La scena oltre Picasso di Michela Merone

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La scena oltre Picasso Parade, scenografie e costumi di un balletto d’avanguardia © Copyright 2012 by Edizioni Kappa, via Silvio Benco, 2 – 00177 Roma – Tel. 06.273903 email: micheladredd@libero.it www.edizionikappa.com Traduzioni Paul Metcalfe Copertina e grafica Luciano Pennino


PARADE

avec la collaboration de Picasso

Le décor représente les maisons à Paris, un dimanche. Théâtre forain. Trois numéros du Music-Hall servent de Parade. Prestidigitateur chinois. Acrobates. Petite fille américaine. Trois managers organisent la réclame. Ils se communiquent dans leur langage terrible que la foule prend la parade pour le spectacle intérieur et cherchent grossièrement à le lui faire comprendre. Personne n’entre. Après le dernier numéro de la parade, les managers exténués s’écroulent les uns sur les autres. Le Chinois, les acrobates et la petite fille sortent du théâtre vide. Voyant l’effort suprême et la chute des managers, ils essayent d’expliquer à leur tour que le spectacle se donne à l’intérieur. n.b.

La direction se réserve le droit d’intervertir l’ordre des numéros de la parade

Jean Cocteau

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Indice Prefazione di Gianni Accasto Introduzione di Plinio Perilli

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I  Picasso in scena - Verso il Cubismo: Parade - La passione per il balletto: Le Tricorne, Pulcinella, Cuadro Flamenco - Una tragedia di Sofocle: Antigone - Il sodalizio con Massine: Mercure - Ultimo atto con Diaghilev: Le Train Bleu - Dimensioni fuori misura: Le Quatorze Juillet, Rendez-vous - Ultime scene: Edipe Roi, L’ Après-midi d’un faune, Icare

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II  Parade il balletto “realista” - Tra Parigi e Roma - L’arte surrealista di Léonide Massine - L’aiuto di Depero e il costume‑corazza

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III  Agli albori del mondo di Diaghilev - Il circolo di Mamontov - Il “Mondo dell’Arte” e Sergej Diaghilev - La scena dei Balletti Russi

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IV  Di nuovo in scena - Le riprese di Parade - La scena di Maurizio Varamo - La ricostruzione coreografica di Susanna Della Pietra

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V  Oltre Picasso - Parade (Pablo Picasso) - Concettuale e Minimal (Jessica Gastaldo-Marta Maccaglia) - Guerilla Market (Antonio del Pizzo) - Automi a molle e a scatto (Martina Bastoni-Chiara Cardinelli) - Circus Schmidt (Stefano Concetti-Piergiorgio Iannuzzi) - Tribal movement (Carla Demurtas-Elvira Reggiani) - A parisian nightmare (Lorena Anastasio-Alessandra Argiolas) - Under construction (Rachele Cacciani-Maria Gerardi) - Immagini di maschere (Antonella Bozzi-Romina Carniato) - Metafisica alla ribalta (Simona Equizi-Ilaria Luzzi-Valentina Russo) - Angelus architettonico (Marcella Cusumano-Valentina D’Angelo) - Dinamismo plastico (Manuela Baldassari-Valeria Bertin-Agnese Ciuffa) - Giger Alien (Claudia Baldini-Federica Campochiaro) - Come in una pellicola (Viviana Aidala-Alessandra Crudo) - Charleston dance (Alessandra Chiofi) - Effetto origami (Cristina Bellipanni-Maria Chiara Corso) - Into the color (Angelo Caranese-Gabriele Di Palma-Giada Ghergo) - Tonde molli sculture (Lucia Orecchini) - Fumetti all’opera (Roberto Scalingi-Maria Chiara Virgili)

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Ringraziamenti

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English abstract: The stage beyond Picasso Bibliografia Cronologia degli spettacoli dei Balletti Russi 1908-1929 Crediti fotografici

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Prefazione Gianni Accasto

Debbo anzitutto dire che scrivere del bel saggio di Michela Merone mi tocca personalmente, perché “La scena oltre Picasso” non è solo una riflessione sull’affascinante esperienza della collaborazione fra Picasso, Satie, Cocteau e Diaghilev, ma riguarda un’esperienza di formazione intrapresa con entusiasmo e passione, che spero trovi spazi per proseguire e crescere. Michela Merone è un architetto che, sin dalla formazione, si è dedicata alla scenografia. Lo ha fatto, come personalissima scelta, in una facoltà che aveva praticamente cancellato questo corso, relegandolo in un recinto di estetismo inutile, possibile distrazione alla idea tardorazionalista del ruolo e del fare dell’architettura, del privilegio dell’urbanistica sulle motivazioni “formali” del progettare. In controtendenza, solo una ventina di anni fa, Gianfranco Moneta volle riproporre per la scenografia uno spazio visibile, un ruolo significativo fra gli insegnamenti della facoltà. Molti anni dopo, nel nuovo millennio, per dare significato, cogliere le opportunità della riforma europea nota come “processo di Bologna” iniziammo a costruire un percorso formativo incentrato sull’architettura degli interni, l’arredamento, la scenografia. Come

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Presidente dell’Area Didattica degli Interni, ho avuto il piacere e la fortuna di affidare il primo corso di scenografia a Michela Merone. Il percorso formativo prevedeva, come completamento, una laurea specialistica in “Progettazione delle Scenografie, degli Allestimenti e delle Architetture d’Interni”, che aveva, per Salvatore Dierna, che ne era stato il primo sostenitore, e per me, il senso di ricercare uno dei temi fondanti che erano stati alle origini della scuola romana, e la avevano caratterizzata, disciplinarmente e progettualmente, per lungo tempo, sino almeno agli anni ’60, quando ad insegnare scenografia agli architetti era il grande Veniero Colasanti. Quando venne fondata la facoltà di architettura (e Roma fu la prima), il senso della scenografia non era quello di una disciplina specifica, particolare: era quello di un luogo di sperimentazione sullo spazio della modernità e sulle interferenze e sintonie fra le arti. I piani di specifico interesse per l’architettura, indagati prioritariamente in quegli anni ’20 del secolo passato, erano la definizione dello specifico della scena filmica, in relazione stretta e sotterranea con le poetiche dei

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movimenti artistici, e la formalizzazione della modernità razionale attraverso la sua rappresentazione scenica. In quegli anni i due architetti più significativi dell’ambiente romano, Pietro Aschieri e Giuseppe Capponi, erano fra gli scenografi principali della nascente Cinecittà. Nella facoltà, poco dopo, avrebbe insegnato scenografia il grande maestro futurista Guido Fiorini, amico di Le Corbusier, disegnatore straordinario e teorico geniale. Non credo si sia ancora prestata sufficiente attenzione al ruolo determinante che la scenografia ha avuto nella definizione, ancor prima che nella diffusione, del linguaggio del razionalismo. La volontà eroica di riduzione della forma a funzione, propria del primo razionalismo, ha come determinato la necessità di un luogo parallelo di sperimentazione simbolica. Lo spazio della scena è stato indispensabile appunto per “mettere in scena” la modernità, per descrivere e dispiegare la ragionevolezza, l’essenzialità, la funzionalità dell’architettura per un nuovo secolo. Questo riferimento, essenziale per capire pienamente lo svolgimento della modernità, è stato uno dei temi che ci hanno condotto a riproporre lo studio della scena nella facoltà di architettura. Michela Merone ha privilegiato l’indagine su un altro tema centrale della scena del Novecento: l’affacciarsi nella dimensione anamorfica del teatro

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della spazialità delle avanguardie postcubiste e futuriste, con il dispiegarsi nella scatola scenica tradizionale e nelle sue tre dimensioni compresse della concentrazione spaziale-temporale che era al centro della ricerca di Picasso. Su questi temi, sull’ambiente in cui maturarono, sulle personalità che vi ebbero un ruolo determinante, dalla poesia eccessiva, luminosa e carnale di Cocteau, alla anoressia sublime della musica di Satie, alla barbarie moderna dei Ballets Russes, Michela Merone scrive un saggio esaustivo, informato, stimolante. Ma soprattutto, riporta l’esperienza in uno spazio di contemporaneità, facendola ripercorrere ai suoi studenti. Reinterpretazione, rivisitazione, riscoperta, che hanno portato chi vi ha partecipato a stabilire un rapporto proficuo con la scena contemporanea e la sua storia. Un bel saggio, e un ottimo lavoro didattico. Un buon punto di ripartenza per lo studio e il progetto della scena nell’università. Uno spazio che le scuole di architettura dovrebbero valorizzare e sviluppare. Mi fa piacere che, con gli atti di alcuni convegni, rimanga almeno questo documento a testimoniare un tentativo intelligente e generoso. Questo libro ha una sua vita, un suo spazio e un suo futuro. Gli sono grato di farsi carico, per chi ha partecipato, di testimoniare un’esperienza didattica che ritengo importante e attuale.


Introduzione

Dall’Arlecchino triste ai “Managers” tronfii e vanagloriosi… L’arte si fa totale e vaccina la vita Plinio Perilli

“L’Arte è fatta per turbare”, – sanciva Georges Braque in uno dei suoi aforismi più efficaci – “la Scienza rassicura”… Raramente il ’900 artistico europeo – nella sua primavera espressiva forse più radiosa e solidale – ha vissuto un periodo così pieno, concertato e collaborativo come l’esperienza e i due decenni di Parade… Cioè di quel meraviglioso incontro e intreccio, in seno agli spettacoli e agli allestimenti dei Balletti Russi (1908‑1929) tra pittori e coreografi, danzatori e registi: ma tutti davvero rivoluzionari di una nuova Arte comun denominatore fra le Muse tutte, armoniose e sorelle. Di tutto codesto evento ed avvento sinestetico, “Parade” (prima rappresentazione, 1917) fu certo il vertice e il fulcro di brioso, temprato eclettismo – suffragato come fu da un’alleanza, consacrata e pagana, tra la musica di Erik Satie, la scrittura di Jean Cocteau, la coreografia di Léonide Massine e le scene, costumi (e siparietto), ebbene sì, di un ancor giovane ma già lanciatissimo Pablo Picasso... Ora quest’unicum che fece scuola e gettò semi fervidi negli anni in boccio della Modernità, rivive evocato, ripercorso e come “clonato” nei voti augurali e immaginifici di

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un’ennesima nuova generazione, coi giovani di un secolo nuovo – tutto un altro Millennio! – ancora a inseguire “una strana telepatia” (così Jean Cocteau, nella primavera del ’17, amava ricordare il miracolo pantomimico, la condivisione di Parade) che, in quello strepitoso accadde domani, come dunque confessò l’autore de Les enfants terribles, “ci ispirò istantaneamente un desiderio di collaborazione”… …Dopo una settimana ritornai al fronte, lasciando a Satie un pacchetto di note, di schizzi, che dovevano fornirgli il tema del Cinese, della Ragazzina Americana e dell’Acrobata (l’Acrobata allora era uno solo). Le indicazioni non avevano nulla di umoristico. Al contrario insistevano sul prolungamento dei personaggi, nel retro del nostro baraccone di fiera. Lì il Cinese era capace di torturare dei missionari, la Ragazzina di affondare sul Titanic, l’Acrobata di essere in confidenza con gli angeli. Piano piano venne alla luce una partitura in cui Satie sembra aver scoperto una dimensione sconosciuta grazie alla quale si può ascoltare nello stesso tempo la parata e lo spettacolo all’interno. Nella prima versione i Managers non c’erano. Dopo ogni

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Picasso durante la realizzazione del sipario di Parade, 1917.


Picasso in scena Verso il Cubismo: Parade

Picasso non è solo una persona e la sua opera. Picasso è una leggenda, quasi un mito. Secondo il giudizio comune, egli è l’incarnazione del genio nell’arte moderna1.

Interprete di primo piano in ambiti molto diversi, Picasso si è mosso con abilità istrionica dalla pittura alla grafica, dalla scultura all’artigianato fino alla scena teatrale e in ultimo a quella cinematografica, scorgendo con indiscussa abilità espressiva le correlazioni fra le varie forme di arte. La sua consacrazione a “emblema dell’arte moderna” avviene a Parigi, dove si trasferisce nel 1904. Superata la monocromia del “periodo blu”, in cui Picasso dipinge la miseria, la solitudine e la disperazione per il suicidio dell’amico Carles Casagemas, l’atelier al n. 13 di rue Ravignan a Montmartre si riempie di tele più chiare, di un colore rosa pallido, da cui emergono giovani acrobati, atleti e arlecchini2. Sono gli anni del cosiddetto “periodo rosa”, durante i quali Picasso passa molto tempo

in compagnia di acrobati, arlecchini e funamboli, gente di strada che ha dimora nelle baracche che costeggiano i boulevard. La forma più popolare di divertimento, il circo, lo affascina, con la sua vita che gli appare povera, dignitosa, malinconica. Acrobati, giocolieri, clown, allegri o tristi, a riposo o in attività, diventano soggetti di disegni, quadri, incisioni. Come ricorda Fernande Olivier, sua fidanzata in quegli anni a Parigi al tempo del “Bateau-Lavoir”3: […] Picasso restava al bar nell’odore di scuderia che saliva caldo e un po’ nauseante. Restava là… chiacchierava tutta la sera con i clown, lo divertivano la loro aria goffa, il loro accento, le loro risposte pronte… Vlaminck, Picasso, Léger avevano i loro maglioni a collo alto, erano cosi a loro agio in quell’ambiente, che un giorno furono scambiati per una troupe che cercava ingaggio4. “Le Bateau Lavoir”, cosi nominato ironicamente da Max Jacob per la sua somiglianza alle barche delle lavandaie sulla Senna, era un edificio in legno che conteneva diversi atelier di pittori come Georges Braque, Kees Van Dongen, Juan Gris, Amedeo Modigliani, Pierre Reverdy, Pierre Mac Orlan. 4 F. Olivier, cit. in P. Daix, Picasso, Fabbri Editori, Milano 1991, p. 44. 3

C.P. Warncke, Picasso, Taschen, Colonia 1997, p. 7. 2 Nel 1900 Picasso divide lo studio a Barcellona con Carlos Casagemas. Nell’ottobre dello stesso anno i due partono per Parigi, stabilendosi a Montmartre. Casagemas si uccide in un caffè parigino per una delusione amorosa. 1

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Dal periodo blu a quello rosa l’intera arte di Picasso si confronta con l’esistenza girovaga degli artisti del circo. […] E se cerchiamo un’indicazione decisiva dell’intensità con cui Picasso si è proiettato, con l’immaginazione, nell’ambiente del circo e del teatro penetrando fin nel cuore del più furtivo e segreto dei caratteri classici di questo mondo, dobbiamo citare la grande tela del 1905, che era appesa ad una parete del «Lapin Agile», nella quale l’Arlecchino malinconico, appoggiato al bancone del bar, vestito di un costume a riquadri multicolori, si rivela come un autoritratto dell’artista5.

Sebbene il suo rapporto con il teatro avvenga in maniera diretta solo nel 1916 non si può dire che la vita dei teatranti non abbia attirato la sua attenzione anche diversi anni prima. Soggetti teatrali appaiono già in alcune opere prodotte tra il 1899 e il 1901 a Barcellona, a Madrid e nel suo primo soggiorno a Parigi. Si tratta di scene che rappresentano la vita notturna dei cabaret e dei music-hall, disegni che «sotto il profilo stilistico rivelano insistentemente la loro discendenza da modelli di Degas o di Toulose -Lautrec»6. Dopo questa iniziale fascinazione, il teatro e il circo come elementi di ispirazione sembrano dimenticati, o almeno accantonati, per un periodo di circa dieci anni, durante il quale Picasso, totalmente assorbito dalle sperimentazioni cubiste, si dedica ad altri soggetti. 5 6

D. Cooper, Picasso teatro, Jaca Book, Milano 1987, p. 12. Idem, p. 10.

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A sinistra: statuetta d’arte negra; a destra: Pablo Picasso, Les Damoiselles d’Avignon, 1907, Museum of Modern Art, New York (part.)

Le ricerche sul segno e il volume portano Picasso al famoso Les Demoiselles D’Avignon del 1907. Abbiamo cenato un giovedi sera da Matisse, in quai SaintMichel, Salmon, Apollinaire, Picasso e io – racconta Max Jacob – Matisse prese da un mobile una statuetta di legno negro. Picasso la tenne in mano tutta la sera7.

L’arte negra sconvolge Picasso più sul piano emotivo che figurativo. Sono andato al Trocadero – racconta Picasso a André Malraux – era disgustoso. Il mercato delle pulci. L’odore. Ero solo, volevo andarmene. Non me ne andavo, restavo, 7

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M. Jacob, cit. in P. Daix, Picasso, op. cit. p. 48.


restavo. Ho capito che era molto importante; succedeva qualche cosa, no? Le maschere non erano sculture come le altre. Per niente. Erano cose magiche […] gli spiriti l’inconscio, l’emozione, sono la stessa cosa. Ho capito perché ero pittore. Les Demoiselles d’Avignon devono essere arrivate quel giorno, ma assolutamente non a causa delle forme… perché era la mia prima tela d’esorcismo, si8!

L’anno successivo la ricerca sulla scomposizione cubista dello spazio lega Picasso a Braque che, a partire dal 1912, apre il campo di ricerca alla sperimentazione di materiali diversi. Mentre Braque dà volume alla sua pittura impastando il colore con sabbia o gesso nei suoi papiers collés, Picasso sceglie di enfatizzare la forma attraverso ritagli di giornale, cartone e pochi tratti a carboncino. Ma la tensione verso la tridimensionalità non si arresta e Picasso esplora le possibilità spaziali del quadro attraverso l’uso di materiali e tecniche nuove: pezzi di legno, carta e chiodi che emergono da piani in legno, mentre lamine di metallo e filo di ferro si assemblano in una sorta di collage tridimensionale che segue una semantica propria. L’oggetto si sposta nello spazio facendosi scultura pur mantenendo la sua scomposizione figurativa cubista. In questi anni il pensiero alla teatralità circense non si è però spento, è solo rimasto sopito. Nell’autunno del 1915 il compositore Edgar Varèse presenta a Picasso il giovane poeta Jean Cocteau. È l’inizio di una grande amicizia e di un sodalizio artistico letterario che porterà l’artista spagnolo alla sua prima esperienza diretta in teatro. 8

P. Picasso, cit. ibidem.

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Cocteau, all’epoca ventiseienne, coltiva l’idea di allestire un balletto con la compagnia dei Ballets Russes, che in ambiente parigino aveva riscosso grande successo grazie ad allestimenti tratti da racconti mitologici e folcloristici. Cocteau ha in mente uno spettacolo d’effetto, con una trama divertente: Parade. Il poeta francese immagina infatti una “parata” di strani personaggi, lungo un boulevard di Parigi, nell’atto di attirare l’attenzione dei passanti allo scopo di farli entrare in un circo. Per il disegno di scene e costumi, nessuno è più adatto di quel pittore spagnolo che per diverso tempo aveva ritratto, in più pose e colori, personaggi circensi. Nel settembre del 1916 inizia quindi la collaborazione tra Cocteau, Picasso, l’impresario russo Sergej Diaghilev, Erik Satie, che firma le musiche, e Léonide Massine, un giovane ballerino che Diaghilev aveva incontrato al Teatro Imperiale di Mosca nel 1914. Coreografo innovatore e di talento, Massine avrebbe in breve esercitato una profonda influenza sull’arte del balletto. Viaggiando con Diaghilev in Francia, Svizzera, Spagna, America e Italia, egli imparò ad unire soggetti di diversi paesi alle moderne tendenze della danza parigina, creando così balletti fuori dall’ordinario. Picasso non si limita ad interpretare il pensiero di Cocteau. Sua diretta creazione sono infatti i cosiddetti “Managers”, grossi personaggi alti tre metri, che hanno la funzione di richiamare l’attenzione del pubblico verso le esibizioni circensi del “Prestigiatore Cinese”, della “Ragazzina Americana”, e da ultimi, dei “Due Acrobati”. La particolarità della loro messinscena è quella di trasformare in danza dei gesti quotidiani reali.

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La passione per il balletto: Le Tricorne, Pulcinella, Cuadro Flamenco

Il mondo del ballo entra in maniera prepotente nella vita di Picasso, tanto da divenire un soggetto artistico irrinunciabile in seguito all’intensificarsi dell’attività con i Balletti Russi. Così dopo Parade Picasso lavora all’allestimento di altri tre balletti: Le Tricorne, Pulcinella e Cuadro Flamenco. Tratto dal romanzo dello spagnolo Pedro de Alarcon, Le Tricorne è tra i balletti che riscuotono più successo. La prima, dopo tre anni di preparazione, viene rappresentata il 22 luglio del 1919 all’Alhambra Theatre di Londra. Il debutto dei Ballets Russes in Spagna era avvenuto tre anni prima, nella primavera del 1916 al Teatro Real di Madrid, su invito personale del re Alfonso XIII. In quell’occasione Diaghilev e Massine avevano incontrato il giovane compositore spagnolo Manuel De Falla che era stato subito ingaggiato per musicare alcuni episodi tratti da un famoso romanzo di Pedro de Alarcón, El sombrero de Tres Picos (Il Cappello a Tre Punte). Per lo stesso balletto, al giovane danzatore di flamenco Feliz Fernandez, venne affidato il compito di insegnare a Massine e alla compagnia la danza spagnola.

Programma del balletto Le Tricorne, Opera Garnier, Parigi 1920

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Al termine della stagione teatrale del 1916 Diaghilev, Massine e De Falla partono per visitare le città del sud della Spagna: Siviglia, Granada e Cordova. Durante il viaggio i tre hanno la possibilità di approfondire la conoscenza della cultura e del folclore spagnolo. Poco dopo Diaghilev, Massine e una parte della compagnia lasciano la Spagna per stabilirsi a Roma, mentre il grosso della compagnia parte per una tourneè negli Stati Uniti. Diverse volte, durante la guerra, la compagnia torna in Spagna, che grazie alla neutralità e alla benevolenza del re, finanziatore della compagnia, diviene il centro delle attività di Diaghilev, almeno fino al 1918. Picasso non si lascia sfuggire l’occasione di accompagnare i russi in terra natia e non sorprende quindi il suo coinvolgimento nell’allestimento de Le Tricorne. Via via che De Falla, Massine e Picasso lavorano all’adattamento del testo di Alarcón, una satira politica basata sugli intrighi amorosi di un mugnaio, di sua moglie e di un governatore di provincia, la trama assume un aspetto più attuale rispetto all’originale del XIX secolo.

L’azione viene schematizzata e divisa in due parti più facilmente trasferibili alla danza, la prima delle quali è articolata attorno ai fatti e alle gesta dei protagonisti principali, in modo da preservare un’atmosfera intimista grazie a duetti e assoli. Allo scopo, De Falla adotta un’orchestra di musica da camera in modo da collegare strettamente la musica all’azione. La seconda parte è invece un’allegoria che termina con un’apoteosi corale, a simbolizzare il trionfo del popolo sulla monarchia in declino. Questa seconda parte risulta più ampia rispetto alla prima grazie alla presenza sulla scena del corpo di ballo al completo e al crescendo di tutte le parti dell’orchestra sinfonica. La coreografia de Le Tricorne univa danza classica e danza folcloristica spagnola, i ritmi di staccato, i battimenti di piede, la tecnica del zapateado, l’importanza accordata al

Per De Falla, Picasso e Massine l’aspetto socio politico della satira di Alarcon aveva un importanza relativa. Il testo originale forniva loro un canovaccio narrativo che diventava l’occasione per esprimere sotto una forma artistica personale, tutto il loro amore per la Spagna, per il suo folclore, la sua arte di vivere, il suo genio1!

V. G. Marquez, Picasso Falla Massine: un trio historique, in AA.VV., Picasso Le Tricorne, mostra Musée des Beaux-Arts, Lione 1992, p. 13.

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Pablo Picasso, Schizzo per il sipario de Le Tricorne, Londra 1919 (part.).

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Sopra a sinistra: Realizzazione del sipario per Le Tricorne, Covent Garden, Londra 1919; sotto: Ricostruzione recente del sipario per Le Tricorne, Londra 1980; a destra: Pablo Picasso, Studio del sipario per Le Tricorne, Londra 1919 (part.). michela merone

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peso del corpo sulle ginocchia, il gioco delle spalle e delle mani e l’indipendenza del torso rispetto alle gambe erano elementi che Massine aveva saputo integrare nella propria arte, senza snaturare le qualità specifiche della farruca, del fandango, della siciliana e della jota, che egli aveva rafforzato con una pantomima espressiva e a movimenti angolosi di ispirazione neo primitività e cubista2.

Le Tricorne si inserisce in un momento fondamentale di evoluzione dell’arte di Picasso, dal momento che vi si ritrovano sia elementi caratteristici delle fasi creative precedenti, in particolare del Cubismo, sia elementi che è possibile ricondurre alle ricerche sullo spazio e la prospettiva che caratterizzeranno gli anni successivi. Come dimostrano i tanti schizzi prodotti, gli è necessario sperimentare varie possibilità sceniche prima di arrivare alla stesura finale. Si avvicendano così diverse proposte, con vari accostamenti di colori, e per il sipario si sperimentano non meno di quattro diverse possibilità.

pratica alla quale aveva già fatto ricorso in Parade. Per questa ouverture Picasso propone di introdurre anche la voce umana, sostenuta dalla tipica espressione spagnola olè che ricorda il cante jondo, il canto ancestrale del sud del paese che esprime la gioia e il dolore. Al suono di trombe, tamburi, colpi di tallone e nacchere si alza un sipario che ne scopre un secondo, grigio, al centro del quale vi sono quattro donne in mantiglia bianca, un ragazzo e un uomo con cappa rossa, nell’atto di osservare i cavalli che portano fuori dall’arena il toro ucciso nella corrida. Sullo sfondo un picador a cavallo. Scorrendo, il sipario scopre un gruppo di case dipinte, raccordate da un arco che attraversa tutta la scena, sulla quale sono dipinti vari oggetti, come una tenda a righe, un pozzo, una gabbia per uccelli e sul fondo un cielo stellato sopra il profilo di un villaggio completo di chiesa e campanile. Picasso – scrive Vladimir Polunin, assistente di Picasso alle scene – mi mostrò la maquette della scena che aveva realizzato per il nuovo balletto, Le Tricorne … dopo che mi ero occupato per tanto tempo degli scenari complicati e ostentati di Bakst, l’austera semplicità dei disegni di Picasso, privi di qualunque dettaglio inutile, la loro composizione e unità nei colori, in breve il loro carattere sintetico mi sorprese. Picasso veniva allo studio ogni giorno, mostrava un vivo interesse per tutto, dava le sue istruzioni a proposito dei disegni e ci chiedeva di conservare la loro peculiarità e di fare specialmente attenzione ai colori4.

Se il sipario e gli acrobati di Parade lasciavano presagire un orientamento verso una estetica cubista, Le Tricorne segna il passaggio verso uno stile neoclassico che predominerà nelle opere seguenti3.

In omaggio a Goya il sipario raffigura una corrida, tema squisitamente spagnolo. Picasso suggerisce a De Falla di comporre una ouverture che accompagni l’apertura del sipario nella sala, 2 3

Idem, p. 17. Idem, p. 14.

V. Polunin, The Continental Method of Scene Painting, Princeton 1982, in AA.VV., Picasso und das Theater, Picasso and the Theater, Hatje Cantz, Francoforte 2006, p. 80. 4

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Una tragedia di Sofocle: Antigone

A sinistra: Charles Dullin, a destra: Coco Chanel

Pablo Picasso, Studio per la scenografia di Antigone, 1921-1922.

Fino al 1921 Picasso ha esperienza solo di balletti e soprattutto solo di grandi teatri. L’occasione di misurarsi con spazi dalle dimensioni più raccolte, e con un testo dai toni drammatici, è fornita dall’amico Cocteau, che lo chiama a lavorare su un testo che nasce come adattamento di una tragedia di Sofocle, Antigone. Si tratta di una riscrizione del testo greco in tre atti musicata da Arthur Honegger. Lo spettacolo viene messo in scena da Charles Dullin al Théâtre de l’Atelier di Parigi il 20 dicembre 1922. Lucine Arnaud, allora assistente di Dullin, ricorda che per presentare il progetto Picasso tirò fuori dalla tasca un pezzo di carta bianca sgualcita definendolo il suo boz-

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zetto per l’allestimento. In effetti la scena nasce come un telo unico di iuta dipinto in azzurro violetto, a copertura completa del palco che nel ripiegarsi su se stesso disegna un fondo roccioso, con al centro un largo foro chiuso da una grata attorno alla quale sono appese maschere di donne, ragazzi e vecchi dipinte in bianco e nero. Chiudono il disegno del palco tre colonne doriche. Cocteau così ricorda la vigilia della prova generale di Antigone: Eravamo, attori e autore, da Dullin, seduti nello Studio. Una tela di un colore turchino formava un fondo roccioso da presepe. A sinistra e a destra c’erano delle aperture:


al centro, sospeso, un buco dietro il quale, attraverso un amplificatore, veniva declamata la parte del coro. Attorno a questo buco avevo appeso le maschere di donne, ragazzi, vegliardi dipinti da Picasso e quale che avevo eseguito io secondo i suoi modelli. Sotto le maschere pendeva un pannello bianco. Si trattava di definire su questa superficie bianca, il senso di una scenografia di fortuna che rifuggendo tanto dall’esattezza quanto dall’inesattezza delle forme, desse la sensazione di una giornata di calura. Picasso camminava in lungo e in largo. Cominciò a sfregare un pezzo di sanguigna sul pannello che, a causa delle venature del legno, diventò marmo. Poi prese una bottiglia di inchiostro e tracciò dei motivi di un effetto straordinario. Ad un tratto riempì di nero alcuni vuoti e apparvero tre colonne. L’apparizione di queste colonne fu cosi improvvisa, cosi sorprendente, che noi tutti scoppiammo in un applauso. Una volta in strada chiesi a Picasso se avesse calcolato il loro apparire, se fosse andato verso di loro o se ne fosse stato sorpreso. Mi rispose che ne era stato sorpreso, ma che si calcola sempre senza saperlo, che la colonna dorica come l’esametro è il risultato di un’operazione sensibile e che egli, forse, aveva appena inventato questa colonna nello stesso modo con cui i Greci l’avevano scoperta1.

All’azzurro violetto del telo sgualcito, alle maschere bianche e nere e alle colonne di falso marmo si accostano i costumi di Coco Chanel che disegnò tuniche di lana grezza bianche per le donne e rosse per i guerrieri, arricchite di decori greci. 1

Foto da una rappresentazione di Antigone, 1922.

D. Cooper, Picasso Teatro, Jaca Book, Milano 1987, p. 54.

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Il sodalizio con Massine: Mercure

A sinistra: Mercure, quadro “La Notte”, foto di scena, Parigi 1924; a destra: Pablo Picasso, Studio del praticabile nella scena “La Notte”, Parigi 1924.

Torna a distanza di qualche anno il sodalizio tra Picasso, il coreografo Massine e il musicista Satie, in occasione dell’allestimento del balletto Mercure, prodotto dalla compagnia Soirèe de Paris del Conte Etienne de Beaumont, messo in scena al Théâtre de la Cigale di Parigi nel 1924. Sono anni questi in cui Picasso, pur lavorando solo saltuariamente per Diaghilev, del quale non condivide sempre le scelte artistiche, non ha perso i contatti con la sua compagnia di ballo e soprattutto con l’amico Massine, che qualche anno prima aveva lasciato Diaghilev. Molti, Massine compreso, hanno dichiarato che il balletto è sostanzialmente una creazione di Picasso, al quale si attribuisce non solo la scenografia ma anche la

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composizione coreografica dei ballerini in termini di accostamenti cromatici ed effetti scenici. Mercure è concepito come una successione di singoli episodi, resi da azioni mimiche che per questo nel programma prendono il nome di “Pose Plastiche”1. Questo il commento di Satie: Il balletto ha un soggetto ma non una trama. È puramente decorativo e si distingue con chiarezza il meraviglioso In origine il balletto Mercure era definito “Divertimento”, ne sono prova alcune lettere di Satie al Conte Etienne de Beaumont e sua moglie. Cfr. D. Coo­ per, Picasso Teatro, Jaca Book, Milano 1987, p. 56.

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Mercure, quadro “La Festa nella casa di Bacco”, foto di scena, Parigi 1924.

contributo di Picasso che io ho cercato di tradurre in musica. Le pose sono esattamente quelle che si vedono in un lunapark; lo spettacolo attira semplicemente verso la sala della musica senza stilizzazioni e senza avere nulla a che vedere con l’arte. Non dimenticherò mai il sottotitolo, “pose plastiche” che ho trovato magnifico2. E. Satie, cit. in O. Volta, Picasso as Playwright, in AA.VV., Picasso und das Theater, Picasso and the Theater, Hatje Cantz, Francoforte 2006, pp. 112, 113.

L’intento non è quello di creare un balletto anticonvenzionale, né tanto meno di scandalizzare, ma sta di fatto che la critica non esita a definire lo spettacolo provocatorio e «incredibilmente stupido, volgare e insipido»3 . Il soggetto, scritto da Massine, rievoca in una successione di quadri i vari aspetti della poliedrica personalità mitologica di Mercurio, dio della fertilità, mago e guida degli Inferi.

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D. Cooper, op cit. p. 55.

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Dimensioni fuori misura: Le quatorze juillet, Rendez-vous

Pablo Picasso, Le spoglie del Minotauro in costume d’Arlecchino, 1936, sipario per Le Quatorze Juillet, 830x1325 cm, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Tolosa.

A distanza di dodici anni dall’ultima esperienza in scena, il nome di Picasso ricompare su un programma teatrale. Sono stati anni in cui mezzi artistici e stili diversi sono coesistiti in reciproco rapporto. Il contatto con i surrealisti aveva stimolato l’artista ad adottare una libertà espressiva che, a partire da forme reali, lo aveva portato ad una interpretazione astratta dei soggetti di sempre: corride, giovani bagnanti, nudi, acrobati1. Alla fiorente attività artistica aveva fatto da contraltare una vita privata rinvigorita dall’amore 1 Nel novembre del 1925 Picasso aveva contribuito alla prima mostra surrealista. Il “Manifesto del Surrealismo” era stato pubblicato da André Breton l’anno prima.

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della giovanissima Marie-Thérèse Walter e dalla nascita della piccola Maria de la Concepciòn, detta Maya2. Le invenzioni pittoriche che avevano trovato nel teatro la loro materializzazione si aprono ora anche a dimensioni inusitate. Nel mese di giugno del 1936 il governo del Fronte Popolare in Francia decide di celebrare la festa nazionale rappresentando all’Alhambra, allora Théâtre du Peuple di Parigi, un dramma di Romain Rolland, Le Quatorze Juillet (Il Quattordici Luglio). In questi anni Picasso è legato sentimentalmente anche alla fotografa yugoslava Dora Maar conosciuta nel 1936.

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Jean Zay, ministro della Pubblica Istruzione, insieme a Jean Cassou e Lèon Moussinac, personalità eminenti nell’ambiente parigino, commissionano il sipario al loro amico Picasso. Questa “Iliade del popolo di Francia” chiude il vasto ciclo di epopee drammatiche del “Teatro della Rivoluzione” (1898-1901) in cui l’autore fa dialogare grandi idee e forti temperamenti. […] Numerose personalità apporteranno il loro contributo alle rappresentazioni date fra il 14 e il 23 luglio 1936: Jacques Ibert, Georges Auric, Darius Milhaud, Albert Roussel e Arthur Honegger scrissero appositamente ouverture dirette da Roger Désormières; Marie Bell, della Comédie-Française, recitava nella parte di Louise Contat3.

Picasso non ha la possibilità di lavorare ad un’opera del tutto nuova, così preferisce scegliere tra i suoi disegni più recenti un’immagine adeguata. Il suo pensiero va al Minotauro, mostro favoloso in bilico tra benevolenza e tragicità, che da diverso tempo occupa un posto dominante nella sua produzione. Il disegno del sipario nasce così come ingrandimento di una piccola gouache dipinta un mese prima, il 28 maggio 1936, La dépouille du Minotaure en costume d‘Arequipa (La spoglia del Minotauro in costume d’Arlecchino). La tela viene dipinta in una settimana dal pittore Luis Fernandez. Così ricorda la moglie di Fernandez: A. Mousseigne, Sipario per il Thèâtre du Peuple detto Sipario per “Il Quattordici Luglio” di Romain Rolland, La spoglia del Minotauro in costume d’Arlecchino, in M. Fagiolo dell’Arco e I. Gianelli, Sipario, catalogo mostra Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea, Milano 1997, p. 142.

Picasso aveva portato a mio marito un bozzetto di questo quadro chiedendogli di ingrandirlo considerevolmente. E lui lo fece (da 250 mq a 1090 mq). È stato costretto a disegnare e dipingere il quadro a terra data la dimensione […]. Una volta finito, Picasso si è mostrato molto soddisfatto, limitandosi a sottolineare i contorni in nero come faceva abitualmente. Certo è stato lui a firmarlo, ma ha sempre messo in risalto che era stato Fernandez ad eseguirlo4.

La tela rappresenta il Minotauro morto coperto da un costume da Arlecchino, sostenuto da un gigante alato con la testa d’aquila. Un uomo grosso e barbuto gli va incontro tenendo il pugno destro alzato, portando sulle spalle un ragazzo con il capo inghirlandato di fiori. La scena appare ambientata in un paesaggio desolato, in riva al mare, davanti a una torre diroccata. Tutta la demiurgica di Picasso – osserva Alain Mousseigne – esplode nell’affrontarsi titanico delle coppie di uomini e di mostri che simboleggiano la lotta insensata fra la vita e la morte, fra lo smarrimento e la speranza. L’opera condensa infine le ricerche stilistiche, iconografiche e formali di Picasso: in essa si coniugano espressività plastica del periodo blu, la chiarezza grafica e luministica del disegno classicheggiante successivo al 1917 e la surrealtà del tema. […] La guache scelta da Picasso per il sipario per Il Quattordici Luglio è dunque la trasposizione sul piano mitologico

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Lettera di Madame Luis Fernandez al Museo, in data 1 febbraio 1995 dove si precisa che tale collaborazione fu gratuita. Picasso e Fernandez hanno lavorato insieme per una decina d’anni. Idem, nota 1, p. 150.

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Ultime scene: Edipe‑Roi, L’Apres-midi d’un faune, Icare

A sinistra: Copertina del programma di Edipe‑Roi; a destra: Copertina di Verve, disegno di Michel Sima, 1946.

Gli anni del dopoguerra vedono Picasso muoversi tra impegno politico, nuove tecniche come la lavorazione della ceramica e un nuovo amore, la giovane pittrice Françoise Gilot, conosciuta nel 1943, dalla quale nascono i figli Claude (1947) e Paloma (1949). Il teatro fa capolino solo saltuariamente. È infatti solo nel 1947 che Picasso accetta di allestire una scena completa. Si tratta di una tragedia di Sofocle, diretta da Pierre Blanchar al Théatre des Champs Elysèes di Parigi, Edipe Roi. La corrispondenza tra Pierre Blanchar, Picasso, lo scrittore André Obey e l’artista François Ganeau permette di ricostruire la cronologia del progetto, la sua

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gestazione piuttosto lunga e travagliata e i disaccordi fra Picasso e Pierre Blanchar. Inizialmente Picasso immagina di allestire la scena con una barca di legno larga e massiccia, dai fianchi arrotondati, con un occhio dipinto sulla prua a simbolizzare sia l’occhio del destino, sia l’occhio di Edipo, reo di aver visto ciò che non doveva vedere. Un disegno di Michel Sima del 1946, utilizzato per la quarta di copertina della rivista Verve dell’aprile del 1948, dà un idea di questa barca ornata di un occhio. Nell’idea di Picasso gli attori così imbarcati sono in un angolo, portati via dal fato con il viso coperto da una maschera, come nel teatro greco.


Picasso che non amava il lato declamatorio della tragedia, avrebbe voluto immobilizzare gli attori, trasformarli, renderli impersonali, cancellare le espressioni individuai del viso e sopprimere l’aspetto patetico e psicologico del dramma1.

Certo situare Edipo in una barca non corrisponde alle scene abituali e di fatto neppure all’idea di Blanchar. Picasso vede quindi le sue proposte rifiutate seppur rispettosamente. A tale diniego Picasso avrebbe risposto: Blanchar non capisce niente, Edipo è la storia di un naufragio morale, è il dramma di un uomo in mare, la barca è il destino2.

Ma Blachar, che non vuole la barca, della Grecia antica desidera l’atmosfera ma non le maschere3. Picasso torna quindi sui suoi passi e tra il 16 e il 29 settembre realizza una serie di disegni che preludono all’impianto finale. Il risultato è un’ampia scalinata che si chiude con un passaggio su porte disegnate, il tutto inquadrato da due grandi archi ellittici. Ignorando le richieste di austerità di Blanchar, Picasso si diverte ad esplorare tutte le possibilità materiche e cromatiche dell’impianto Intervista a F. Gilot, maggio 1994, in M.N. Delorme, L’Histoire des dessins d’Edipe Roi, in AA.VV., Picasso et le théâtre, Les décors d’ Edipe-Roi, Musée Picasso Antibes, Paris 1999, p. 12. 2 P. Picasso, cit. ibidem. 3 Blanchar ad un certo punto pensò anche di sostituire Picasso con lo scenografo François Ganeau, perché pur manifestano stima e reverenza per l’artista spagnolo, non voleva retrocedere sul suo progetto. Cfr. Ibidem.

Edipe‑Roi, foto di scena, 1947.

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Pablo Picasso, Bozzetto per la scenografia di Edipe‑Roi, 1947.

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Partitura di Parade dedicata da Pablo Picasso, Jean Cocteau ed Erik Satie a Marcelle Meyer e Pierre Bertin, 1917


Parade il balletto “realista” Tra Parigi e Roma

Parade è molto di più di un balletto “realista”, come lo definì Apollinaire1. È un’opera collettiva in cui si fondono pittura, danza, drammaturgia e musica. Il lavoro di Picasso, Massine, Cocteau e Satie confluisce in uno spettacolo d’avanguardia in cui si fondono temi cubisti, futuristi e surrealisti. Mentre Picasso dà un corpo tridimensionale alle sue sperimentazioni cubiste, Satie sviluppa suggestioni musicali di jazz e ragtime, Massine studia coreografie all’avanguardia, e Cocteau approfondisce gli aspetti caricaturali dei personaggi, per divenire l’iniziatore di un’operazione che ha fatto la storia del balletto moderno.

L’impresario russo aveva il merito di circondarsi dei maggiori talenti in campo artistico e musicale e di muoversi verso repertori nuovi e all’avanguardia.

Il mio ruolo – scrive Cocteau – fu di inventare dei gesti rea­listici, di sottolinearli, ordinarli e, grazie alla sapienza di Léonide Massine, di innalzarli fino allo stile della danza2.

Cocteau, particolarmente desideroso di entrare nelle grazie di Diaghilev, era molto attento ai suoi movimenti. A sinistra: Jean Cocteau, Picasso e la “Ragazzina Americana” in Parade, illustrazione del suo libro Théâtre De Poche; a destra: Jean Cocteau, autocaricatura durante le prove di Parade, 1917.

G. Apollinaire, Parade, Chronique d’Art, Gallimard, Paris 1960, p. 427. 2 J. Cocteau, cit. in D. Cooper, Picasso Teatro, Jaca Book, Milano 1987, p. 20. 1

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Un altro membro del nostro circolo – ricorda Massine – era un giovane francese magro ed arguto, di nome Jean Cocteau, i cui suggerimenti oltraggiosi divertivano e talvolta irritavano Diaghilev, anche se in genere, egli era disposto ad ascoltarli, poiché riteneva che Cocteau portasse alla compagnia un vento d’avant-garde parigina3.

Cocteau e Diaghilev avevano lavorato nel 1912 alla stesura del balletto Le Dieu Bleu, tratto da una leggenda indù, per il quale Léon Bakst aveva disegnato le scene. Circa un anno dopo Cocteau aveva proposto a Diaghilev un altro balletto, mai realizzato, David, su musiche di Strawinsky. David conteneva tutti gli elementi che si ritroveranno poi in Parade, compresa la durata di soli venti minuti. Sul palco – scrisse Cocteau tempo dopo – davanti al baraccone di una fiera, un acrobata si sarebbe prodotto in uno spettacolino di benvenuto anticipando lo show all’interno del baraccone. Un clown, che poco dopo è trasformato in una scatola (fusione teatrale del fonografo suonato nella fiera, forma moderna dell’antica maschera), celebrava l’impresa di David e attraverso un megafono spronava il pubblico ad entrare nel baraccone per vedere lo show. In un certo senso era il primo sketch per Parade, non necessariamente pieno di rimandi biblici e di un testo scritto4.

Ma Strawinsky abbandonò il progetto nell’estate del 1914 L. Massine, La mia vita nel balletto, a cura di Lorena Coppola. Fondazione L. Massine, Napoli 1995, pp. 115, 116. 4 J. Cocteau, cit. in D. Menaker Rothschild, Picasso’s Parade, from street to stage, Sothby’s Publications, New York 1991, pp. 43, 44. 3

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Pablo Picasso, Ritratto di Erik Satie, Parigi 1920.

e il progetto, senza un compositore, si arenò. Anche un altro progetto di Cocteau, pure di ambientazione circense, non venne mai realizzato: si trattava di un balletto ispirato al Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, che avrebbe dovuto essere rappresentato al Circo Medrano, con la partecipazione dei clown Paul, Françoise e Albert Fratellini. Le scene sarebbero state del cubista Albert Gleizes, le musiche di Erik Satie5. Da uno spartito ritrovato tra le carte di Satie dopo la sua morte, è possibile arguire che lo spettacolo avrebbe avuto la stessa combinazione di effetti classici e moderni di Parade, “un’orchestrazione metà Rimsky, metà dancehall”. Parade, concepita da Cocteau durante l’inverno 1915‑16, mentre si trovava in trincea a Cowide, in Belgio, 5

Cfr. Ibidem.


A sinistra: il manifesto del Circo Fratellini; in basso: il circo durante una tornée a Parigi, foto 1916. Al centro: foto dei tre fratelli Paul, François e Albert Fratellini.


In alto a sinistra: Georges Seurat: Le Cinque, 1890‑1891, olio su tela, Musee d’Orsay, Parigi; In alto a destra: Georges Seurat, La Parade de Cirque, 1887‑1889, olio su tela, The Metropolitan Museum of Art, New York; In basso a sinistra: Illustrazione di un numero del Circo Fratellini in cui François e Albert Fratellini si celano sotto il costume di un animale, 1914.


A sinistra: Scenografia di Parade, 1917; a destra: Pablo Picasso, Schizzi per la scenografia di Parade, 1917.

fu quindi la terza proposta per una pièce teatrale ispirata al mondo del circo. Riprendendo l’idea di David, insieme a Satie, con il quale ha da subito una forte intesa, comincia a buttare giù delle bozze per un balletto raffigurante una parata. In se stesso – scrive Dooglas Cooper – il tema della parata non era certo rivoluzionario, dal momento che, sotto diverse forme, era stato trattato da molti pittori francesi nel corso degli ultimi sessant’anni, fra questi in particolare Daumier, Seurat, Toulouse-Lautrec e Rouault. La novità stava tutta nello scegliere come argomento per un balletto un soggetto come questo, tratto dalla vita popolare6. 6

D. Cooper, op. cit. p. 15.

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Ispirato dal quadro di Georges Seaurat, La Parade del 1887, Cocteau vuole che i suoi personaggi siano mossi da suggestioni cubiste. Quando si presenta nell’atelier di Picasso per proporgli di realizzare scene e costumi di Parade, sa che il tema appartiene già al mondo pittorico dell’artista spagnolo. Sollecitato da Cocteau, Diaghilev incontra i tre per discutere del balletto. L’impresario russo ne è entusiasta. Nel settembre del 1916 inizia così una fruttuosa collaborazione tra Picasso, Satie e Cocteau. Il lavoro procede non senza qualche attimo di incertezza, dal momento che Picasso continua a modificare il progetto originario, che Cocteau considera invece sua creazione intoccabile. In una lettera a Valentine Hugo così Satie manifesta l’imbarazzo iniziale di questo lavoro a tre:

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L’apporto artistico di Massine in Parade è unanimemente riconosciuto. Guillaume Apollinaire, che riteneva che la coreogra-

fia e la musica fossero per eccellenza arti sur-realiste, non si stancò di lodarne l’arte coreografica cosi «nuova», «graziosa» e «pulsante».

Caro Massine, ti scrivo più tardi di quanto promesso, ma ecco i primi istanti liberi che ho da quindici giorni. Voi avete assunto, presso Diaghilev, il ruolo più importante a contatto dell’arte scenica di oggi in generale. Ma ciò che più ci interessa è questa danza che dominate con una grazia estremamente forte. Questa forza, questa semplicità, direi, sono le qualità che vi distinguono. Sfuggono talvolta a coloro che pensano che le belle cose non possano essere semplici. Sbagliandosi. Ho letto stamane un articolo stupendo su Parade. È nella rubrica Débats. Mi si rimprovera di avere annunciato una nuova cosa, meravigliosamente seducente. L’autore si aspettava, senza dubbio, di veder comparire la regina di Saba coperta di gioie! Li, la novità così seducente e semplice della Ragazzina Americana e del costume realista del cinese del music-hall gli è sfuggita. Biasima il Cubismo e magnifica Picasso come se non fosse egli stesso un cubista […]. La coreografia e la musica sono per eccellenza delle arti sur-realiste in quanto la realtà che esprimono supera sempre la natura. Ecco la ragione stessa della vostra arte e della vostra propria importanza artistica. Mi siete apparso così teso a penetrare gli arcani dell’imprevisto coreografico che non ho alcun timore sull’avvenire di questa arte moderna. Per quanto riguarda Parade e forse i balletti in generale, credo che le ginocchia e i gomiti non abbiano ottenuto tutti gli sguardi che meritavano. Spero di avere l’occasione di incontrarvi prima della vostra partenza e di illustrarvi quello che penso a riguardo. Vi mostrerò anche un progetto che probabilmente vi piacerà come piacerà anche all’affascinante Diaghilev. A presto, mio caro Massine e ricevete l’espressione del piacere che mi procura la vostra arte, così nuova, così graziosa, così pulsante. Voi siete sicuramente il primo ad offrire la possibilità di utilizzare queste parole a proposito di danza. 21 maggio 1917 Guillaume Apollinaire

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L’aiuto di Depero e il costume‑corazza

Durante la permanenza a Roma Picasso incontra i futuristi. Proprio nell’atelier di uno di loro realizza i costumi dei Managers: è lo studio di Depero nel quartiere Prati, in via Giulio Cesare. Depero è un’artista poliedrico. Come molti dei suoi amici futuristi, Depero sente l’esigenza di realizzare un’azione estetica totale che si svincoli dalla bidimensionalità del quadro e dall’immobilità della scultura, per diventare un pezzo di vita vissuta. Con grande entusiasmo egli aderisce al Futurismo, fin da quando, alla fine del 1913, appena giunto a Roma, entra in contatto con gli ambienti futuristi della capitale, iniziando a frequentare la Galleria di Giuseppe Sprovieri, dove espone e prende parte a declamazioni e azioni insieme a Cangiullo, Martinetti e Balla. Proprio con Balla mette nero su bianco la voglia di dare un ordine nuovo ad una realtà da ricostruire, dall’impossibile al possibile. Con vena irruenta e rivoluzionaria, così essi affermano nella Ricostruzione futurista dell’Universo del 1915: Noi futuristi Balla e Depero […] daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’imper-

Fortunato Depero fotografato nel suo studio a Roma, 1918.

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LĂŠon Bakst, Ritratto di Sergej Diaghilev e della sua tata, 1906.


Agli albori del mondo di Diaghilev Il circolo di Mamontov

L’inizio del XX secolo segna in Russia un periodo di grande trasformazione. È questo il momento in cui il teatro diventa il centro di sperimentazioni letterarie e figurative in un processo in cui le arti cercano una sintesi simbolica e rivoluzionaria. Il teatro, sporcato da rigurgiti d’avanguardia letterari e non, esce da se stesso e si fa atto di creazione totale. Investe tutti i valori della vita, si fa vita esso stesso e si identifica in “volontà di trasformazione”. Un radicale processo di rinnovamento di tutti i mezzi espressivi investe il teatro, e la scenografia diviene uno degli abiti da cambiare. Il suo cambiamento è il cambiamento di percezione dell’arte, di educazione figurativa dell’artista. Lo scenografo non è più il mestierante artigiano, è l’artista prestato al palco che presta il palco al suo gioco di sperimentazione. I bozzetti per scene e costumi acquistano, a distanza di tempo, un valore autonomo, e si affrancano dalle occasioni per cui erano stati ideati. Sono opere che riflettono le identità, le tendenze e le nuove possibilità artistiche.

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Le prime innovazioni nell’arte scenografica russa possono essere ricondotte all’attività del magnate delle ferrovie Savva Mamontov1 intorno al 1870 e più tardi all’opera della principessa Maria Tenisheva. Uomo eclettico e con gran senso dell’arte, Mamontov dispiega le proprie risorse, sia finanziarie che crea­ tive, per rimettere a nuovo le tradizioni della cultura popolare russa, formando nuovi teatri privati e sperimentali. Nella sua tenuta presso Mosca, ad Abramcevo, Mamomtov lavora con le personalità più progressiste del tempo, pittori, architetti, musicisti, archeologi, scrittori ed artisti di ogni tipo, con lo scopo comune di creare una nuova cultura russa in opposizione all’Accademia d’Arte di Pietroburgo. Un piccolo gruppo di artisti, i “Vagabondi”, forma il nucleo originario di quello che viene chiamato il “Circolo di Mamontov”. Savva Mamontov era cantante, scultore, regista teatrale e drammaturgo. La sua enorme ricchezza si doveva alla costruzione delle prime ferrovie da Arkhanghelsk a Murmansk, usate per il trasporto del carbone verso il nord. Mamontov rappresentava l’esempio più illustre di commercianti milionari a Mosca.

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Questi tredici artisti – scrive Camilla Gray – che sostanzialmente si votarono al suicidio economico, furono ispirati dall’ideale di portare l’arte tra il popolo. Si chiamarono “Vagabondi” poiché ritennero di poter tradurre in pratica i loro ideali organizzando delle mostre circolanti per tutto il paese. Come i loro contemporanei ed amici, gli scrittori Dostoievskij, Tolstoj e Turgheniev, e i compositori Mussorgskij, Borodin e Rimskij-Korsakov, questi artisti cercarono di giustificare la loro attività rendendo la loro arte “utile” alla società. Ripudiando la filosofia dell’ “arte per l’arte”, da loro identificata con la tradizione accademica corrente2 .

I “Vagabondi” sostengono che l’arte deve occuparsi della realtà, per spiegarla e commentarla, perché l’arte è elemento attivo di supporto al cambiamento sociale.

Questa visione didascalica dell’arte giustifica la scelta del soggetto, privilegiato nella figura del contadino, nuovo eroe nella sua vita pura e austera. Il Circolo si riunisce in inverno nella bella e comoda casa di Savva Mamontov alla Spasskaja Sadovaja a Mosca, dove si svolgono delle letture in comune e dove si mettono in scena spettacoli teatrali, a cui accorre tutta la società intellettuale moscovita, piena di interesse. D’estate tutti si trasferiscono ad Abramcevo. Nel corso del tempo le letture classiche della domenica sera si trasformano in scene mimate e poi più tardi (verso il 1881) diventano rappresentazioni teatrali vere e proprie, alle quali partecipano in un modo o nell’altro tutti i membri della Colonia. I testi delle messe in scena vengono scritti dallo stesso Mamontov, che rielabora qualche racconto popolare o episodio storico, e a turno i

A sinistra: La Datcha principale della tenuta di Mamontov ad Abramcevo, Mosca; a destra: La Datcha di Polenov nella stessa tenuta. L’edificio veniva spesso usato come spazio teatrale.

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1.Valentin Serov al centro in atto di disegnare, Apollinarius Vasnetsov dietro a lui a destra, Kostantin Korovin dietro con le mani al panciotto; 2. Ilya Repin, Ritratto di Maria Tenisheva, 1898, The Tretyakov Gallery, Mosca; 3. Ilya Repin, Ritratto di Savva Mamontov, 1880, The Tretyakov Gallery, Mosca.

pittori più volenterosi dipingono le decorazioni teatrali, cosa del tutto inconsueta, dal momento che le decorazioni teatrali erano generalmente realizzate da artigiani tradizionali. La scelta di avvalersi dell’opera di pittori è rivelatrice della considerazione in cui era tenuta la messa in scena, che ormai rientrava a pieno titolo nell’ambito dell’arte. Di lì a poco anche i Teatri Imperiali adottarono il metodo rivoluzionario di Mamontov, cominciando ad impegnare pittori professionisti per la decorazione delle scene. Dopo che nel 1883 viene meno il monopolio imperiale sul teatro, Mamontov non si lascia sfuggire l’occasione di fondare una nuova compagnia, l’Opera Privata, 2

C. Gray, Pionieri dell’arte in Russia, il Saggiatore, Milano 1964, p. 9.

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dimostrando che l’esperienza acquisita nel momento in cui gli artisti della colonia avevano cominciato a mettere in scena commedie e sciarade, lungi dal rimanere semplice avventura dilettantesca, era degna di una vera compagnia professionista. Mamontov incoraggia i suoi artisti-scenografi a rispettare la precisione storica (spesso per le rappresentazioni si faceva uso di costumi contadini originali), a non esagerare in stravaganza e a lasciare all’attore la massima libertà di movimento. Stanislavskij, cugino di Mamontov, che era solito partecipare a queste rappresentazione teatrali “domestiche” ebbe a dire che esse rappresentavano la base del suo “teatro realista”. Svariati artisti di talento diedero un contributo fondamentale al successo delle rappresentazioni di casa Ma-

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A sinistra: Copertina del catalogo dell’Esposizione di Arte Russa organizzata da Diaghilev nel Salone d’Autunno. Disegno con l’aquila bicefala di Léon Bakst, 1906; a destra: Alcuni membri della compagnia dei Balletti Russi prima della loro partenza da Chicago nel 1916. Quinto da destra Sergej Diaghilev.

Quella sera del 1909 c’era per caso tra il pubblico Sergej Diaghilev, il quale, entusiasta del pezzo del giovane compositore sconosciuto, secondo il suo modo di fare stravagante, gli chiese di assumersi il compito di scrivere lo spartito per il balletto L’uccello di fuoco, che aveva in progetto. In tal modo ebbe inizio una collaborazione fortunata tra i due uomini, destinata a passare alla storia. Strawinsky musicò dieci balletti di Diaghilev e fu appunto quest’attività a procurargli notorietà in Occidente, dove in seguito si stabili10.

Un grande merito di Diaghilev è quello di aver reso concreta l’aspirazione alla grande ribalta culturale internazionale del “Mondo dell’Arte”, grazie a una riuscita operazione di esportazione del teatro russo. Fino al 1914, Diaghilev portò ogni anno a Parigi opere in cui era possibile riconoscere i vari temperamen10

Idem, pp. 62, 63.

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ti e linguaggi che contribuirono a creare il “Mondo dell’Arte”: il rinascimento classico auspicato da Benois; la rievocazione di riti pagani scomparsi di Roerich e Strawinsky; il richiamo ellenistico riflesso nei disegni di Bakst, come L’apres-midi d’un faune, unito all’influsso degli interni persiani; l’impressionismo ornamentale decorativo di Golovin nella tradizione di Vrubel; i disegni impressionisti di Korovin; e infine i disegni di Larionov e Goncharova che non solo si riallacciavano, per i loro colori brillanti e i motivi formali alla rinascita dell’arte popolare operata dagli artistici di Abramcevo, ma preludevano al movimento futurista in pittura di cui furono pionieri in Russia11.

Il Balletto Russo diviene così veicolo di conoscenza dell’arte pittorica russa e poi delle Avanguardie europee nel vecchio e nuovo mondo.

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Idem, pp. 48, 49.


La scena dei Balletti Russi

La compagnia dei Balletti Russi a Denver in occasione della tournée negli Stati Uniti, 1916.

Il successo dei Balletti Russi deve essere attribuito alla grande capacità del loro creatore Sergej Diaghilev di saper interpretare i tempi e anticiparli, in continua tensione verso il raggiungimento della perfetta fusione tra danza, musica e arte. Diaghilev è una personalità molto controversa. Incauto e anticonformista, sempre sull’orlo del tracollo finanziario, così fragile negli affari di cuore, le cui pene esibiva senza ritegno, era un uomo infatti troppo predisposto a correre rischi, scegliendo di vivere nella vita professionale e negli affetti sempre controcorrente, non per ideologia, se mai ne ebbe una, ma piuttosto per una eccentrica, anzi egocentrica, predisposizione allo scandalo, che anche furbescamente, non si può negare, lo aveva posto al centro di quel milieu modaiolo e intellettuale, che aveva animato l’ultima grande stagione parigina della Belle Epoque1.

G. Belli, La danza e i suoi pittori, in G. Belli E. Vaccarino, (a cura di), La danza delle avanguardie, Skira, Ginevra-Milano 2005, p. 25. 1

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Il successo delle esposizioni parigine di pittori e musica russa incoraggia Diaghilev a creare una compagnia di ballo che esporti la danza russa in Europa. Allo scopo vengono ingaggiati i migliori ballerini, tutti provenienti dal Teatro Marinsky di San Pietroburgo e dal Bolshoi di Mosca: Michel Fokine, Tamara Karsavina, Serge Ligar, Léonide Massine, Vaslav Nijinsky, Anna Pavlova, Ida Rubinstein. Molti dei maggiori ballerini si opponevano già al conservatorismo del Balletto Imperiale, che sulla scena trattava il corpo di ballo come un mero elemento decorativo. Convinti che le coreografie accademiche abbiano fatto il loro tempo, molti giovani danzatori vedono in Diaghilev la possibilità di esprimersi in modi diversi, innovativi, in armonia tra musica, movimento e arte. Michel Fokine, il primo coreografo ingaggiato nella compagnia di Diaghilev, rifiuta la forma classica di danza. Egli considera il ballo come un mezzo espressivo vero e proprio e non una semplice “ginnastica in musica”. Nelle sue coreografie irrompe una novità mai vista prima sul palco: il ballerino non ha più un mero ruolo di

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Da sinistra in alto in senso orario: Gary Christ (“Il Prestigiatore Cinese”), Donna Cowen (“La Ragazzina Americana”), Ted Nelson (“Il Manager Americano”), Robert Estner e Phillip Hoffman (“Il Cavallo”), Robert Talmage (“Il Manager Francese”), City Center Joffrey Ballet, 1973.


Di nuovo in scena Le riprese di Parade

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1. “Il Manager Francese”, ricostruzione al Museum of Modern Art, New York; 2. “Il Manager Americano”, ricostruzione all’Exposition Ballets Russes Bibliothèque-Musée de l’Opéra Garnier, Parigi 2009; 3. “Il Manager Americano”, ricostruzione del Teatro La Monnaie di Bruxelles, 1964

Dopo la prima a Parigi, il balletto venne rappresentato solo nove volte tra il 1917 e il 1926. Racconta Cooper: A proposito delle riprese di Parade c’è una gran confusione. S.I. Grigoriev, l’impresario di Diaghilev, dice che il balletto fu rappresentato a Madrid nel giugno 1917, su esplicita richiesta del re Alfonso XIII «perché le scenografie erano di uno spagnolo» e che il re rimase «sconvolto» dall’apparire del Cavallo. Nel novembre 1917 venne

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ridato al Liceo di Barcellona per un’unica rappresentazione «per mostrare agli Spagnoli la scenografia di Picasso che in quel momento cominciava ad essere celebre». Poi fu la volta di Londra nel novembre 1919 e di Parigi nel dicembre 1920 (Théâtre des Champs Elisées), nel maggio 1921 e nel giugno 1923 (Gaîté-Lyrique), nel giugno 1924 (Théâtre des Champs Elisées), nel giugno 1926 (Teatro Sarah Bernard), e ancora a Londra nel luglio 19261. 1 D. Cooper, Picasso Teatro, Jaca Book, Milano 1987, p. 26.

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A sinistra: foto di Parade, coreografia Angelin Preljocaj, scene Aki Kuroda, Opéra de Paris 1993; al centro: Locandina per Parade, coreografia Gary Veredon, scene David Hockey, Metropolitan Opera House, New York 1981; a destra: Copertina del testo Parade, genèse d’une création: Angelin Preljocaj, chorégraphe et Aki Kuroda, peintre, 1993.

Nel 1964 venne ricostruito al Théatre de la Monnaie dal Ballet du XXème siècle, compagnia di danza fondata a Bruxelles nel 1960 da Maurice Béjart. Il 22 marzo del 1973 venne rappresentato per la prima volta in America al New York City Center dal Joffrey Ballet. Robert Joffrey fece un’attenta ricostruzione del balletto. L’Opera de Paris nel 1979 completò la ripresa aggiungendo particolari mancanti alla versione americana. Dall’ora in poi il balletto è stato rappresentato più volte in diverse occasioni. Le ricostruzioni delle scene e soprattutto dei costu-

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mi dei Managers sono state esposte in diversi musei come il Museum of Modern Art di New York, la Bibliothèque-Musée de l’Opéra Garnier di Parigi e il Victoria and Albert Museum di Londra. Il testo di Cocteau è stato però rappresentato anche in modo diverso sia scenograficamente che coreograficamente. A Gary Veredon si deve una nuova coreografia di Parade pensata per il Metropolitan Opera Ballet di New York nel 1981 con scenografie di David Hockey. Ad Angelin Preljocaj si deve una versione moderna del balletto, concepito per l’Opéra de Paris nel 1993 con scene di Aki Kuroda e costumi di Hervè Pierre.


La scena di Maurizio Varamo

Maurizio Varamo durante la realizzazione del sipario di Parade, Teatro dell’Opera, Roma 2007.

«Quando ho avuto l’incarico di rifare le scenografie di Picasso per Parade, per la prima edizione qui all’Opera di Roma nel 2007, ho pensato subito che non sarebbe stata

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una cosa semplice. Sentivo che dovevo prima confrontarmi con la sua arte più in generale prima di affrontare il problema scenografico.

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Susanna Della Pietra, Ideogramma relativo agli spostamenti dei ballerini nei singoli intervalli di battuta del finale di Parade.


La ricostruzione coreografica di Susanna della Pietra

I ballerini del Joffrey Ballet, al centro Léonide Massine, alla sua destra la coreografa Susanna Della Pietra, 1973.

«Ho un ricordo molto vivo di Massine, un uomo affascinante, molto deciso. L’ho conosciuto a Londra. Mi ero trasferita dalla Svizzera per studiare alla Royal Ballet School. In quel tempo Massine era pieno di impegni. Aveva intenzione di pubblicare un libro sulla sua teoria di coreografia e così venne a Londra a tenere delle lezioni.

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Proprio nelle lezioni riusciva a testare la sua teoria e ad affinarla. Frequentai il suo corso e fui subito affascinata dal suo modo di curare il gesto, il movimento. Veniva ogni trimestre e, dalla mattina alla sera, le sue lezioni erano totalizzanti. Imparammo subito che quello che contava per lui era la teoria musicale, armonia e contrappunto. Questo non mi sorprese. In fondo aveva lavorato go-

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Programma di sala del balletto Parade, City Center Joffrey Ballet, 1973.

mito a gomito con grandi musicisti come Strawinsky e De Falla. Quando Massine cominciava a lavorare, iniziava riportando su carta, in pianta, la posizione e il movimento del ballerino. Erano una sorta di ideogrammi, non si trattava di una scrittura coreografica specifica come la scrittura Stepanov, che usava successivamente. Questi schemi identificavano, rispetto ad ogni intervallo musicale di

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battute, la posizione del ballerino sul palco. Ed è proprio questo che ho ereditato da lui. Questo modo di lavorare, di scrivere. Il rapporto con Massine è stato fin da subito di grande empatia. Il primo spettacolo che ho rimontato con lui è stato Pulcinella alla Scala di Milano nel 1971.


Kermit Love e Robert Joffrey mentre controllano l’armatura del costume del “Cavallo”, City Center Joffrey Ballet, 1973.

Movimenti della “ Ragazzina Americana”, Spartito Benesh.

L’anno successivo lavorammo a Gaîté Parisienne. In quell’occasione mi diede uno schema scritto, quello di cui dicevamo, un disegno che indicava la pianta del palco con i riferimenti dei movimenti dei ballerini, ed una

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ripresa, ovviamente si trattava di una pellicola muta. Con lo spartito e questo schema in pianta, aggiungevo i movimenti individuali dei ballerini. L’anno dopo mi chiese di rimontare Parade che sarebbe andato in scena con il Joffrey Ballet a New York. Un’esperienza magnifica e dura nello stesso tempo. Tutta la preparazione avvenne nell’isola de Li Galli. Ero chiusa in una piccola stanza con poche boccate d’aria in uno scenario fantastico. Massine delle precedenti edizioni aveva solo degli schemi, non esisteva una trascrizione più scientifica, peraltro i pochi appunti che aveva erano scritti in russo. Mi diede questi schemi e anche in quest’occasione una pellicola. Si trattava dello spettacolo di Maurice Béjart del 1964.

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Pablo Picasso

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Giovani futuri architetti, scenografi in pectore, investigano il palco quale territorio di confronto tra diversi linguaggi d’arte. Pittura, scultura, musica e danza si mescolano in quei pochi metri quadri in cui il corpo dà espressione alla mente e la mente eleva il corpo a idea ontologica. Dal testo di Cocteau, seguendo le volontà di Picasso, si materializzano scene che riecheggiano avanguardie storiche come Futurismo e Surrealismo, o che da esse prendono le distanze alla ricerca di suggestioni in cui i vecchi rapporti tra uomini, azioni, e cose si dissolvono in nome di una nuova macchineria scenica. Parade diventa allora un fumetto, una sequenza cinematografica o un rito tribale in un deserto underground dove il corpo nudo si veste di luce ed appare efebico davanti all’opulenza del pubblico. La scena materializza parole e figure, trasforma il testo in immagini e lo sguardo in magnetismo. L’intreccio orgiastico di visioni d’arte penetra in quinte, botole, fondali, tiri, graticce, sipari. Le arti si piegano al potere ancestrale del palco, ben…

…oltre

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the stage beyond picasso

parade, sets and costumes for an avant‑garde ballet

Picasso and the stage The composer Edgar Varèse introduced the young poet Jean Cocteau to Picasso in the autumn of 1915. This was the start of a great friendship and a literary and artistic association that was to lead the Spanish artist to his first direct experience with the stage. Intent on creating a work for the Ballets Russes company, Cocteau had a spectacular production in mind based on the light-hearted scenario of a “parade” of odd characters on a parisian boulevard seeking to attract the attention of passersby and entice them into a circus. Having painted circus folk for years in a variety of poses and colours, Picasso was by far the best choice to design the sets and costumes. The September of 1916 thus saw the start of collaboration between Cocteau, Picasso, the Russian impresario Diaghilev, the composer Satie and the dancer Massine. While the realism and style of the front cloth for the overture recall the artist’s Rose Period, the crisp, dark planes of the scenery are clearly Cubist. Picasso worked after Parade on the ballets The ThreeCornered Hat, Pulcinella and Cuadro Flamenco. Based on the I.

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novella by the Spanish writer Pedro de Alarcón and also known as the Sombrero de Tres Picos and Le Tricorne, the Three-Cornered Hat was one of the most successful. While Picasso’s curtain, a tribute to Goya, shows a bullfight, the setting is a group of painted houses joined by an arch against the background of a starry sky. The commedia dell’Arte is the source of Pulcinella, a ballet made up of a series of short scenes set in Naples. Picasso produced various sketches before arriving at the definitive design of a large screen with Vesuvius beneath the moon in the middle, a boat in the foreground, and houses shown in irregular perspective at the sides. The scenery for Cuadro flamenco, a ballet of traditio­ nal Andalusian dances, is a parody of a late 19th-century thea­tre decorated in red, gold and black with the stage in the middle and boxes for spectators at the sides. The scenery designed by Picasso in 1921 for Cocteau’s adaptation of the Sophoclean tragedy Antigone consists of a single expanse of hessian painted violet blue and completely covering the stage, a large forum closed by a grate with hanging masks in the middle, and three Doric columns.

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