imminente, ma questa imminenza doveva essere intesa più in senso qualitativo che non in senso cronologico. Il mondo greco non aveva le categorie apocalittiche ed avrebbe inteso il “presto” in senso cronologico. Donde due conseguenze: «smisero di lavorare» ed inoltre subentrò l’amarezza per quelli che man mano morivano senza potere assistere al ritorno del Signore. Il problema dei Tessalonicesi che smisero di lavorare si può scorgere anche nelle narrazioni evangeliche. Basti un solo esempio: la parabola dei talenti: sono lodati i servi che moltiplicano i talenti e condannato il servo che nascose il suo. La fede primitiva sottolineò che l’attesa del Signore era nell’operosità (Cfr. Luca 12,1: «siano i vostri fianchi cinti e le lucerne accese nelle vostre mani»). Paolo corregge sottolineando che la vita cristiana è una vita che si muove su tre dimensioni: a. l’opera della fede, b. il travaglio dell’agape, c. la costanza della speranza. Quanto poi alla sorte dei morti, Paolo parla della resurrezione. È incerto se lui per il modo come si esprime pensasse che alcuni sarebbero rimasti in vita al momento del ritorno. Ma in ogni caso la sorte è la stessa: tutti vivi e morti si và incontro al Signore che viene. Quanto poi al tempo della venuta, riprendendo la prospettiva della tradizione evangelica afferma che nessuno lo sa: «il Signore viene come un ladro». In questa immagine Paolo riprende la paraboletta evangelica: «se sapesse il padre di famiglia a che ora viene il ladro veglierebbe». Paolo però fa una precisazione: il ladro viene di notte e perciò questa venuta deve far paura soltanto a chi è nella notte. Ma il cristiano non è nella notte, bensì è «figlio del giorno e della luce avendo rivestito la corazza della fede e dell’agape e l’elmo della speranza della salvezza». Ma Paolo non dovette togliere ogni ansia con questa lettera e allora dovette riprendere il discorso nella seconda, anche perché alcuni con lo spauracchio di questa venuta incutevano paura. Paolo dichiara che prima della venuta del Signore deve verificarsi l’apostasia, e manifestarsi l’uomo dell’iniquità, l’avversario che si fa chiamare dio e siede persino nel suo tempio. È questo un linguaggio molto oscuro, Paolo non spiega di più, anzi interrompe i pensiero e dobbiamo lasciare il testo senza spiegazione. Si riprende soltanto il messaggio positivo che poi sarà quello che Paolo svilupperà, la vita cristiana fondata sulla fede, sull’agape e sulla speranza.


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2. Prima e seconda lettera ai Corinzi Le lettere ai Corinzi sono due, ma abbiamo la sensazione che siano state quattro, di cui la prima e la terza sarebbero perdute. Nella attuale seconda, Paolo soprattutto è impegnato a difendere la legittimità del suo ministero attaccato dai giudaizzanti. Nella attuale prima lettera, invece, Paolo tocca dei problemi riguardanti la comunità lasciando stare il problema più particolare dell’incestuoso o della verginità; l’aspetto fondamentale affrontato in quella lettera è quello dell’unità. Si sono create delle spaccature nella chiesa di Corinto, si sono formati dei gruppi che si riconoscono in questo o quel capo: «Dio di Apollo, Dio di Chefa, Dio di Paolo». Paolo esclama con molta meraviglia: «forse che Cristo è stato diviso?», ma il pensiero che l’apostolo sviluppa nei primi tre capitoli è il seguente: i corinzi sono divisi perché non accettano Cristo Crocifisso, che invece è il cuore dell’annunzio apostolico: «il crocifisso è scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» e non potrà mai accettarlo chi resta nella dimensione carnale, ma solo l’uomo spirituale, animato cioè dallo spirito, potrà accettarlo. Il tema dell’unità sarà ripreso ancora nei capitoli seguenti. Nel capitolo 11, Paolo denunzia le divisioni che si verificano dove non dovrebbero verificarsi, cioè nella cena del Signore. Probabilmente l’Eucarestia era legata ai banchetti ed ognuno cercava di aggiudicarsi le parti migliori: «forse non ne avete case per mangiare è bere?...». Un altro elemento di divisione possono essere i carismi che possono essere trasformati in motivo di vanto personale. Carisma vuol dire realtà concreta che viene donata. La diversità dei carismi è improntata sulla diversità e sull’unità della vita trinitaria. Diversi carismi ma uno solo è il Signore, la pluralità dei doni parte perciò dall’unico Spirito ed è orientata verso l’unità del corpo. Qui Paolo riprende il famoso apologo già presente nella letteratura latina: nel corpo tutte le membra sono necessarie e tutte sono orientate verso una unità. La differenza fa parte della ricchezza dello Spirito che distribuisce come vuole. E nella chiesa alcuni sono apostoli, altri sono profeti, maestri, ma Paolo nel capitolo seguente si apre al carisma più grande, parla cioè dell’agape. Appunto perché l’agape è presentata come carisma più grande, essa prima di tutto non è l’agape che io pratico, ma quella che ho ricevuto in dono. «La carità è paziente, è benigna, ecc…», sono tutte le caratteristiche del dono in sé stesso che però debbono poi realizzarsi nell’uomo che riceve questo dono massimo, che è dato a tutti e che è destinato a restare per sempre. Nel capitolo 15 Paolo riprende un aspetto importantissimo: «se Cristo non fosse Risorto la nostra fede sarebbe vana»; si vede che anche a Corinto c’era lo stesso problema che emerse all’Areopago di Atene: l’incomprensibilità nel mondo greco neoplatonico della resurrezione di Gesù. Per i neoplatonici la resurrezione poteva essere intesa come il ritorno dell’anima nel corpo, in realtà è il corpo che viene elevato alla gloria.


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3. Le lettere ai Romani ed ai Galati Queste lettere hanno radici molto lontane e si ricollegano al tema fondamentale del giudaismo, secondo il quale la legge è il massimo dono di Dio. Il problema è esposto nel capitolo 15 degli atti degli apostoli, dove si accetta la conversione dei pagani, ma si afferma che se non si fanno circoncidere alla maniera di Mosè non possono essere salvati. C’è alla base un equivoco: il giudaismo riteneva che il Messia fosse inferiore alla legge, la fede primitiva prende coscienza che invece il Messia è superiore alla legge e che solo in Lui si può avere la salvezza. D’altra parte si afferma che la legge non solo non salva, ma addirittura è fonte di peccato. Paolo parte dall’oracolo di Geremia, secondo il quale Dio avrebbe abrogato l’alleanza sinaitica ed avrebbe stipulato una nuova alleanza: la differenza fondamentale tra le due alleanze stava nel fatto che la legge sinaitica era scritta su tavole di Pietra, la legge della nuova alleanza è scritta nel cuore umano. Se Dio fa questo annunzio vuol dire che l’alleanza sinaitica non ha raggiunto il suo scopo, anzi, se si legge l’esodo, si constata che la legge sinaitica fu trasgredita fin dal suo stesso nascere: mentre Dio promulgava i comandamenti, il popolo giù si faceva l’idolo. Paolo conclude che la legge esterna non solo non evita il peccato, ma lo fomenta. Nasce la domanda: perché la legge esterna non evita il peccato, ma addirittura lo stimola? Paolo trova la risposta risalendo a Genesi; il racconto genesiaco spiega il dramma del comandamento dato all’uomo perché vivesse, ma che è diventato strumento del peccato personificato. Paolo interpreta il serpente genesiaco come il peccato personificato, che viene risvegliato dalla legge e che si serve della legge per stimolare al peccato facendo apparire bene quello che invece è male. E perciò per impedire che il peccato stimoli alla concupiscenza bisogna che sia tolta di mezzo la legge, perché la legge stimola il peccato ad agire e insieme essa viene strumentalizzata. La nuova alleanza però non prevedeva la eliminazione della legge, bensì l’interiorizzazione della legge, il passaggio cioè dalla legge esterna a quella interiore. Se la legge viene interiorizzata essa non potrà essere più occasione per il peccato ad agire. Ma qual è questa legge che può essere scritta nel cuore umano? Geremia non lo sapeva ancora ma la risposta, almeno parziale, si trova in Ezechiele che aveva preannunziato l’effusione dello Spirito nel cuore umano, e già Ezechiele apre la strada verso un nuovo tipo di legge che non è più una norma, bensì una Persona, dirà Paolo che quanti sono guidati dallo Spirito, costoro sono i figli di Dio. La legge nuova nel cuore umano sarebbe allora lo Spirito, ma Paolo nella lettera ai Romani, và ancora oltre: la legge nuova non è nemmeno lo Spirito, bensì lo stesso Amore di Dio che si è manifestato nel mistero della Croce di Cristo e che ha raggiunto il cuore umano mediante lo Spirito Santo. Perciò Paolo può scrivere in 8,2: «la legge dello Spirito della vita (cioè la legge che è lo Spirito in quanto riversa l’amore di Dio nel cuore umano) ha liberato dalla legge esterna che è fonte di peccato e di morte». Ma il mediatore della nuova alleanza è Cristo e perciò soltanto nella fede in Lui ci si coinvolge in essa. Ma che cos’è l’amore di Dio che diventa legge interiore? L’amore di Dio non è astratto, ma è quello


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che si è manifestato in Cristo. Perciò la legge nuova è Cristo stesso in quanto manifesta l’amore di Dio; si capisce la prospettiva mistica del cristiano in Romani 6: «quanti siete stati battezzati in Cristo siete stati battezzati cioè coinvolti ed orientati verso la sua morte». Si capisce allora perché Paolo insista sulla necessità della fede in Cristo: Cristo è il mediatore della Nuova alleanza ed infatti i primi 8 capitoli della lettera sembrano essere costruiti sullo schema della nuova alleanza. La nuova alleanza aveva due punti fondamentali: la legge scritta nel cuore e la remissione dei peccati. Paolo nei primi quattro capitoli mostra la totale situazione di peccato, i pagani peccatori ed i giudei peccatori e perciò tutti bisognosi della giustificazione gratuita del sangue di Cristo nel quale si ottiene la remissione dei peccati. Nei capitoli 5-8 Paolo poi sottolineerà la legge interiore, l’amore di Dio, non è casuale infatti che questa parte è inclusa tra due menzioni dell’amore di Dio: -

5,5 l’amore di Dio effuso nei nostri cuori

-

e 8,35 chi ci potrà separare dall’amore di Dio in Cristo.

1. Capitoli 1-4: la liberazione dal peccato a. Il peccato dei pagani in tre stadi: i. non conoscenza di Dio; ii. che ha portato all’idolatria, iii. e di conseguenza, ad ogni sorta di vizio b. Il peccato dei giudei: i. avendo la legge non l’hanno osservata c. tutti peccatori e perciò tutti bisognosi dell’opera di Gesù d. mediante la fede (esempio di Abramo). 2. Capitoli 5-8: la vita secondo lo Spirito a. (5,1-11) l’amore di Dio effuso nei nostri cuori b. Liberazione dal peccato (cap. 5) c. Liberazione dalla morte (cap. 6) d. Liberazione dalla legge (cap. 7) e. La vita secondo lo Spirito che si estende fino alla resurrezione del corpo e fino alla redenzione cosmica (cap. 8)


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4. La lettera ai Colossesi La lettera ai Colossesi è eminentemente cristocentrica e Paolo deve affermare la centralità di Cristo contro errori che circolavano al suo tempo. Soprattutto ricordiamo due punti fondamentali: 1) (1,15-20) l’universale signoria di Cristo sulla chiesa e sulla creazione; 2) (3,1-4) il mistero di Cristo paradigma della vita cristiana: «se siete risorti con Cristo cercate le cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio. Siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio e quando Lui apparirà anche voi apparirete con Lui nella gloria». 5. La lettera agli Efesini È piuttosto ecclesiale, non però nel senso istituzionale, quanto piuttosto nel senso del suo mistero profondo. È il mistero nascosto nei secoli è quello di ricondurre tutte le cose ad un solo capo che è Cristo. E nello sfondo di tale ricapitolazione universale rientra anche la vocazione dei pagani che non sono più stranieri ed ospiti, ma famigliari di Dio e concittadini dei santi. Tutto il progetto della Chiesa costruita sul fondamento degli apostoli e avendo come pietra angolare Cristo, si colloca nello sfondo di un mistero più grande che è quello dell’amore di Dio. Paolo stabilisce tre momenti di questo amore di Dio: 1. anzitutto le sue fondamenta nell’eternità: «benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale in Cristo, così come ci ha scelti prima della fondazione del mondo per essere santi ed immacolati nell’amore». Nell’eternità di Dio perciò c’è un binomio: amore di Dio – Cristo. Né amore di Dio senza Cristo, né Cristo senza amore di Dio. questo binomio è la causa della benedizione che si radica anch’essa nell’eternità e che diventa vocazione a realizzare un disegno che si compirà nella fase escatologica, cioè essere santi ed immacolati al suo cospetto. 2. l’amore di Dio interviene anche dopo il peccato (Efesini 2): «eravamo per natura figli dell’ira, ma Dio ricco di misericordia per il grande amore con cui ci ha amati, da morti che eravamo, ci ha fatti rivivere in Cristo». 3. Nello sfondo perciò dell’amore di Dio si pone il mistero della chiesa che troverà il suo compimento alla fine dei tempi. «mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la chiesa ed ha dato sé stesso per lei per vedersela comparire questa chiesa senza macchia e senza ruga». Paolo si sta ispirando a Genesi 2 quando Dio formò la donna e la portò all’uomo. Alla luce di Efesini si può concepire la storia umana come una progressiva purificazione fino a quando la chiesa non si presenterà davanti a Cristo santa ed immacolata.


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6. La lettera agli Ebrei Non è una lettera, ma è probabilmente un discorso oratorio, e non è nemmeno di Paolo, ma probabilmente di un suo discepolo che però deduce la sua prospettiva dalle premesse paoline. Le premesse paoline sono nella lettera agli Efesini, ma soprattutto in Romani 3,21 dove Paolo, non senza allusione alla liturgia dell’espiazione, in 3,21 scrive: «giustificati gratis, mediante la sua grazia, per mezzo della redenzione che abbiamo in Cristo e che Dio ha costituito pubblico luogo di espiazione» (allusione a Levitico 16). L’autore della lettera agli ebrei deduce che Cristo è sacerdote. Il ruolo sacerdotale di Gesù è iscritto in tutto il suo cammino che parte dalla preesistenza e culmina nella glorificazione pasquale. Dalla preesistenza alla glorificazione pasquale, Gesù compie un cammino sacerdotale. L’autore poi scende più specificamente nel mistero di Gesù, un sacerdote deve appartenere al mondo umano ma deve andare a Dio. Nei capitoli 1-2 l’autore descrive l’appartenenza di Gesù al mondo umano ed infatti «non disdegna di chiamare gli uomini suoi fratelli avendo condiviso con loro la stessa carne e lo stesso sangue». Ma Gesù appartiene anche al mondo divino perché ha raggiunto Dio ed è stato costituito davanti a Dio, Figlio, Dio e Signore: Gesù perciò è un uomo che ha raggiunto Dio. Saltando il capitolo 4, il mistero del sacerdote Gesù, è soprattutto descritto nei capitoli 7-10. Il suo sacerdozio si contrappone al sacerdozio levitico ed è in sintonia con il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek. L’autore prende come modello antitetico l’opera sacerdotale del sacerdote levitico, cioè il massimo sacrificio che era quello dell’espiazione. Il sacerdote levitico pretendeva di espiare i peccati del popolo, ma difatti non espiava niente. Nel rito levitico c’erano tanti difetti riguardanti il luogo, il sacrificio, il sacerdote: Il luogo era il tempio sontuosissimo, ma Dio non abita in quel tempio, Dio dimora in cielo, perciò quando il sacerdote entrava ogni anno nel santuario e pensava di andare a Dio, a Dio difatti non andava. I difetti della vittima erano nel fatto che erano animali e Dio più volte rivelò la sua ripugnanza per quei sacrifici (Cfr. Salmo 39). Perciò i sacrifici di animali non corrispondevano alla volontà di Dio ed è impossibile che il sangue di animali purifichi le coscienze. Il difetto del sacerdote era duplice. Anzitutto era mortale perché limitato dalla morte e la morte è un abisso invalicabile tra l’uomo e Dio. C’è bisogno perciò di un sacerdote che non muore. Il secondo difetto era che il sacerdote era anche lui peccatore ed è impossibile che un peccatore faccia l’espiazione perché ha prima bisogno lui di purificarsi dal peccato. C’era bisogno di un sacerdote senza peccato.


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Che difatti il sacerdozio levitico non andava a Dio, e perciò non espiava nulla, emerge da tre fatti: 1. dopo aver fatto l’espiazione il sacerdote usciva dal santuario. Ciò è assurdo: un uomo, un sacerdote, che arriva veramente a Dio, da Dio non torna; 2. il sacrificio di espiazione si ripeteva ogni anno: ciò era rarissimo per gli ebrei, ma era una ripetizione fino alla nausea perché si ripeteva ogni anno: un sacrificio che ottiene realmente la remissione dei peccati l’ha ottenuta una volta per sempre e perciò il sacrificio non si ripete; 3. il levitico prescriveva che il sacerdote quando faceva l’espiazione era solo, non ci doveva essere nessuno e dopo il rito, il santuario rimane chiuso. Ciò è assurdo: un sacerdote che arriva veramente a Dio apre al popolo la strada a Dio, ma se il popolo dal santuario è escluso vuol dire che il sacerdote non ha raggiunto Dio. Cristo invece: 1. è l’uomo senza peccato; 2. offre un sacrificio graditissimo a Dio che corrisponde pienamente alla sua volontà. Qui si riprende la prospettiva sinottica “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” della morte di Gesù per obbedienza; 3. appunto perché graditissimo a Dio, il sacrificio di Gesù genera resurrezione: Dio riconosce in Gesù il sacrificio da Lui voluto, lo chiama (5,6 = resurrezione), e lo autorizza con le mani piene del suo sacrificio di entrare nel santuario di Dio, cioè il cielo; 4. giunto a Dio, secondo la fede pasquale, Gesù siede alla destra di Dio (Salmo 110,1) e Dio lo proclama sacerdote (salmo 110,4) secondo l’ordine di Melchisedek. Chi era Melchisedek? È menzionato due sole volte nell’AT: Salmo 110 e Genesi 14,18-20. L’autore istituisce una esegesi su genesi. Alla luce di Genesi il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek è senza padre (incarnazione), senza madre (glorificazione pasquale), senza genealogia (eternità). Riassumiamo: Melchisedek storicamente è una figura molto evanescente, ma all’autore della lettera agli Ebrei, non importa il Melchisedek storico, bensì il Melchisedek letterario, cioè così come la Bibbia lo descrive e nel modo come la Bibbia lo descrive, il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek ha due caratteristiche: 1) è confermato da giuramento («il Signore ha giurato e non si pente»); 2) l’eternità («Tu sei sacerdote per sempre»).


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Conseguenze: 1) Cristo oggi vive esercitando in cielo un’opera di perenne intercessione. È impossibile che Dio in Cristo non rimetta i peccati: Cristo è il garante del perdono di Dio; 2) C’è la conseguenza per noi che possiamo ormai esercitare un ruolo sacerdotale. Tale ruolo sacerdotale è descritto in Ebrei 10,19 e ss.: «avendo noi: i. la libera facoltà di accedere al Santuario ii. avendo la strada nuova e vivente, attraverso il velo iii. avendo il sacerdote 1. accediamo in pienezza di fede 2. …speranza… 3. …carità». Il sacerdote oggi è colui che: -

è capace di offrire un sacrificio. E il sacrificio cristiano è quello di Cristo al quale il cristiano unisce il suo (III anafora e II anafora della riconciliazione);

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con le mani piene di quel sacrificio, il cristiano può accedere a Dio e la via a Dio è aperta.


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II – Area dommatica

5. L’ORIGINE DELLA FEDE NEL RISORTO PRIMA NARRAZIONE CRISTOLOGICA 1Cor 15,3-5. E’ tra i più antichi brani che conosciamo. Gli esegeti lo fanno risalire agli inizi degli anni 40. Non è un brano paolino ma è un pezzo del Kerigma cristiano. Paolo usa questo brano in maniera strumentale poiché a Corinto ci sono alcuni che negano la risurrezione di Gesù. Però noi possiamo astrarre da questo uso che ne fa Paolo. Ci limitiamo ai vv.3-5 perché ci sono coloro che estendono il racconto fino al v.7. In ogni caso Paolo allunga il racconto primitivo aggiungendo la sua esperienza. Il racconto è un racconto prolungabile, non è un racconto finito. Si ha quindi un’unità narrativa (quella di Paolo) che ingloba quella pre esistente per formare un tutt’uno (racconto allungato). E’ un racconto aperto che ingloba un nucleo originario contrassegnato dalla tradizione degli apostoli. 1. Trasmissione di ciò che ha ricevuto. 2. Morte di Gesù. «Cristo morì per i nostri peccati secondo le scritture». Questo passo qualifica l' evento della morte. 3. «Fu sepolto». Questo passo vuole sottolineare la novità della morte anche se certuni lo intendono come un passo apologetico derivante dalle varie tradizioni del sepolcro vuoto. 4. «È resuscitato... il terzo giorno secondo le Scritture». Questo passo qualifica il fatto che il sepolcro vuoto sia stato scoperto il terzo giorno e che le Scritture dicono che Gesù Cristo sia risorto il terzo giorno. 5. «Apparve a Cefa». Si nota una catena di eventi omogenei che usano lo stesso verbo

.

6. Stranezza dell' apparizione a Paolo. Paolo era colui che perseguitava i cristiani. Tale aspetto qualifica la domanda sulla omogeneità in maniera nuova. Se Gesù non appare soltanto dei discepoli, ma pare anche un estraneo, per di più ad un nemico; allora ciò che viene sottolineato non sono tanti i destinatari quanto la grazia, il dono che viene loro fatto. 7. «Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto». Dentro questi punti c' è il racconto; questo racconto vivente lo consideriamo non per la bravura di colui che racconta ma per la grazia di Dio che ci dà la capacità di raccontare il Cristo risorto. Pertanto bisogna cogliere di un racconto la trama, il nesso e non sono le parti. Qual è l’evento decisivo che condiziona la trama del racconto? E’ un racconto che mette l’accento sulla grazia che uno come Paolo l’ha ricevuta. Perché Paolo può continuare il racconto? L’evento decisivo non è la risurrezione ma l’apparizione. Ciò che permette a uno di raccontare è il potere di raccontare. Ciò che costituisce un narratore non è la risurrezione ma la manifestazione a lui del risorto. Il racconto è al tempo stesso fonte di legittimazione del narratore. La trama è data dalla confi-


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gurazione di alcuni eventi attorno all’evento della risurrezione. Il racconto si racconta perché il racconto stesso continui. La domanda è: qual è il tema del racconto? Se l’evento decisivo è l’apparizione e il soggetto è Dio allora il tema è Dio cioè è ciò che Dio ha operato in Gesù Cristo. La prima narrazione cristologica è una narrazione trinitaria che implica una relazione tra Dio e Gesù. Principalmente è una narrazione sul Padre e non sul figlio. Qui appare la normatività del racconto. Se questo è il racconto più antico traiamo alcune considerazioni: 1. Gesù non è raccontato da solo. Il racconto più antico di Cristo ingloba anche i cristiani. Il racconto di Gesù Cristo è anche un racconto sui cristiani. E’ un racconto non solo sul narrato ma anche sul narratore. Gesù Cristo può essere raccontato solo testimoniandolo. Per cui racconto e testimonianza non sono separabili. Il fatto bruto è proprio di Gesù ma non il suo significato. Cristo è morto per i nostri peccati. Allora non soltanto il racconto nella sua globalità è testimonianza ma il narrato stesso in tanto viene raccontato in quanto ha un significato per me. Racconto qualcosa che mi coinvolge. Il racconto intriga dice P.Ricoeur. De nostra de agitur: Gesù è morto per i nostri peccati. In un certo momento può sembrare irrilevante un elemento che invece non lo è in un momento successivo. Il racconto del credo apostolico omette fatti importantissimi. Nel credo-niceno costantinopolitano non c’è traccia dell’apparizione a Cefa. Cambia il significato anche se è lo stesso il tema. 2. Il Gesù narrato è narrato come un evento portato da un evento più alto che è Dio. A questa narrazione è legata la fede della Chiesa, allora il racconto è normativo. Il senso (il senso è la rilevanza che ha per me) è diverso dal tema. La pluralità della narrazione dipende da tanti fattori. Il racconto viene fatto per allargare il contesto pragmatico. Cosa rende normativo il racconto? Qual’ è la normatività che presiede all’atto del raccontare. In che misura condiziona l’ascoltatore? Rm 1,3-4. E’ inserita in un contesto che è il più banale, quello dei saluti alla comunità di Roma. Paolo si presenta come il prescelto da Dio per annunciare il Vangelo riguardante il figlio suo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne”. Questo trova dei paralleli (1Tm3,16) in altri passi che hanno formule simili. In 2Tm 2,8 dove si dice: «Gesù Cristo della stirpe di Davide è risuscitato dai morti». Tuttavia è estraneo a Paolo il motivo della discendenza davidica. Questa è una strana narrazione perché non si parla di morte. Si può avere una narrazione di Gesù senza la morte? Qui si ha! Il fatto della morte non viene incluso. Questo è un fatto che per Paolo è inaudito però Paolo cita tale brano. Si parla di spirito di santificazione e non di spirito di santità. Si riferisce a oristeèntos. Il soggetto del racconto è lo spirito di Dio che ha costituito con potenza Gesù come figlio di Dio. Qui bisogna distinguere l’espressione “figlio di Dio” nel senso di Messia e nel senso di figlio adottato. “Costituito figlio di Dio” nel NT significa intronizzato-resuscitato. Una cristologia così ascendente non può che essere na-


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ta in ambiente palestinese. Questa narrazione viene incastonata nel saluto che Paolo rivolge ai cristiani di Roma in prevalenza giudeo-cristiani. Questa narrazione doveva essere molto in voga. Per cui Paolo cita la loro professione di fede che secondo il professore è più antica della 1Cor15. Come produzione della prima comunità dei credenti non possiamo risalire oltre questo passo. 1. Il tema di cui si parla è sempre il Padre, lo Spirito, ect. E’ sempre colui che regge l’azione. Tutto è al passivo per cui si dice: “è stato costituito figlio di Dio”. In Rm1 manca l’anello dell’apparizione. Resta il fatto che è il Padre che regge tutto. 2. Una cristologia ascendente dall’uomo all’esaltato (al Dio). 3. Abbiamo la centralità del passaggio della risurrezione. Il contesto in cui le formule sono nate è un contesto ecclesiale. Queste narrazioni hanno degli elementi in comune: una funzione di fondazione e di identificazione del gruppo. Paolo narra Gesù in questo modo allontanandosi dalla sua cristologia personale. Lui relativizza la sua teologia a partire da queste formule. Paolo interviene ma spiega per l’interesse della comunità credente, la formula. Accanto a questi elementi dobbiamo citare i discorsi degli Atti degli apostoli. In queste prime prediche c’è inclusa una narrazione cristologica. Vedi At2,22-24 e At10,37-43. Dal cap.2 estraiamo solo la narrazione cristologica.


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At 2,22-24 22Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth - uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua (non c’è nessuno accenno alla vita di Gesù prima della morte), come voi ben sapete - ,23dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato (la responsabilità dei Giudei è ripartita con il potere dei romani)a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. 24Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. (In questo racconto la testimonianza che Gesù sia apparso ai discepoli emerge dopo la testimonianza delle scritture). At 10,37-43 37Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni (nel primo racconto non c’è accenno al battesimo); 38cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth (qui il battesimo di Gesù acquisisce una dignità particolare), il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo (nel primo racconto non si accenna al potere del diavolo), perché Dio era con lui. 39 E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero (qui è assente la mediazione romana) appendendolo (Gesù non è stato inchiodato ma appeso. Però questa è una motivazione molto debole. L’importante è che Gesù fu ucciso) a una croce (non si parla di croce ma di legno), 40 ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, 41 non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti (c’è la testimonianza della vita terrena e del Cristo risorto e c’è anche il contenuto della vita di Gesù durante i quaranta giorni). 42E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. 43 Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome”.

L’elemento più importante è il destinatario. Davanti a un destinatario romano scompaiono degli elementi (patì sotto Ponzio Pilato). Invece dinnanzi al destinatario giudaico è diverso. Il destinatario fa il racconto. Questo è importante ai fini di un rifacimento della narrazione oggi. Non esiste un racconto avulso dal destinatario. Qui il problema dell’ermeneutica della narrazione diventa complicato. Oggi nessuno si permette di pubblicare un testo sulla cristologia del NT al singolare. Noi oggi ci rendiamo conto meglio del passato della pluralità dei racconti. Il NT fonda l’unità della chiesa o la pluralità delle chiese? (vuole essere una domanda provocatoria). Oggi dovremmo avere la stessa unità tra le varie chiese che ci testimoniano il NT. Questo significherebbe perdere tante proprie sicurezze.


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6. IL DIVENIRE DELLA CRISTOLOGIA CLASSICA,

DAL GIUDEO-CRISTIANESIMO FINO AL CONCILIO COSTANTINOPOLITANO III GIUDEO - CRISTIANESIMO E’ un concetto coniato dai moderni, categoria che presso gli storici abbraccia fenomeni complessi. Tre accezioni: • Sono la prima generazione cristiana di origine giudaica. Questi primi cristiani travasarono nelle nuove comunità tutto il retaggio antico testamentario. Questo concetto di giudeo-cristianesimo non va oltre l’evidente. Conflitto tra i pagano-cristiani e i giudeo-cristiani. Che ne è se l’unicità di Gesù viene interpretata rigorosamente dentro l’orizzonte giudaico? Cosa accade? Gesù non è preesistente ma è un uomo come noi che Dio ha eletto e poi ha esaltato. • Per la storiografia francese (Danielou) è giudeo-cristiano tutto ciò che si riferisce all’AT. Ma questo è limitato. Questi giudei scrivono agli apostoli il cui capo è Giacomo, per discutere le loro convinzioni cioè che Gesù è il profeta previsto da Mosé. Questi cristiani pongono problemi. Loro sono portati ad escludere alcuni libri che altri cristiani accettano (vedi gli scritti di Paolo) e vogliono che anche gli altri li escludano1.

1 La quinta similitudine contiene la cristologia adozianista meglio delineata nella letteratura della Chiesa antica. La similitudine racconta di un pastore che ha piantato una vigna. Alla sua partenza egli la affida ad uno schiavo fedelissimo. Al ritorno del pastore, lo schiavo ha fatto di più di quanto gli era stato ingiunto. Il padrone, dopo essersi consigliato con il figlio e con i consiglieri, decide di adottare lo schiavo come coerede del figlio suo (Sim. v,2,2-II : GCS 48,53 s.). Più avanti la: similitudine viene spiegata. Il Signore è Dio creatore; il suo podere è la terra; la vigna è il popolo di Dio. «Il figlio è lo Spirito santo, e lo schiavo è il figlio di Dio» (Sim. v,5,2-3 : GCS 48,56). Il lavoro dello schiavo nella vigna del popolo consiste in questo: egli la circonda con un muro di difesa, cioè colloca angeli alla sua difesa, purifica il popolo dai peccati e gli da i comandamenti del Padre suo (Sim. v,6,2-3 : GCS 48,5 7). Infine l' adozione dello schiavo: «Dio ha fatto abitare nella carne che gli ha scelto lo Spirito santo, che esisteva prima e che ha creato l' intera creazione. Orarla carne in cui lo Spirito santo abitava servì bene allo Spirito...; dopo che essa ebbe vissuto bene e con purezza e si affaticò e collaborò in tutto con lo Spirito... Dio la scelse come socia dello Spirito. Infatti il comportamento di questa carne gli piacque, per il fatto che; essa non aveva contaminato lo Spirito che possedeva sulla terra. Egli dunque tenne consiglio con il figlio e con gli angeli gloriosi affinché la carne ricevesse una dimora e non le mancasse la ricompensa per il suo servizio; infatti ogni carne che è immacolata e pura, e nella quale abita lo Spirito santo, sarà premiata» {Sim. v,6,4-7 : GCS 48,57). La carne è inequivocabilmente l' uomo Gesù. Lo Spirito santo che qui viene presentato come Figlio di Dio mostra i tratti della sapienza preesistente. Come ricompensa per il suo servizio l' uomo Gesù riceve la partecipazione alla dignità di questo Figlio; ed Erma pensa alla risurrezione e alla glorificazione. Qui Erma è più arcaico che gli altri testi giudeocristiani che possediamo; Gesù infatti viene elevato a figlio non già nel suo battesimo, bensì nella sua risurrezione. Durante la sua vita terrena Gesù non sembra ancora essere Figlio di Dio; ma come ricompensa per il suo operato viene accolto come Figlio. Questo adozianismo viene rafforzato ancora dalla frase conclusiva: là infatti Gesù sembra posto sulla stessa linea degli altri uomini. E tuttavia è necessario procedere con circospezione. L' antitesi posteriore tra figliolanza adottiva e figliolanza trascendente non sembra probabile che si possa obiettare qui. Di fatto il testo ci ammonisce contro conclusioni affrettate in tale direzione. Gesù anche qui fin da principio evidentemente non è un uomo comune, bensì l' eletto in cui abita in modo speciale lo Spirito. Inoltre le opere salvifiche dello Spirito e dello schiavo difficilmente si possono distinguere, bensì si riversano le une nelle altre in un modo singolare. Il Figlio che dispone gli angeli, purifica il popolo dai peccati e proclama la legge, è tanto lo Spirito preesistente quanto anche l' uomo Gesù. Relativamente alle opere salvifiche c' è la tendenza a vedere l' uomo Gesù e lo Spirito come un unico soggetto, un unico salvatore. Speciale attenzione merita in fine il titolo «Figlio di Dio». Qui è una designazione dell' uomo Gesù: «lo schiavo è il Figlio di Dio». Ma nell' allegoria lo Spirito preesistente viene presentato come il «Figlio»; e questo nome è già diventato talmente espressione di dignità divina, che Erma è tormentato dalla seguente questione: «perché il Figlio di Dio vive nella condizione di uno schiavo?» {Sim. V,5 GCS 48). Qui si impone una questione alla quale non viene data risposta nemmeno negli studi più recenti su Erma. Nella predicazione più antica alla quale risale questo giudeo-cristianesimo, «Figlio di Dio» è inequivocabilmente designazione dell' uomo Gesù. Ora la espressione sembra essere diventata anche designazione dello Spirito preesistente. Questo spostamento di significato sarebbe pensabile se in questo stesso giudeo-cristianesimo non ci fosse stata una fase in cui l' uomo Gesù non fosse stato identificato con questo Spirito? Si può rischiare la conclusione che Erma presupponga una certa identificazione dell' uomo Gesù con lo Spirito santo preesistente. Per spiegare questa identificazione egli si serve dello schema dell' adozione. Ma questo schema scompone ciò che era presupposto. Gesù porta il nome e prende parte alla dignità di un essere divino con il quale egli forma un' unità nella sua opera e nel suo rapporto con Dio. La cristologia adozionista di Erma sembra essere piuttosto un brano di una teologia privata che l' intatta eredità di un' antica tradizione.


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Quali gli elementi che emergono della narrazione cristologica nel racconto di Erma? • Il Padre che sta dietro tutta la vicenda del Figlio. • Il soggetto protagonista è Gesù. • Lo schiavo diventa coerede. • Non c’è narrazione cristologica senza la comunità. La via seguita da Cristo è il fondamento della via seguita dai cristiani. Qui c’è certamente una fortissima cristologia ascendente. Il padrone si scelse tra gli schiavi il più amato (l’elezione del Padre). Questa è una cristologia alla quale non siamo abituati. Altro testo: il dialogo con Trifone. Giustino porta questo ebreo ad affermare che Gesù è il Cristo. Trifone dice che i giudeo-cristiani credono in Gesù Messia e credono alla legge mosaica e si salveranno se non imporranno questo agli altri cristiani. Per elezione è stato unto; tutti noi aspettiamo il Cristo che deve venire uomo tra gli uomini. Qui abbiamo due cose: • È presente un grosso dibattito• Giustino non è d’accordo con i giudeo-cristiani. I giudei-cristiani hanno una comunione discussa con la chiesa. Dopo il 180 Ireneo scrive il trattato contro le eresie, le posizioni sono diverse. Alla fine del II secolo sono fuori dalla chiesa. Perché avviene questo? La risposta è incerta. Si può dire che la chiesa nel II sec. Si episcopalizza. Si cerca in tanti modi di impedire la frantumazione della vita ecclesiale per cui i giudeo-cristiani hanno ragione di sussistere (oggi sono 600 mila)2. 1. Nicea Nicea non parla dell’umanità di Gesù ma parla della sua divinità. Tuttavia essa interferisce perché a Nicea si afferma uno schema che sarà determinante per tutta la cristologia successiva. Il grande oppositore di Nicea era Ario che faceva valeva lo schema . Lo schema: 1. homo assunptus 2. (schema alessandrino). Il verbo, e non Dio, si è fatto carne. Questo schema sottolinea l’unità della persona di Gesù. 3. Dio uomo (schema antiocheno). Ha dei vantaggi perché si parla di un uomo Gesù. Si vuole sottolineare l’umanità di Gesù. Come intendere l’unità tra il verbo Dio e l’uomo? Qui però nascono delle difficoltà. Nicea combatte Ario il quale afferma la non piena divinità del Verbo. Se il Verbo ha avuto sete allora non è pienamente Dio perché Dio non può avere sete. Si vuole affermare la (l’unione). Gesù è veramente uomo e Dio, Cristo è uno solo. Nello schema ariano il verbo era una divinità di secondo grado che si univa alla umanità (non era pienamente Dio ne pienamente uomo). Ad Alessandria ciò che veniva usato era lo schema . Ma se il Verbo ha avuto sete allora non era completamente Dio. Cosa voleva dire Verbo e cosa Carne? Occorreva chiarire la dimensione di ognuno di questi termini. Nello schema ariano era una dimensione di secondo piano che si univa all’umano. Quando Giustino inserisce il e lo identifica con il ellenista cerca di dare spiegazione del logos cristiano. Il rischio è quello di un Dio diminuito. Nello schema esasperato del , per salvare la dignità dell’incarnazione, il logos doveva essere completamente santo. Come avveniva questo? Avveniva perché il logos assumeva la funzione dell’ . 1. 2. 3.

o

è il composto di questi tre elementi. Per gli stoici lo spirito era la scintilla dell’uomo laddove Dio si comunicava agli uomini. Il logos quando assumeva la carne azzerava il e assumeva in Gesù la funzione del . L’anima umana per Cristo era il . L’antropologia biblica è tripartita. L’unione come era immaginata? Ario sbagliava perché negava la piena divinità del logos e i padri alessandrini erano in imbarazzo perché vedevano questa un po’ diminuita. Vedevano in una umanità perfetta un attentato all’unità. Come può il verbo farsi carne se era unico? Se la era comandata dal , allora se doveva esserci unità 2

Misterium salutis, vol.V, Pag. 493-597.


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tra e Verbo come si concepiva questa unità? Gli alessandrini la giustificavano azzerando l’ . Il Verbo, quindi, per loro aveva assunto la carne senza anima umana. , (unica natura del verbo incarnato). I presupposti di Nicea si vedono in due autori descritti dallo Smoulders: 1. Il problema di concepire l’unità del Cristo nasceva una volta che il cristianesimo si impiantava in una cultura dove era inevitabile spiegare il Cristo. Come dire: Gesù viene da Dio che è uomo e ci salva? Come immaginare Gesù? Allora Tertulliano escogita il linguaggio della sostanza. In Gesù ci sono due sostanze: una divina che lui chiama spirito e una che chiama sostanza corporale. Ma cos’è la sostanza? Non è intesa dal punto di vista aristotelico ma quando lui applica la categoria di sostanza a Gesù vuole indicare l’origine di Gesù. Tuttavia Tertulliano era molto attento a non fare di Gesù una lega metallica. L’unità delle due sostanze è una “mistio” che esclude mutamenti in Dio. Dio non muta o meglio Dio può mutarsi rimanendo se stesso. Tertulliano è un secolo prima di Atanasio. T. crea per l’occidente latino il concetto della sostanza che in greco è . Sub-stantia A Nicea i padri confondono e . I greci come facevano? Dovevano immaginare un unico Gesù vero Dio e vero uomo. Ma cos’è? Come concepire tutto questo? All’inizio si usavano termini che dopo un po’ risultavano essere inadeguati. Quindi serviva riformulare i concetti metafisici fondamentali. Queste due sostanze che si uniscono come fanno a fare unità se sono due sostanze? Tertulliano a un certo punto crea il concetto di una persona anche se non si sa come intendeva il termine persona. Cosa si intendeva per ? 2. Origene. Tutti avevano paura di lui. Qual’era la cosmologia di Gesù Cristo in Origene? Come mi salva? Qualsiasi azione di salvezza presuppone che ci sia qualcuno che voglia essere salvato. Qual’è quel limite che ha bisogno di essere salvato? Questo presuppone di sapere ciò che è bene e ciò che è male. Cos’è l’uomo? E’ un’anima decaduta. Origine immaginava la creazione eterna delle anime. Dio mediante il verbo crea le anime spirituali compresa quella del Verbo. Tuttavia le anime peccano non aderendo più a Dio tranne una, l’anima del Verbo che è l’unica ad aderire a Dio. Le anime decadute hanno bisogno di tornare all’unità con Dio. Allora quando il Verbo diventa uomo, unisce a sé l’anima umana e la carne. L’anima di Gesù fa da mediatrice tra la Parola e la carne. L’uomo assunto non è un altro dalla Parola, essi non sono due, bensì una realtà composta, un’unità reale. Origene pone la questione se Gesù abbia avuto un anima umana, e risponde che il Figlio di Dio assunse un uomo completo perché non sarebbe stato redenta l’umanità se egli non avesse assunto l’intero uomo. In cosa consiste la funzione dell’ ? Potrebbe chiarire meglio la differenza tra i termini: (sostanza, mentre nella discussione trinitaria significa persona cosa che non era chiaro a Nicea perché confondeva con ), e . Tertuttiano nel De carne Christi, traduce il concetto di sostanza per distinguere Dio e l’uomo in Gesù Cristo(1°). Il Cristo divino non è nessun altro che l’uomo Gesù. Nell’unico Gesù Cristo egli distingue due sostanze, la divina e la corporale. Gesù è nato da un Padre divino e più tardi da una madre umana. Quale Figlio di Dio, Gesù partecipa alla sostanza spirituale del Padre suo e, quale Figlio di Maria alla sostanza umana. T. era attento a non fare di Gesù una lega metallica ricavata dalla fusione di due metalli. Per T. è importante che figliolanza divina e nascita da Maria sono prova della divinità e dell’umanità di Gesù. Per Origine è determinante che all’inizio c’è la creazione di tutte le anime che preesistono. Queste anime hanno peccato tranne una che era destinata ad essere quella di Gesù Cristo. Il Verbo quando si incarna, si incarna in un uomo già animato. Quello che è importante è che il Verbo si unisce alla carne mediante l’anima; significa principio di movimento, colui che muove le fila. L’unità in Origine non è pensata a noi in maniera chiara. Per Origine il fatto di agire non è susseguente all’essere. Non esiste una natura prima di agire. Ciò che caratterizza l’uomo è la sua presa di posizione libera verso Dio. In Origine c’è la preesistenza dell’animo umano e del Verbo, La sottolineatura della realtà dell’incarnazione è un unico soggetto grazie alla libera adesione dell’animo umano di Cristo al Verbo. Cosa fa l’unione? Il Verbo si unisce alla carne priva dell’anima (1^ possibilità). Quest’umanità aderisce perfettamente al verbo con il suo . Questa sarebbe la grazia unionis. Il Verbo le dà la grazia di questa adesione e l’anima agisce pienamente al Verbo (l’obiezione è che sia un unione morale non ontologica).


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2. Inizio storico della disputa All’inizio non si discute sul Gesù storico. Tutti i Padri inizialmente sono subordinazionisti cioè che Gesù sia sottomesso al Padre (prima di Nicea). Le dispute vere e proprie iniziano del 268 nel sinodo di Antiochia. Avviene quando ancora l’impero non era cristiano. Paolo di Samosata viene accusato di essere adozionista. Ha lo schema dell’uomo assumptus, schema ebionita. Contro di lui insorge Ireneo il quale si serve di un presbitero: Maschione. Dal suo discorso possiamo costruire la posizione ortodossa in nome della quale fa condannare Paolo. In Gesù la parola divina è ciò che è in noi l’anima. L’unità dell’uomo Dio diventa un’unità statica dell’essere. Sia in Tertulliano come in Origene e quindi in Maschione accade che è al fondo l’accento basato sulla posizione statica di Gesù. Cosa abbia fatto o predicano non è importante per spiegare chi è veramente Gesù. Nicea fu un concilio convocato dall’imperatore e per la prima volta convergono tutti i vescovi della cristianità il cui numero ammonta a 318 (Gn 14,14). Si va da un minimo di 194 a un massimo di 250 e via dicendo. Quando non presiedeva Costantino presiedeva Osso di Cordoba. Roma mandò due presbiteri. Questo è un concilio che rappresenta la chiesa intera. E’ il primo concilio ecumenico. L’ecumenico è l’imperatore. Nel palazzo imperiale si svolge il concilio. A pagare è l’imperatore perché chi paga condiziona. Nicea prende posizione su Ario. Can.20. Almeno la domenica state in piedi perché lo stare in piedi si adatta di più alla messa. Credo di Nicea: Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente,artefice di tutte le cose visibili e invisibili, e in un solo Gesù Cristo, il Figlio di Dio,generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza (dall’essenza) del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto,consustanziale al Padre (della stessa essenza del Padre) per mezzo del quale tutte le cose furono originate, quelle nel cielo e quelle nella terra, egli per noi uomini e per la nostra salvezza discese e si incarnò, divenne uomo, patì e risuscitò il terzo giorno (e) salì nei cieli, viene a giudicare i vivi e i morti (DS 125).

Confusione di linguaggio: equivale a . Questo accade perché la disputa cristologica non è sentita come una disputa che riguarda l’umanità di Gesù. A Nicea per la divinità di Gesù non è necessaria la distinzione tra e . Cosa aggiunse Nicea? • “Figlio di Dio nato dal Padre cioè dall’essenza del Padre”. Qui abbiamo l’opposto di ciò che diceva Ario. Il concilio si è servito delle categorie per dire qualcosa di radicale. Il figlio appartiene alla sfera di Dio e non alla sfera delle creature. Tutte le categorie usate sono funzionali per far capire questo. Si usa anche oo . • “Dio vero da Dio vero” • “Generato non creato”. Si nota la chiara condanna ad Ario. Il credo di Nicea in questa formula non sostituì i vari credi delle chiese della cristianità. Per i 40 anni successivi la chiesa si dividerà e si unirà attorno al simbolo niceno. Adottando lo schema il problema era come avveniva l’unione. Distinguiamo due filoni: Eustazio e Atanasio. Atanasio verrà indurito da Apollinare. Eustazio sarà della scuola antiochena. Eustazio, vescovo di Antiochia. E. è un deciso difensore di Nicea ma rifiuta lo schema . Ha una sua interpretazione del prologo giovanneo (eschènosen è l’abitare nella tenda): nell’uomo Gesù visse il Verbo (principio dell’inabitazione). Gesù era un uomo portatore di Dio la cui anima viveva una simbiosi con il Verbo. Questo seguiva lo schema o dove l’uomo era portatore di Dio. Atanasio preferiva lo schema . Lui interpretava Gv 1,14 identificando il farsi uomo con il farsi carne. Il soggetto degli affetti era la carne. A. non parla mai dell’anima di Gesù e mentre attribuisce le espressioni bibliche dell’umiliazioni alla carne, le azioni di potenza sono attribuite al Verbo. Dove l’unità della persona? Il logos è il principio dell’ . Apollinare di Laodicea (315-392). In lui si nota il problema cristologico. Contro gli adozionisti sottolinea l’unità divino-umano. Enumera delle formule del tipo: , , (la natura unica incarnata del Dio Verbo). è ciò che cresce. Si voleva difendere l’unità del verbo incarnato e l’unità della natura divina. Il redentore è il modello esemplare dell’uomo redento. Il Dio incarnato è quello che opera la mia divinizzazione. Si accentua l’opera di Dio. I valori principali sono ad es. lo scomparire di Dio. Questo modello comanda la lettura dell’incarnazione. Apollinare nega l’ umano, il . Verrà condannato nel Costantinopolitano I. In Apollinare c’era una esegesi di Gv 4,24. Se Dio è spirito c’è identificazione tra spirito di Dio e umano. Il divino si unisce all’anima e al corpo. A. non nega l’anima ma il (principio autonomo). Se adoriamo in spirito e verità, ciò vuol dire che Dio in noi subentra


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come principio. L’umanità di Gesù non può essere una realtà perfetta. L’unione non è una mistio ma una . L’unità del Verbo avviene mediante una crasis che dà origine a un nuovo essere. La tradizione antiochena pensa all’interno dello schema o . Nestorio pensa all’interno dello stesso schema ma è condannato. Cosi vale anche per lo schema dove abbiamo eterodossi e ortodossi. Gli Apollinari non negano la psiche ma il . Il problema del o dell’anima è al livello dell’ . Apollinare confessa che l’uomo Dio non è uno e un altro, non è figlio per natura (uno) e figlio per grazia (altro) bensì uno e identico. L’errore di A. consiste nella negazione dell’anima umana di Gesù cioè il vous, sede della libertà e della volontà. Se il nostro redentore avesse avuto una libertà umana, la redenzione sarebbe stata minacciata dalla volubilità. La Parola che si è fatta carne non ha assunto un umano ma un divino, immutabile. Cristo non è un uomo come noi. 3. I Padri Cappadoci Gregorio di Nazianzo Nella Trinità c’è un altro e un altro ( e non ), nella Trinità abbiamo tre persone in un unica . Nell’incarnazione c’è la natura divina e la natura umana ( e non ), abbiamo una persona e due nature. E’ una formula assolutamente chiara. Nella Trinità si dà , mentre nella cristologia si danno due sostanze diverse: la divinità e l’umanità: . Si concepisce in Gesù Cristo l’unione3 tra l’ dell’umanità e l’ della divinità. Come avviene questa unione perché ci sia un unico soggetto? 4. Scuola Antiochena Diodoro di Tarso (+394) Avrà come discepoli Teodoro di Mopsuestia, Flaviano di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro, Nestorio, Giovanni di Antiochia. Fondatore della tradizione esegetica di Antiochia, nel 378 diviene vescovo di Tarso di Cilicia. Dà origine a una forte corrente di pensiero. Mentre ad Alessandria si preferisce interpretare la Scrittura allegoricamente, gli esegeti antiocheni si orientano in senso storico-tipologico (ciò che accade è un anticipo; es. nel sacrificio di Isacco imperfettamente si prefigura un avvenimento più importante che è il sacrificio della croce cioè il sacrificio di Isacco va più a fondo venendo ripresentato in Gesù Cristo che non è risparmiato da Dio). Gli antiocheni danno più importanza alla natura umana di Gesù. Invece dell’unità sottolineata dalla scuola alessandrina qui si sottolinea la differenza che ciò che è finito non è capace dell’infinito, della divinità. Concepivano l’unità non sul piano ontico ma sul piano etico-personale. Questo modo di concepire le cose era riflesso di una altra spiritualità, quella della pietà orientata al realismo biblico. Mentre il duofisismo contrassegnava la spiritualità antiochena, il monofisismo contrassegnava l’atteggiamento alessandrino. Diodoro sostiene (in Gesù c’è il Verbo e l’uomo e Maria ha generato non il ma Cristo, il ). Questo avviene secondo il modello dell’inabitazione, Gesù è la dimora del Verbo. Teodoro di Mopsusestia entrò in polemica verso il docetismo, l’arianesimo e l’apollinarismo (umanità di Gesù senza cioè anima). Perché dobbiamo essere salvati? Gesù diventa il primogenito della nuova creazione. L’accento è giocato sulla rottura dell’obbedienza e il ristabilire l’obbedienza. L’umanità di Gesù è necessaria per ristabilire l’obbedienza a Dio. Come è che Gesù e il Verbo sono un solo Dio? Noi secondo Teodoro adoriamo una sola divinità, Teodoro formula la teoria della duplice consustanzialità. Il Figlio è consustanziale al Padre secondo la divinità e consustanziale all’uomo secondo l’umanità. E’ l’ che viene assunto dal Verbo. La radice del peccato non sta nella carne ma nella libertà. Se il Verbo si sostituisce all’ allora la libertà di Gesù non è salvata. L’incarnazione è descritta attraverso l’inabitazione. Il Logos ha assunto la natura umana e da ciò è nata l’unità di un soggetto che Teodoro chiama . Per Teodoro ci sono due (due sostanze) e un (una persona). Il è l’essere davanti agli altri, l’unità visibile, 3 In ambiente greco era necessario ripensare la persona di Gesù. Alla fine del II secolo si sente il criterio di formulare una regola di fede che consiste nel leggere gli scritti su Gesù. Successivamente verranno formulati nelle singole comunità, un simbolo di fede. Si stabiliscono dei rapporti e man mano assume una fisionomia distinta in base alla propria cultura. C’è un dinamismo della narrazione cristologica nelle varie comunità. Man mano sorgono concezioni nuove che sorgono da ciò che è stato recepito e dalle domande che vengono poste dai fedeli. Il fatto che tutti i cristiani si riconoscevano tali è che si conosce Dio attraverso Gesù di Nazarethh. L’apologetica consisteva nel ritenere che questo Gesù era quello che parlava a Platone, ect. Quindi andava mostrato che le Scritture dell’AT trovavano compimento in Gesù.


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come gli altri vedevano il Verbo fatto uomo. Il è inerente a ogni quindi ci dovrebbero essere due , ma Teodoro dice che esiste la persona unitatis, noi adoriamo l’unità di Dio. L’unità dove avviene? Avviene nella natura o nella persona? Teodoro diceva che avviene nella persona. Cos’è la . Dopo Calcedonia è soltanto l’actus esistendi, ciò che fa esistere ma per i Cappadoci o antiocheni era il principio di individuazione della . L’essenza è ciò che è comune, non è individuata mentre l’ è il principio di individuazione della natura. Se si dice che l’ è il principio di individuazione della natura allora la natura umana non può esistere senza . Dopo Calcedonia cambierà il concetto di che significherà il modo di esistere. L’unione non avviene tra le nature ma il Verbo ( ) si sostituisce al principio che fa essere la natura umana. L’ semplicemente è l’atto di esistere. IL DIBATTITO SULL’UNITÀ DI CRISTO: NESTORIO E CIRILLO Nel V secolo ha inizio la 1^ fase della disputa. Scoppia la disputa tra Nestorio e Cirillo di Antiochia. Nestorio diventato vescovo propose di sviluppare una polemica antiariana. Sotto l’influsso della scuola antiochena comincia a predicare il senso del mistero cristologico. Parlerà di Maria come modello . Il funzionario Eusebio lo accusa della stessa accusa inflitta a Paolo di Samosata. Cirillo invia delle lettere. Il concilio di Efeso si limita a dire che la lettera di Nestorio inviata a Cirillo non è ortodossa mentre la 4^ lettera di Cirillo è considerata ortodossa. Cirillo raccoglie la documentazione comprese le lettere di Nestorio e le invia al papa Celestino. Nestorio fa appello a Giuliano e ad altri Pelagiani. Nel sinodo romano del 430 si condanna Nestorio e papa Celestino autorizza Cirillo ad agire contro Nestorio. 1. Il concilio di Efeso (431) Nel sinodo dell’Egitto (novembre 430) Cirillo scrive all’imperatore i 12 anatematismi. Teodosio II convoca un concilio nel 431 a Efeso. Cirillo arriva ad Efeso prima degli antiocheni. Arrivano circa 150 vescovi. Assenti gli amici di Nestorio fa condannare Nestorio. Arrivano gli orientali e si ritrovano con la condanna e la scomunica di Nestorio. Si arriva a uno scisma tra gli occidentali e Cirillo e gli orientali dall’altra parte. Una cinquantina di vescovi antiocheni dichiararono nulle le decisioni delle precedenti sedute e deposero Cirillo e gli altri vescovi. Il concilio di Efeso antiocheno elabora una confessione di fede e viene presentata all’imperatore il quale fa incarcerare Cirillo Pennone e Nestorio. La prima fase si chiude con una spaccatura completa. Cirillo vuole arrivare a un compromesso che giunge ad una formula di unione firmata da Giovanni di Antiochia e dallo stesso Cirillo. Così si ricompone la pace. Qual è il testo normativo del concilio di Efeso? Non è chiaro. La conclusione vera del concilio avviene 2 anni dopo nel 433 quando la professione di fede di Giovanni è accolta da Cirillo. 2. Le due nature in Cristo Formula di unione tra Cirillo d’Alessandria e i vescovi della chiesa d’Antiochia, primavera del 433 Esporremo brevemente ciò che pensiamo e affermiamo della Vergine madre di Dio e dell' incarnazione dell' unigenito Figlio di Dio non per aggiungere qualche cosa ma per confermarvi la dottrina che fin dall' inizio abbiamo appresa dalle sacre scritture e dai santi padri, non aggiungendo assolutamente nulla alla fede esposta dai padri a Nicea. Come infatti abbiamo premesso, essa sufficiente alla conoscenza della fede e a respingere ogni eresia. E parliamo non con la presunzione di comprendere ciò che è inaccessibile, ma riconoscendo la nostra debolezza e opponendoci a coloro che ci assalgono quando consideriamo le verità che sono al di sopra dell' uomo. Confessiamo dunque il signore nostro Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, perfetto Dio e perfetto uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, nato, per noi e per la nostra salvezza, alla fine dei tempi dalla vergine Maria secondo l' umanità, consostanziale al Padre secondo la divinità, e consostanziale a noi secondo l'umanità. Avvenne infatti l' unione delle due nature e perciò noi confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore. Secondo questo concetto di unione inconfusa, noi confessiamo la Vergine santa Madre di Dio, essendosi il Verbo di Dio incarnato e fatto uomo, ed avendo unito a sé fin dallo stesso concepimento il tempio assunto da essa. Quanto alle affermazioni evangeliche ed apostoliche che riguardano il Signore, sappiamo che i teologi alcune le hanno considerate comuni a un' unica persona, altre le hanno distinte come riferite alle due nature: quelle degne di Dio alla divinità del Cristo, quelle più umili alla sua umanità. (DS 271-273)

Gli antiocheni non usavano lo schema per cui la traduzione italiana “incarnazione” è sbagliata in quanto dovrebbe essere inumanationis ( : secondo la natura umana). I concili non aggiungono una nuova professione di fede ma interpretano il concilio di Nicea. Non si vuole aggiungere nulla a Nicea


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ma la formula ortodossa è l’esplicitazione di Nicea. Nel DS 272 si aggiunge la formula tipica antiochena. Avviene l’unione nelle due nature. Secondo questo concetto di unione inconfusa si confessa che Maria è vergine e Madre di Dio. Qui si accettano i due schemi: e o . Lo schema degli alessandrini deve equivalere allo schema antiocheno. Il Verbo si unisce nel tempio assunto da esso. Appare qui lo schema antiocheno cioè il modello della inabitazione. Cirillo qui fa sacrifici enormi per la pace nella chiesa; lui accetta un’altra teologia che non era la sua. Il titolo di Maria come Madre di Dio. Questo garantiva l’unità del Verbo incarnato. Il Verbo assume il tempio generato da Maria. Dire “Maria Madre di Dio” significa che il soggetto dell’incarnazione era il Verbo. Cirillo concede lo schema dell’inabitazione però è precisato che è il Verbo che assume la natura umana. Se la natura è concepita come ciò che muove se stessa allora è il principio di se stessa ma se le operazioni non appartengono alla natura ma al soggetto che chiamiamo “Io” ci chiediamo: chi ha operato, chi ha pianto? Di chi sono le azioni? Fin quando non si decide questa questione tutto rimane nella confusione. Il problema si risolve con la comunicatio idiomatum4. 3. Lettera di Cirillo a Giovanni d'Antiochia sulla pace Dopo la lettura di queste sante parole, trovandoci in perfetta comunione di pensiero {un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo), abbiamo glorificato Dio salvatore di tutti gli uomini e ci siamo a vicenda rallegrati perché le nostre e le vostre chiese hanno una fede conforme alle sacre Scritture e alla tradizione dei santi padri. Poiché ho saputo che alcune persone mi criticano con un ronzare fastidioso come quello delle vespe e vomitano contro di me maligni discorsi come se io dicessi che il santo corpo di Cristo è stato partorito dal ciclo e non dalla santa Vergine, ho pensato di dover dire loro a questo proposito qualche cosa. O insensati e maestri nella calunnia, come siete arrivati a pensare questo e come mai siete afflitti da tanta stoltezza? Era necessario, si era proprio necessario avere l' intelligenza di capire che tutta questa battaglia per la fede si è levata contro di noi perché abbiamo confermato che la santa Vergine è madre di Dio. Ma se noi dicessimo che il corpo di Cristo nostro universale salvatore è disceso dal ciclo e non è stato generato dalla stessa Vergine, come si potrebbe intendere l' espressione madre di Dio? Chi dunque ha essa generato, se non è vero che ha generato secondo la carne l' Emmanuele? Siano coperti di ridicolo quelli che vanno diffondendo queste chiacchiere su di me. il beato profeta Isaia infatti non mente quando dice: Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele, che significa Dio con noi. E con verità san Gabriele disse alla vergine: Non temere. Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù:egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. Quando noi diciamo che il signore nostro Gesù Cristo viene dal ciclo e dall' alto, noi non lo diciamo come se la sua santa carne venisse dall' alto del ciclo, ma seguiamo piuttosto Paolo che proclama apertamente; II primo uomo tratto dalla terra e di terra, il secondo uomo viene dal ciclo. Ricordiamoci anche dello stesso Salvatore che dice: nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell' uomo che è disceso dal cielo, benché sia nato secondo la carne dalla-santa vergine, come ho affermato prima. II Verbo Dio, discendendo dall' alto e dal -ciclo, spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e si fece chiamare figlio dell' uomo, pur restando ciò che era, cioè Dio (immobile e immutabile per natura); essendo considerato come un solo essere con la sua carne si dice che è disceso dal cielo e viene an-che chiamato uomo che viene dal cielo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, così che è da intendersi come una sola persona. Uno solo infatti è il signore Gesù Cristo, benché non vada misconosciuta la differenza delle nature che sono state misteriosamente unite, come abbiamo detto. Quanto a coloro che sostengono che si è fatta una mescolanza, una confusione o una commistione del Verbo di Dio con la carne, la tua santità si degni di farli tacere. Sospetto infatti che qualcuno racconti che ho sostenuto tali cose. Ma io sono così lontano dal formulare tali pensieri che ritengo insensati coloro che ipotizzano che possa verificarsi l' ombra di un cambiamento nella divina natura del Verbo; essa resta quella che è, sempre immutabile, né muterà in futuro o sarà suscettibile di trasformazione. Tutti noi confessiamo che il Verbo di Dio è impassibile, anche se nel comunicare sapientemente ti mistero, egli mostra di attribuirsi le sofferenze sopravvenute alla propria carne. Per questo il sapientissimo Pietro disse dunque Cristo soffrì per noi nella carne e non nella natura della sua indicibile divinità. E perché si creda che è il salvatore di tutti egli si attribuisce, secondo un' appropriazione che vige nell' attuale economia della salvezza, le sofferenze della sua carne, come era stato predetto dalla voce del profeta che parlava in suo nome: Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi Sia dunque ben cena la tua santità, e nessun altro ne dubita» che noi seguiamo in tutto i sentimenti dei santi padri e soprattutto del nostro beato e famosissimo Atanasio e rifiutiamo di allontanarci da lui in qualche cosa. Avrei potuto addurre moire testimonianze a conferma delle mie parole, se non avessi temuto di annoiarti con la prolissità della mia lettera. Non tolleriamo che qualcuno modifichi il contenuto della fede o lo stesso simbolo di fede che a suo tempo è staro definito dai nostri santi padri riuniti a Nicea; ma neppure possiamo permettere che noi stessi o altri modifichino anche una sola espressione di ciò che è stato detto o trascurino una sola sillaba, ricordando che è stato detto; Non spostare il confine antico, posto dai tuoi padri. 4

Misterium salutis, pag.578.


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Infatti non erano loro che parlavano, ma lo Spirito di Dio Padre, che procede da lui, ma non è estraneo al Figlio in ragione dell' essenza. E questo ci confermano le arcane parole dei santi maestri. E’ scritto infatti negli Atti degli apostoli: Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro. E il divino Paolo scrive: Quelli che vivano secondo la carne non possono piacere a, Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Se qualcuno di quelli che hanno l' abitudine di distorcere ciò che è retto, modificherà a suo piacimento le mie parole, tua santità non si meravigli, sapendo che tutti gli eretici trovano nella Scrittura divinamente ispirata il pretesto dei loro errori, e corrompono con la loro malizia la rettitudine di ciò che è stato detto dallo Spirito Santo; così accumulano sulla loro testa una fiamma inestinguibile. E poiché abbiamo saputo che qualcuno ha fatto una edizione non veritiera della lettera pienamente ortodossa del nostro celebre padre Atanasio al beato Epitteto, al punto da nuocere a molti, abbiamo pensato che sarebbe utile e addirittura necessario fornire ai fratelli una copia tratta dagli antichi esemplari che sono in nostro possesso e che non contengono alcun errore, e inviamo tale copia a sua santità.(COD pag.70)

Nasce il problema dell’enipostasia del Verbo incarnato. Prima di questa formula c’è l’anipostasia (senza la persona). Cirillo accetta la formula antiochena interpretandola. La teologia orientale sostiene che noi non conosciamo Dio ma le manifestazioni di Dio che ci dicono il modo con cui Dio si adatta a noi. Tra la manifestazione di Dio e l’ultimo mistero di Dio c’è una distanza che rimane ignota a noi. Quello che diciamo di Dio realmente si dica dell’essenza divina (pensiero occidentale); questo per gli orientali è escluso. Per gli orientali il filioque vale nell’economia e nella vita trinitaria immanente, lo Spirito viene dal solo Padre e non dal Padre e dal Figlio. Cosa accade a Efeso? Avviene lo scontro fra due grosse teologie, due diverse sensibilità. Alla fine come si arriva all’accordo? Il concilio di Efeso sarà recepito insieme alla lettera di unione. Nella formula di unione Cirillo fa alcune concessioni. Usa il suo linguaggio per accettare un altro linguaggio. La formula unionis non arriva alla modifica dei linguaggi ma all’accordo dei linguaggi. La formula di unione fece fare la pace tra Cirillo e Giovanni anche se non aveva risolto l’antagonismo tra Antiochia e Alessandria. Quale fu l’elemento che determinò le difficoltà ulteriori? Muoiono i grandi e la morte -come suo solito- è la più grande attrice della storia. Giovanni e Cirillo muoiono per cui abbiamo una successione infelice. Ad Antiochia succede Domno mentre ad Alessandria succede un despota, Dioscoro. Più fortunate sono le sedi di Roma (Leone I che fu colui che spedì a Flaviano il famoso Tomo a Flaviano5) e Costantinopoli (Flaviano che non era antiocheno ma un cirilliano moderato poco abile). Nel 448 scoppia la disputa di Eutiche che propone un monofisismo radicale. In Cristo dopo l’unione c’è una sola natura per cui la corporeità di Cristo non è come la nostra ma è divinizzata. Nel sinodo permanente Flaviano depone Eutiche e accetta la dottrina della duplice consustanzialità. Eutiche cerca l’appoggio nel rivale di Costantinopoli Dioscoro il quale, chiede all’imperatore Teodosio II un concilio. Teodosio decide la convocazione di un nuovo concilio a Efeso e, con la collaborazione di Dioscoro cerca di riabilitare Eutiche. Nel 449 si celebra il latrocinio efesino. Eutiche condanna la dottrina delle due nature. Leone I espone la sua dottrina riprendendo la cristologia di Ambrogio e Agostino dove Cristo è il mediatore tra Dio e l’uomo (vere Deus vere homo). Le due nature confluiscono nell’unica persona. Tale posizione verrà ripresa a Calcedonia. Sia la formula divina che quella umana agiscono in funzione dell’altra. Nel 451 si arriva a Calcedonia. La maggioranza dei vescovi era incline a Cirillo. Dioscoro organizza ribellioni ma viene deposto e mandato in esilio. Di fatto Alessandria è tagliata fuori. L’imperatore premeva per una formula di unione. Viene nominata una commissione che emana 27 canoni per regolare la disciplina ecclesiastica. Si decide che Gerusalemme diventi il 5° patriarcato. Costantinopoli essendo la seconda assumeva un ruolo predominante sugli altri patriarcati. Per tutta l’antichità esiste solo un grande concilio che è quello di Nicea. Qual è il rapporto tra alcuni concili e altri? Ci sono alcuni concili più normativi di altri? Definizione ( -stabilire) di Calcedonia (DS 301): è vero uomo perché composto di ! , e 6 . Uno e medesimo da riconoscersi in due nature senza confusione. La divinità non muta perché assume la natura umana. DS 302 è una frase di Cirillo e Leone. Questa è la base per cui gli orientali non riconoscono il battesimo cattolico perché non potendo aggiungere nulla alla professione di fede, il battesimo risulta essere invalido.

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Espone il mistero dell’incarnaazione prendendo posizione contro Eutiche. E’ la prima esposizione della cristologia latina che interviene nei dibattiti conciliari. Questo testo svolgerà un ruolo importante al concilio di Calcedonia. 6 Misterium salutis, pag.585.


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4. Il concilio di Calcedonia (451) DS 301 è la dicitura della formula unionis. Gesù è della stessa sostanza del Padre per quanto riguarda la divinità e della stessa sostanza dell’uomo per quanto riguarda l’umanità. 4.1. Concilio di Calcedonia Fu convocato per ordine dall' imperatore Marciano dopo il latrocinio di Efeso (449), benché Leone Magno ne negasse l' opportunità, dal momento che i vescovi erano sul punto di sottoscrivere tutti la sua lettera. Leone riteneva più conveniente infatti evitare nuove discussioni e disquisizioni e inoltre le province occidentali dell' impero erano devastate dalle incursioni di Attila. Poiché il concilio venne convocato dallo stesso Marciano con un editto del 17 maggio 451 per il primo settembre dello stesso anno, prima che fosse noto il parere del pontefice romano, sebbene ciò comportasse dei disagi, il papa vi mandò dei legati; i vescovi Pascasino di Lilibeo (Marsala) e Lucensio, i presbiteri Bonifacio e Basilio e il vescovo Giuliano di Cos. Leone Magno invece, presagendo gli scismi e le secessioni cui il concilio di Calcedonia avrebbe dato senza dubbio luogo, desiderava convocare il concilio in un periodo successivo e pregava e scongiurava l' imperatore che non si discutesse della fede tramandata fin dai tempi antichi, ma si discutesse soltanto di come reintegrare nella precedente situazione i vescovi esiliati. Il concilio, convocato a Nicea, e poi trasferito a Calcedonia perché non fosse lontano da Costantinopoli e dall' imperatore, ebbe inizio l' 8 ottobre 451. Erano presenti i legati Pascasino e Lucensio vescovi, il presbitero Bonifacio, mentre Giuliano di Cos sedeva tra i vescovi; alla loro destra erano i commissari imperiali con il compito di mantenere l' ordine delle discussioni conciliari2. Gli elenchi dei partecipanti sono incompleti; il concilio nella lettera a papa Leone parla di 500 membri, Leone I di 600. Nella V sessione fu approvata la definizione dogmatica, solennemente promulgata nella VI alla presenza dell' imperatore e delle autorità imperiali. La formula accolta nella definizione è la seguente: Cristo è uno in due nature. Tale formula è in armonia con il Tomus Leonis e la professione di Flaviano al concilio di Costantinopoli. Il Tomus Leonis è espressamente ricordato nella definizione. Data l' importanza delle eresie contemporanee sul Cristo, l' una che introduceva una separazione e rifiutava a Maria il titolo di madre di Dio (Nestorio), l' altra che introduceva una confusione tra la carne e la divinità, il concilio deve intervenire per insegnare l' immutabile dottrina con l' intenzione di non voler aggiungere nulla all' insegnamento dei loro predecessori. Questa dichiarazione mostra che il ruolo di un concilio non è di moltiplicare le affermazioni di fede, ma di esplicitarle, di interpretarle. Ai Simboli citati, il concilio aggiungere le lettere di Cirillo e la lettera di Leone e anatematizza tutte le eresie contrarie. Il testo conserva il genere letterario di una confessione di fede. Il testo comincia ponendo l' unità concreta di Cristo secondo l' enunciato della sua titolatura. Il concilio sottolinea che il Cristo è un solo e medesimo sussistente come Dio e come uomo. Il secondo momento è la distinzione e l' analisi dei due aspetti, divino e umano, di questo unico Cristo. Il concilio riprende parola per parola il testo dell’Atto d’unione del 433 che era stato acclamato perché presente nella lettera di Cirillo a Giovanni d' Antiochia- le espressioni: vero Dio e vero uomo. Questa umanità comprende un’anima razionale e un corpo. Il Cristo quindi è doppiamente consustanziale, con Dio da una parte, con gli uomini dall' altra. Il testo nuovamente ritorna sull' affermazione dell' unità. Il concilio si sforzerà di conciliare concettualmente l’unità e la distinzione. Dopo l' unione, il Cristo rimane da una parte, uno solo e il medesimo, e dall' altra è conosciuto in due nature; bisogna dunque contare in lui due nature dopo l' unione. Contro Eutiche si dice «senza confusione e immutabili»; è che non vi è alcuna alterazione della natura divina e della natura umana, né alcuna «mescolanza o fusione». Contro Nestorio, si dice «indivise, inseparabili» perché la differenza mantenuta tra le due nature non comporta la divisione concreta di due sussistenti separati e congiunti. L' unità di persona (prosopon) deve essere compresa nel senso forte dell' unità dell' ipostasi concreta. La distinzione tra natura (aspetto della distinzione ) e ipostasi (aspetto dell' unità ) è dunque chiaramente posta. Il movimento della definizione (uno-due-uno-due-uno ) mostra che il pensiero parte dall' unità concreta per ritornarvi. 4.2. Definizione delle fede Simbolo di fede di Calcedonia del 22 ottobre 451 II santo e grande concilio ecumenico, riunito per grazia di Dio e per volontà dei nostri piissimi e cristianissimi imperatori, gli augusti Valentiniano e Marciano, a Calcedonia, sede metropolitana della provincia della Bitinia, nel tempio della santa e vittoriosa martire Eufemia, definisce quanto segue.


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Il Signore e salvatore nostro Gesù Cristo, confermando nei suoi discepoli la conoscenza della fede, disse: Vi do la mia pace; vi lascio la mia pace, perché nessuno differisca dal suo prossimo nei dogmi dell' ortodossia, ma anzi sia manifestamente identico l' annuncio della verità. Poiché il maligno non cessa di ostacolare con la sua zizzania il seme della pietà e di trovare sempre qualcosa di nuovo contro la verità, Dio, come sempre, nella sua provvidenza verso il genere umano ispirò un grande zelo a questo nostro pio e fedelissimo imperatore e chiamò a sé da ogni parte i vescovi, affinché, con la grazia di Cristo nostro signore, allontanassero ogni contagio dell' errore dalle pecore del Cristo e le nutrissero con i germogli della verità. Cosa che noi abbiamo fatto, respingendo con voto unanime le false dottrine, rinnovando la nostra adesione alla fede ortodossa dei padri, predicando a tutti il simbolo dei 318 [padri di Nicea] e riconoscendo come nostri padri coloro che hanno accolto questo simbolo, e cioè i 150 che si raccolsero nella grande Costantinopoli e aderirono alla medesima fede. Confermando anche noi le decisioni e le formule di fede del concilio radunato un tempo ad Efeso, cui presiedettero Celestino [vescovo] di Roma e Cirillo [vescovo] di Alessandria, entrambi di santissima memoria, stabiliamo che debba risplendere l' esposizione della fede ortodossa e incontaminata, fatta dai 318 santi e beati padri riuniti a Nicea sotto l' imperatore Costantino di pia memoria, e che si debba mantenere in vigore quanto fu decretato dai 150 santi padri a Costantinopoli per estirpare le eresie che allora germogliavano e rafforzare la stessa nostra fede cattolica e apostolica. A questo punto vennero ripetuti i simboli di fede dei 318 padri di Nicea e dei 150 padri di Costantinopoli. Questo sapiente e salutare simbolo della divina grazia sarebbe già sufficiente alla piena conoscenza e conferma della fede. Offre infatti un perfetto insegnamento intorno al Padre, al Figlio e allo Spirito santo e presenta, a chi l' accoglie con fede, l' incarnazione del Signore. Ma quelli che tentano di respingere l' annuncio della verità , con le loro eresie hanno coniato nuove espressioni: alcuni cercano di alterare il mistero dell' economia dell' incarnazione del Signore per noi, rifiutavano l' espressione Theotocos (madre di Dio) per la Vergine; altri introducono confusione e mescolanza immaginando scioccamente che unica sia la natura della carne e della divinità e sostenendo assurdamente che, a causa di questa confusione, la natura divina dell' Unigenito può soffrire. Di fronte a tutto questo, volendo impedire ad essi ogni raggiro contro la verità, l' attuale santo e grande concilio ecumenico che insegna l' immutabile dottrina predicata sin dall' inizio, stabilisce prima di tutto che la fede dei 318 santi padri dev' essere intangibile; conferma la dottrina sulla natura dello Spirito santo, trasmessa in tempi posteriori dai 150 padri raccolti nella città imperiale a causa di quelli che combattevano lo Spirito santo [Pneumatomachi]; i padri conciliari dichiarano a tutti di non voler aggiungere nulla all' insegnamento dei loro predecessori, come se vi mancasse qualche cosa, ma di voler solo esporre chiaramente secondo le testimonianze della Scrittura, il loro pensiero sullo Spirito santo, contro coloro che tentavano di negarne la signoria. Nei confronti di coloro che tentano di alterare il mistero dell' economia [della salvezza] e hanno l' impudenza di sostenere che colui che nacque dalla santa vergine Maria è solo un uomo, [questo concilio] fa sue le lettere sinodali del beato-Cirillo, che fu pastore della chiesa di Alessandria a Nestorio e agli Orientali, come adeguate sia a confutare la follia nestoriana, sia a spiegare il vero senso del simbolo-salvifico a coloro che desiderano conoscerlo con pio zelo. A queste ha aggiunto giustamente la lettera del beatissimo e santissimo arcivescovo della grandissima e antichissima città di Roma Leone, scritta all' arcivescovo Flaviano, di santa memoria, per confutare la malvagia concezione di Eutiche; essa, infatti, è in armonia con la confessione di fede del grande Pietro e è per noi una fondamentale colonna contro gli eterodossi e a favore dei dogmi dell' ortodossia. [Questo concilio] si oppone a coloro che tentano di separare in una dualità di figli il mistero della divina economia di salvezza; esclude dall' ordine clericale quelli che osano affermare soggetta a sofferenza la divinità dell' Unigenito; resiste a coloro che pensano a una mescolanza o confusione delle due nature di Cristo; scaccia quelli che hanno la follia di ritenere celeste, o di qualche altra sostanza, quella forma umana di servo che egli assunse da noi; e.scomunica, infine, coloro che favoleggiano di due nature del Signore prima dell' unione, e di una sola dopo l' unione. Seguendo i santi padri, all' unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero, (composto) di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l' umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l' umanità, uno e medesimo Cristo signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo filgio, unigenito, Dio, verbo e signore Gesù Cristo, come un tempo hanno insegnato i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo, e infine come ci ha trasmesso il simbolo dei padri. Dopo che abbiamo stabilito tutto ciò con ogni possibile diligenza, il santo concilio ecumenico ha deciso che nessuno può presentare, scrivere o comporre una formula di fede diversa, o credere e insegnare in altro modo. Quelli poi che osassero comporre una diversa formula di fede, o professare o insegnare, o tramandare un diverso simbolo a quelli che intendono convertirsi dall' ellenismo, dal giudaismo, o da un' eresia qualsiasi alla verità, costoro, se sono vescovi o chierici, siano considerati decaduti; il vescovo dal suo episcopato, i chierici dal clero; se poi fossero monaci o laici dovranno essere scomunicati. (DS 302-303)


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“Uno e medesimo” è l’affermazione centrale del concilio. Cristo è lo stesso e consustanziale al Padre. Calcedonia fu un concilio che sancì la divisione dai nestoriani (non partecipano al concilio) e dai monofisiti (partecipano al concilio). Gli imperatori di Costantinopoli tendono ad una pace con i monofisiti. Sotto Zenone nel 482 viene promulgata una legge imperiale dal nome “Henotikov” che cerca un compromesso con la teologia di Cirillo. L’H. non ripudiava Calcedonia ma rafforzava la condanna di Nestorio volendo mettere da parte il Tomus Leonis. Cosa ottiene come effetto la promulgazione di questa lettera? Il patriarca di Alessandria, Pietro Mongo lo accetta mentre i Calcedonesi fedeli lo respingono. Felice III Vescovo di Roma riceve le notizie dell’H. e delle accuse contro Acacio che voleva intervenire nelle questione interne della chiesa di Alessandria. Acacio però non si presenta a Roma. Il 28 luglio 484 il Papa felice depone Acacio. La condanna è personale e dopo la morte di Acacio (489) la condanna diventa uno scisma tra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli. L’imperatore interessato alla pacificazione con l’Egitto ignora le condanne di Roma. Questo è il periodo di maggiore espansione del monofisismo. 4.3. Il ruolo di Giustiniano prima del concilio Giustiniano condanna i tre capitoli (Ibas, Teodoreto di Ciro e Teodoreto di Mopsusestia). Si arriverà al Costantinopolitano III che definisce le due volontà in Cristo. Dopo Calcedonia Giustino e Giustiniano (527-565) aboliscono l’Henotikov di Zenone mettendo pace tra Roma Costantinopoli e Alessandria. Nel 519 Giustiniano utilizza una tattica per superare lo scisma di Roma. Si serve di monaci sciti. Mettono in giro una formula (vedi) si recano a Roma dal papa che resta freddo dinnanzi a questa formula. La formula piace a Fulgenzio di Ruspe. I monaci costringono il patriarca Giovanni ad un riconoscimento formale di Calcedonia. Dopo il 518 segue una repressione contro i monofisiti invece l’Egitto si organizza con una difesa armata. Questa resistenza contro la politica costantinopolitana ha la difesa dell’imperatrice Teodosia. Viene ad essere formulata una concezione dell’ soprattutto ad opera di Leonzio di Bisanzio (cambia il concetto di ipostasi che diventa il principio di esistenza) che scrisse un’opera contro i nestoriani e gli eutichiani. Con lui si inaugura il neo calcedonesimo. Di per se non è chiaro il concetto. La formula è ambigua. E’ una formula politica e cioè un modo per conciliare Calcedonia con Cirillo. Diventa importante il florilegio che doveva mostrare l’accordo sostanziale dei cirilliani con il concilio. Tra Calcedonia e Cirillo non c’è sostanziale differenza. Ispirandosi a Gv1,14 si definisce la formula en-ipostatica. La natura umana non ha una propria persona perché sussiste nella persona del Verbo. Per cui c’è una unica natura. I Cappadoci consideravano l’ come la sede delle proprietà, unica natura e tre ipostasi. La peculiarità mia ha sede nella persona. Il principio ontologico è la persona e non la natura. I monofisiti negavano alcune proprietà della persona umana e permettevano che questa natura umana si unisse al Verbo. Questo significava che la natura umana si modificava. Se l’ipostasi è il principio di esistenza non è più la sede delle proprietà. Secondo Leonzio le proprietà si spostano dall’ipostasi alla natura. Il punto è credere a Gesù veramente Dio e veramente uomo che è lo stesso. La spiegazione neo-calcedonese è la più adeguata ma non è quella alla quale noi crediamo.


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5. Costantinopolitano II Il concilio di Costantinopoli si tenne in un clima di lotta aperta tra il Papa Vigilio e l' imperatore Giustiniano. Per comprendere come si arrivò a questa tensione conviene seguire il corso degli avvenimenti, condizionati dai conflitti religiosi tra calcedonesi e monofisiti in oriente. Giustiniano pensa che il compromesso possa essere raggiunto togliendo autorità ai teologi di tendenza nestoriana. Per cui G. accetta le condanne fatte ai tre e tenta di sanzionare questo con la sua autorità. Quando in oriente questi tre teologi vengono condannati, l’occidente si oppone nella persona del papa. Nel 548 papa Vigilio con un costitutum condanna i tre capitoli tutelando Calcedonia. Cosa accade? Vigilio dopo aver emesso il costitutum lo ritira a causa nelle controversie. Il 5 maggio nel 553 si raduna il Costantinopolitano II in S. Sofia. Ci furono 14 anatematismi che sanzionavano la dottrina del neo calcedonianesimo cioè la dottrina del duo fisismo.L’unione è considerata enipostatica. Nel 533 Giustiniano promulga due editti dogmatici e definisce la fede sulla scorta della formula dei «monaci sciti»: «è l' uno della Trinità che ha sofferto nella carne». Questi monaci, originari della Scozia, intervennero più volte per far accettare da Roma alcune formule che traducevano la comunicazione delle proprietà o degli «idiomi». La loro formula, chiamata «teopaschita» - affermante cioè la sofferenza di Dio -, e che il patriarca Proclo di Costantinopoli aveva impiegato un secolo prima, intendeva, con il suo realismo, togliere tutte le ambiguità sull' interpretazione di Calcedonia e costituire un ponte tra il linguaggio di Leone è quello di Cirillo. Nel 537, Giustiniano fa deporre il Papa Silverio e lo sostituisce con Vigilio. Del 543 l' imperatore scrisse un trattato formato da dieci anatematismi.. Vigilio approva il documento. Per contraccolpo sorse la cosiddetta questione dei Tre capitoli, cioè quella di certi scritti di tre teologi antiocheni, Teodoro di Mopsuestia, Iba di Edessa e Teodoreto di Ciro. Nel 545 Giustiniano pubblica un nuovo editto nel quale condanna Tre capitoli. Questa volta il Papa Vigilio rifiuta. Giustiniano lo fa prelevare e condurre a Costantinopoli. Il Papa si piega e redige un Judicatum che condanna i tre capitoli, ma con delle riserve che mantengono l' autorità di Calcedonia. Questa decisione è accolta male in Occidente. Giustiniano allora cede e consente al Papa di revocare il suo Judicatum. Ma il rapporto tra papa e imperatore col tempo si inasprisce tant' è che ciò farà maturare un nuovo concilio. 5.1. Le peripezie del concilio: l' imperatore e il Papa Nel maggio 553 si apre il concilio in assenza del Papa. Presieduto dal patriarca Eutichio di Costantinopoli è composto da circa 150 vescovi. Il concilio procede nei suoi lavori e avvia la discussione sui tre capitoli. Al termine del secondo rinvio il Papa comunica all' imperatore il suo Constitutum sulla questione. Egli condanna 60 proposizioni eretiche estratte dall' opera di Teodoro ma rifiuta di condannare l' uomo stesso. D' altra parte, Iba e Teodoreto, deposti all' epoca del latrocinio di Efeso nel 449, erano stati riabilitati da Calcedonia. Il Papa entra in conflitto con il concilio che invece vuole condannare i tre teologi. L' imperatore ordina di radiare Vigilio. Il concilio condanna i tre capitoli. Così il secondo concilio di Costantinopoli appare come un concilio imperiale. Così che il Papa isolato, sempre oggetto di forti pressioni, finì per cedere. In seguito, su domanda di Giustiniano, redige un secondo Constitutum, in cui sconfessa tutto ciò che aveva detto in precedenza. Così approva le decisioni prese dal concilio e fa ritorno a Roma. Vigilio morirà a lungo il cammino nel 555 a Siracusa. 5.2. I canoni del II concilio di Costantinopoli L’oggetto dottrinale del concilio, nel pensiero di Giustiniano, è interpretare Calcedonia nel senso di Cirillo d’Alessandria, al fine di riportare all' unità i monofisiti. Nei dieci canoni vi si ritrova la preoccupazione d’armonizzare i vocabolari trinitario e cristologico e di distinguere nello stesso modo, ipostasi da una parte e natura o sostanza dall' altra. Il canone 1, concerne la Trinità. I canoni 2, 3, 9 e 10 formalizzano la comunicazione delle proprietà o idiomi. Questa comunicazione non si fa immediatamente, ma si fa al livello dell’ipostasi secondo uno scambio. Il verbo di Dio consente all' umanità di agire divinamente; ma lo stesso verbo di Dio si appropria di tutti gli avvenimenti dell' umanità, come la sua generazione secondo la carne. È dunque il soggetto di due generazione, l’una eterna da Dio Padre e l' altra secondo la carne della vergine Maria. Di conseguenza, non è «un altro e un altro» nei suoi comportamenti divino e umano ma riceve un' unica adorazione nelle sue due nature. Si dà dunque equivalenza tra unione secondo la composizione e unione secondo l’ipostasi. Il testo latino fa menzione della sussistenza composta, l' una divina, l' altra umana, che rimane numericamente uno. Questo vuol dire che il rapporto intessuto tra il verbo e la sua umanità è dello stesso ordine di quello che intrattiene con la sua divinità: è un rapporto d' essere e non d' avere.


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L' unione ipostatica consente al verbo incarnato di essere uno della Trinità. Questo vocabolario suppone una distinzione fra ipostasi e natura. Oltrepassando la lettera del concilio, si vuole dire che la natura umana, privata di una ipostasi distinta da quella del verbo, è inipostatizzata nell' ipostasi divina, vale a dire: ha la sua sussistenza e la sua esistenza nel verbo. I canoni 5, 6,7 si oppongono all' interpretazione nestoriana di Calcedonia. L' unità ipostasi deve essere compresa nel senso di Efeso. C' è equivalenza tra ipostasi e persona. Maria è non secondo la relazione, come se essa fosse la madre di un semplice uomo. Maria è madre di Dio e del verbo che si è incarnato in lei. Il canone 7 è importante per la formula «in due nature». Tale espressione significa la differenza mantenuta tra due nature che non si confondono e non cessano di essere ciò che sono per se stesse e non la loro divisione, come se le si ponessero come due sussistenti particolari. Il numero delle nature nel Cristo deve essere compreso secondo la sola considerazione concettuale, e non secondo l' esistenza concreta, e nel senso che ciascuna natura, separata dall' altra, disporrebbe della sua propria ipostasi. La differenza tra le due nature è mantenuta, non c' è confusione tra loro, ma nemmeno divisione. 5.3. Bilancio del concilio L’intenzione del concilio è anti-nestoriana poiché il suo scopo è di riunire i monofisisti. Conserva il vocabolario delle due nature, conferendogli una precisa interpretazione. L' idea di ipostasi composta toglie un ambiguità della cristologia anteriore: se il soggetto ultimo delle attività del Cristo è il Verbo, questo non è mai il semplice Verbo, ma sempre il Verbo in quanto persona umanizzata. I canoni di questo concilio appaiono di una qualità sorprendente quando si pensa al contesto ecclesiastico-politico della loro redazione. L' articolazione della teologia e dell' economia è chiaramente affermata: da una parte è uno della Trinità che ha sofferto; dall' altra, la sua carne è adorata con il Verbo in un' unica adorazione, senza far numero con la Trinità. Se Cirillo considerava ipostasi e natura come sinonimi nel campo della cristologia, Calcedonia li distingue formalmente. Il neocalcedonismo si distingue dal calcedonismo stretto per la sua utilizzazione di due formule cristologiche principali (una natura, due nature) come condizione essenziale di una proposizione corretta della fede. 5.4. Condanne contro i "tre Capitoli L' imperatore Giustiniano e il papa Vigilio stabilirono di convocare questo concilio, ma di fronte alla compatta opposizione dei vescovi occidentali e soprattutto di quelli africani al suo Iudicatum emesso l' 11 aprile 548 per condannare i Tre Capitoli, il papa rifiutò di parteciparvi. Il concilio, convocato dallo stesso Giustiniano a Costantinopoli (mentre Vigilio avrebbe preferito convocarlo in Sicilia o in Italia perché vi potessero partecipare i vescovi occidentali), si riunì il 5 maggio 553 nel Secretum di S. Sofìa. Dato il rifiuto del papa di parteciparvi (infatti Giustiniano aveva convocato dai cinque patriarcati i vescovi in modo che vi fossero molti più vescovi orientali che occidentali), lo presiedette Eutichio patriarca di Costantinopoli; 160 padri, di cui 8 africani, sottoscrissero i decreti conciliari. Sebbene il Constitutum di Vigilio del 14 maggio 553, sottoscritto da 16 vescovi (dei quali 9 italici, 2 africani, 2 illirici, 3 asiatici), condannasse proposizioni tratte dagli scritti di Teodoro di Mopsuestia, ma non la sua memoria, e rifiutasse di condannare sia Iba che Teodoreto, in quanto non potevano essere sospettati di eresia secondo la testimonianza del concilio di Calcedonia, il concilio nel VIII sessione del 2 giugno 553 condannò di nuovo i Tre Capitoli, per la stessa ragione per la quale l' aveva fatto Giustiniano, pronunciando una sentenza che si conclude con 14 anatematismi. Soltanto dopo sei mesi Vigilio, misurando le persecuzioni di Giustiniano contro i suoi presbiteri, approvò il concilio con una lettera mandata a Eutiche di Costantinopoli l' 8 dicembre 553. In essa, «seguendo l' esempio di Agostino», modifica la sua decisione, colpisce con anatema Teodoro e condanna gli scritti di Teodoreto e Iba. Il 23 febbraio 554 tentò di conciliare in un secondo Constitutum i decreti del concilio di Calcedonia e la recente condanna. Gli atti di questo concilio esistono sintetizzati soltanto in lingua latina, degli atti in lingua greca vi sono solo alcune parti.


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Il concilio non si occupò di disciplina ecclesiastica, ne formulò canoni disciplinari.

I Chi non confessa che il Padre, il Figlio e lo Spirito santo hanno una sola natura o sostanza, una sola virtù e potenza, poiché essi sono una Trinità consostanziale, una sola divinità da adorarsi in tre ipostasi o persone, sia anatema. Uno infatti è Dio Padre, dal quale sono tutte le cose; uno il signore Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose; uno è lo Spirito santo, nel quale sono tutte le cose. II Se qualcuno non confessa che due sono le nascite del Verbo di Dio, una prima dei secoli dal Padre, fuori dal tempo e incorporale, l' altra in questi nostri ultimi tempi, quando egli è disceso dai cieli, s' è incarnato nella santa e gloriosa madre di Dio e sempre vergine Maria, ed è nato da essa, sia anatema. III Se qualcuno afferma che il Verbo di Dio che opera miracoli non è lo stesso Cristo che ha sofferto, o che il Dio Verbo si è unito col Cristo nato da una donna, o che egli è in lui come un essere in un altro essere; e non confessa invece un solo e medesimo signore nostro Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato e fatto uomo, al quale appartengono sia i miracoli che le sofferenze che volontariamente ha sopportato nella sua carne, costui sia anatema. IV Se qualcuno dice che l' unione del Verbo di Dio con l' uomo è avvenuta solo nell' ordine della grazia, o in quello dell' operazione, o in quello dell' uguaglianza di onore, o nell' ordine dell' autorità, o della relazione o dell' affetto, o della virtù, o anche per benevolenza, quasi che il Verbo di Dio si sia compiaciuto dell' uomo, perché lo aveva ben giudicato, come asserisce Teodoro nella sua follia; ovvero secondo l' omonimia per cui i Nestoriani, attribuendo al Dio Verbo il nome di Gesù e di Cristo, e poi separatamente all' uomo quello di "Cristo e Figlio", parlano evidentemente di due persone, anche se fingono di parlare di una sola persona e di un solo Cristo, soltanto per ragioni di nome, d' onore, di dignità e di adorazione; e se egli non ammette, invece, che l' unione del Verbo di Dio con la carne animata da un' anima razionale e intelligente, sia avvenuta per composizione, cioè secondo la sussistenza, come hanno insegnato i santi padri, e di conseguenza nega una sola ipostasi in lui, e cioè il signore nostro Gesù Cristo, uno della santa Trinità, costui sia anatema. Infatti l' unità è concepita in molti modi: gli uni, seguendo l' empietà di Apollinare e di Eutiche, e ammettendo l' annullamento degli elementi che formano l' unità, parlano di un' unione per confusione; gli altri, seguendo le idee di Teodoro e di Nestorio, sono favorevoli alla separazione e parlano di una unione di relazione. La santa chiesa di Dio, rigettando l' empietà dell' una e dell' altra eresia, confessa l' unione di Dio Verbo con la carne secondo la composizione, ossia secondo l' ipostasi. Questa unione per composizione non solo conserva nel mistero di Cristo senza confusione gli elementi che concorrono all' unità, ma non ammette la loro divisione. V Se qualcuno intende l' unica persona del signore nostro Gesù Cristo come se prendesse su di sé più ipostasi, e con ciò tenta di introdurre nel mistero di Cristo due ipostasi o due persone, e, dopo aver introdotto due persone, parla di una sola persona quanto alla dignità, all' onore e alla adorazione, come hanno scritto nella loro pazzia Teodoro e Nestorio; e se costui accusa il santo concilio di Calcedonia, sostenendo che esso ha usato l' espressione "una sola sussistenza" in questo empio significato, e non confessa piuttosto che il Verbo di Dio si è unito alla carne secondo l' ipostasi e che, quindi, egli ha una sola ipostasi, cioè una sola persona e che è in questo senso che il santo concilio di Calcedonia ha confessato una sola ipostasi del signore nostro Gesù Cristo, costui sia anatema. La santa Trinità, infatti, non ha ricevuto l' aggiunta di una persona o ipostasi in seguito all' incarnazione di Dio Verbo, una delle persone della santa Trinità. VI Se qualcuno afferma che la santa gloriosa e sempre vergine Maria solo in un senso improprio e non veritiero è madre di Dio, o che ella lo è secondo la relazione, come se fosse nato da lei un semplice uomo, e non il Verbo di Dio che si è incarnato in lei, perché, secondo loro, la nascita di questo uomo si deve riferire al Verbo Dio in quanto unito all' uomo al momento della sua nascita; e se egli accusa il santo sinodo di Calcedonia di chiamare madre di Dio la Vergine nel senso empio immaginato da Teodoro; se qualcuno la chiama madre dell' uomo o madre di Cristo, come se Cristo non fosse Dio, e non la proclama in senso proprio e secondo verità madre di Dio, dal momento che il Verbo Dio, generato dal Padre prima dei secoli, si è incarnato in essa in questi ultimi tempi, e non riconosce che è con questo sentimento di venerazione che il santo sinodo di Calcedonia l' ha proclamata madre di Dio, costui sia anatema. VII Se qualcuno, dicendo "in due nature", non confessa che nella divinità e nella umanità si deve riconoscere il solo signore nostro Gesù Cristo, così che con questa espressione si indica la diversità delle nature, nella quale si è realizzata l' ineffabile unità senza confusioni, senza che il Verbo passasse nella natura della carne e senza che la carne si trasformasse nella natura del Verbo (l' uno e l' altra, infatti, rimangono ciò che sono per natura anche dopo che si è realizzata l' unione secondo l' ipostasi); ma se costui intende tale espressione come una divisione in parti nel mistero di Cristo; o se, pur ammettendo nello stesso ed unico signore nostro Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato, la pluralità delle nature, non accetta solo in teoria la differenza dei principi da cui è costituito, che l' unione non sopprime (perché uno è da due, e due in uno), ma si serve della pluralità delle nature per sostenere che esse sono separate e con una propria ipostasi, costui sia anatema. (DS 421-428)


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6. Monoenergismo: il III concilio di Costantinopoli (681) E’ un fenomeno molto complesso. La preoccupazione maggiore della Chiesa è sempre ricongiungere le differenti frange monofisite, che il II concilio di Costantinopoli non aveva saputo convincere. Sergio patriarca di Costantinopoli, ha l' idea del monoenergismo, cioè della dottrina che non pone che un’unica attività nel Cristo. Con il suo accordo, Ciro, nominato patriarca d' Alessandria, lancia nel 633, in una dichiarazione chiamata patto d' unione, una formula suscettibile di convincere i recalcitranti: L’unico e medesimo Cristo e figlio operano ciò che è divino e le ciò che è umano mediante una sola attività teandrica (mia theandrikè energeia), come dice san Dionigi.

La formula, ripresa da un testo dello pseudo-Dionigi l’Aeropagita è ambigua. Da una parte le due nature concorrono in ogni operazione del Cristo. Il Cristo non ha che un agire in due nature. Dall’altra parte si può comprendere che il Cristo non ha che un solo tipo di attività, proveniente da un solo principio d’azione; da qui il nome di monoenergismo. Due monaci discernono l' ambiguità di questa formula: Sofronio, vescovo di Gerusalemme e Massimo il confessore. Il primo interviene presso Ciro e Sergio, ricordando loro che l' attività si rapporta alla natura. Sergio propone un compromesso che invia a Ciro nel 633: Non si permetterà più a nessuno di parlare di una o due attività a proposito del Cristo nostro Dio, ciò è empio, perché è impossibile che in un unico e medesimo soggetto due volontà contrarie sussistano nello stesso tempo l' una accanto all' altra.

È lo stesso Cristo che opera ciò che è divino e ciò che è umano, e le sue attività umane procedono dal Verbo incarnato. Così intervenne Massimo il quale conosceva Sofronio. Applicò a questo problema la trilogia «sostanza, forza, operazione». Egli seppe articolare l' unità dell' attività concreta di Gesù con il pieno rispetto delle due attività naturali. La concezione di fondo era legata ad un linguaggio e cioè avveniva una effettiva unione delle nature (enosis fusikè). In Cristo si dà un’unica volontà quella divina e un' unica attività. All’interno di questa concezione unitaria esistevano coloro che negavano la natura umana che era completamente divinizzata e una serie di teologi che non recepivano Calcedonia (Filosseno, Severo di Antiochia). Quello che era importante era la spiritualità centrata sulla divinizzazione effettiva della natura umana. Questo atteggiamento di tipo monofisita inficia lo scritto corpus aeropagitus attribuito ad un uditore di Paolo all’aeropago, Dionigi (fine V sec.). Fu tradotto in occidente da Giovanni Scoto ed influenzò tutta la tradizione occidentale fino ad oggi. Tal corpusi ha alcune formule importanti del monofisismo tra cui quella dell’unica energia teandrica ( " # " ). Si arriva al monenergismo e al monotelismo: una sola energia e una sola volontà in Cristo. 6.1. La riunione del III concilio di Costantinopoli (680-681) Nel 622 inizia l’era musulmana. L’impero è minacciato a sud dagli arabi e ad oriente dai persiani. Uno dei modi per potere conciliare monofisiti e neo-calcedonesi sta nel negare non la natura umana animata dall’anima razionale ma l’autonomia della libertà di Cristo. Si nega l’operazione della natura umana, è il Verbo che infonde la sua energia alla natura umana. Nel 633 l’imperatore Eraclio fa una unione con i monofisiti basata sulla comune operazione delle due nature mediante un’unica sola energia divino-umano. Questa formula però, suscitando opposizioni, viene ritirata. Nel 638 l’imperatore fa pubblicare una ektesis (esposizione) che dice che in Cristo c’è un’unica volontà senza nessuna confusione delle due nature, e il Verbo incarnato ha sopportato la passione. Inizia l’opera di Massimo il Confessore. Abbiamo anche il Papa Onorio che aderisce alla politica di unione del patriarca di Costantinopoli il quale elabora la formula di unione che è la formula dell’unica operazione di Cristo. La formula viene ritirata e Onorio in due lettere si pronunciò a favore dell’unica volontà del Cristo. Nel 680-681 sotto Costantino IV si conferma la dottrina delle sue volontà in Cristo, riprendendo così la definizione del concilio di Calcedonia: si proclama la dottrina delle due volontà e delle due attività dell’uomo-Dio (duoteletismo). Costantinopoli III chiude le dispute teologiche e gli altri sono fuori dall’influsso dell’impero e vivono sotto l’influsso arabo. Definizione sulle due volontà e attività in Cristo II presente santo concilio ecumenico accoglie con fede e riceve a braccia aperte la relazione del santissimo e beatissimo papa dell' antica Roma, Agatone. indirizzata al nostro piissimo e fedelissimo imperatore Costantino [IV], che ha condannato, indicandoli per nome, quelli che hanno predicato o insegnato, come è stato mostrato sopra, una sola volontà e una sola attività nell' e-nomia dell' incarnazione di Cristo, nostro vero Dio [cf. 542-


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545}; ha accolto similmente, anche l' altra relazione sinodale, mandata alla sua serenità (imperatore), divinamente ispirata, dal santo sinodo dei centoventicinque vescovi, cari a Dio, svoltosi sotto lo stesso santissimo papa [cf. *546-548}. Il concilio le accoglie perché sono in armonia sia col santo concilio di Calcedonia. (cf. *300-306}, sia col Tomo del santissimo e beatissimo papa di questa stessa antica Roma, Leone, mandato a Flaviano, uomo santo, che da quel sinodo fu definito colonna dell' ortodossia. Tali relazioni sono anche conformi alle lettere sinodali scritte dal beato Cirillo contro l' empio Nestorio e indirizzate ai vescovi dell' Oriente. Seguendo dunque i cinque santi concili ecumenici e i santi e eminenti padri, questo sinodo in accordo con essi definisce e confessa il signore nostro Gesù Cristo, nostro vero Dio, uno della santa, consostanziale e vivificante Trinità, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità; veramente Dio e veramente uomo, composto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi nella sua umanità; simile a noi in tutto, meno che nel peccato [Eb 4,15}. Generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità e generato in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza dallo Spirito Santo e da Maria vergine, che è nel senso più pieno del termine madre di Dio secondo l' umanità; un solo e medesimo Cristo, figlio unigenito di Dio, da riconoscersi in due nature senza confusione, mutamento, separazione, divisione, senza che in nessun modo, a causa dell' unione, venga soppressa la differenza delle nature. ma al contrario salvaguardando la proprietà dell' una e dell' altra e concorrendo entrambe a formare una sola persona e sussistenza; non diviso e scomposto in due persone, ma un solo e medesimo figlio unigenito, Verbo di Dio, signore Gesù Cristo, come un tempo i profeti ci rivelarono di lui, lo stesso Gesù Cristo ci insegnò e il simbolo dei santi padri ci ha trasmesso. Nello stesso modo proclamiamo in lui, secondo l' insegnamento dei santi padri, due volontà naturali e due operazioni naturali, senza divisione, senza mutamenti, senza separazione o confusione. Le due volontà naturali non sono in contrasto fra loro (non sia mai detto!), come affermano gli empi eretici, ma la sua volontà umana segue, senza opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente. Era necessario, infatti, che la volontà della carne fosse guidata e sottomessa al volere divino, secondo il sapientissimo Atanasio. Come, infatti, la sua carne è detta la carne del Verbo di Dio, e lo è realmente, così la volontà naturale della sua carne è detta ed è volontà propria del Verbo di Dio, secondo quanto egli stesso afferma: «Sono disceso dal ciclo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» [Gv 6,38]. Egli afferma essere sua la volontà della sua carne, poiché anche la carne è diventata sua. Come, infatti, la sua carne tutta santa, immacolata e animata, sebbene deificata, non è stata cancellata, ma è rimasta nel proprio stato e nel proprio modo d' essere, così la sua volontà umana, anche se deificata, non fu annullata, ma piuttosto salvata, secondo quanto dice Gregorio il «teologo»; «Perché il suo volere - quello del Salvatore - non è contrario a Dio, dal momento che è totalmente divinizzato». Noi riconosciamo nello stesso signore nostro Gesù Cristo, nostro vero Dio, due attività naturali, senza divisioni di sorta, senza mutazioni, separazioni e confusioni; cioè un' operazione divina e un' operazione umana, secondo quanto afferma molto chiaramente Leone, l' ispirato da Dio: «Ciascuna natura agisce in comunione con l' altra secondo ciò che le è proprio; il Verbo opera ciò che è proprio del Verbo, il corpo compie ciò che è proprio del corpo» (294). Non attribuiremo, certamente, una sola naturale attività a Dio e alla creatura, per evitare di elevare la creatura fino all' essenza divina o di abbassare la sublimità della natura divina al livello proprio delle creature. Riconosciate che i miracoli come le sofferenze sono dello stesso e medesimo Cristo secondo le differenti nature di cui è composto e in cui ha il suo essere, come disse l' eminentissimo Cirillo. Insomma, restando fermo il concetto di inconfuso e di indiviso, riassumiamo tutto in quest' unica espressione: poiché crediamo che una delle persone della santa Trinità, divenuta dopo l' incarnazione il signore nostro Gesù Cristo, è il nostro vero Dio, affermiamo che due sono le sue nature che risplendono nella sua unica ipostasi nella quale, durante tutta l' economia della sua vita incarnata, operò prodigi e soffrì dolori non in apparenza ma realmente. La differenza delle nature in questa unica ipostasi si riconosce dal fatto che ciascuna natura, senza divisione o confusione, voleva e operava conformemente al proprio essere in comunione con l' altra. In questo modo, noi proclamiamo anche due volontà e attività naturali, che concorrono insieme alla salvezza del genere umano. Stabilito tutto ciò con ogni possibile prudenza e diligenza, deliberiamo che non è lecito ad alcuno esprimere o scrivere, comporre o credere una diversa formula di fede e tanto meno insegnarla ad altri. Quelli poi che osassero comporre una diversa formula, o insegnare e trasmettere un altro simbolo a coloro che desiderano convertirsi alla verità dal paganesimo, dal giudaismo, o da qualsiasi altra eresia; o tentassero di introdurre nuove espressioni per sconvolgere quanto da noi è stato definito, queste persone, se vescovi o chierici, decadano dall' episcopato o dallo stato clericale; se poi si tratta di monaci o di falci, siano colpiti da anatema. (DS 553-559)

Così abbiamo avuto gli strumenti per comprendere la grande narrazione patristica. Ortodossi-bizantini, protestanti e cattolici si riconoscono tutte nei sette grandi concili. Non esiste quindi un consenso della chiesa indivisa. Al di là di tutto comunque esiste questo grande consenso circa i sette concili ecumenici.


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6.2. Valutazione della grande narrazione patristica e comunicatio idiomatum Questa narrazione è un continuo rifacimento. Prenderemo in esame lo sbocco linguistico tecnico della narrazione nelle regole della comunicatio idiomatum. Secondo la dottrina dell’anipostasia giacché la persona di Cristo è il soggetto portatore delle due nature, divina e umana, si dà una comunicazione delle proprietà di ciascuna natura ; esse sono distinte e non confuse, inseparabilmente unite. Né consegue che: 1. il logos divino possiede proprietà umane 2. l’uomo Cristo possiede proprietà divine Bisogna distinguere : 1. Si tratta di una grande storia concettuale cioè dell’affinamento della categorie concettuali. Si muove intorno ai concetti di usia (essenza), fusis (natura), ipostasi (sussistenza), prosopov (persona). Tutta la narrazione è intrecciata di fatti politici. Attorno a questi 4 concetti si gioca la narrazione cristologica classica7. Per i Cappadoci l’ipostasi è la sede degli idiomata. Nestorio intuisce che i concetti dei Cappadoci in cristologia sono insufficienti perché se facciamo dell’ipostasi il principio delle proprietà allora dobbiamo affermare che in Gesù ci sono 2 soggetti. N. dice che l’unità non può avvenire nelle nature ma nel prosopov che lui chiama il prosopov enoseos. Gesù è uno dei santi e in senso proprio non è più il Figlio di Dio. Cirillo pone l’unione nella natura divina, per cui deve arrivare inevitabilmente a una diminuzione della umanità perfetta di Cristo. Le proprietà aderiscono alla natura e non alla persona. Qual è la funzione dell’ipostasi? E’ il dare l’esistenza alla natura umana di Gesù. In tanto la narrazione si è potuta costituire perché è venuto fuori un lavorio sui concetti. L’altra parte della narrazione qual è? E’ che viene ignorata la storia concreta di Gesù. Ci salva l’atto di umana perfezione del Cristo. La croce è stata una scelta di Gesù. La storia di Gesù diventa accidentale. Lui ci ha salvato così ma poteva non essere così. I vangeli ci narrano fatti della vita di Gesù che dimostrano la sua divinità, allora G. è veramente Dio. Ci mostrano che G. non era apparenza ma vero uomo perché ha pianto, ect. I vangeli non dividono Gesù ma è lo stesso soggetto colui che ha pianto e ha operato miracoli. Ma questa non è la storia di Gesù. Tutto è ridotto al genere. La storia vera è ignorata. La storia che per noi è normativa è una precisa storia, non sono categorie o generi o miracoli. Questa storia ci salva che è indifferente alla narrazione classica. L’esistenza porta a compimento l’essenza. L’essenza umana di Gesù ha un actus essendi proprio? No, perché l’actus essendi di Gesù è l’ipostasi del Verbo e non la natura. L’essenza umana è priva di una propria ipostasi (anipostasia) mentre questo atto del sussistere è donato dall’ipostasi. 2. E’ una re-interpretazione limitativa delle narrazioni neotestamentarie circa la storia di Gesù. 3. Si tratta di una storia che ha dei riverberi ecclesiali. Il linguaggio utilizzato è normativo ma non riesce ad essere compreso dai cristiani. Conseguenza ne è il sacro cuore di Gesù. Faccio sorgere immagini e linguaggi adatti ai miei sentimenti. Questo fa sì che a un certo punto si sviluppi un doppio binario nella vita della chiesa. Gesù è narrato dogmaticamente e immaginosamente nella esperienza del popolo cristiano. Quale fu il senso di Nicea II? Perché a un certo punto la chiesa difende il culto delle icone? E’ il luogo in cui avviene la sutura tra la grande narrazione classica e la fede dei cristiani. La chiesa a Nicea II ammette la legittimità dell’immagine di Gesù. Se il Verbo si è fatto carne allora è legittima l’immagine. Tutta la cultura religiosa dell’oriente si rifà all’immagine. L’adorazione dell’immagine è l’adorazione di Dio che si fa carne. La comunicatio degli idiomi. Giacché la persona di Cristo è il soggetto portatore delle due nature, nella persona di Cristo le due nature comunicano, distinte e non confuse sono unite nell’ipostasi divina. Il Verbo possiede proprietà umane e divine. Lo stesso logos possiede nel Logos le proprietà umane e divine. Della stessa persona possono essere predicate gli attributi delle due nature. Nell’unica persona di Cristo sono uniti attributi che sono della natura divina e umana. Prima regola: Non sono ammesse astrazioni e reduplicazioni perché altrimenti si prescinde da ciò che unisce le nature. Si può dire tutto purché il soggetto resti la persona e non la natura. Es. Gesù è Dio in quanto uomo: dire ciò è falso; Gesù è Dio in quanto nell’unica sostanza sussistono le due nature: dire ciò è vero. Seconda regola: Non si qualifica una natura mediante un’altra. Non si dice mai l’uomo divino o il corpo divino. Es. è sbagliato dire l’uomo divino o il corpo onnipresente perché è il Cristo ad essere onnipresente. Terza regola: le attribuzioni negative sono da evitare quando sono vere per una e false per l’altra. Es. Gesù è naturalmente mortale; ciò è sbagliato perché si dovrebbe dire che Gesù in quanto uomo è mortale. Quando diciamo di Cristo qualcosa di negativo dobbiamo introdurre le reduplicazioni. Es. Cristo era ignorante in quanto uomo.

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La persona divina fa esistere la persona umana. L’unione non avviene nella natura ma nella persona, nell’ipostasi.


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7. LA CHIESA COME COMUNIONE E IL SUO IMPEGNO ECUMENICO La Chiesa di Cristo «subsistit in Ecclesia catholica» (LG 8) Pio XII identifica esclusivamente la chiesa cattolica come corpo di Cristo (la chiesa di Cristo è [est] la chiesa cattolica), come anche è presente nel primo schema De ecclesia del Vaticano II c’è ancora il termine est. Il secondo schema afferma invece che fuori della chiesa cattolica ci sono elementi ecclesiali, ma questa affermazione non è coerente se nello stesso tempo si afferma anche l’est; per questo è stato cambiato l’est con il subsistit in, per potersi accordare con l’affermazione «altri elementi ecclesiali fuori dalla chiesa cattolica». Anche la Dominus Jesus al numero 16 spiega i termini subsistit in e altri elementi fuori dalla chiesa cattolica. Padre Sullivan, per tanti anni ha insegnato ecclesiologia alla Gregoriana, ed afferma che i commentatori a questo testo hanno visto il cambiamento da est ad subsistit come l’apertura ad in riconoscimento ecclesiale dei cristiani non cattolici. Padre Sullivan, dice che per rispondere a queste domande dobbiamo rispondere alla luce di Unitatis Redintegratio. La commissione teologica in una relazione che presentava il capitolo 1 di LG presentava un altro termine ancora: adest, cioè essere presente. Ma il significato del termine non va inteso nella prospettiva filosofica, ma nel significato del termine corrente. Sulla base di questo LG 8 vuol dire che la chiesa del NT continua ad esistere nella chiesa cattolica governata da Pietro, ma se sussiste nella chiesa cattolica, in che modo di trova in essa? Padre Sullivan [LG

UR 2] afferma che sebbene la chiesa

sia una comunione di fede, speranza e carità la cui causa è lo SS, questa unità è anche visibile, che per essere realizzata Cristo a dato alla sua chiesa il ministero: della parola, dei sacramenti, del governo. Quindi c’è una unità visibile

elementi dell’unità visibile

ministeri per l’unità visibile. UR 3 dice

che questa unità visibile sussiste nella chiesa cattolica ed in essa soltanto con la pienezza dei mezzi di grazia. Questo passaggio del verbo tiene presente anche il problema ecumenico. LG 15 dice che ci sono diversi modi con cui la chiesa è legata con i cristiani non cattolici. LG 8 dice che fuori dalla chiesa cattolica ci sono elementi di santificazione di verità. UR 3 dice che tra gli elementi o beni dai quali presi insieme nel loro complesso la chiesa è vivificata, alcuni possono trovarsi fuori dai confini visibili della chiesa cattolica. Le stesse chiese e comunità separate nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso. Questo brano sottolinea l’importanza delle chiese separate in quanto tali nel mistero della salvezza. Il capitolo III di UR porta questo titolo: speciale considerazione delle chiese orientali; quindi si riconosce la chiesa orientale come chiesa e benché non sono in piena comunione con Roma sono riconosciute come chiese locali (UR 14).


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Dei Luterani e delle comunità occidentali, invece non vengono definite come chiese, ma come comunità ecclesiali: non c’è una chiesa, ma c’è una forma di chiesa. Che cosa comporta allora il subsistit nella questione ecumenica? Sullivan dice che il concilio ha riconosciuto esplicitamente il carattere di chiesa alle chiese d’oriente ed ha riconosciuto comunità ecclesiali le confessioni occidentali. Dopo questa interpretazione di padre Sullivan passiamo alla interpretazione autorevole del 1995 del papa Giovanni Paolo II nella enciclica Ut unum sint al numero 11 afferma: «gli elementi di santificazione e di verità presenti nelle altre comunità cristiane costituiscono la base oggettiva della pur imperfette comunione esistente tra loro e la chiesa cattolica. Nella misura in cui tali elementi si trovano nelle comunità cristiane costituiscono la presenza operante di Cristo». Nel 2000 Ratzinger afferma che il concilio si differenzia dalla definizione si Pio XII, nella differenza terminologica si nasconde il problema ecumenico, nel concilio si dice che la chiesa di Cristo può essere incontrata nella chiesa cattolica. Nel 2000 abbiamo la dichiarazione Dominus Jesus, ed inizia un problema, al numero 16, rilegge in “subsistit in” in questi termini: da un lato la chiesa di Cristo continua ad esistere pienamente nella chiesa cattolica, d’latro lato ci sono segni di comunità. Ed al numero 17 si afferma che le comunità eccelsigli non sono chiese in senso proprio. Quindi Dominus Jesus da una restrizione rispetto alla apertura iniziale del Concilio. K. J. Becker in OR, ed. Settimanale n. 50 (16 dicembre 2005) 11-13, da l’ultima interpretazione del 2005, ed è ancora più restrittivo della interpretazione di Dominus Jesus. Afferma di vedere tutto il capitolo 8 di LG nel suo insieme: Cristo è l’unico mediatore della chiesa, la chiesa ha un aspetto visibile ed invisibile, ecc. Questa chiesa afferma, che esiste e sussiste nella chiesa cattolica. Quindi nei primi 2 paragrafi c’è una unità che ha alcune condizioni: ministerialità, Pietro, successione di Pietro, quindi per Padre Becker il subsistit non è altro che un sinonimo di est e critica le altre posizioni. Quindi gli elementi che ci sono nelle altre chiese non sono operanti per vie delle chiese, ma per via dello SS. La interpretazione più conforme al testo del concilio, secondo Padre Nunzio è quella di Padre Sullivan.


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L’unità L’unica Chiesa come comunione di Chiese a) Chiese, Chiesa e comunione ecclesiale nel NT Nella Sacra Scrittura emerge un dato preciso: la chiesa si sviluppa da Gerusalemme e si formano tante chiese, tante assemblee, tante quanti sono i luoghi di raduno del culto: la chiesa ad esempio che si riunisce nella casa di Aquila e Priscilla. In 1Cor 11 Paolo parla delle Chiese di Dio. Queste Chiese in che modo costituiscono l’unica chiesa? Ciò si presta a due interpretazioni: 1) Ci sono diverse chiese a sé stanti che si fondano in una sorta di confederazione, oppure 2) le singole chiese sono una modalità o una realizzazione di un’unica chiesa. L’evidenza dei dati del NT dice che una confederazione non è ammissibile, allora andiamo per la seconda ipotesi, cioè che nelle varie Chiese è presente l’unica Chiesa. Paolo in 1Cor, comincia dicendo che la lettera è destinata «alla Chiesa di Dio che è in Corinto». Al capitolo 15 afferma: «io sono l’infimo degli apostoli perché ho perseguitato la Chiesa di Dio», quindi nel primo caso parla della chiesa di Corinto che fa parte dell’unica chiesa di Dio, nel secondo caso si riferisce alla Chiesa di Dio anche se lui ha perseguitato una chiesa ben precisa: quella di Gerusalemme. L’avere in comune le stesse cose: un solo corpo, una sola fede, un solo battesimo, i cristiani sono in comunione gli uni con gli altri. Nella lettera ai Galati c’è un elemento di unione tra i giudeocristiani ed i pagani convertiti al cristianesimo: la comunione col sentire degli apostoli: Paolo e Barnaba e gli altri a Gerusalemme hanno lo stesso Vangelo, quindi l’elemento di comunione è il Vangelo. Lui vuole che tutte le chiese cristiane a prescindere dalla provenienza etnica siano in comunione, ma l’elemento di comunione è la stessa fede. Un altro elemento decisivo è: «ci pregarono di ricordarci dei poveri, proprio ciò di cui mi sono preoccupato di fare», quindi il secondo elemento di comunione è il ricordarsi del povero: le chiese della Giudea stanno vivendo una situazione di povertà, e la raccolta dei beni materiali che Paolo organizza sono segni della condivisione tra le chiese, a questa colletta Paolo dedica due capitoli, in 8 e in 9 in 1Cor. In Romani parla pure di una colletta e percepisce la Chiesa come una comunione di Chiese e ci elenca gli elementi della comunione: la stessa fede e il ricordarsi del povero. b) Chiese, Chiesa e comunione ecclesiale nel Vaticano II + Le Chiese Quando parliamo di chiese intendiamo innanzi tutto le chiese cattoliche romane che si distinguono dalle chiese separate, quindi ci riferiamo alla comunità parrocchiale che è una forma di realiz-


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zazione della chiesa. La comunità locale dipende dalla comunione con il vescovo diocesano, è importante il riferimento al vescovo perché LG 23 afferma che il vescovo è il principio visibile ed il fondamento dell’unità. Christus Dominus, al numero 11 afferma: «la diocesi è una porzione del popolo di Dio affidata alle cure pastorale di un vescovo» la comunità locale è chiesa nella misura in cui è inserita nella chiesa locale. LG 23 nell’ultima sezione parla del raggruppamento di diocesi e che l’insieme di diocesi forma una chiesa particolare a motivo di tradizioni liturgiche, teologiche, ecc. Quindi per chiese intendiamo innanzitutto le chiese cattolico-romane che si dividono in due grandi gruppo: le chiese d’occidente (o chiese latine) e le chiese d’oriente in comunione con Roma (o chiese greche). Poi abbiamo le chiese d’Oriente non in comunione con Roma o separate (di cui se parla nel decreto Unitatis Redintegratio), che possono essere o le chiese ortodosse o altre chiese: le chiese ortodosse accettano le decisioni dei sette concili ecumenici, lo stesso non vale per le chiese nestoriane che accettano soltanto i primi tre concili ecumenici. Di queste chiese UR 14 parla come di chiese particolari. Queste chiese sono pienamente chiese come le chiese particolari cattoliche? In UR 3 si afferma «solo per mezzo della cattolica chiesa di Cristo, si può ottenere la pienezza della salvezza». La pienezza è legata al ministero petrino che nella comprensione cattolica è visto come uno strumento di salvezza, mancando questo nelle chiese separate da Roma, non sono pienamente chiesa. Ma il concilio nonostante ciò le chiama chiese sorelle, l’unica discriminante è il ministero petrino. Per chiese intendiamo anche le comunità ecclesiali d’occidente, che nella comprensione cattolica non sono chiamate chiese ma comunità ecclesiali. Il motivo della distinzione emerge in UR 22 perché prende come determinante la liturgia eucaristica. «Esse per la mancanza del ministero dell’ordine non c’è la piena presenza eucaristica». Quindi per la mancanza della presenza eucaristica non vengono chiamate chiese dalla chiesa cattolica, ma comunità ecclesiali. Fra tutte queste chiese c’è un elemento di comunione, anche se separate, quindi potremmo dire che convergono tutte in una sola chiesa.


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+ La comunione ecclesiale ) La Chiesa cattolica romana 1) La correlazione tra Chiesa Universale e Chiese Locali La prima questione nodale è la correlazione tra la chiesa universale e le chiese locali. Nel 2000 c’è stato in Vaticano un simposio riguardo alla recezione del Vaticano II, dove è scoppiato un contrasto tra Ratzinger e Casper: il primo difende la priorità della chiesa universale sulle chiese locali, mentre Casper ha parlato di una priorità delle chiese locali sulla chiesa universale. Il problema di partenza sta in LG 23: «in suis Ecclesiis particularibus … in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia» [le chiese particolari sono formate ad immagine della chiesa universale, in forza della quale esiste l’una e unica chiesa cattolica]. Qui stando a questo testo noi abbiamo un doppio movimento: in ed ex. Quindi da una parte la chiesa universale esiste nella misura in cui si realizza nelle chiesa locali, viceversa la chiesa universale in quanto realtà storica è costituita a partire dalle chiese locali. Quindi c’è un doppio movimento: da chiese locali a chiesa universale, e da chiesa universale a chiese locali. Questa espressione di LG 23 proviene da Mystici Corporis che però non parla di chiesa universale, ma di chiesa «catholica», quindi per Mystici Corporis la chiesa Cattolica proviene dalle chiese locali. La chiesa di Cristo, in quanto comunione di chiese, non nasce dal fatto che ogni chiesa locale diventa vera perché realizza la chiesa universale. Si parla della relazione «in quibus et ex quibus» come di una relazione reciproca e totale di immanenza tra locale ed universale. Il riferimento ad universale qui è legato al romano pontefice. Ma che significa chiesa universale? Torniamo alla questione di Ratzinger e di Casper. Il cuore della questione è nell’aggettivo universale. L’espressione universale nella LG ricorre 10 volte e quando ricorre ha sempre un duplice significato: da una parte significa il disegno salvifico di Dio e la chiesa escatologica, un secondo significato è quello della chiesa storica che ha nel papa il suo principio visibile di unità. Quindi di quale chiesa universale parliamo? Di chiesa universale escatologica (Ratzinger) o di chiesa universale storica (Casper). Entrambi, sia Ratzinger, sia Casper avevano ragione perché si riferivano a categorie di universale diverse. La Mystici Corporis a sua volta cosa intendeva nel parlare di universale? La Mystici Corporis è stata scritta da Padre Tromp, il quale nei suoi appunti di Ecclesiologia alla Gregoriana usa in sostituzione ad universale, anche Totalis e Catholica. Padre Tromp voleva indicare la chiesa escatologica, infatti per totalis voleva indicare la Chiesa totale nel Cristo totale. Quindi se la chiesa universale è escatologica ha ragione Ratzinger, se se invece per universale intendiamo la chiesa storica nel papa ha allora ragione Casper. C’è una reciprocità perché la chiesa di Cristo non può essere concepita senza le chiese locali perché sarebbe pura astrazione, viceversa la chiesa locale non può esistere se non in riferimento alla chiesa universale.


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2) La Chiesa cattolica come comunione di Chiese La chiesa cattolica è costituita da due elementi reciproci ed immanenti di chiese locali e di chiesa universale. Per cogliere la categoria «comunione», bisogna leggerla alla luce di LG 14: «sono pienamente incorporati nella chiesa quelli che avendo lo Spirito di Cristo accettano tutti i segni di Cristo e sono uniti dai vincoli dei sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla comunione… non si salva però, anche se incorporato alla chiesa, colui che rimane in seno alla chiesa con il corpo, ma non con il cuore». Quindi per comunione si intende: 1) una comunione teologica che riguarda la fede ed i sacramenti; 2) un aspetto giuridico, cioè il rispetto della gerarchia della chiesa; 3) la comunione fraterna. 1) è una comunione teologica: abbiamo una comunione con Dio nel Suo Spirito, nella stessa fede e negli stessi sacramenti, 1) è una comunione giuridica: devo riconoscere il parroco, il vescovo ed il papa come pastori e devo affidarmi alle loro cure pastorali. È un riconoscimento reciproco di diritti e di doveri tra le persone, 3) infine la comunione fraterna tra i membri della comunità. Nell’ultimo numero di Vita pastorale di Aprile c’è una articolo di Don Dario Vitali, il problema dei preti stranieri incardinati in Italia che svolgono qui il loro ministero. Ma questo problema ha un altro problema nel retroterra e cioè la chiesa locale. Nella chiesa locale è importante la relazione della chiesa locale con il vescovo. Il vescovo ha una importanza fondamentale nella misura in cui teologicamente il vescovo non è una figura estranea alla diocesi. Le chiese locali che hanno un loro carisma e che devono determinare le proprie caratteristiche. Il problema teologico è che il vescovo quindi non risulta come principio di identità della chiesa locale. La chiesa locale deve avere una propria identità. Nella chiesa locale, la chiesa è presente in un luogo con un suo carisma e con la sua identità. La chiesa locale come deve incarnare ed esprimere il proprio carisma? Il segno visibile che le parrocchie di una determinata area formano nella diocesi la chiesa locale, è il vescovo che è il principio di identità della chiesa locale. I vari vescovi rappresentano insieme la chiesa universale perché sono in piena comunione con il vescovo di Roma. La comunione tra i vescovi ed il papa si chiama «comunione ieratica» e si tratta dei propri diritti e doveri tra loro vescovi ed il papa, tutti insieme sono membri del collegio episcopale. LG 21 dice che «la consacrazione episcopale conferisce gli uffici di governare e di santificare, ma devono essere in comunione con la funzione gerarchica con il capo del collegio e con i membri». Uno diventa vescovo con la ordinazione episcopale e riceve il munus di governare, di santificare e di istruire, ma per la l’esercizio del munus deve vivere la comunione ieratica: quindi sono messi insieme l’aspetto sacramentale e l’aspetto giuridico. L’unità della chiesa e la comunione e ecclesiale ha due riferimenti precisi: l’eucarestia e l’episcopato.


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) La chiesa cattolica e le chiese separate d’Oriente Le chiese separate d’Oriente non hanno una piena comunione perché manca l’aspetto giuridico: il riconoscimento del collegio apostolico e del vescovo di Roma (leggere UR 14). Abbiamo una carenza della comunione giuridica, ma c’è una piena comunione teologica. ) La chiesa cattolica e le comunità ecclesiali d’Occidente Queste comunità come le precedenti non si trovano nella comunione giuridica. UR 22 inoltre mostra come queste comunità non vengono chiamate chiese a motivo della mancanza del sacramento dell’ordine, quindi non c’è la presenza eucaristica. Quindi manca la comunione giuridica e in parte la comunione teologica. UR 20 dice che c’è una comunione tra loro che unicamente confessano Gesù Cristo come Dio e come uomo. C’è una comunione nel battesimo, nella fede, nelle Sacre Scritture. UR 3 dice che quelli che credono in Cristo ed hanno ricevuto debitamente il battesimo hanno una certa comunione con la chiesa cattolica. b) L’unica chiesa Questa unica chiesa di Cristo con le varie confessioni cristiane è a motivo della comunione. Quindi la chiesa di Cristo c’è non solo dove c’è la piena comunione, ma anche nelle chiese dove non c’è la comunione gerarchica, ed anche nelle comunità ecclesiali dove c’è una comunione di fede. Il concilio ha anche parlato della chiesa cattolica romana e delle chiese orientali separate come di una sola chiesa: «per mezzo della stessa eucarestia del Signore, la chiesa di Dio è edificata e cresce» (UR 15), dove per chiesa di Dio, si intende in questo testo la chiesa cattolica romana e la chiesa orientale separata. Anche le comunità ecclesiali rientrano entro i limiti dell’unica chiesa di Cristo perché esiste una comunione sebbene imperfetta. È una visione molto ampia della chiesa di Cristo. Allora entro quali limiti può essere riconosciuta la chiesa? La fede in Gesù Cristo e dove ci sono segni di comunione teologica. Nella Dichiarazione della congregazione della dottrina della fede “Misterium Ecclesiae” si legge: «le varie chiese non sono formate da una somma delle varie confessioni cristiane». Questo perché la comprensione parte dal “subsistit”, cioè la chiesa cattolica non è un membro fra i tanti nella chiesa. Il dato di fondo è che c’è una comunione con le varie chiese e in esse c’è una presenza di chiesa anche se imperfetta. Se la chiesa di Cristo è da trovarsi anche dove non c’è una piena comunione ecclesiale allora siamo obbligati a dire che la chiesa di Cristo oggi non ha una unità che Cristo ha desiderato, per questo siamo allora chiamati alla unità piena e da qui il passaggio all’ecumenismo.


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L’unica Chiesa e la pluralità confessionale. Il problema ecumenico Leggiamo Casper, in “la via dell’unità”: «la communio non è una entità distante e futura a cui il dialogo ecumenico deve mirare perché attraverso l’unico battesimo tutti siamo innestati nel corpo di Cristo. mediante il battesimo e la fede abbiamo il diritto ad essere chiamati cristiani. Tra i battezzati quindi esiste già una unità, anche se incompleta». Quindi il nostro cammino non è verso la comunione, ma verso la piena comunione. Ed è un cammino che deve compiere ogni cristiano di tutte le confessioni. a) l’impegno ecumenico e il CEC La parola ecumenismo deriva dal greco “ecumene” che significa abitato e civilizzato. La parola può anche essere riferita al concilio ecumenico e al patriarca ecumenico, questo aggettivo indicava ciò che era comune alla chiesa tra oriente ed occidente, dopo la rottura la parola è rimasta solo per indicare il concilio ecumenico. C’è un secondo senso che è quello del concilio ecumenico delle chiese. Nella accezione odierna ci sono due eccezioni di senso: cammino ecumenico sta ad indicare il lavoro per il ristabilimento della comunione tra le chiese. Nascono delle conferenze missionarie che si incontrano circa ogni 10 anni. Nel 1910 ad Edimburgo c’è una svolta, viene fondato il consiglio internazionale missionario che verrà integrato nel consiglio ecumenico delle chiese nel 1961. Questo consiglio lavora per le unità delle chiese e nello stesso tempo è l’espressione di una unità delle chiese già avvenuta nello stesso consiglio ecumenico delle chiese. Ma questo consiglio non è una federazione di varice chiese e nemmeno una unione, cioè la chiesa cattolica non è affiliata al consiglio ecumenico. La chiesa cattolica ha solo una relazione col consiglio ma non ha deciso di affiliarsi perché tutto ruota intorno all’autocomprensione ecclesiologica che la chiesa cattolica romana ha: il subsistit. Il CEC attualmente è composto dalle chiese che provengono dalla riforma, dagli ortodossi, dagli anglicani, dai luterani e dai cattolici. b) le tradizioni cristiane e l’unità Lo scopo del movimento ecumenico è camminare con le chiese verso una unità visibile o verso una communio piena. Ma l’unità come viene intesa dalle varie chiese? L’ortodossia ritiene che occupa un posto centrale ed unico per quanto riguarda l’unione delle chiese. Quindi per gli ortodossi l’unità è quella di tornare alla chiesa dei primi sette concili ecumenici,


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perché per gli ortodossi le altre chiese hanno tradito questa unità comune, solo gli ortodossi sono rimasti gli unici fedeli alla vera ortodossia. La visione protestante, nella confessio augustana, afferma che per la vera unità della chiesa è sufficiente consentire sulla dottrina del vangelo e sui sacramenti. Nel 1973 è avvenuta la concordia di Leuenberg che sancisce l’unione delle chiese protestanti in Europa che afferma: per una vera unità della chiesa è necessaria e sufficiente l’accordo sulla dottrina del Vangelo e sui sacramenti. Quindi l’unità della chiesa si costituisce sul Vangelo e sui sacramenti divinamente istituiti: il battesimo e l’eucarestia. UR parla di defectus ordine. Ma per gli evangelici è ritenuto di istituzione umana. Accanto alle chiese protestanti classiche abbiamo le chiese libere: metodisti, pentecostali, ecc… Gli anglicani sono una via di mezzo tra le chiese cattoliche romane e le chiese della riforma. Le conferenze di Lambeth degli anglicani hanno influenze su tutte le chiese anglicane, leggiamo il testo del 1930: la comunione anglicana è una comunione di diocesi province o chiese regionali in comunione con la sede di Canterbury che hanno le caratteristiche in comune: mantengono diffondono la fede e l’ordine, sono chiese particolari e nazionali e promuovono una espressione nazionale della fede, sono legate fra loro non da una autorità legislativa ed esecutiva centrale ma da una realtà reciproca confermata dai vescovi riuniti. La loro proposta di unita è il quadrilatero di Lambeth, cioè i quattro elementi costitutivi dell’unità: 1) le sacre scritture dell’AT e del NT, 2) il simbolo degli apostoli ed il simbolo di Nicea, 3) i due sacramenti istituiti da Cristo stesso, battesimo ed eucarestia, 4) l’episcopato storico adattato a livello locale nei suoi modi di organizzazione. L’anglicanesimo vede una unità visibile collegiale, però è un episcopato con diverse espressioni… loro stessi dicono di loro di essere già l’unità realizzata, quindi gli altri devono fare come loro. La chiesa cattolica romana con il Vaticano II si è impegnata in questo cammino, ci sono 3 elementi: comunione teologica, giuridica e sacramenti. c) qualche problematica teologico Stare “di fronte” significa che il ministro è portatore di una Parola più grande che è la Parola del Signore, allora, a volte, deve dire cose spiacevoli (per sé e per gli altri). Anche nelle Chiese della Riforma c’è l’ordinazione (con l’imposizione delle mani e la preghiera). Nelle chiese cattoliche l’ordinazione è un sacramento, mentre nelle chiese della riforma non viene visto come sacramento (perché non c’è istituzione immediata dei Gesù storico). Nel 1981 nasce un documento cattolico-luterano dal titolo “il ministero pastorale nelle chiese”, che afferma: «ci si deve chiedere se non siano venute meno le differenze che dividevano riguardo il ministero». Altro problema è la successione apostolica; il ministero è il servire l’unità della chiesa: diacronicamente nella storia e sincronicamente oggi. Per noi la successione apostolica è legata alla Scrittura


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ed al ministero. La chiesa è apostolica perché il suo ministero episcopale ha una successione ininterrotta. Se da qualche parte la catena si è interrotta, manca qualcosa (apostolicità del ministero) come nelle chiese della riforma. Queste ultime affermano in merito alla apostolicità: che è assicurata dalla “Sola Scriptura” ed i cattolici hanno falsificato questa accezione. C’è un reciproco rimprovero di mancanza di apostolicità. Nelle chiese della riforma, allora, si è spezzata la successione apostolica e non c’è continuità (diacronicità). La catena non sta allora nel ministero, ma nel ministero episcopale. Nelle chiese della riforma si potrebbe parlare di continuità di ministero (non episcopale), inoltre non c’è la tripartizione del ministero (episcopo, presbitero e diacono), ma c’è un solo ministero. Il problema è quindi il riconoscimento dei ministeri. Le chiese a riconoscimento episcopale (cattolici più ortodossi), considerano le comunità ecclesiali riformate imperfette a causa di un defectus ordinem. Nelle comunità ecclesiali della riforma il Vescovo ha solo una funzione rappresentativa e non giuridica, è più importante il decano.


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Il ministero petrino a servizio dell’unità Il primato petrino è a servizio dell’unità (intra-cattolica ed extra), ma paradossalmente crea problemi ecumenici. Come vivere allora il ministero petrino in questo contesto ecumenico oggi? come sono stati definiti il primato petrino e l’infallibilità del Vaticano I? Oggi c’è un grande desiderio di un ministero dell’unità anche nelle altre chiese. Papa Giovanni Paolo II in “Ut unum sint” dice che non vuole mettere in discussione il primato, ma cercare nuove forme di esercizio del ministero petrino senza rinunciare all’essenza. Ma cos’è per la Chiesa cattolica questa essenza irrinunciabile del ministero petrino? Un buono studio è quello di W. Kasper, dice che dobbiamo tenere presenti quattro principi ermeneutici per cogliere questa essenza: 1) integrare il contenuto del dogma nel contesto della ecclesiologia. Ciò voleva fare il Vaticano I, per esempio la “Pastor Aeternus” dice che il primato ha lo scopo dell’unità della chiesa. Anche il Vaticano II ha voluto dare un contesto ecclesiologico (nella comunione episcopale), ma non è sempre chiaro. 2) L’integrazione in tutta la tradizione. Ratzinger nel suo studio sostiene che per il fondamento del ministero petrino è stato rilevante il primo millennio soprattutto il periodo della riforma gregoriana. Un recezione del Vaticano I, da parte delle chiese di Oriente, darebbe un altro aspetto al ministero petrino; 3) Una interpretazione storica. Benedetto XVI, ha detto che il papa non è un sovrano assoluto. (come non dice il Vaticano I, perché storicamente condizionato). Allora bisogna separare le affermazioni sul primato dalle forme storiche con cui sono state fatte; 4) L’interpretazione secondo il Vangelo. Il servizio di Pietro è visto come pastorale: Gesù buon pastore.


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8. LA TEOLOGIA DELLA GRAZIA DA LUTERO A GIANSENIO La scolastica Le categorie fino a poco tempo fa dominanti nella teologia, che continuano ad influire ancora oggi notevolmente, devono in gran parte la loro strutturazione alla grande scolastica del Medioevo. In esse ci sono notevoli differenze rispetto a sant' Agostino, però il pensiero del dottore di Ippona è senza dubbio uno dei punti di partenza della riflessione; insieme ad esso bisogna situare la filosofia aristotelica, introdotta nell' Europa occidentale dai pensatori arabi. Precisamente si è soliti caratterizzare le scuole teologiche francescana e tomista (in linee molto generali) per il maggiore influsso che in esse esercita la prima o la seconda di queste correnti. La novità maggiore dei pensatori medievali rispetto a quelli che li hanno preceduti è la preoccupazione di determinare quello che significa per l' uomo la presenza della grazia. Questo darà luogo alla formazione della dottrina che sarà denominata in seguito della "grazia creata". Dal momento che non possiamo presentare una panoramica neppure sommaria della storia della teologia medievale ci concentreremo sulla nozione di grazia secondo san Tommaso. Il suo punto di partenza è che l' uomo è una creatura chiamata alla comunione con Dio, e che di conseguenza non ha altra possibilità di giungere alla sua pienezza se non è in questa stessa comunione (ricordiamo quanto detto trattando del problema del "soprannaturale"). Però questo fine è superiore a quello che l' uomo può raggiungere in virtù delle sue forze naturali. Ha bisogno perciò di un aiuto proporzionato al fine al quale tende, che lo "elevi" al di sopra della sua condizione di semplice creatura e gli dia la possibilità di realizzare il bene morale proporzionato a quest' elevazione; tale aiuto è la "grauomo che deriva dalla sua condizione di creatura zia"8. Alla insufficienza per raggiungere il fine dell' si aggiunge che la sua natura sperimenta le conseguenze del peccato, non si trova in stato di integrità. Per questa ragione la grazia deve avere un effetto "sanante", deve concedere all' uomo quelle forze di cui la sua natura si è vista privata per effetto del peccato. Senza questa grazia, l' uomo non potrà rimanere molto tempo senza peccare, anche se potrà compiere alcune buone opere concrete. La fonte di questa grazia non è altro che l' amore di Dio e la sua benevolenza. Però così come noi amiamo negli altri quei valori e qualità che preesistono al nostro amore, Dio crea nell' uomo quello che ama. Per questo l' amore di Dio ha un effetto creato in noi, causa una modificazione del nostro essere, poiché la benevolenza divina ha effetti nel suo destinatario. L' anima è così elevata e trasformata, riceve una partecipazione alla natura divina, un certo essere soprannaturale, di modo che quest' uomo 8

È significativo il posto che occupa la dottrina della grazia nella sistematica della Summa: nel contesto degli atti umani, si tratta dei principi esterni: a questi atti la legge è la grazia; questa viene studiata nell I II, qq. 109-114. Cfr. sull’aiuto della grazia, De Ver. q. 27, a. 3; S. Th., I II, q. 109, a. 2.


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trasformato dalla grazia e come conseguenza di essa può avere ed esercitare le virtù teologali della fede, speranza e carità. Il soggetto di queste virtù è realmente l' uomo giustificato, che riceve una nuova forma o modo d' essere, un habitus o "qualità" permanente dell' anima. Questa qualità però non è sostanziale, perché si aggiunge ad un soggetto già costituito; si deve trattare pertanto di una forma accidentale, che dà al soggetto una nuova perfezione. Dio agisce mediante una forma creata perché l' uomo deve continuare ad essere tale9. L' amore non solo esiste in Dio, ma anche in noi; la grazia è la presenza dell' amore creatore di Dio nello stesso essere dell' uomo, che lo rinnova dal più profondo del suo essere. Questa insistenza di san Tommaso e degli altri grandi autori del suo tempo sulla trasformazione intrinseca dell' uomo deve essere intesa come reazione alla tesi di Pietro Lombardo secondo la quale il nostro amore di Dio, la carità, si identifica con lo Spirito Santo effuso nei nostri cuori (cfr. Rm 5,5). Se questo fosse certo risulterebbe, secondo san Tommaso, che lo Spirito Santo avrebbe rispetto alla carità la stessa funzione che ha l' habitus rispetto alle altre virtù. È per salvare il carattere di soggetto dell’uomo che per san Tommaso si rende necessario parlare della grazia come dono abituale o qualità dell' anima. Ora, ciò non vuol dire che questa grazia possa arrivare ad essere qualcosa di "nostro" nel senso che, una volta acquisita, possa essere considerata indipendente dalla sua fonte, l' amore di Dio. Tutto il contrario; questo amore è il principio permanente della trasformazione dell' uomo. In virtù di questo amore creatore di Dio e del suo effetto l' uomo partecipa all' essere di Dio stesso. Non si tratta quindi che venga creata la grazia come una cosa, ma del fatto che si opera una trasformazione totale nell' uomo che la riceve. Questa ricreazione dell' uomo non si produce senza la presenza in noi delle tre persone divine. La dottrina dell’inabitazione in san Tommaso non e organizzata sistematicamente, anche se le allusioni ad essa sono abbondanti. È importante per noi la constatazione che lo Spirito Santo ci è dato «nello stesso dono della grazia», e pertanto, a quanto sembra, non si può parlare in san Tommaso di una grainsegnamento della fizia creata separata o previa a quella “increata”10. San Tommaso conosce pure l' liazione adottiva degli uomini, anche se ritiene che il soggetto di quest' adozione è a rigore la Trinità, sebbene si "appropri" al Padre11. La forte accentuazione dell' unità di Dio nelle sue operazioni ad extra ha portato ad una certa dimenticanza della rilevanza della Trinità nella vita cristiana. D' altra parte però è chiaro in san Tommaso che ogni dono di grazia viene da Cristo, nel quale si trova la pienezza dello 9

Cfr. De Ver. q. 27, a. 1; q. 29, a. 3; la grazia è accidente nell’uomo, precisamente perchè sta sopra la natura; se fosse sostanza o forma sostanziale, l’uomo cesserebbe di essere tale; il fatto che la grazia “accidente” non significa che sia “accidentale” nel senso comune della parola. 10 S. Th., I, q. 43, a. 3; tutto l’articolo è importante per questa questione. Anche III, q. 7, a. 13; il principio della grazia abituale è lo Spirito Santo; la grazia è causata dalla presenza della divinità; in I Sent. D. 14, q. 2, a. 1, riceviamo lo Spirito Santo prima dei suoi doni. Oltre a questa priorità del dono di Dio stesso sul dono creato, Tommaso tende a considerare in modo unitario la presenza delle tre persone divine nell’uomo, ed a considerare una mera “appropriazione” le menzioni specifiche delle Spirito Santo. 11 Cfr. S. Th., III, q. 23, a. 2; cfr. anche q. 32, a. 1; q. 45, a. 4, l’adozione filiale è secondo qualche immagine della filiazione naturale del Figlio.


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Spirito del quale partecipiamo; l' umanità di Gesù è lo strumento di cui Dio si serve per la comunicazione di ogni grazia. L' uomo ha anche bisogno della "grazia", dell' impulso divino, per avvicinarsi a Dio e ricevere la "grazia santificante"; anche se bisogna notare che in alcuni momenti della sua vita Tommaso non ha chiamato "grazia" il primo movimento che Dio opera nell' uomo perché si converta a lui; ma una maggiore riflessione gli ha fatto vedere che sebbene l' uomo non abbia ancora la grazia santificante è grazia anche questo iniziale avvicinamento a Dio. Tommaso conosce anche diverse divisioni della grazia: la più importante di esse è quella che stabilisce tra la grazia gratum faciens, la grazia santificante, per mezzo della quale l' uomo si unisce a Dio, e la grazia gratis data, per mezzo della quale l' uomo coopera a che altri siano condotti a Dio. Anche san Bonaventura ha conosciuto la nozione dell' habitus e della "grazia creata", correggendo la tesi del Maestro delle Sentenze; secondo lui con l' idea dell' habitus risalta più chiaramente il primato di Dio, e di conseguenza si stabilisce meglio con essa la distanza di fronte all' errore pelagiano. Bonaventura pensa alla grazia cristologicamente, anche se la questione della filiazione divina dell' uomo si muove pure nel segno dell' unità delle operazioni divine ad extra e pertanto nel segno delle "appropriazioni". Insieme alla grazia creata viene dato il dono increato dello Spirito Santo, che il Padre ci dona mediante il Verbo incarnato. La grazia non è solo "possedere" Dio, ma soprattutto "essere posseduti" da Lui12. A partire da Duns Scoto nella teologia diventa sempre più centrale la libertà di Dio; niente può obbligarlo ad "accettare" la creatura, e per questo si sottolinea la sua totale iniziativa nella giustificazione e nella grazia; nell' uomo non c' è nulla che obblighi Dio ad entrare in comunione con lui. La distinzione tra la potentia Dei absoluta e la potentia Dei ordinata serve per salvaguardare da una parte la libertà e la trascendenza di Dio, e dall' altra la coerenza del suo operare con la creatura, poiché Dio salva tutti quelli che si trovano nel suo amore e nella sua grazia13. Ma con questo modo di ragionare può aprirsi la porta ad una concezione più estrinsecista della grazia e degli effetti dell' amore di Dio nell' uomo. Nell' evoluzione della scolastica a poco a poco il possesso della grazia abituale tende a separarsi dalla presenza dell' amore creatore nell' uomo e a diventare in qualche modo il presupposto dell' accettazione della creatura da parte di Dio. La grazia creata arriva ad essere considerata il presupposto di quella "increata", o presenza di Dio stesso nell' uomo. Da qui i malintesi a cui quella nozione ha potuto dar luogo tra i riformatori.

12 Brev. V I 5: «nessuno possiede Dio senza essere posseduto particolarmente da Lui»; cfr. ibid., I 2 4, sul dono increato dello Spirito, dato con la stessa grazia e in essa; cfr. anche in II Sent. d. 26, a. 1, q. 2. 13 Per l’insegnamento di Scoto, ciò che è più importante per lui non sarebbe la grazia creata, ma la relazione tra le libertà di Dio e dell’uomo.


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La Riforma protestante, il concilio di Trento e la teologia postridentina Affronteremo più diffusamente la questione della grazia in Lutero e nel concilio di Trento quando parleremo del problema specifico della giustificazione; questo fu l' aspetto della teologia della grazia più direttamente discusso in quei momenti. Nonostante ciò, non sarà inutile dire già adesso alcune parole sulla nozione della "grazia" che viene utilizzata. Abbiamo insinuato che Lutero reagisce contro l' idea della grazia creata e dell' habitus propria della scolastica del suo tempo, nel senso in cui egli intende questi concetti: qualcosa che, una volta posseduto, costringe Dio a darci la vita eterna, un presupposto per l' azione meritoria del giusto che gli offre un certo diritto alla salvezza, ecc. Per questa ragione la grazia può arrivare ad essere «più odiosa della legge», cioè, ad essere ancora di più fondata su ciò che l' uomo fa e sui suoi meriti, e perciò più lontana dal primato assoluto di Dio. Da qui la negazione della "grazia creata", perché la giustizia del cristiano non si riferisce ad una sostanza o ad una qualità, ma dipende soltanto dal favore divino. L' azione di Cristo per noi non si manifesta direttamente in noi. Nonostante la complessità che presenta il pensiero di Lutero, si può affermare che l' aspetto "estrinseco" dell' amore di Dio manifestato in Gesù ha il primato sull' elemento "intrinseco" della trasformazione dell' uomo. Il concilio di Trento, i cui decreti sulla giustificazione studieremo nel capitolo seguente, ha cercato di rispondere a questa dottrina luterana. Per non entrare nelle questioni di scuola allora dibattute, si rinunciò ad una definizione della grazia come habitus creato. Il concilio però vuole affermare la realtà della giustificazione nell' uomo e considera insufficiente la semplice non-imputazione del peccato (cfr. DS 1529); la grazia non è solo il favore di Dio, è anche "inerente" all' uomo (cfr. DS 1561). Con lo stesso vocabolo "grazia" vengono designate a Trento diverse cose distinte: l' azione di Dio che muove l' uomo alla giustificazione (cfr DS 1525; 1551 s.) o lo fa perseverare nel bene (cfr. DS 1541); troviamo una terminologia di tradizione agostiniana, nella linea dell’adiutorium, sebbene il termine non venga usato. La grazia è anche l' amore e il favore di Dio manifestato nella redenzione di Cristo (cfr. DS 1526; 1532); adesso è la terminologia paolina che si fa strada. Infine il vocabolo indica il dono ricevuto da Dio e presente in noi (cfr. DS 1528; 1544; 1557; 1582); qui è la terminologia scolastica che predomina, anche se si evita con frequenza il vocabolario tecnico. In tutti i casi viene sottolineato il primato di Dio nella salvezza, ma si pone anche in risalto l' effetto dell' azione divina. Per Trento la grazia non è mai qualcosa che l' uomo possiede indipendentemente dalla fonte dalla quale scaturisce. Si insinua anche l' idea della presenza di Dio o dello Spirito in noi (cfr. DS 1546, l' unione con Cristo; DS 1529 s., lo Spirito che dà la giustificazione, il Padre ci unge con lo Spirito, l' amore di Dio si diffonde nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo). Da ultimo dobbiamo notare che nel decreto tridentino non si parla solo della realtà della grazia nell' uomo. ma anche della nuova relazione di questi con Dio (cfr. DS 1522; 1524; 1528).


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Il tema della grazia, in seguito alla crisi della Riforma e alle controversie tra cattolici che furono suscitate in continuazione, raggiunse negli anni successivi al concilio di Trento un' importanza molto più grande di quella che ebbe nei secoli precedenti. La realtà della giustificazione e della trasformazione effettiva dell' uomo da una parte, e la "cooperazione" di questi con la grazia dall' altra, sono i due punti che determineranno l' evoluzione della dottrina cattolica della grazia negli anni seguenti. Quest' ultimo problema è fondamentale nella disputa "de auxiliis", intorno alla grazia di Dio e alla libertà dell' uomo, che ebbe luogo alla fine del secolo XVI e agli inizi del secolo XVII; lo stesso titolo della controversia indica una determinata nozione della grazia centrata sull’«aiuto» divino, l' impulso necessario affinché l' uomo compia il bene. La famosa disputa mise a confronto i teologi tomisti, specialmente Domingo Báñez, da una parte, e Luis de Molina (nella sua opera Concordia liberi arbitrii cum gratia donis, pubblicata nel 1588) e i teologi gesuiti che lo seguirono dall' altra14. Nel tentativo di soluzione del problema posto, i tomisti partivano dal primato di Dio e della sua volontà salvifica; questa si manifesta nella grazia che dà agli uomini, la quale, nel caso in cui Dio vuole che sia efficace, viene accompagnata da una "premozione fisica" che muove l' uomo ad agire come causa libera; ciò accade in maniera tale che la grazia muova la libertà perché questa agisca nel modo voluto da Dio. Di fronte a questa spiegazione il molinismo parte anzitutto dalla libertà dell' uomo; solo questa libertà fa sì che la grazia sia realmente efficace. Ma ciò non vuol dire che il primato di Dio venga dimenticato: Dio vede, in virtù della sua "scienza media" (così chiamata perché si situa tra la "scienza di visione", per mezzo della quale Dio conosce tutto il reale, e la "scienza di intelligenza", per mezzo della quale conosce i possibili), quello che farebbe l' uomo nell' esercizio della sua libertà se fosse collocato in una determinata circostanza; conosce pertanto i "futuribili". Dio pone l' uomo nelle circostanze che vuole affinché, a sua volta, questi operi secondo la sua libertà. Così vengono salvati, a giudizio di Molina e dei suoi seguaci, il primato della grazia e la libertà dell' uomo. Il molinismo parte dal dato della concreta libertà umana in ogni situazione; d' altra parte però i futuribili sui quali si basa la soluzione proposta (quello che l' uomo farebbe in ogni caso), sembrano essere pensati indipendentemente da Dio, per cui non risulta chiaro come possa essere salvaguardata l' onnipotenza divina e il primato reale della grazia. Al contrario, nella soluzione dei tomisti è chiaro il primato di Dio e della sua volontà, ma la spiegazione della libertà umana, affermata sul piano metafisico, non riesce ad essere chiara in concreto a livello psicologico. Paolo V risolse la questione nel 1607, consentendo ad ognuna delle due scuole di seguire la propria opinione e proibendo la reciproca condanna (cfr. DS 1997; anche 2008 s.; 2509 s.; 2564 s.). In realtà, e prescindendo dalle soluzioni concrete del problema, è la stessa impostazione della questione che appare inadeguata. La grazia non può essere mai una limitazione per la libertà umana. È quella che muove la libertà, e pertanto manife14 Nei manuali classici si possono vedere raccolte le posizione contrapposte delle scuole. Brevi sintesi delle posizioni si troveranno in tutti i trattati menzionati nella nota 3 della introduzione al trattato della grazia.


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sta anche in questa il suo primato. Nello stesso tempo però l' affermazione della libertà deve rimandare a Dio e alla sua grazia, come l' unico che dà a questa libertà il suo senso autentico. L' agire di Dio e quello dell' uomo non interferiscono tra di loro perché non si collocano sullo stesso piano. La presenza della grazia suscita e rende possibile la libertà, e questa deve appoggiarsi in Dio dal quale tutto procede. I due estremi devono essere affermati, sapendo che ci sfugge il modo concreto della relazione tra entrambi. Insieme al tema dell"«ausilio» della grazia ("grazia attuale"), necessario perché l' uomo possa operare il bene in ogni momento, si pone quello delle possibilità che ha la "natura pura" per il retto operare morale. La teologia cattolica manterrà che il peccatore, nonostante la sua inimicizia con Dio, non pecca in tutte le opere che compie, cioè, che rimane in lui una bontà "creaturale" che non scompare per il fatto del peccato. Questo punto sarà di grande importanza nella polemica con l' agostinismo eterodosso dei secoli XVI e XVII. D' altra parte, non sempre è stato posto in evidenza con chiarezza dalla teologia cattolica di questo periodo che il peccatore, anche se privato dell' amicizia e della grazia di Dio, non per questo agisce con le sole forze della "natura pura"; persino nella sua situazione di rifiuto della grazia, continua ad essere chiamato alla comunione con Dio in Cristo per la quale è stato creato. La controversia teologica post tridentina Ci troviamo di fronte alla povertà della teologia post tridentina. Trento aveva parlato di libertà, ma non aveva chiarito il rapporto grazia - libertà. La controversia si inserisce proprio in questo contesto e porta ad un disaccordo generale. Le controversie sono tre: a - De auxiliis b - Baio c - Giansenio Le prime due sono contemporanee, la terza è posteriore.


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Polemica de auxiliis La questione del rapporto grazia - libertà resta aperta e scatena molte polemiche. L’uomo è libero e il libero arbitrio permane anche dopo il peccato originale. Ma visto che l’uomo è libero la sua libertà è una libertà indifferentemente orientata. Libertà significa potere scegliere con assoluta indifferenza di fronte a due alternative: grazia e male. La grazia è insieme con la libertà, per cui nell’atto in cui conseguo la grazia esprimo pienamente la libertà. In questo contesto si colloca Molina, autore di un opera dal titolo Concordia, concordia del libero arbitrio con i doni della grazia. Nell’opera si trovano tutti i punti della dottrina moliniana: 1. l’uomo deve essere libero per essere uomo; 2. per potere conseguire la giustificazione occorre il concorso della grazia e della libertà; 3. Molina parla di scientia media, cioè Dio conosce tutto, compreso il futuro dell’uomo e la risposta che l’uomo darà ad ogni grazia che Dio gli concederà. In relazione alla risposta che l’uomo darà sarà predestinato; Dio prevede questo libero consenso per la sua prescienza e indipendentemente dalla decisione di donare la grazia. Viene valorizzata la libertà dell’uomo. 4. la causalità dell’azione divina e umana giacciono su piani diversi: l’una trascendente l’altra creaturale, quindi non si contrappongono. L’uomo è libero e potrebbe infrangere i limiti della correlazione, anche se il punto in cui si incontrano queste correlazioni ci fa confermare l’idea di mistero. Meriti di Molina sono: 1. l’essere libero dell’uomo non è tale da dire che l’uomo è un mero strumento nelle mani di Dio; 2. la volontà salvifica di Dio è universale, 3. tutti sono creati per manifestare l’amore di Dio, a meno che per libera volontà non ci si rifiuta.


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Polemica baiana Baio è un teologo di Lovanio. Prese parte come perito alle ultime sessioni del concilio di Trento. Secondo Baio il libero arbitrio non può agire rettamente prima della grazia della giustificazione [per i cattolici può agire rettamente. Aveva detto il concilio di Orange che quanto di buono c’è in noi risulta dalla grazia di Cristo, il mio essere e la mia capacità di compiere il bene sono creati in Cristo). Alcune tesi di Baio intaccano la gratuità della grazia del soprannaturale. Per l’uomo innocente, prima ancora di commettere il peccato, i dono di grazia sono un diritto, gli sono dovuti. La grazia per l’uomo innocente è autodonazione di Dio. La teologia cattolica si sente turbata, ecco perché vuole difendere la gratuità della grazia. A tal proposito fa uso dell’ipotesi della natura pura, secondo cui, è vero che la grazia è dono gratuito della creatura, tant’è che Dio avrebbe potuto crearla lasciandola nel suo ordine naturale, cioè allo stato di natura pura priva di grazia). Polemica giansenista Giansenio fu un teologo fiammingo formatosi a Lovanio. L’opera principale è Augustinus. Ha messo in questione alcuni aspetti del pensiero di Agostino. 1. concezione della natura umana; 2. libero arbitrio; 3. predestinazione. Nell’Augustinus Giansenio espone e commenta il pensiero di Agostino senza tenere conto dell’evoluzione del pensiero agostiniano nella lotta contro i pelagiani. Questo errore a Giansenio è costato caro, perché ha fatto dire ad Agostino cose che successivamente quest’ultimo aveva superato. Per cui, arriva a delle formulazioni perentorie e ad un rigido sistematismo che tradiscono perfino il pensiero di Agostino. Giansenio insiste sul fatto che la natura umana è corrotta, è impregnata dal peccato, non lascia all’uomo altra libertà che per il male. Espone sistematicamente la sua dottrina sulla grazia efficace, che opera senza distruggere la libertà dell’uomo, che Dio gratuitamente dona per un suo decreto di predestinazione. In seguito alle scoperte geografiche si pone la questione se la salvezza è per tutti, compresi gli infedeli. In ogni stato e in ogni fede c’è una possibilità di salvezza. Cioè che ti esclude dalla salvezza è la deliberata resistenza all’azione salvifica di Dio.


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III – Area morale

9. FEDE, CELEBRAZIONE DEL SACRAMENTO E IMPEGNO MORALE: ANALISI DI QUESTI TRE MOMENTI NEI SACRAMENTI DELL’INIZIAZIONE CRISTIANA E DEL MATRIMONIO E POSSIBILE RECUPERO NELLA PASTORALE, OGGI

(NB: la risposta a questo punto mi sembra poco affidabile… credo sia opportuno studiare questa domanda dagli appunti di morale e di liturgia).

I° punto-

occorre chiarire questi tre punti. Essi non sono tre capitoli, o tre realtà distinte, ma davanti ad un unico capitolo, possiamo definirla una realtà trina:

a. Che cosa è la fede? È l’apertura dell’uomo a Dio, a Cristo, alla grazia, alla salvezza che Dio ha offerto all’uomo e che ha anche realizzato ed attualizzato. b. Come si è attuata la fede? Attraverso i sacramenti la fede diventa celebrazione. La salvezza è l’uomo rinnovato nel suo essere (cfr. ed amplia il discorso con la giustificazione intrinseca ed estrinseca) di conseguenza trasforma anche l’agire dell’uomo. L’essere si esprime nell’agire che dà all’uomo la possibilità di essere sé stesso. Questo è un processo unico, unitario che si evolve nel modo appena espresso. c. Che cosa possiamo leggere da questi tre capitoli dell’unico evento? Facciamo riferimento al mandato dato da Gesù nel Vangelo di Marco e di Matteo: i. Mc 16, 15-16: «Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». C’è il comando di predicare il Vangelo, chi lo accoglierà riceverà la salvezza, cioè verrà raggiunto dalla salvezza; ii. Mt 28, 18-20: «E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”». C’è il comando di ammaestrare le nazioni battezzandole (aspetto sacramentale) ed insegnando ad osservare i comandi (impegno morale frutto dell’accoglienza e del sacramento) II° punto-

Un altro aspetto che si può attenzionare è il RICA. In esso si può cogliere l’evolversi della fede che conduce al sacramento, dal quale scaturisce l’ethos, ossia l’impegno morale. Altro aspetto sono le tre note pastorali della C.E.I. in queste ultime è evidenziato il cammino dell’unico evento in tre periodi: a. l’annunzio fa scaturire la fede b. che a sua volta diventa bisogno del sacramento


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c. che non può diventare vita nuova. Atti degli Apostoli, primi 4 capitoli. Coloro che sono pervenuti alla fede sentono il bisogno di celebrare l’eucarestia dalla quale scaturisce l’ethos di vita; Colletta o post-communio del tempo pasquale. Il sacramento celebrato diventa principio di vita nuova; LG 7-11. Esprime un’interazione dei tre momenti dell’unico evento; DV. Presenta una relazione tra la Parola ed i fatti. La Parola diventa efficace facendo scaturire la fede che si concretizza con dei fatti concreti. Missione

Testimonianza

novità di vita

Nel dialogo con il mondo contemporaneo si può essere veri ed autentici: Se si ha avuto bisogno di Dio (fede); Un bisogno soddisfatto nei sacramenti; Tale soddisfazione diventa uno stato di vita. Il testimone, uomo di fede, deve poter testimoniare che il suo bisogno (apertura a Dio), ha trovato il Dio la sua soddisfazione, un Dio che si dà nei sacramenti e che si trasforma in vita. La missione è annunziare il salvatore dell’uomo bisognoso della pienezza di vita. Analisi di questi tre momenti nei sacramenti della iniziazione cristiana e possibile recupero della pastorale oggi: Primo sviluppo:

Marco + Matteo = fondamento

Secondo sviluppo: Esposizione “ad effetto” da Tertulliano ripreso dalle tre note pastorali della C.E.I. Il battesimo è visto come sigillo della fede, un timbro da mettere da mettere su un foglio scritto, fede che viene sigillata dal sacramento. Catecumenato: -

storia del catecumenato;

-

praenotanda del RICA;

-

note della C.E.I.

Nelle note della CEI e nel RICA vi è la storia rivista per l’oggi. Si evidenziano i diversi passaggi, le diverse figure (catechista, padrino e comunità). Da essi emerge una preoccupazione: verificare se c’è fede, altrimenti non ha senso l’Iniziazione cristiana.


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Terzo sviluppo:

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età patristica: da essa si evince l’analogia tra miracoli e fede che diventa sacramenti e fede. Il Salvatore è Cristo, ma per farlo necessità un desiderio da parte di chi desidera la salvezza che è la fede che ha salvato. Per i padri, ma anche per gli apostoli, quindi, sommariamente, nel ministero di Gesù, è la fede del soggetto che ha consentito la guarigione.

Quarto sviluppo: I testi conciliari. DV, SC, si afferma che la fede prepara al battesimo, LG 7,14, si evince il discorso sacramentale. Molti suggerimenti li abbiamo dall’AG, documento posteriore che ricapitola i precedenti. In questi documenti (AG, LG, DV, SC) c’è il richiamo all’ethos, si nota come la celebrazione acquista valore e significato dalla fede che è inizio di vita nuova. Tertulliano: Cristiani non si nasce, si diventa. Il ritorno al catecumenato aiuta l’uomo indicandogli come vivere la vita nuova. Mistagogia: è la traduzione del dono di grazia, di salvezza in ethos. SC-AG:

fanno vedere che il sacramento va tradotto in prassi; va evitato il rischio del ritualismo.

Rito del matrimonio: -

Introduzione: evidenziare il pluralismo di comprensioni e di etiche del matrimonio, affinché il matrimonio cristiano sia più chiaramente percepito, per essere presentato, vissuto, reso più appetibile;

-

Occorre credere, accettare il progetto cristiano del matrimonio, ciò presuppone una fede più ampia che rende possibile il progetto di Dio. La fede dei nubendi deve rendere visibile la carità divina, il credere a Cristo ed alla chiesa.

-

Il rito: analizzare i testi ecologici, le letture che evidenziano la correlazione tra il matrimonio e il Cristo sposo, carità divina, libertà, donazione.

-

Il matrimonio è la partecipazione alla carità divina che diventa concreta nel Cristo che ama la chiesa. Il matrimonio è una chiamata all’amore di tipo sponsale i cui frutti sono la convergenza, l’unità, dimensione salvifica.

-

Idea del patto: a. Come rapporto interpersonale; b. Come partecipazione con la “P” = vissuto morale -

P = vissuto morale = diventa relazione comunionale, diventa ricerca, impegno, gusto dell’unità. Espressione massima è la fedeltà di Dio che si contrappone alla infedeltà dell’uomo.


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10. LO STATUTO PERSONALE DELL’EMBRIONE E’ molto importante cercare di rispondere alle domande: Quando inizia la vita umana? Dalla risposta dipendono molte altre considerazioni. Se incomincia prima del concepimento è un conto, se inizia in una fase successiva il discorso come la fecondazione in vitro, l’aborto acquistano un' altra risonanza morale. In passato, per rispondere a questa domanda, si utilizzavano le teorie animazioniste cioè fondate sulla infusione dell’anima. Si pensava che la vita umana comincia quando Dio infonde l’anima. Quindi si tratta di capire in quale momento Dio infonde l’anima. •

S. Alberto Magno: ritiene che Dio infonde l’anima nel momento stesso del concepimento, parla di una animazione immediata.

S. Tommaso: pensa ad una “animazione” ritardata cioè successiva alla fase del concepimento. Secondo, Tommaso, l’uomo attraversa 3 fasi prima di giungere alla vita umana, passa prima attraverso: 1.

La vita vegetale

2.

La vita animale

3.

La vita umana

È in queste tre fasi che Dio infonde l’anima. S. Tommaso pensa che l’infusione dell’anima avvenga prima nei maschi e successivamente nelle femmine. ( intorno al 40 giorno di concepimento per gli uomini, intorno all80 giorno per le donne, perché per le donne, dice S Tommaso la 2 fase, la vita animale dura negli uomini di meno). Naturalmente non c’è niente di scientifico considerate che la scoperta dell’ovulo risale al 1827. Oggi le teorie animazioniste sono abbandonate, si preferisce utilizzare, per rispondere alla domanda circa l’inizio della vita umana, le teorie antropologiche. Si intende un teoria che studia il problema in una ottica di globalità e interdisciplinarietà. Si tratta di rispondere a questa domanda valutando globalmente l’uomo (corpo – spirito) e utilizzando diverse discipline, certamente la biologia, medicina, antropologia, teologia (…) non può essere solo la bioetica a dirci quando c’è vita umana. Grosso modo sono 4 le principali teorie antropologiche: La prima teoria sostiene che la vita comincia nel momento stesso del concepimento della fecondazione dell’ovulo. (coincide con l’animazione immediata di S. Alberto Magno) Su quali motivazioni si fonda questa 1° teoria ? sostanzialmente su 2: Primo, si fonda sull’idea che il concepito possiede un patrimonio genetico unico, originale, insostituibile, un DNA unico e irripetibile. Dopo 2 secondi tra l’incontro tra le 2 cellule germinali, la nuova cellula che si costituisce, quella dell’embrione, possiede già una propria identità genetica.


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Comincia la divisione dei cromosomi e il patrimonio genetico ha un marchio umano unico e irripetibile. Dopo 11 ore del concepimento si può notare una moltiplicazione delle cellule. Tra il 2°e 3° giorno si giunge alla formazione della moula, che è costituito da 2 assedi di cellule. Dopo il 4° giorno si arriva allo stadio della plastocisti e siamo a 64 cellule. A partire dal 6 ° giorno inizia il processo di impianto nell’utero. E su questa base diciamo il secondo motivo, quindi oltre ad avere un patrimonio genetico unico e irripetibile, noi scopriamo che l’embrione fin dal concepimento possiede una capacità autonoma di sviluppo, cioè il suo sviluppo non dipende da fattori esterni, ma è insito in se stesso, lo possiede da sé. Quando diciamo che non dipende da fattori esterni, diciamo che non dipende neanche dalla madre. Un conto è dire che l’organismo materno è l’habitat più idoneo allo sviluppo, un altro è dire che sia la causa dello sviluppo, l’embrione possiede in sé stesso la capacità di auto – sviluppo. Una conferma di questo ci viene data paradossalmente dalla fecondazione artificiale. La fecondazione in provetta, da questo punto di vista ci serve, ci aiuta a capire che nelle primissime fasi del suo sviluppo, l’embrione si sviluppa da sé. È vero che poi viene trasferito nel grembo materno, si sta studiando la possibilità dell’utero artificiale. Quindi, l’embrione, non solo possiede una sua identità genetica ma possiede una capacità autonoma di sviluppo. La seconda teoria antropologica sostiene che non è accettabile l’idea che la persona incomincia nel momento del concepimento. E non è accettabile perché nelle prime fasi dello sviluppo embrionale c’è ancora il processo di meiosi, cioè di suddivisione cellulare. In questa fase, le cellule dell’embrione, sono toti – potenti, cioè che non sono ancora differenziati nei vari tessuti o organi, le cellule quindi non sono specializzate, sono differenziate. Inoltre, in questa fase, non si può ancora stabilire se dallo zigote, cioè dall’unione dell’ovulo e spermatozoo scaturirà un solo individuo o 2 gemelli omozigoti. In questa fase, in cui c’è la meiosi, non si sa ancora se si formeranno 2 individui o solo uno. Questa fase termina era con la cosiddetta (……) e con l’inizio dell’abitamento nell’utero. Questa fase arriva al suo completamento intorno al 14° giorno. Allora, dicono coloro che sostengono queste 2 motivazioni, piuttosto che parlare di embrione si deve parlare di pre – embrione, non c’è un embrione vero e proprio. Tutto ciò fa dire che non c’è vita personale, perché manca un requisito della persona che è l’individualità. Come rispondiamo a ciò? Angelo Serra, gesuita, in un suo libro, mi va anche bene che si parli di pre-embrione, ma solo per 2 secondi, perché dopo comincia la divisione delle cellule.


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E dice, Serra, anche l’argomento della possibile gemellazione non regge nemmeno sul piano biologico perché nel processo di sviluppo embrionale non c’è un momento in cui scompare l’individualità e un altro momento in cui ricompare in due soggetti distinti. L’eventuale formazione di un gemello non elimina l’individualità da cui proviene, ma semmai si aggiunge alla prima, cosi, anzi si aggiungono 2 individui da rispettare. La verità è che, i sostenitori di questa teoria, confondono l’individualità con l’indivisibilità. Quando dico” individuo” non dico necessariamente indivisibile, ma dico un essere che è distino da tutti gli altri e questo c’è già nel momento del concepimento. L’essere che si è venuto a formare nel concepimento è un essere distinto da tutti gli altri essere umani. Oltre a questo, i sostenitori di questa teoria, non distinguono il termine individualità dal termine identità. Il primo termine individualità risponde alla domanda: quanti sono? Uno, due, tre. Il secondo termine identità risponde alla domanda: chi è ? L’embrione ha una sua identità fin dal concepimento anche se ancora non siamo in grado di sapere se si svilupperà un solo individuo, ma non c’è dubbio sulla sua identità. Il processo di gemellazione, non è esattamente un processo di divisione, ma è un processo di moltiplicazione. Dal momento che l’embrione non si dimezza nella sua unità ( da 1 ne facciamo mezzo più mezzo) ma si moltiplica, cioè acquisisce una nuova identità che è distinta dalla prima. La toti – potenzialità delle cellule non significa indeterminazione questo è reso evidente dal fatto che anche tra i gemelli monozigoti c è un primo e c è un secondo. Grazie ad un cellula che ha mantenuto la sua toti – potenza e si distacca dalle altre, viene a formarsi un nuovo individuo senza interferire con il primo. Lo stesso termine del “14 giorno” nella fase pre – embrionale, come dicono questi sostenitori, è scientificamente erroneo; è ormai noto che i gemelli bizigoti ricevono il loro destimo ad uno sviluppo separato, già intorno al 4° giorno, e quelli monozigoti tra il 5° e il 7° giorno. Questa teoria non è accettabile. La terza teoria fa leva su un altro momento della definizione di Boezio, cioè quello della razionalità. Gli autori di questa teoria sostengono che si può parlare di persona soltanto quando si esercitano le caratteristiche di razionalità. Allora, poiché queste caratteristiche sono legate al cervello, concretamente bisognerebbe almeno attendere che si sviluppino le cellule del cervello perché si possa dare al concepito la qualifica di soggetto personale. Il cervello quando incomincia a formarsi? Già verso il 18° giorno dal concepimento compare la placca neurale, da cui poi si svilupperanno le strutture del sistema nervoso celebrale. 8 settimane dopo la fecondazione si può registrare già una attività elettrica del cervello. Verso la 12° settimana, la struttura del cervello, è già completata. A questo bisogna aggiungere che è ormai scientificamente assodato che esiste un dialogo tra la madre e il feto, fin dalle prime settimane della gestazione.


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Non può essere messa in discussione una capacità razionale già a livello della muta fetale. Questo è uno di quei campi in cui bisogna essere tuzionisti che vuol dire tuzionismo in morale? La parola viene dal comparativo di maggioranza tuzione che vuol dire più sicuro. Il tuzionismo in morale è la scelta del più sicuro, della strada più sicura. Basterebbe anche solo il dubbio che si tratta di un essere umano, per avere il massimo rispetto nei suoi confronti. Nei manuali classici della morale c’è questo esempio: se il cacciatore vede muoversi qualcosa dietro un cespuglio e dubita se sia un coniglio o un bambino, nel dubbio non deve sparare. Qui c’è molto più di un semplice dubbio, anche se moralmente basterebbe anche solo il dubbio. La quarta teoria fa leva su un altro elemento della definizione di persona la relazionalità. I sostenitori di questa teoria affermano che non c’è vita umana o personale finché non c’è una relazione con gli altri. Questi autori distinguono tra una vita biologicamente umana e una vita pienamente umanizzata. La vita è pienamente umanizzata quando entra in relazione con gli altri, quando viene accolta dagli altri, soprattutto dai genitori se i genitori e gli altri non accolgono non c’è persona. Cfr. Engelahardt Questa distinzione è del tutto inaccettabile perché, qui si trasferisce su un piano ontologico un concetto che al massimo potrebbe avere una sua validità sul piano psicologico e pedagogico. Abbiamo visto che ci sono 2 modi di approccio al tema dell’inizio della vita umana. Vecchio modo è quello che dice: la vita umana comincia quando Dio infonde l’anima dove sono presenti 2 principi: •

Animazione immediata

Animazione ritardata

Le teorie più attualizzate oggi sono quelle antropologiche che sono 4: 1. la vita umana comincia nel momento stesso della fecondazione dell’ovulo. 2. finché non c’è individualità non c’è persona (embrione, pre- embrione) 3. finché non c’è capacità razionale non c’è persona 4. finché non c’è relazione sociale, accoglienza da parte dei genitori c’è vita biologicamente umana ma non c’è vita umanizzata. STATUTO DELL’EMBRIONE Tutte queste teorie antropologiche che noi abbiamo analizzato possiedono elementi importanti perché è chiaro che l’individualità, la razionalità e la relazionalità sono caratteristiche importanti della persona però queste teorie assolutizzate sono schegge di verità impazzite perché non ci autorizzano a sostenere che là dove, con certezza, mancano queste qualità non ci sia persona poiché tutte le qualità


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umane e personali dell’embrione sono registrate nell’atto del concepimento e da questo punto di vista non c’è un momento preciso in cui queste caratteristiche rappresentino una novità rispetto a un momento precedente in cui queste qualità non ci sono, cioè non c’è un momento preciso in cui le caratteristiche di individualità, razionalità e relazionalità si possono dire moralmente rispetto al momento in cui non ci sono. Va ribadito che la vera novità biologica si presenta già nell’atto della fecondazione dell’ovulo perché nell’atto della fecondazione dell’ovulo noi abbiamo un organismo nuovo rispetto a quello della madre e rispetto a quello del padre: un organismo che è dotato di un suo patrimonio genetico e che è dotato di un suo autonomo dinamismo di sviluppo cioè la capacità di svilupparsi la possiede in se stesso l’embrione, prova ne è la fecondazione in vitro è la conferma che nelle primissime fasi, l’embrione si può sviluppare anche fuori dall’organismo. Qualcuno dice che si può parlare solo di persona in potenza. L’espressione persona in potenza è un espressione ambigua perché? Secondo alcuni questa espressione dice se c’è persona in potenza c’è un farsi (persona da farsi cioè in potenza) c’è una persona potenziale. Secondo altri la stessa espressione vuole dire il contrario siccome è una persona potenziale ma non è ancora persona allora si può utilizzare per sperimentazione, si può sopprimere l’embrione. Va precisato che i concetti di potenza e forma sono concetti di astrazione aristotelica devono essere utilizzati con attenzione. Ma va precisato che Aristotele distingue la: •

potenza passiva: è la potenza inerte es. il legno prima di essere lavorato è potenza passiva di tante cose ad es. di un tavolo, di una sedia.

potenza attiva: è la potenza che sta diventando atto es. quando l’artigiano lavora il legno per farne un tavolo, il legno finisce di essere potenza passiva per diventare potenza attiva di tavolo. Se prendiamo questa categoria dobbiamo dire che l’embrione almeno almeno è potenza attiva

di persona e non può essere potenza passiva. Poi la rivelazione biblica ci dice che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio quindi l’uomo partecipa della sua stessa natura, mette in luce il salmo 139; Ger. 1,5; è chiaro che la rivelazione biblica ci introduce poi il concetto di eternità dovuta al fatto che il figlio di Dio si è fatto uomo. Gaudium et Spes 22: “ in qualche modo Dio si è unito ad ogni uomo con l’incarnazione del suo figlio.” Noi possiamo applicare all’embrione queste parole del vangelo: “ ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me.” Bisogna considerare l’embrione come uno dei fratelli più piccoli. La riflessione teologica o biblica non è fondativa della valutazione etica semmai può essere rafforzativa. Il fatto che siamo credenti rafforza i nostri convincimenti ma non li fonda cioè il fatto che


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siamo contrari all’aborto non si fonda sul fatto che siamo credenti perché è un fatto di etica naturale, dovrebbe averlo ogni uomo che è razionale. Robert Eduard, uno dei primi medici ad occuparsi di fecondazione in vitro, è il padre della prima bambina nata in provetta che oggi ha 20 anni. Si è pentito e ha detto: “ l’embrione è un essere magnificamente organizzato (…).” Il Comitato Nazionale di Bioetica è un organismo istituzionale che affianca il governo e fornisce pareri su argomenti di bioetica. È formato da 40 esperti di diverse discipline e di diverse estrazioni culturali e ideologiche. Attualmente è presieduto da Francesco D’Agostino, catanese ( ed ha il difetto di essere cattolico). Nel 1996 dopo 2 anni di accese discussioni ha tirato fuori un documento, uno statuto sull’embrione dove entrano in gioco altri statuti come l’aborto ecc. Il comitato ha sottolineato in maniera compromissoria, forse non era il caso di avvalersi di un linguaggio filosofico ma sarebbe stato opportuno un linguaggio più corrente, più comune e ha detto: “ l’embrione è uno di noi” cioè alcuni non si sono sentiti di dire che l’embrione è un essere umano e il compromesso è stato raggiunto in questa espressione perché ? per il fatto che ognuno di noi è stato embrione, di conseguenza si applica all’embrione la regola aurea della morale: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.” Il Comitato Nazionale nel documento riconosce il dovere morale di trattare l’embrione umano, già dal concepimento, gli stessi diritti della persona umana, cioè secondo criteri di rispetto che si devono adottare, quindi: •

è illecita la produzione di embrioni a fini commerciali

è illecita la produzione di embrioni a fini sperimentali Se si producono embrioni il loro fine deve essere quello della nascita. Per noi gli embrioni non possono essere prodotti nemmeno artificialmente ma il Comitato Na-

zionale non poteva avallare in totus le idee cattoliche. Anche il Magistero della Chiesa si schiera nella difesa dell’embrione cioè sul fatto che l’essere umano va rispettato fin dal 1° istante della sua esistenza cioè sin dal concepimento perché ha il diritto alla nascita. Sono possibili solo interventi terapeutici. Questo vale anche per gli embrioni prodotti che non è da considerare come materiale biologico. L’embrione e uno di noi, non è un prodotto, né semplice materiale biologico.


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