ABC Munari

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e altri giochi di Bruno Munari

a cura di Maria Perosino



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a cura di Maria Perosino



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e altri giochi di Bruno Munari

a cura di Maria Perosino



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e altri giochi di Bruno Munari a cura di Maria Perosino

COMUNE DI PISA



Pisa è felice di ospitare la mostra di Bruno Munari nello spazio da poco ristrutturato dell’antico convento di San Michele degli Scalzi. Questo grande artista, che ha attraversato tutto il Novecento, ha rivelato una capacità creativa tra le più multiformi e precorritrici di un secolo denso di linguaggi ed espressioni. L’intelligenza libera nel coniugare le invenzioni fantasiose con le tecnologie, nel proporre stimolanti antinomie quali quelle dei ‘libri illeggibili’ o delle ‘macchine inutili’, nel concepire il design come forma autonoma di espressione artistica, ha fatto sì che Munari sia stato uno dei protagonisti che ha reso l’Italia una capitale mondiale del design e ha contribuito a colmare quel ritardo che il nostro paese aveva accumulato nel primo dopoguerra, nel settore dell’arte applicata, rispetto ad altre nazioni europee e agli Stati Uniti. Per il tema che affronta, questa è una mostra pensata per un pubblico di ogni età, primi fra tutti i ragazzi delle scuole, che potranno sperimentare l’apprendimento come gioco, la potenza evocativa di segni tra i più abituali, come le lettere dell’alfabeto e i numeri, e quel filo illogico che trasforma un’immagine consueta in altro e altro ancora. Avere in città una testimonianza così avvincente su un protagonista a tutto campo della cultura del nostro tempo rappresenta dunque una grande sollecitazione per ogni genere di pubblico e per le sensibilità più diverse. Marco Filippeschi Sindaco di Pisa

Silvia Panichi Assessore alla Cultura


Cultura per eni non è solo una parola, è l’energia che favorisce lo sviluppo di nuovi linguaggi. Siamo parte attiva nella valorizzazione delle arti e nella diffusione del linguaggio artistico, per questo promuoviamo questa mostra dedicata a Bruno Munari, un esploratore gioioso di mondi capace di guardare alle nuove generazioni come energia del futuro. eni


È nella tradizione di Toscana Energia sostenere, in partnership con istituzioni pubbliche, iniziative e progetti legati al mondo della cultura, del sociale e dello sport. In questo modo la società vuole essere ancora più vicina al territorio in cui opera. Da alcuni anni Toscana Energia ha avviato un progetto dedicato alla promozione dell’arte contemporanea, per questo ha accolto con piacere la proposta di sostenere la mostra dedicata a un artista poliedrico, espressione della migliore creatività italiana, come Bruno Munari. Munari giocava con le parole, assumeva punti di vista nuovi, mischiava campi dell’arte diversi per ottenere risultati più alti. In un’espressione Munari era un genio creativo, il cui lascito artistico e culturale è tanto più importante oggi quando la capacità d’innovare e guardare al futuro diventano aspetti fondamentali di una collettività prospera. Lorenzo Becattini Presidente Toscana Energia S.p.A.


©Maria Perosino Per le immagini pubblicate in questo volume © Bruno Munari su licenza Corraini Edizioni Le opere riprodotte alle p. 25, 26, 27, 39, 40, 46, 47, 48, 49 sono di proprietà dello CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università degli Studi di Parma, Sezione Progetto. Quelle riprodotte da p. 29 a p. 37, p. 41, 50 e 51 appartengono alla collezione Giorgio Lucini, mentre quelle da p. 65 a p. 71 sono di proprietà della Fondazione Jacqueline Vodoz e Bruno Danese. Crediti fotografici per le immagini riprodotte da p. 65 a p. 71 courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz e Bruno Danese ©Roberto Marossi

2010 Felici Editore srl ISBN 978-88-6019-414-5


Questa pubblicazione è stata realizzata in occasione della mostra abc e altri giochi di Bruno Munari Pisa, Centro Espositivo San Michele degli Scalzi 2 ottobre - 14 novembre 2010 Una prima versione ridotta di questa mostra è stata realizzata nel 2008 a Urbino, Palazzo Ducale, Sala del Castellare. Mostra e catalogo a cura di: Maria Perosino Coordinamento editoriale: Sara Tedesco coordinamento mostra: Antonella Riacci organizzazione: Francesca Amore Progetto di allestimento: Mario Pasqualetti Ufficio stampa: Emanuela Minnai Progetto grafico della mostra: Eikon snc – Fossombrone Progetto grafico del catalogo: Palmisano D'Orsi MPGD Un particolare ringraziamento a: Sabrina Bacchetti, Stefano Bartezzaghi, Marco Belpoliti, Gloria Bianchino, Maria Pia Branchi, Roberto Cerati, Manuela Cirino, Marzia Corraini, Isabella Di Pietro, Giorgio Lucini, Roberto Marossi, Davide Pizzigoni. Grazie anche a: Maurizio Iannantuono



Indice Alfabeto, di Maria Perosino p. 11 - 13 Bricolage, di Stefano Bartezzaghi p. 15 - 17 CreativitĂ , di Marco Belpoliti p. 19 - 23

Lettere e alfabeti p. 24 - 37 Numeri p. 38 - 41 Esercizi di comunicazione visiva p. 42 - 51 Libri p. 52 - 61 Il caso, la regola p. 65 - 71



ALFABETO di Maria Perosino Il fatto è che Pucci non aveva mai imparato a leggere davvero, e nella sua carriera scolastica se doveva leggere ad alta voce bafugliava dei suoni a caso. […] Nelle lettere dell’alfabeto vedeva dei corpi panciuti, oppure dei corpi magri con la testa storta come la sua. Per quello non riusciva a leggere un libro, ma neanche una sola riga, dato che cadeva incantato a guardare le fisionomie delle lettere. La avventure e disavventure di Pucci lo scrittore Gianni Celati le racconta in un piccolo libro pubblicato nel 2008, ma le ambienta in un’Italia ormai lontana, appena uscita dal dopoguerra e penzolante tra boom economico e tradizioni paesane. Dunque Pucci, il protagonista, doveva essere un ragazzino intorno al 1960, anno in cui esce l’Alfabetiere di Bruno Munari. Un libro che con ogni probabilità gli sarebbe piaciuto e che magari, avrebbe potuto cambiare il suo destino di analfabeta. L’Alfabetiere, spiega infatti l’autore, non è un abbecedario, perché le lettere non sono ordinate in modo tradizionale, abc e via di seguito, ma a seconda delle difficoltà che un bambino incontra nell’impararle. La sequenza è quella che segue: iuoaeldrsnptmvzbfc(duro)c(dolce)hchicheg(duro)ghigheqcqgngl(dolce)gl(duro)sc. Il libro è destinato a bambini di età prescolare, vale a dire, tecnicamente a dei ‘non lettori’. Ogni lettera è raffigurata, o composta, da una sorta di mosaico ottenuto ritagliando da giornali e riviste tante piccole lettere uguali a quella che sarà oggetto di rappresentazione. Il piccolo non lettore è invitato a cercarne altre uguali e proseguire il disegno incollandole sulla pagina. In questo modo imparerà che ci sono tanti tipi di A e non uno solo. Questo fatto, che le lettere non fossero tutte uguali, Munari lo sapeva meglio di chiunque altro. Lo sapeva e lo sapeva usare. L’alfabeto per lui è prima di tutto una sequenza di immagini. E conoscere le immagini significa allargare le possibilità di contatto con la realtà; vuol dire vedere di più e capire di più. Un tipografo, diceva, di un libro vede rilegatura, carattere, tipo di stampa:

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tutto quanto insomma, trasforma il libro in un oggetto. Diversamente un intellettuale, o un lettore, noterà il nome dell’autore, il titolo, il prezzo: difficilmente sarà in grado di descrivere il carattere con cui sono composte le parole. Munari era capace di essere insieme lettore e tipografo: per questo poteva scrivere, anzi fare, libri di ogni tipo: anche illeggibili. E per questo è stato un grande grafico editoriale. Dava immediata rispondenza formale ai contenuti, ricorda Giulio Einaudi, aveva circuiti mentali rapidissimi che si coagulavano nelle sue mani. Ecco, appunto, pensava con le mani. E con le mani faceva quelli che lui stesso chiamava appunti grafici, non visivi. Testi finti, parole afone, che invitassero a guardare, prima che a leggere. La forma delle parole. Non solo ogni lettera che compone una parola ha una sua precisa forma, ma l’insieme delle lettere che compongono la parola, danno anche una forma globale che risulta quella della parola stessa.[…] Le linee dritte o inclinate, le curve, gli spazi bianchi tra una lettera e l’altra (il negativo), tutto concorre a dare la forma globale. Prima di essere segni utili a comporre parole, le sue lettere sono oggetti plastici, che abitano un loro spazio fisico. Della pagina prima, e poi della stanza. Basta guardare quello straordinario oggetto che è l’Alfabeto progettato, guarda caso, per un grande tipografo, Giorgio Lucini. Una serie di fogli, ha la forma di un libro, ma un libro non è, in cui si danno istruzioni necessarie non solo per costruire le lettere dell’alfabeto, ma anche per ambientarle al meglio: A girevole appesa al soffitto con nylon, O e Q, due cerchi di bicicletta appesi alla parete… Detto altrimenti: le lettere e gli alfabeti che queste compongono, hanno una loro autonomia. Anche in questo Munari è un bricoleur: le manipola, le ritaglia, le incolla, le tratta come fossero di plastilina. E nel far questo le sovverte. Le dota intelligenza propria, di una sintassi inedita, precisa, conseguente, nuova e irripetibile: perché vive dentro mani che sanno pensare. Le forme di relazione fra loro non sono solo quelle della grammatica: mettere insieme aconà e biconbì serve ad esempio a fare una costruzione, una sorta di scultura. Se però ci aggiungiamo la C, A e B possono diventare utili per a fare un libro didattico, ma anche un gioco. E lo stesso vale per i numeri: occorre sapere che 1 assomiglia a un campanile, e 5 sono le dita delle mani prima di mettersi a fare addizioni e sottrazioni. Da questo sarebbe nato Numerary, titolo in inglese


per un libro concepito negli Stati Uniti, rimasto inedito. Conoscere questa autonomia, usarla, maneggiarla, permette a Munari non solo di descrivere il mondo, ma anche di riscriverlo. E in un certo senso di sovvertirlo, definendone una nuova sintassi. E delle nuove regole. Un calendario, ad esempio, deve avere tutti i giorni dell’anno: è una convenzione, ma anche una regola. Ma chi l’ha detto che i giorni devono essere proprio 365? Il calendario di Munari è per un anno fatto di 364 giorni. Lettere e numeri sono tasselli che uniti tra loro formulano delle parole e veicolano delle informazioni. Ma sono anche dei codici visivi, e come tali intercambiabili con altri codici. Segni e simboli universali, come quelli meteorologici, ma anche reinventati, come quelli che si possono fare manipolando una forchetta. E infatti ci dimostra che piegando le punte di una forchetta, si può scrivere, o dire, o disegnare, insomma comunicare: ok, scusi, pardon… Munari fa continuamente esercizio di libero arbitrio, ma non si muove senza regole. Le sue macchine, i suoi libri, le sue fotocopie, i suoi oggetti e quanto altro sono anche dei giochi. E i giochi si possono inventare, ma per essere giocati hanno bisogno di regole. Tutto il suo lavoro è un tentativo di organizzare il mondo utilizzando gli strumenti della creatività ma muovendosi dentro uno schema concettuale rigoroso, il cui rispetto nulla ha a che vedere con l’utilità o meno dell’oggetto prodotto, sia questo un libro illeggibile, una scultura da viaggio o una macchina per suonare il piffero anche quando non si è in casa. A Munari piaceva il termine asobi, che in giapponese significa sia arte, sia gioco. Attività che condividono, tra l’altro, la gratuità, l’essere cioè non vincolate a una funzione.

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BRICOLAGE di Stefano Bartezzaghi L’etimologia di bricolage è semplicemente fantastica. Deriva da bricole, parola francese che significa «catapulta» (in italiano si dice anche «briccola»). Qual è il nesso tra le catapulte e i piccoli lavori artigianali che si fanno un po’ per utilità e un po’ per diletto? La prima cosa che viene in mente è un nesso di opposizione: la catapulta è grossolana e distruttiva, il bricolage è delicato e costruttivo. Così è molto difficile indovinare le ragioni della trasformazione dalla briccola al bricolage. In francese bricole ha poi significato «inezia, cosa di nessuna importanza» e «lavoro minuto, attività insignificante». Come è potuto capitare? L’ipotesi dei dizionari è che il passaggio si deva al fatto che chi aziona una catapulta lavora in modo intermittente. Abbassa il braccio, lo carica e lascia partire il proiettile; poi riprende. Anche il bricoleur lavora in modo intermittente, fa una cosa, poi si stufa o si distrae, poi ci ritorna. Il significato di bricolage sembra invece dominato dallo stigma dell’autarchia. Fai da te, si chiama infatti in italiano. Possiamo fare un’analogia con la cucina. Leggete una ricetta, fate una lista degli ingredienti, li acquistate, li cucinate seguendo le indicazioni. Questo non è bricolage. Aprite il frigorifero di casa, e decidete che fare usando gli ingredienti che avete, magari scarsi. Vi servirebbe il cipollotto ma avete solo cipolla; non avete salvia e alloro e ne fate a meno; riciclate un avanzo, trovate una carota e la buttate dentro. Questo è bricolage. Se le sue caratteristiche sono l’intermittenza dell’impegno - e cioè il dilettantismo - e l’autarchia sui mezzi a disposizione, il principio del bricolage si può applicare a qualsiasi àmbito. Non pensiamo solo alle lampade ricavate dalle bottiglie o alle maquette navali composte da fiammiferi. E’ bricolage quasi tutto ciò che conta al mondo: il gioco infantile, la politica, la vita sentimentale e di relazione. Noi possiamo fare finta di organizzare scrupolosi preparativi, porci condizioni sine qua non, seguire protocolli rigidi, ma in realtà «facciamo da noi», cercando di trarre il meglio da quello che troviamo a nostra disposizione. Rispetto all’ «arte di arrangiarsi» il bricolage si distingue negli esiti, ovvero nella sua economia. L’arrangiarsi si connota come soluzione rudimentale

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a un problema che si è manifestato, con un conseguente ritorno allo stato primigenio. «Sfangarsela», si dice anche: la voce gergale rende conto di questa idea di cancellazione di macchie, fuga dalla palude, ritorno sulla terra solida. Il bricolage, al contrario, non è un ritorno, ma un’andata: aggiunge al mondo qualcosa che non c’era, anche se esornativo o comunque inessenziale. Il focus dell’arrangiarsi è sulla meta, che è la stasi da riprodurre; il focus del bricolage è sul percorso: sulla raccolta dei mezzi a disposizione, sul loro esercizio, sullo spostamento di energie che si cristallizzeranno in un risultato inedito. L’enigmista, infine, applica i principi del bricolage al linguaggio. Si inibisce la libertà di chiacchiera imponendosi delle regole che esulano dalla grammatica e limitandosi le scelte. Mettiamo che decida di ridurre l’alfabeto alla quantità di nove lettere e che il caso selezioni codeste: A, B, C, E, G, I, L, O, R. A seconda dei casi, l’enigmista ancora prima della parola «bricolage» potrebbe trovare la parola «algebrico»; e potrebbe compiacersi, anche, di questo anagramma, che pare affermare che il bricolage ha le sue combinatorie, le sue incognite, le sue regole di calcolo, i suoi estri obbedienti a limitazioni stringenti. In un secondo tempo, dopo un’intermittenza, potrà poi appurare come le stesse lettere compongano l’espressione «bel giocar», e avrà ragione di essere soddisfatto della sua sessione di lavoro. «Bricolage, bel giocar algebrico»: la nave di fiammiferi che avrà costruito ha certamente una sua sghemba estetica, una sua ragione per essere catapultata nel mondo.

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CREATIVITÀ di Marco Belpoliti Nel 1971, in piena temperie contestativa, subito dopo il Sessantotto, Bruno Munari dà alle stampe presso l’editore Laterza un libretto dal titolo indicativo: Artista e designer. Quella e di congiunzione è anche una e di disgiunzione; meglio: potrebbe essere una o di scelta (Artista o design), se non fosse che Munari non è mai esclusivo, bensì sottilmente inclusivo. Anche quando critica, come fa in questo libretto dedicato al processo creativo, non mette mai fuori gli aculei, non ferisce o punge, bensì ironizza. L’obiettivo polemico del suo libro, che è tutto un inno alla professione di designer, è appunto l’artista: la figura romantica per eccellenza che sembra ritornata in auge dopo le barricate di Parigi nel maggio ’68, ovvero “l’artista romantico (che una volta si ubriacava e oggi si droga) esiste sempre”. A lui oppone “il designer oggettivo” che “ha come meta l’estetica come tecnica pura”. Il problema dell’artista nasce secondo Munari dalla separazione della figura classica dell’artista da quella dell’artigiano che lavorava “su regole pratiche nate dall’esperienza professionale”. Munari non potrebbe essere più esplicito di così. Nel corso della sua esposizione – il libro è un ottimo esempio di pedagogia munariana: costruito con materiali di riporto e di note a margine, giocato su più livelli grafici, scritto con un linguaggio semplice ma denso – spiega che l’artista fa opere singole, il designer invece multipli. Di più: il designer “è un progettista dotato di senso estetico, che lavora per la comunità”. Nonostante tutto siamo in pieno Sessantotto, all’esordio dei Settanta, visto che Munari pone l’accento su questo aspetto fondamentale della progettazione, che non è solo industriale o estetica, ma anche sociale e politica. La creatività è per lui un fatto collettivo. Ma non anticipiamo. Seguiamo piuttosto Bruno Munari, giovanissimo sessantenne, nel suo ragionamento. Il designer, spiega, non è un artista perché lavora in gruppo e non da solo. Il designer non ha stile: lo interessa risolvere i problemi in modo ottimale. Il designer non produce opere d’arte, bensì oggetti. Il designer non ha una visione personale del mondo, nel senso estetico, ma un modo per affrontare i problemi. Il designer non ha segreti del mestiere. Il designer è uno che lavora con la logica e non con l’estetica: se un oggetto è bello,

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è perché è prima di tutto buono per l’uso. Il massimo per lui è il designer anonimo, ignoto, sconosciuto, senza nome. Munari propone un Compasso d’oro a lui, al “designer ignoto”: il creatore della sedia a sdraio, delle forbici del sarto, della pinza del vetrinista, del trepiedi dell’orchestrale, ecc. Il centro del ragionamento munariano sulla creatività si trova nel capitolo intitolato “Fantasia e creatività” del libretto Artista e designer: l’artista lavora con la fantasia, il designer con la creatività. La fantasia altro non sarebbe che una “facoltà dello spirito di inventare immagini mentali diverse dalla realtà nei particolari e nell’insieme, immagini che possono anche essere irrealizzabili praticamente”. La creatività è invece “una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Insomma, la prima è libera ma non concreta, la seconda invece concretissima. La fantasia vola nel cielo, la creatività si muove sulla terra. Di più: nella fantasia non c’è la ragione, così che l’artista vede quello che pensa – pagine prima ha parlato delle “visioni” come effetto delle droghe tipico dell’artista romantico – mentre il designer non vede proprio niente: “non sa che forma avrà l’oggetto che sta progettando finché non avrà risolto e armonizzato creativamente tutte le componenti del problema”. Il risultato finale è sempre una sorpresa. La contrapposizione non potrebbe essere più netta. Ma davvero le cose stanno così? Davvero lui stesso, il giovane Munari, senex-puer della creatività, lavora così? C’è da dubitarne. Facciamo qualche passo indietro, o in avanti (come si preferisce). L’arte, dice Munari, non pone regole, mentre, al contrario, il progetto vive di regole. Il designer e grafico milanese non è davvero un utopista. O meglio: la sua utopia, se c’è, è sempre concreta. In questo è un antiplatonico, più aristotelico di Aristotele. Il miglior progettista, ripeteva nei suoi laboratori, agli allievi, ai clienti, ai committenti e agli amici, è quello che è viene dimenticato, pur continuando i suoi oggetti ad esistere. Si può dire che Munari è il Perec del design: votato alla contrainte, alla sfida imposta dalle regole, che segue pedissequamente, eppure contravviene. Tuttavia la variazione che contraddice la costrizione è nascosta: leggera, invisibile, imprendibile. Un autore dopo la morte dell’Autore. Per questo è così simpatico, così leggero, così fine: finge di non impegnarci, e ci impegna. Per dirla con Caillois, teorico del gioco, Munari è per il game, fingendo di fare del play. Regole ferree che si nascondono nel “trastullo”, il “divertimento”. E in effetti si “di-verte”, gira contro se stessa


la regola. Ecco le bellissime lampade, in cui il packaging, l’imballaggio è già una forma, e insieme una funzione: la lampada si piega e ripiega, ed entra perfettamente nel sottile cartone che la contiene. Aperta si dispiega: piegarsi, ripiegarsi e spiegarsi sono i tre verbi della sua attività di scrittore di libri (bellissimi, inventivi, didattici e insieme trasversali). Paolo Fossati, suo acuto interprete in Codice ovvio, libro-riassunto di Munari, stampato nello stesso anno di Artista e designer da Einaudi (vetrina del suo pensiero e pensiero che si mette in vetrina), ha spiegato in modo mirabile nella postfazione la differenza tra artista e designer cui è dedicato il volumetto edito da Laterza: il primo “stacca il suo prodotto dal flusso fenomenologico o fisico o psicologico, collocandolo in opposizione ad esso sia come rispecchiamento, come definizione culturale”; il secondo, cioè Munari, “resta in quel flusso, lo chiarisce nella sua dimensione specifica, nella sua qualità di conoscenza e di riconoscibilità, e la definisce e intensifica in quanto tale: che è poi anche una pedagogia visiva”. Meravigliosa doppia definizione che ci permette di capire, anche contro Munari e le sue tesi, la specificità stessa dell’arte italiana, la sua intrinseca parentela con il design. Meglio: come il design – nel caso di Munari, e di Achille Castiglioni, Sottssas, Enzo Mari, ecc. – nasca in stretto rapporto con l’arte, ma rovesciandone la modalità stessa d’azione. I designer italiani, a differenza di quelli svedesi, danesi o giapponesi, non producono oggetti, ma incrementano il flusso, lo evidenziano e lo punteggiano d’opere. Quello che fanno – la modernità postmoderna di Munari – resta sempre in contatto con la conoscenza e la riconoscibilità. Ecco perché davanti a una lampada di Castiglioni, a una libreria di Mari o all’Abitacolo di Munari, si ha la sensazione di averlo già visto; un’impressione di famigliarità, ovvero la riscoperta di quel flusso cui appartengono le chiese romaniche e i templi barocchi, l’affresco della chiesetta di campagna come il Tempio Malatestiano – e naturalmente i quadri di Boccioni e di Morandi, ma anche i segni di Giulio Paolini e i sacchi di Burri o le putrelle di Kunnellis. Munari è uno dei padri del design italiano. Meglio: ne è lo zio, visto che come parente laterale, né padre né madre, può praticare il proprio eccentrico nomadismo culturale, sviluppare la sua nicchia progettuale, divertirsi e farci divertire, senza quasi pagar dazio. Ex-futurista come Palazzeschi, è l’autore di una “Sedia per sedute brevissime”, che come molte sue creazioni accorcia il tempo dell’azione e al tempo stesso la prolunga in una infinita, ma leggerissima, coazione a ripetere.

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A leggere con attenzione il discorso sul metodo della creatività (Artista e designer) ci si accorge che Munari ha in qualche modo voluto aggirare il problema. Di più: ha barato, dal momento che in lui è fortemente presente l’artista. È un artista che fa il designer obliando continuamente la sua fantasia a vantaggio della creatività. Si dovrebbe dire: trasferisce la fantasia nella creatività, la ordina, la organizza e la trasforma in metodo. È un fantasista creativo, come è evidente in un altro libro, Fantasia, che corregge parzialmente Artista e designer, non a caso uscito proprio nel 1977, anno fatale per il ritorno della fantasia nelle strade. A un certo punto del libricino deve affrontare “I segreti del mestiere”. Se il designer è uno che non ha stile prefissato, ma risolve problemi (problem solving), non avrà un metodo personale. Se ce l’avesse rischierebbe di essere un artista. Ricadrebbe nella fantasia, in quanto la fantasia è pre-visione dell’opera. No, il designer, insiste Munari, ha un metodo che non è né fantastico né estetico. E allora cos’è? Qui il nostro geniale artista e designer cade in contraddizione. Lo fa, probabilmente, per vanità, per quel po’ di vanità che è una delle molle segrete della creatività, e dunque del designer. Racconta come ha prodotto con la fotocopiatrice della Ranx Xerox delle immagini mosse di un’automobile e di una motocicletta. Sono immagini celebri già spiegate in un aureo libretto sull’uso creativo della fotocopiatrice, ovvero della macchina che riproduce l’identico. Munari mette un’immagine sopra il vetro e la sposta con la mano nei cinque secondi della lettura per la riproduzione. La sposta non a casaccio, bensì in modo sapiente, così da ottenere delle immagini di qualcosa che si “muove”. Un’immagine artistica, si direbbe. Lo è. Certo da artista concettuale, non da Leonardo del Cenacolo. Un artista all’altezza dei suoi tempi; una artistabambino, sperimentatore, che immagina con la fantasia quello che vuol ottenere, e lo fa con un semplice gesto della mano. Dato che viviamo nell’ “epoca della riproducibilità”, allora anche noi, non-artisti e non-designer, possiamo rifare il lavoro di Munari. Ma lo possiamo rifare perché l’ha fatto lui. Munari si accorge della contraddizione. O meglio: che ha messo dentro un libro tutto dedicato al designer e alla creatività un capitolo da artista, una lode occulta della fantasia. Come se la cava? Introducendo una categoria che è il vero anello di congiunzione tra arte e design: il pre-design. Lo definisce così: è un campo del design particolare nel quale “vengono compiute ricerche su materiali o su tecniche per meglio conoscere questi due aspetti della progettazione”. Questi due aspetti non sono


nient’altro che il lavoro di gruppo e il lavoro del singolo. Troppo poco per distinguere. Munari si contraddice, poiché ha capito che ha fatto entrare dalla finestra quello che aveva espulso dalla porta. Il pre-design non è nient’altro che la fantasia della creatività, la fantasia che usa il designer, quella che è in lui stesso nel senex-puer milanese. Il lavoro di Munari esprime l’assoluta potenzialità del fare: è realizzazione virtuale. Detto altrimenti: il suo design – attività a cui si è dedicato in forma piena solo tardi, negli anni Sessanta, visto che prima ha fatto l’artista, il grafico, il cartellonista, il didatta, l’inventore – è concettuale, un processo aperto che resta per sua stessa natura sempre in fieri. Non s’invera in oggetti. Piuttosto li produce, ma poi fugge via, perché il concetto che c’è dentro – o fuori o sopra o sotto o a fianco – non si riconduce completamente all’oggetto. Sono idee. Non so bene se nel senso platonico del termine – Munari non è un filosofo. O forse no: è un pensatore, uno che fa opere di pensiero. Insomma, Munari è l’anello mancante tra il Moderno e il Postmoderno, il punto di passaggio dal razionalismo di forma-funzione al decorativismo sovversivo di Memphis, ma anche l’anti-Sottsass, per dire del grande designer scomparso da poco: per Sottsass l’emozione viene prima della funzione, per Munari, all’opposto, la funzione crea l’emozione. Il suo approccio alle “cose” – libri, fontane, mobili, lampade, grafica editoriale, ecc. – è sornione, come ha scritto Marco Meneguzzo (Bruno Munari, Laterza 1993). Usa l’ironia, ma non nel senso postmoderno del termine, bensì moderno: vuole smascherare le convenzioni, non per irriderle o smontarle, piuttosto per spiazzarle, senza mai negarle. E lo spiazzamento è, come in una sua celebre foto che lo ritrae mentre fa gesti di luce, un stare sospesi nell’aria, fare segni con una lampada, segni visibili, e insieme invisibili, che l’occhio vede, eppure non fissa, e che l’istantaneità paradossalmente fa durare. La dialettica è tra leggerezza e solidità, tra visibile e invisibile, tra forma e funzione. Quale funzione hanno dei segni fatti nell’aria o nell’acqua?, si chiede Munari. Nessuna, sono dei processi mentali versus processi reali. Più vicino a Cage che non a Duchamp – anche se con quest’ultimo condivide l’idea di spiazzamento linguistico. La cosa più importante che ha fatto Munari è stato separare la definizione di artista da quella di designer, in modo secco, questo per farci capire che in realtà le cose sono più complesse di così e che lui ne è stato, e ancora rimane, l’esempio più eclatante di un artista che è anche designer, di designer che è anche artista. A suo modo, naturalmente, alla Munari: con la fantasia della creatività.

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Lettere e alfabeti


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p. 25 - 26 - 27 Bozzetti per il libro ABC, s.d. (1960)


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Alfabeto Lucini Un alfabeto fantastico, imprevisto, con le lettere tutte diverse di dimensioni, di forma, di materia, di colore; buttate per aria con allegria. […] La M potrebbe essere una grande sciarpa appoggiata a emme su un bastone orizzontale. La E e la F potrebbero essere tornite in ottone. […] La U è una molla appesa al soffitto per le due estremità. La B la faremo con canne di bambù 30


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da p. 29 a p. 37 Alfabeto Lucini, 1987


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Numeri


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p. 39 - 40 Serie di bozzetti per Numerary, sd (1961-64)


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Calendario (1971)


Esercizi di comunicazione visiva


Forchette, 1958 Queste variazioni sulla forchetta, anzi sulla forchetta come “prolunga della mano e, in definitiva, come mano, sono state disegnate senza nessuno scopo pratico [‌] I disegni delle varianti sono stati eseguiti uno alla volta e sempre con la mano destra, usando un pennino Mitchell’s, a tre fori di diametro degradante verso la punta, di metallo bianco, montato su astuccio di canna palustre a sezione rotonda costante, con terminale a basso cono (h.3 m/m) [‌]

p. 43 - 44 - 45 Le forchette di Munari, Muggiani 1959

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salve


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ok

liberty

auto-stop

the End

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p. 46 - 47 Studi per copertine per una nuova collana Einaudi, s.d. (1965)


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p. 48 - 49 Studi per il marchio Fiat, sd, (1968-69)


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p. 50 - 51 Studi per l’agenda Scheiwiller (1979)


Libri Il libro come oggetto, indipendentemente dalle parole stampate, può comunicare qualcosa?


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p. 53 - 54 - 55 Le macchine di Munari, Einaudi 1942


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Guardiamoci negli occhi Vediamoci, siamo così diversi. Non vedo l’ora. Vedremo. Apri l’occhio. Si allontanò e scomparve alla vista. Una svista. Visto e approvato.

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p. 57 - 58 - 59 Guardiamoci negli occhi, cartella a fogli mobili. Lucini 1970


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“Se si vuole arrivare aun’arte di tutti (e non per tutti, come scrisse recentemente un famoso critico francese) è necessario trovare degli strumenti che facilitino l’operazione artistica e, comtemporaneamente, dare a tutti i metodi e la preparazione per poter operare.[...] Le possibilità tecnologiche della nostra epoca possono permettere a chiunque di operare e di produrre qualcosa che abbia un valore estetico [...]”


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p. 60 - 61 Elaborazioni xerografiche del viso dell’autore e Variazioni xerografiche di una parola, edizione Rank Xerox 1972


Il caso, la regola La regola da sola è monotona, il caso da solo rende inquieti. La combinazione tra regola e caso è la vita è l’arte è la fantasia, l’equilibrio.


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Disegni e collages per i Prelibri


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p. 64 - 65 - 66 Studi originali per i Prelibri


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68


69

Grovigli e materiali (varianti sul nodo gassa d’amante) (1986)


70

Studi per Carte da gioco


71

Studi e prova di stampa della scatola Trasformazioni


Copertina: idea e progetto di Sabrina Bacchetti, realizzata su carta ARTEM fatta a mano 300 g/m�, 100% cotone, marcata a feltro, asciugata all’aria e acquerellata a mano.

Finito di stampare a Pisa nel mese di settembre 2010 per conto di Felici Editore


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