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02 - 2016
ChĂŹmbe
ChĂŹmbe racconti di imprese
adv: Chìmbe - testi: Andrea Pau
Gordon sa.
Gordon sa. Gordon ha viaggiato tanto. Ha visto luoghi. E mari, e terre, e alberi lontani con foglie gialle che suonano nel vento come una banda di ottoni. Gordon sa. Conosce un segreto. Gliel’ha detto uno sciamano. Uno sciamano vecchio, con le rughe sulla bocca, quella sua bocca da anziano. “Tu sei un musicista” gli ha detto quella notte “E i musici son maghi.” Gordon lo ascoltava. “Sei sempre in giro” disse. “A cercare i suoni. Ecco, fermati un secondo”. Gordon si fermò. Quello riprese a parlare. “Cerca il suono giusto, da fermo, da sdraiato. Stai comodo, rilassato. Trova il suono adatto, adatto a farti capire. Vedrai che tutti lo seguiranno e tu non dovrai mai più partire”. Gordon tornò a casa. Si stese sul letto, sulla sedia, sull’amaca. Poi trovò una poltrona. Era morbida come il suo cuore. Prese la tromba. E cominciò a suonare.
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L’Ineffabile
Metodo Chìmbe ™ ©
Cugò gode a svegliare Giofi alle nove zero zero: primo perché gli fa stizza che riesca a dormire fino a tardi, secondo perché la rivista non si produce da sola. Giofi usa Cugò come sveglia, e per i primi venti minuti lo ascolta tra bagno e cucina, minzione liberatoria e caffelatte. Al ventunesimo minuto scatta il momento operativo, e Cugò ricorda a Giofi che per la mattina è fissato un appuntamento con un cliente. Ehm, partner. partner – Chi è? - domanda Giofi. Si chiama Poddex. Fa porte scorrevoli, - risponde Cugò. – Ah. Le porte scorrevoli ci mancavano. – Noto un certo sarcasmo. Ricordati che pecunia non odoret. odoret – Non olet. No, è che alle nove e ventuno l’idea di un racconto su una ditta di porte scorrevoli mi sembra surreale. Poi magari mi passa. – Dici così perché non sai con chi ho preso appuntamento la settimana prossima. E saranno matte risate. La conversazione va avanti per ore, finché alle undici meno un quarto Giofi stacca gli auricolari per togliersi il pigiama e infilare un pullover. Non che questo impedisca a Cugò di monologare. - Due minuti e sono sotto casa tua. Giofi afferra il dittafono scarico (che fa sempre scena) e il blocco note d’emergenza. Scende in strada, vede l’auto di Cugò e continua la conversazione telefonica
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fin dentro l’abitacolo, perché Cugò ha i minuti gratis. Poi Cugò riattacca, perché la vittima è a portata di voce, e la voce da viva è ancora più gratis. – Allora? - esordisce Giofi sbadigliando. – Allora che? Hai pensato alle domande da fare al Poddex? – Tranquillo, tutto sotto controllo. Le invento sul momento. Com’è, come non è, i due raggiungono il cliente. – Ti ho detto mille volte di non chiamarlo cliente. Noi abbiamo solo partner. - esclama Cugò. – Non ero io, era la voce narrante. – Voi scrittori! - sbuffa Cugò. - Sempre la scusa pronta. I due entrano nel capannone Poddex, brulicante d’attività. Intercettano il signor Poddex mentre segue i dipendenti, immersi nel frastuono delle macchine che tagliano laminati. Lui, uno e cinquanta di senso comune per sessant’anni di pragmatismo, s’era dimenticato della loro esistenza subito dopo aver fissato l’appuntamento. – E chi sareste? - urla Poddex, stranito. – Siamo Chìmbe! - strilla di contro Cugò. – Ma siete in due! – Chìmbe, la rivista! Le ho telefonato due ore fa! – Ah! Cosa posso fare per voi? – Si ricorda quella storia della pubblicità fatta attraverso i racconti? – Io la pubblicità la faccio sull’Unione! – Le volevamo proporre qualcosa di innovativo! Una pubblicità diversa da tutte le altre! – Cioè? – Ci facciamo una chiacchierata senza impegno, ci racconta la sua azienda, e noi costruiamo un bellissimo racconto sulla Poddex! – Cosa vuole che ci sia da raccontare? È un’azienda normale, lavoriamo dalla mattina alla sera! – Non si preoccupi! Ci pensano i nostri scrittori a inventare un racconto che attragga centinaia... ma che dico centinaia: migliaia potenziali clienti, - dice Cugò indicando Giofi che, modestissimo, alita sulle unghie e le sfrega sul maglione con finta noncuranza.
– Se lo dite voi! - risponde Poddex, poco convinto. – Non potremmo parlare in un posto più silenzioso? - propone Cugò. Tre laminati dopo, Giofi e Cugò conquistano l’ufficetto. Il signor Poddex, che non aveva niente da raccontare, li inchioda per trecentoventicinque minuti parlando della meccanica delle porte scorrevoli e della nipotina Belén, nata due settimane prima e più fotografata dell’originale. A pomeriggio inoltrato, sfiniti dalla chiacchiera e dalla fame, Cugò e Giofi si congedano e rimontano in auto. – Dimmi che hai già un’idea, - domanda Cugò, - ti scongiuro. – Sì. Cambiamo mestiere. E arriva la notte, a posare sulle spalle dei nostri eroi un caldo e rassicurante mantello. Prima d’addormentarsi, Giofi accende una candela in onore alla musa Strabica, cugina in secondo grado di Talia, implorando uno straccio di storia per un triste catalogo di porte scorrevoli. E Strabica lo sveglia alle sei e mezza – l’ora esatta in cui il camioncino ritira la differenziata con un frastuono d’inferno – omaggiandolo di un’idea a dir poco geniale. – Soggetto: il signor Poddex è stato incaricato dalla NASA di costruire le porte scorrevoli del nuovo shuttle... - esclama Giofi con piglio entusiastico e una matita infilata tra l’orecchio e la tempia. Prima di concludere l’introduzione, Cugò, Riccio il grafico, le scrittrici Tachi, Milla e Nenno, Ellis l’organizzatrice e Masha la webmaster, in seduta chimbiana plenaria, gli hanno già bocciato l’idea. – Peggio per voi, - replica Giofi, risentitissimo. - Ci vorranno almeno quindici giorni perché mi venga un’altra idea così buona. Cugò storce il naso: - Ma anche no. Se non la trovi entro due giorni, passa di mano. Giofi sbuffa e accavalla le gambe, in segno di protesta. - Vi odio. Ufficialmente. – Ce l’ho! - interviene Milla, sovreccitata. – Rendiamo la nipotina del Poddex protagonista di un racconto strappalacrime! Belèn e le porte del cuore. I lettori piangeranno fiumi di lacrime! – Assolutamente no: questo è un pezzo per bambini - interviene a gamba tesa Nenno. - Io ho già il titolo:
Poddex e la Porta Magica. J.K. Rowling, nasconditi. – Pfff. La porta scorrevole è un chiaro simbolo sessuale, - dice Tachi. - Secondo voi suona meglio Le scorrevoli porte del piacere o La porta sul piacere scorrevole? Senza alzare gli occhi dallo schermo del notebook, del cellulare e del tablet contemporaneamente, Masha emette un suono di disapprovazione schioccando la lingua sul palato. – Ricordiamoci che le porte scorrevoli sono il cuore della comunicazione del cliente! – puntualizza Riccio. – Senza contare che io ho già in archivio quindici schizzi di porte scorrevoli che posso riutilizzare! Prima di finire, Riccio si abbassa e schiva la penna lanciata da Cugò per aver pronunciato la parola “cliente”. – Ragazzi, - sospira maternamente Ellis, - possibile che in America producano un film da due ore intitolato Sliding Doors e qui non riusciamo a tirar fuori un raccontino da quattro pagine sulle porte scorrevoli Poddex? Su, fate da bravi, spremete le meningi. A seguire, un colpevole e riflessivo silenzio della non-redazione. Poi, dopo ore di insensatezze, litigi e sbadigli, il gruppo trova la quadra: la storia sarà ambientata nel 1888, l’anno in cui Theophilus Van Kannel a Filadelfia inventa la porta girevole. In quello stesso anno, a Pirri, l’antenato del signor Poddex inventa la porta scorrevole. Che parallelo ardito, che idea geniale. Congratulazioni reciproche. – Ottimo. Il caso è chiuso, - sentenzia Cugò. - Prossimo caso: Onoranze Funebri Murtax. Tachi, la storia è tua. Ma stavolta niente sesso, mi raccomando. – Perché? Passano i giorni. Giofi saccheggia di nascosto le trame del Mereghetti per dare un senso all’insensata idea collettiva, mentre Riccio, con ettolitri di scolorina, s’affanna a modificare una vignetta d’archivio rigettata dal committente nel 1978, in cui compare sullo sfondo una porta scorrevole. Dodici riunioni, ventisette malditesta e quarantuno gastriti dopo, il pezzo viene montato. E arriva il giorno della presentazione al cl... ops: al partner. partner Cugò, Giofi e Riccio vengono accolti in delegazione nell’ufficetto di Poddex. L’uomo sistema due
cuscini sotto il sedere, inforca gli occhiali e inizia a leggere il racconto muovendo il labiale, mentre sui visi dei Chimbiani si dipinge l’ansia, l’orgoglio e la trepidazione, in ordine sparso. A fine racconto Poddex depone i fogli sulla scrivania, sforca gli occhiali e stropiccia l’attaccatura con due dita a pinza. Poi, con inoppugnabile buonsenso, dice: - Mio bisnonno non ha inventato le porte scorrevoli. Dramma. Cugò, con un sorriso carico di finta sicurezza e bonomia, replica al volo: - Ma certo, è l’espediente narrativo che serviva allo scrittore per mettere in luce le qualità della sua famiglia di artigiani! – Espe-ché? – Mi scusi, sono termini tecnici utilizzati dai ragazzi. Sa: l’arte della narrazione. – Comunque, io sono il primo della mia famiglia a fare porte scorrevoli. I miei antenati rubavano galline, Dio li maledica. Giofi inizia a fumare dal naso, Riccio fa un passo verso l’uscita. – Come le spiegavo, - continua Cugò con tono extramellifluo - su Chìmbe noi prendiamo le aziende di successo e le trasfiguriamo in senso artistico, così che i nostri lettori si appassionino al racconto e si divertano leggendo di lei e del suo lavoro. – Ma il mio nome non c’è. – Quella scritta in fondo al pezzo, signor Poddex, - indica Riccio col ditino puntato sul foglio. - Un capolavoro di impaginazione, se posso permettermi. Il nome del cliente è presente ma allo stesso tempo non infastidisce il lettore... Poddex inforca nuovamente gli occhiali e strizza lo sguardo. – Ah. Eccolo. Comunque io non mi chiamo Poddex. Poddex è la ditta. Io mi chiamo Podda Gianluigi Alfonso. E quel nome cretino l’ha scelto la mia ex moglie, Dio la maledica. Cugò, abile a percepire le situazioni d’imminente naufragio, s’affretta a tamponare la falla: - Non si preoccupi signor Poddex, cioè signor Podda, possiamo cambiare tutto prima di andare in stampa, l’importante è che lei sia contento del suo racconto. Non faccia il modesto: ho colto il lampo di
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soddisfazione nei suoi occhi mentre lo leggeva, lei sì che se ne intende! – E la mia pubblicità? – Quale pubblicità? – La pubblicità della mia ditta. – Ma quella è la pubblicità! Il racconto che ha appena letto. Poddex riguarda il foglio, lo volta, lo rivolta, poi torna a guardare Cugò. Allarme Rosso. – E che mi dice dell’illustrazione? - incalza Cugò, per non dar tempo al partner di organizzare la controffensiva. - Non è magnifica? Non è mica scaricata da internet, sa. È stata realizzata appositamente per il suo racconto! – Ma queste non sono le porte che faccio io. Riccio, indispettito, interviene: - Ma lei lo sa cos’è una trasfigurazione artistica? Cugò gli lancia un’occhiataccia. - Nessun problema! Gliela ridisegniamo come vuole. E non le costerà un centesimo in più. Riccio mugugna “ma lo sai quanto costa la scolorina?” e Giofi gli dà un calcio sullo stinco. – Insomma, signor Podda - continua Cugò, - noi siamo a sua completa disposizione: lei ci dice dove intervenire e noi modifichiamo. L’importante è che lei sia soddisfatto. Poddex bofonchia. - E quanto mi costerebbe questo... racconto? Cugò sorride a sessantaquattro denti e allunga un listino. - Ecco le nostre tariffe. E le posso assicurare che per il nostro settore non hanno paragoni. Anche perché nel nostro settore siamo gli unici! Attimo di silenzio, poi il signor Poddex pacatamente, dice: - Ascoltate ragazzi, io sono contento che dei giovani si siano inventati un lavoro invece di andare a rubare, e per questo voglio darvi una mano. E poi mi dispiace che abbiate fatto tutto questo lavoro per nulla. Lasciamo stare il tariffario. Io ho mio cognato che ha una macelleria. Vi faccio fare un buono, e facciamo scambio merce. Che ne dite? Silenzio assoluto. Cugò guarda Giofi, che abbozza tristemente. Poi guarda Riccio, che invece sbotta: - Ma io sono vegano!
Dieci minuti dopo, i nostri eroi stanno tornando verso l’auto, a orecchie basse. Nessuno ha voglia di parlare. Riccio rompe il silenzio. - Che c’è? Che colpa ne ho se quel tizio è permaloso? La verità è che non era in grado di comprendere l’arte. Meglio così: non si meritava un racconto su Chìmbe. In ufficio, Tachi cerca di risollevare gli animi. - Coraggio ragazzi. Per una che va buca ce ne sono dieci che vanno a segno. Pensate all’agenzia funebre. Gli ho accennato l’idea al telefono e sono usciti di testa: una parodia della Notte dei Morti Viventi in cui i titolari dell’agenzia devono respingere orde di ex-clienti che risorgono per reclamare uno sconto! Giofi mette una mano sulla spalla di Cugò. - Non ti abbattere, capo. L’idea della rivista è eccezionale. Dobbiamo solo farci conoscere. Ci vuole tempo e pazienza. Cugò solleva lo sguardo verso la finestra e il sole che cala all’orizzonte. Poi sussurra - Un giorno... Un giorno la gente capirà!
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Chìmbe racconti di imprese
numero 2 - settembre 2016 periodico quadrimestrale a distribuzione gratuita registrato il 9/11/201 col numero 12 presso il Tribunale di Cagliari ISSN: 2499-8230 prima ristampa: novembre 2016 _____________ direttrice responsabile: Federica Lai coordinamento editoriale: Elisa Comparetti editore: Chìmbe di M.C. via Boiardo n.12 09047 Selargius (CA) chimbe@chimbe.it www.chimbe.it ROC n.26278 tipografia: Press Up srl Roma (RM) www.pressup.it _____________ racconti: Eliana Carrus - Marcello Lasio Giuseppe Pili - Claudia Pirina Cristina Soddu collaborazione all’editing: Fabrizio Garrucciu illustrazioni e grafica: Daniele Tomasi impaginato con: Adobe inDesign font per la testata della rivista e i testi delle storie: Candara _____________ per raccontare la tua impresa: racconti@chimbe.it per la distribuzione: distribuzione@chimbe.it _____________ Chìmbe è un marchio registrato. © Tutti i diritti sono riservati. Questa pubblicazione è protetta da copyright © Ogni riproduzione è assolutamente vietata. Le storie sono opere di finzione e non possono in nessun modo essere considerate come articoli giornalistici. Per esigenze narrative i racconti di Chìmbe mescolano realtà e fantasia in proporzioni variabili, per cui i personaggi rappresentati non sono identificabili con i loro ispiratori o sovrapponibili a loro. Ciò che appare all’interno della rivista è il frutto della trasfigurazione artistica degli autori.
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I racconti del
numero precedente
La rivista dalle dita asciutte “World building?” “Sì. Costruzione di mondi narrativi. Lo scopo del progetto era modellare sulla figura di un imprenditore un racconto di finzione in grado di catturare il senso, lo spirito della sua attività, e al tempo stesso intrattenere il lettore. Perché secondo lui ogni imprenditore in fondo è un eroe, e ogni impresa è una storia da raccontare.” di Giuseppe Pili, per Chìmbe ....... Gordon sa Gordon sa. Gordon ha viaggiato tanto. Ha visto luoghi, mari, terre, e alberi con foglie gialle che suonano al vento come una banda di ottoni. Gordon sa. Conosce un segreto. Gliel’ha detto uno sciamano vecchio, con le rughe sulla bocca. “Tu sei un musicista,” gli ha detto quella notte, “e i musici son maghi, sempre in giro a cercare i suoni. Cerca il suono giusto…” di Andrea Pau per DivaSalotti, divani e poltrone Cagliari - Sestu, ex s.s.131 km 10,5 Sergio Melis - divasalotti.it - info@divasalotti.it ....... Le vie di Strogoff Stardust prese il fascicolo della sua tesi, se lo mise sotto braccio e affrontò l’uscita. Fu sommerso da una pioggia di complimenti, baci, abbracci, urla e stelle filanti. I suoi amici lo trascinarono alla festa. Si divertirono tutti tranne lui. Fu con questo spirito che Stardust salutò e si tuffò nel tunnel al termine della festa, come previsto dal Protocollo. di Daniele Mocci per Strogoff, agenzia di web marketing Luigi Vargiu - 0707730601 - strogoff.it - luigi.vargiu@strogoff.it
Gusto pardula Un suono fuori luogo attira la mia attenzione. “Che gusti vuoi?” “Io, non lo so...” Alza il sopracciglio sinistro. Sta per suonare nuovamente la trombetta e qualcosa mi fa capire che se lo farà, tutte le persone ricompariranno. Non so dove siamo, ma so che voglio restarci. Ho bisogno di capire cosa è successo. Le afferro la mano. “Spiegami chi sei.” “Che gusti vuoi?” di Claudia Pirina per Fabrizio Fenu, maestro gelatiere Bar Centrale, Marrubiu (OR), via Napoli n. 131 0783856085 - fabriziofenu79@gmail.com ....... Il balcone panoramico Gentile signor Cuda, nel vedere il mio nome sul retro della busta, si sarà chiesto chi sia questo Mario Piras che le scrive. Sono il medico a cui lei, quattro anni fa, ha venduto quella casa di Monte Urpinu con la facciata in pietra. Si chiederà il perché di queste parole. Qualche sera fa mia moglie ha aperto un vecchio scatolone, è venuto a galla un libretto… di Daniele Mocci per Giovanni Cuda, agente immobiliare Gruppo Toscano Agenzia Cagliari Centro, via Sonnino n. 78 07060571 - ca.centro@gruppotoscano.it ....... Quattro occhi vedono meglio di due Io libri ne leggo. Pochi perchè leggere mi dà fatica. A casa c’erano sempre due cose: un libro e una carezza. La carezza me la dava Lia, che poi era mia moglie. Lia da giovane aveva lo stesso profumo del vento la mattina presto. Come il vento, Lia se n’è andata un mese fa. No, non è che se n’è andata nell’alto dei cieli! Cudda tzonca mi ha lasciato. A settant’anni. di Andrea Pau per Ottica4Eyes Cagliari, Via Cocco Ortu n. 99 Corrado Marini - 0702040880 - ottica4eyesufficio@tiscali.it
11 Un’auto da sogno “A me sembra che la moglie ne esca sempre più arrogante, uno stratagemma meschino. Lo trovo sessista.” Roberto sobbalza. “Sessista? Ma quando mai?” “Il 99% delle cose fatte dai maschi è sessista.” “Ma che dici?” “Ma sì. L’unica donna che i maschi rispettano è la madre. Questa roba mi sembra una proiezione infantile bella e buona, con l’auto al posto del fallo.” di Giuseppe Pili per AF Motors, concessionaria automobili Cagliari - Sestu, ex s.s.131 km 8,5 Clementina Fodde - 07022222 - afauto.it - info@afauto.it ....... Il trentottesimo seme Anno 2075. La flora del pianeta si è estinta. Il progetto GreenSafe ha salvato milioni di esemplari grazie al lavoro dei più importanti vivaisti mondiali, in attesa che il clima, in un futuro più o meno lontano, torni a ospitare la vita vegetale. Un incendio alla Fondazione ha distrutto tutti i semi e le piante di fragola scampati alla catastrofe. Tutte tranne una… di Giuseppe Pili e Claudia Pirina per Vivaio Peterle - Fabio Peterle Arborea (OR), Strada 14 Ovest 0783801298 - vivaiopeterle.it - info@vivaiopeterle.it ....... BVolution - il film Esterno notte. Statale 1 . Assunta e Gabriella stanno rientrando da un appuntamento di lavoro. Una macchina davanti a loro va lenta. Assunta lampeggia con gli abbaglianti. Riesce a passare ma, nello spazio di pochi chilometri, la macchina le raggiunge, le sorpassa e le ferma. Polizia. “Toglietemi una curiosità, gentili signore, chi di voi è Thelma e chi Louise?” di Daniele Mocci per BVolution, agenzia di consulenza aziendale strategica Maria Gabriella Ranno, mg.ranno@bvolution.it Maria Assunta Vinci, ma.vinci@bvolution.it - bvolution.it ....... La sciamana Mentre le appunta il nuovo abito, Ziza ripensa al giorno in cui Urra entrò nel tugurietto. Sembrava uno straccio usato. Urra da cugurra, l’insetto nero, perché i suoi abiti avevano un solo colore. Ziza l’aveva fatta spogliare di fronte allo specchio. Pian piano le aveva insegnato ad amare i suoi difetti. “Sono difetti solo se la gente si accorge che li nascondi.” di Giuseppe Pili per Patrizia Camba, stilista Cagliari, via Farina n. 67 070666370 - lasartoriadicambapatrizia.it
Salto nel tempo Marco si presenta e sonda il terreno, ma Marcella Chirra non sa niente di telefonate anonime, e nessuno ci ha contattato per suo conto. È incuriosita però dal progetto della rivista, così fissiamo una data per l’incontro. Si potrebbe parlare di Lei mostrando le fasi della realizzazione del pane di San Marco, è un’idea per promuovere il territorio. Ne discutiamo tra noi: Lei è un piccolo paese nel cuore della Sardegna, abbastanza isolato per aver conservato tradizioni e sapori antichi, troveremo spunti affascinanti per un pezzo. Siamo soddisfatti, ma questo non risolve il mio piccolo mistero. Ellaide Ordunque, vi narrerò d’un tempo in cui Iknos la bella, Iknos dalle Vene d’Argento, fu preda d’innumerevoli schiere, assetate d’anime, al soldo dell’oscuro Signore del Nulla. Nessuno sapeva chi avesse partorito siffatto demone o dond’egli venisse; taluno diceva dal mare, come ogni invasore; talaltro parlava del frutto, nero e corrotto, dell’umanità stessa; certo è che costui bramava suggere quel nettare che puro sgorga dal cuore degli uomini nobili, prezioso quanto l’oro della ricca Gorinzia, che chiamasi pietà. di Giuseppe Pili per il Comune di Lei (NU) sindaco Marcella Chirra, comune.lei.nu.it ....... Il dottor Prestitempo: “Me lo presta?” “Sono felice che lei abbia trovato il prestito giusto per me. Ma mi tolga una curiosità...” “Dica!” “Come farà ad arrivare a Sassari tra un’ora e dieci? Conosco bene la persona che deve incontare...” di Daniele Mocci per ALIFIN, agenzia finanziaria Cagliari, via San Benedetto n. 48 Fabrizio Felli - 3383193751 - 0703495309 cagliari@agenziadbeasy.it
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In corsa,
in cammino di Giuseppe Pili
Quando ti parlai della mia solitudine di maratoneta a stento trattenesti un sorriso d’indulgente ironia. Nei tuoi occhi scoprii un lampo di sospetto e forse di paura. Silvio Craviotto Il mio professore, buonanima, diceva sempre che per conquistare la massa devi abbeverarti a due fonti: lo sport e la religione. Evita di farti un’opinione a riguardo: se vuoi fare il politico - ammoniva, e io mi sentivo toccato - metti da parte le tue idee e fingi adesione emotiva agli interessi della maggioranza. Sii camaleonte: tingiti dei colori dell’uomo comune, assumi le sue pose e le sue debolezze. Non innalzarti, perché le virtù ti rendono sospetto. Sono stato il suo miglior allievo: in vent’anni di carriera ho imparato a cogliere i temi dominanti, a riconoscere al volo santi e campioni. Vent’anni in cui la mia barca riceveva un’onda sul fianco ed io spostavo il peso con straordinario senso dell’equilibrio. Come da manuale. Ma ciò che stiamo vivendo oggi non è un’ordinaria oscillazione d’onda: è un uragano che rischia di demolire la barca e
trascinarla a fondo. I nuovi partiti cavalcano lo scontento popolare con ferocia, e qualcuno incita ad appendere in piazza - e per i piedi - i politici puri, quelli della vecchia scuola, quelli per cui la politica è la nobile arte del compromesso. Gli ultimi sondaggi sono sconfortanti, mi danno finito, passato, archiviato. Perciò con la mia squadra siamo impegnati a cercare una comunicazione vincente, o queste elezioni s’affonda. Cosa fare cosa non fare, poi Silvia ha un illuminazione. - Mia zia fa parte dei Camminantes. E conosce Zigheddu. Lo dice come fosse impossibile non sapere chi è. - Davvero non sai chi è Zigheddu? Le chiedo di prepararmi un dossier e il gior giorno dopo lo trovo sulla scrivania. Francesco Calledda, noto Zigheddu. Aritzo 19 8, bancario in pensione dal ‘94, sposato, tre figli. Cinquantuno chili per poco più d’un metro e mezzo (da cui il nome di battaglia), un volto sardissimo, due occhi penetranti, un’abbronzatura perenne. L’unico essere umano ad aver visitato a piedi ogni angolo della Sardegna, macinando migliaia di chilometri su strade secondarie, quasi sempre da solo. Tre volte da Roma a San Giovanni Rotondo, una volta da Roma a Padova, settecento
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chilometri in un paio di settimane. Di chiesa in chiesa, di santuario in santuario. Inizia a correre a sessant’anni e partecipa a cinquantacinque maratone finché una frattura al metatarso lo costringe al passo. È il sardo che ha partecipato a più maratone di New York. Grazie a lui la bandiera dei quattro mori ha sventolato su ground zero subito dopo l’attacco alle torri gemelle, a macerie fumanti. E il volontariato: da anni porta i ragazzi della comunità di Padre Morittu in montagna, a schiarirsi le idee e tornare a credere nella bellezza del mondo. Fede, sport e sardità in una persona sola. Non potevo chiedere di più. Quello che mi serve per consolidare la mia immagine di uomo del popolo, difensore dei valori tradizionali, paladino del senso comune. Chiedo a Silvia di organizzare un incontro, ma si fatica a trovarlo. Dicono sia più semplice fermarsi su un sentiero - uno qualsiasi - e aspettare che ti passi accanto, col berrettino calato sugli occhi e il bastone di ferula su cui ha inciso il nome della sua prossima destinazione. Poi il cellulare lo aggancia. - Signor Calledda, la disturbo? Sono la segretaria dell’onorevole Nurchis. L’onorevole avrebbe piacere d’incontrarla per scambiare quattro chiacchiere. Possiamo fissare un appuntamento? - Chiamami Zigheddu, e dammi del tu. Non comprende bene le ragioni dell’incontro, ma dice che fra una settimana ha in programma un’escursione in montagna, e ci invita. Ci penseremo, intanto grazie. Riunione urgente con la squadra. Mettiamo a fuoco l’idea, e ci sembra geniale: faccio una tappa insieme a lui, polmoni e gambe permettendo. Mi porto dietro Franco Falchi, il regista. Ci seguirà con la camera a
spalla per tutto il percorso. Io e Zigheddu, a piedi, per le strade dell’isola: un’immagine potente. Paesaggi bucolici, la Sardegna autentica, un cammino di fede, mens sana in corpore sano, annessi e connessi. Un piccolo film da lanciare su tutte le piattaforme a dieci giorni dalle elezioni. Siamo tutti entusiasti. Franco accetta, per lui è un buon ritorno, perché fatica a racimolare i soldi del suo prossimo film. Ma Zigheddu è d’accor d’accordo? Non importa. Dobbiamo solo camminare insieme, non dobbiamo fare comizi. Sarà un testimonial involontario. Se stavolta non sfondiamo non so cos’altro inventarmi. Domenica alle sei antimeridiane siamo ad Aritzo. Ci presentiamo. Calledda è in maglietta, calzoncini, sandali e fazzoletto al collo, le scarpe da tennis infilate ai lati dello zaino. Non sembra particolarmente emozionato dall’incontro con un onorevole. Forse non vota. Scorge la telecamera e mi domanda se questa roba andrà su Videolina. Rispondo che andrà anche su Videolina. Franco mi sussurra che i suoi tratti così marcati sono molto fotogenici, quasi pasoliniani. Invece il mio volto s’è arrotondato, le luci non producono più l’effetto drammatico dei miei vent’anni, ormai sono da commedia all’italiana. Gli raccomando di prendermi di profilo. Cammineremo in quattro: io, Calledda, Franco e il fonico, ma verremo inquadrati solo noi due. Silvia non viene, ha la vescica ad autonomia ridotta. Afferro lo zaino e chiedo a Zigo - posso chiamarla Zigo? - cosa metta abitualmente nel suo. Me lo apre: una borraccia, quattro mele, due pomodori, un vasetto di miele. Prendiamo il sentiero che gli aritzesi chiamano Su Caminu ‘e sa Leva. Zigheddu mi racconta che agli inizi del secolo scorso i ragazzi del paese lo percorrevano fino a
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Lanusei per la visita militare. Ne aveva sentito parlare dai fratelli della madre, ma con gli anni il bosco se l’era ripreso. Ai suoi tempi si faceva a piedi, ma scalzi. Le scarpe erano un lusso, le fabbricavano in occasione della visita ma non le usavano, non erano abituati. Se le caricavano in spalla, come bisacce, e le calzavano a destinazione. - Prima il sentiero passava dentro il Bau Muggeris, il lago di Villanova. Adesso ci tocca aggirarlo. A Zigheddu piace conversare, il contatto umano lo appaga, nonostante spesso cammini da solo. Durante il percorso mi elenca le sue imprese, snocciola i toponimi tappa dopo tappa che nemmeno una cartina. - Percorrendo la strada in auto non hai contatti col mondo che ti circonda. Prendendo strade laterali percepisci suoni, odori, colori diversi. Il rapporto con la gente che incontri è straordinario. Questa frase mi piace molto, ha una bella risonanza politica, ma Franco se l’è fatta sfuggire, s’era incantato a guardare il panorama. Così chiedo a Zigheddu di ripeterla a beneficio della telecamera, e lui esegue con naturalezza. Quando si parla dell’Isola i suoi occhi s’addolciscono, si riempie di aggettivi straordinari. Mi parla di aquile reali, grifoni, torrenti, cascate, boschi, distese di ginestre, nuraghi, tombe preistoriche, neviere e villaggi abbandonati. A me la retorica della natura ha sempre annoiato, trovo la Deledda insopportabile, ma sgrano gli occhi e domando spiegazioni superflue. - Non hai paura a camminare da solo? - No, mai. Ho il mio satellite lassù che mi protegge e mi indica la strada. Non mi sono mai perso. A volte faccio finta di chiedere la direzione solo per scambiare quattro
chiacchiere con la gente del posto. In effetti è difficile perderti, se la tua meta è il mondo. Ogni tanto cerco di condurre il dialogo su territori che conosco, quelli dell’astrazione, ma lui mi riporta sempre a terra con argomenti concreti. Ho visto questa persona, ho fatto questa cosa. Non esprime mai giudizi troppo negativi su niente e nessuno. - La mia passione per i pellegrinaggi è nata da piccolo, quando il cammino da Aritzo a Tonara per Sant’Antonio era un’avventura. Poi la cosa è diventata seria in occasione del terremoto in Umbria. Ricordi? Ero di fronte alla tv e ho visto crollare la basilica. Mi sono messo le mani nei capelli, disperato, e ho gridato “Santu Franciscu no! Se non crolla il rosone vado a piedi ad Assisi”. E così è stato. Ho camminato per cinque giorni sotto una pioggia ininterrotta. All’arrivo è stata un’emozione incredibile. Si può dire che non c’è angolo di Assisi in cui Zigheddu non ha messo piede. È buffo quando parla di sé in terza persona. Chiedo una pausa fisiologica, Franco ha la spalla indolenzita, io maledico le sigarette. Ci sediamo in bivacco in una radura, e arriviamo a parlare della maratona di New York, dell’undici settembre. M’incuriosisce sapere che ne pensa lui - intimamente cattolico - dell’Islam. - Lo rispetto. Io cerco il dialogo con tutti, anche con chi la pensa in modo differente. Prima viene l’umanità della persona, poi le sue idee. Dice che quando per strada si incontra qualcuno, si incontra sempre un essere umano, spoglio delle sue idee, e non c’è incontro più vero. Nonostante abbia macinato tanti chilometri da percorrere tre volte il giro del mondo, Zigheddu non sta
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cercando niente che non abbia già trovato. Quando i guru parlano di serenità interiore presumo si riferiscano a questo; io non lo so, nella mia vita non credo d’averla mai provata, e se l’ho fatto non me ne ricordo. È il momento. Provo a buttarla sul sentimento, dobbiamo conferire spessore all’incontro, Franco andrà di primi piani, una lacrima sarebbe il massimo, per cui gli domando a bruciapelo quale sia stato l’incontro più bello della sua vita. La sua mente torna alla volta in cui è riuscito a toccare per due volte Madre Teresa di Calcutta. La prima volta le ha afferrato la nuca mentre gli passava di fronte, la seconda è riuscito a poggiarle una mano sul capo. Lei gli ha sorriso, quelli che gli stavano accanto hanno schiumato d’invidia. Poi però ci ripensa. No, non è vero, non è stata quella volta. - Ero in cammino da Roma a San Giovanni Rotondo. Mi trovavo in un villaggio di montagna di cui non ricordo il nome. Era aprile, e durante la notte aveva nevicato. Prima di ogni partenza io cerco sempre una chiesa aperta, mi affaccio, faccio un segno della croce e inizio il cammino. Quella mattina in chiesa c’era un’anziana donna, molto piccola, che mi osservava. Per il modo in cui ero vestito deve avermi scambiato per un barbone. Si è domandata “dove va quest’uomo, con la pioggia e con la neve?” Si è intenerita, si è avvicinata e mi ha domandato chi fossi. Io le ho risposto che ero un pellegrino. Allora ha estratto dalla tasca tre biglietti da mille e ha sussurrato “tieni”. In quel momento quella donna dolce, piccola e semicurva mi ha ricordato mia madre. Zigheddu, con lo sguardo trasognato e gli occhi lucidi, fa una pausa, e respira. Io e Franco ci guardiamo e pensiamo la stessa cosa. Questa scena sarà l’apice emotivo
del nostro film. Immagino già la musica di sottofondo. - Le ho risposto “No grazie. Non ho bisogno di nulla.” “Dimmi chi sei,” insisteva. Le ho raccontato d’essere partito a piedi da Roma. Mi ha guardato in silenzio e mi ha chiesto di attendere, allontanandosi. È tor tornata insieme ad altre persone. Hanno iniziato a farmi mille domande, ognuno di loro mi pregava di citare il suo nome al cospetto di Padre Pio. In Sardegna avevo raccolto una busta di soldi da consegnare a destinazione, così ho accettato l’offerta della donna. Ci siamo salutati con affetto. Ricordo che durante il viaggio ho ricevuto mille gesti di tenerezza. Tutti mi chiedevano “dove vai?” e mi invitavano alla loro tavola. Mi consigliavano di andare a conoscere Fra Modestino, già in odore di santità, con cui era molto difficile avere un colloquio. Così decido di provare. A San Giovanni domando, e mi indicano sotto la chiesa, nella sala dov’era esposta la salma di Padre Pio. Un posto enorme, zeppo di gente. Chiedo a una donna chi sia quel frate attorniato dalla folla. “È Fra Modestino, io è il quinto giorno che vengo e non riesco a parlarci.” Bene, in quel momento, come se qualcuno mi avesse dato una spinta, mi dirigo verso di lui, senza esitazione, scavalcando tutti. La cosa incredibile è che nessuno protesta. Gli arrivo di fronte, metto il bastone tra le gambe, gli stringo entrambi i polsi e dico: “Le rubo pochi secondi. Vengo dalla Sardegna, a piedi. Le porto i saluti di tanta gente che ho incontrato in cammino. Mi dispiace, ma non ricordo più i nomi.” Lui mi guarda, mette una mano in tasca, estrae il crocifisso che era stato di Padre Pio, me lo appoggia in fronte e dice “Dio ti benedica, Dio ti protegga, Dio ti aiuti”. L’indomani per strada tutti mi toccavano, quasi fossi un santo.
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Zigheddu ride, si alza e ci invita a riprendere il cammino. Mi accorgo che abbiamo tra le mani del buon materiale, ma io non sono ancora soddisfatto. Lui sta facendo la sua parte, cioè quella di essere se stesso, io non riesco a interagire come vorrei. Le mie domande mi sembrano sottotono, banali, non riesco a fare ciò in cui sono più bravo, ossia proiettare un’immagine vincente, di pacata autorevolezza. La sua semplicità mi spiazza, mi fa sentire a disagio. Forse è la stanchezza. Dopo qualche chilometro domando quanto manchi. La testa inizia a pulsare, le gambe s’irrigidiscono, il dialogo arranca, cerco di risparmiare il fiato. La nostra guida ogni tanto fa delle soste per ammirare scorci particolari. Io non vedo l’ora che si arrivi, Franco invece sembra affascinato. - Ma dove trovi tutta l’energia che hai, Zigo? Te lo sei chiesto? - È un argomento che mi interessa davvero, perché già da qualche anno comincio a sentire il peso del mio lavoro, e non è l’età. - Non lo so. - risponde lui. - So solo che nei pellegrinaggi le forze si moltiplicano. Confesso che non ho mai avuto un attimo di cedimento, di sbandamento. Mai una malattia. - È la fede, - interviene Franco, con sicurezza. Alzo gli occhi al cielo, perché sento che sta per arrivare uno dei suoi pippotti new-age. - Quando si pensa alla fede si pensa alla bontà, alla preghiera, ma la fede è anche un fatto fisico. Appena veniamo al mondo siamo connessi con l’energia dell’universo attraverso un canale - simile a un cordone ombelicale - che ci inonda di un’energia incredibile. Man mano che cresciamo, le nostre paure creano attorno a noi una corazza che blocca e impedisce il flusso di questa energia, e
iniziamo a sentirci sempre più stanchi. La fede - chiamala fiducia nell’universo, se vuoi - scioglie questa corazza, e l’energia riprende a fluire. Se smettessimo di avere paura saremmo carichi di una forza inesauribile. Un puro fatto fisico. Zigheddu ascolta con molto interesse e annuisce. - L’hai letto sul libro degli oroscopi? domando io, sarcastico. Franco sa bene che ne penso di questa roba. - Di sicuro non l’ho trovato sul tuo manuale di scemenze sociali, - risponde lui, tra l’ironico e il piccato. - Io non so pregare, - chiosa Zigheddu, - ma per me camminare è come pregare. Mio cognato, che è frate, me lo dice sempre. A un tratto superiamo un dislivello e la nostra guida si blocca. Ha scorto qualcosa, a qualche decina di metri, e ci invita a fare silenzio. Ci fermiamo e guardiamo nella sua direzione. - C’è vento contrario, non hanno sentito il nostro odore. Un’apparizione. Tre mufloni attraversano il sentiero che taglia in due il bosco. Silenzio assoluto, nessuno fiata. Sono sincero, non li avevo mai visti dal vivo. Li seguiamo con lo sguardo mentre scompaiono, inghiottiti nella macchia. Franco sembra folgorato sulla via di Damasco, e dice che le chiacchiere ci distraggono dalla nostra vera esperienza. Il fonico, che sbaglia momento per interrompere il silenzio, gli dà ragione. La cosa m’innervosisce, perché sembrano aver dimenticato lo scopo per cui siamo qui. Da lì in poi proseguiamo in silenzio, ognuno per motivi diversi. Mentre la combriccola sembra godersi il paesaggio a mie spese, io rumino sul futuro, sull’esito di questa
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operazione, sul mio rilancio d’immagine, sui sondaggi, sulle elezioni che si terranno a breve. Come sempre la finisco a riflettere sull’eventualità che non mi rieleggano, e sento un bruciore allo stomaco. Mi angoscia l’idea di perdere il mio ruolo, i miei privilegi, il mio tenore di vita. Sarei ancora in grado di garantire i progetti di vita della mia famiglia? Calma. Respira. Capiamo d’essere giunti a destinazione quando scorgiamo il camper che ci attende sulla strada asfaltata. Sono sfatto ma mi ricompongo, annuncio a Zigheddu che ci saranno i saluti finali e mi metto in posa per stringergli la mano. - Grazie per questa straordinaria esperienza, Zigheddu. Grazie per averci mostrato la vera Sardegna, il vero spirito di quest’isola bellissima, il cuore della sua gente, la sua fede autentica, la sua natura incontaminata, quella che tutti noi dovremmo amare e proteggere. C’è un messaggio che vorresti lanciare? Qualcosa che vorresti chiedere alla politica? Zigheddu riflette. - Non ho messaggi. Alla politica chiedo di aver cura della gente che soffre. E intendo anche chi non ha ancora un lavoro, e chi l’ha perso. Assieme al lavoro ha perso la dignità, mi auguro che non perda anche la speranza. Chi sa manu divina bi ponzat remediu. - Non posso parlare per conto di Dio, ma le prometto che se verrò eletto… La mia risposta l’abbiamo tagliata in fase di montaggio. Suonava talmente falsa da far accapponare la pelle. Iniziamo a lavorare sul girato, coi suggerimenti della squadra. In una settimana il risultato è pronto, colonna sonora inclusa. Chiamiamo amici e parenti per una serata birra e salatini. Alla fine partono gli applau-
si. Lavoro eccezionale. Grandi. Nuova frontiera nella comunicazione politica. Pregustiamo l’impennata nei sondaggi. Nurchis, uno di noi. Silvia organizza l’anteprima privata con un pubblico casuale, abbiamo bisogno di una conferma esterna, la nostra percezione potrebbe essere falsata dalla fatica e dall’entusiasmo. Affittiamo una saletta di proiezione e un’attrezzatura sofisticata dagli Stati Uniti. Ogni poltroncina è dotata di una pulsantiera che invia dati a un computer. Lo spettatore reagisce alle scene: mi piace, non mi piace, così così. Sullo schermo, un grafico si aggiorna in tempo reale. Ovviamente io e Franco non siamo in sala, non sarebbe opportuno, e attendiamo i dati al tavolino di un caffè. A fine anteprima Silvia mi telefona: è stato un disastro. Nel grafico la media gravitava sempre sul pessimo gradimento. Fiasco totale. Il pubblico ha rigettato. Rimaniamo in silenzio, a rimuginare. Andiamo a casa, dai. Ci sentiamo domani a mente fredda. Riunione urgente per capire. Conveniamo sul fatto che la comunicazione che funziona sul pubblico americano qui viene percepita come innaturale, artificiosa, manipolatoria. Siamo ancora immaturi o siamo troppo maturi? Dal mio punto di vista ha poca importanza. Quando una cosa non funziona non funziona. Il film avrebbe un effetto boomerang, per cui con Franco rimaniamo d’intesa che il progetto si spenga, in silenzio. Qualcuno di quelli che aveva applaudito adesso tace. Qualcuno s’azzarda a dire te l’avevo detto. Succede sempre così. È notte. Sprofondo nel divano e faccio partire il filmato, ho bisogno di riflettere sugli errori. Mia moglie si sveglia e viene a sedersi accanto a me.
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- È qualcosa che ho detto? - le domando. - Non hai detto niente di sbagliato. È l’accostamento con quell’uomo che ti affossa. Lui è ciò che è, tu sembri un cretino supponente che si abbevera alla fonte della saggezza senza trarne beneficio. Non c’è bisogno di spiegare niente. Hai messo insieme il semplice e il complesso, e il complesso ne esce malissimo. Si percepisce che lo stai usando. Non mi piace che qualcuno tiri fuori le cose che ho stipato nell’inconscio. Mi fa sentire a disagio, mi innervosisce. Ma l’ho sposata anche per questo: lei può dirmi ciò che gli altri non possono. Invece smette di parlare, appoggia il capo sulla mia spalla e guarda il filmato, in silenzio. Non lo sopporto. Da lei non accetto omissioni. - A che pensi? - Penso che non ci hai mai portato a fare una gita in montagna. Alle bambine farebbe bene, e anche a noi due. - Vi ci porto. Dopo le elezioni. Promesso. - Tu non te ne accorgi, ma vivi in un mondo che non esiste. Le proiezioni future, gli sbagli del passato… non sei mai nel presente. Sempre preoccupato della tua immagine, di quello che la gente pensa di te. Sempre con quel maledetto cellulare in mano. Non sei mai qui. Non godi mai dell’attimo, delle cose che hai davanti. Guarda quell’uomo: ci hai camminato una giornata intera e non hai imparato che lui riesce a godere delle cose più semplici. Quella è la vita che desidero anch’io. - La serenità è un lusso che non posso permettermi. Sto lavorando per voi. Per te, per le bambine. - Lo so. E noi ti apprezziamo. Ma lo hai detto tu stesso: la serenità è un lusso. Noi viviamo nel lusso ma proprio quello ci manca. Perché? Perché non possiamo averlo?
- Perché l’ho barattato in cambio del resto. E poi non credo che riuscirei a vivere così, nonostante ciò che dice il tuo insegnante di yoga. - Allora forse è questo il motivo per cui quella roba non funziona. Si capisce che quando esalti quell’uomo stai mentendo. Non ho voglia di replicare. Lei si alza, mi dà un bacio e si avvia verso la camera da letto. - Torno a dormire, non fare tardi. Sta per oltrepassare la soglia e una strana sensazione s’impossessa di me. Una sensazione di paura. Sento come se - sparita dalla stanza - dovessi perderla per sempre. Lo so, è stupido e sono molto stanco, ma per un attimo mi sento perso. Un bambino spaventato che ha appena lasciato la mano della madre. La richiamo. Dio, fa che torni indietro. Lei fa capolino sulla soglia. - Le bambine hanno l’attrezzatura? domando senza voltarmi, a mezza bocca. - Sì, hanno tutto. - Domenica va bene? - Va benissimo, - risponde. Non la vedo, ma so che adesso sta sorridendo. - Hai una preferenza particolare? - Nurchis, sono anni che organizzo le nostre uscite. Stavolta organizzala tu. Fammi capire che per te è importante. Verrò dove vuoi. Purché non ci siano telecamere. Sorrido anch’io. - Fanculo le telecamere. ______________ una produzione AF Motors afauto.it - info@afauto.it © Chìmbe - riproduzione riservata
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Il libro nella
mano destra di Claudia Pirina
«Destra o sinistra?». Fabio ha sempre avuto un debole per il melodrammatico. Quando, anni prima, gli chiesi quale fosse la poesia di Pablo Neruda che conteneva il verso “Imparerai di nuovo ad esser stella”, la mattina dopo si presentò con un bigliettino minuscolo in mano con scritto un indizio. Spesi tre ore davanti al computer a seguire le briciole di pane che mi aveva lasciato in giro su internet per trovare il titolo di quella poesia. Eravamo alla stazione dei treni di Cagliari: il giorno dopo lui sarebbe partito per la Spagna da Alghero e io per Parigi da Cagliari. E mentre il capotreno stava fischiando il primo avviso, lui incrociò le mani dietro la schiena e mi chiese «Destra o sinistra? Te li voglio regalare entrambi, quindi scegli tu!». «Sinistra» risposi. E lui mi diede Il lupo della steppa. Al secondo fischio del capotreno, salì sul primo gradino. «E nella destra che libro c’era?». «Te lo regalo quando torniamo!». Il terzo fischio del capotreno segnò la fine di quella conversazione. Qualche gesto con le mani, qualche sorriso e poi la sua schiena. Non sapevo che quella sarebbe
stata l’ultima volta che l’avrei visto. Due mesi dopo un contadino di un paesino vicino Siviglia ha sentito il tonfo della sua vita andare in frantumi. Quando mi hanno chiamato per dirmi quello che è successo, mi è sembrato tanto irreale che ho avuto bisogno di immaginarmi la scena. Ho impedito a me stessa di farlo e il mio primo pensiero è stato che non mi ha mai detto qual era il libro nella mano destra. Io e Fabio non eravamo amici nel senso giovanile del termine, compagni di bevute o di uscite. Eravamo anime affini, compagni mentali, amici di penna. Parlare con lui significava usare metafore, similitudini, immagini di film o pagine di un libro. Tra le righe di ogni libro che lui mi aveva regalato o suggerito c’era sempre un messaggio per me. E ora mi manca il più importante. Come posso dirgli le mie ultime parole, senza sapere le sue? La voglia di allontanarmi dalla realtà è talmente forte che mi convinco di un’idea assurda: l’unico modo che ho per trovare quel libro è leggere tutti i libri pubblicati prima della nostra partenza. «Sai che non ti basterà una vita intera per realizzare un’impresa simile, vero?» mi dice Giovanni, mentre mi sistemo nella
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sala dei fiduciosi, come la chiama lui. È una sala in fondo alla libreria Miele Amaro, dove vanno le persone che, secondo lui, sperano di riuscire a trovare qualche libro che non hanno trovato nella sala principale della libreria. Io l’adoro perché è lontana dall’ingresso, lì è facile isolarsi e quando cominci a sfogliare un libro, senti solo il respiro delle pagine. «Spero di trovarlo prima» gli rispondo, «non li leggerò per intero, me ne renderò conto subito se era quello che mi avrebbe regalato lui». Mi guarda strano, ma non dice nulla. Sa bene che non lascio un libro a metà, ma sa che ho bisogno di portare a termine questa ricerca. Non posso lasciarlo andare senza dirgli addio. Non ho neanche risposto alla sua ultima mail. Devo trovare quel libro. Domani ci sarà il funerale. Dopo qualche ora Giovanni fa capolino nella sala. Son seduta per terra, ho una marea di libri aperti e l’unica cosa che continuo a pensare è che a Fabio sarebbero piaciuti tantissimo. Come può essere morto, senza aver letto tutti questi libri? «È stato lui il primo a parlarmi di Dick, dopo che avevamo visto insieme Next, ma son sicura che questa raccolta di racconti non l’ha mai letta. È ovvio che non è questo il libro della mano destra, lo so perché non c’è nessun messaggio per me. Ma come faccio a esserne sicura? Gli piaceva anche Dostoëvskij…». Mentre parlo Giovanni mi guarda, raccogliendo da terra tutti i volumi degli autori che gli cito. Sto cominciando a perdere le speranze. È come se mi aspettassi che con quei libri ricostruisca il mio amico e me lo ridia
anche solo per un giorno, per parlarci, per chiedergli scusa per non aver risposto alla sua mail, per non esserci stata, per ascoltarlo mentre mi dice le sue ultime parole. «Parlami di lui». Mi alzo in piedi e comincio a girovagare per la sala. «Fabio mi ha sempre fatta arrabbiare. Non ha mai voluto dare importanza alla nostra amicizia, almeno non a parole. Non mi ha mai dato quella soddisfazione. Non crede nei sentimenti, nel bene, nella vita. Crede che le persone si usino vicendevolmente ed è quello che ha sempre fatto anche lui. Ci ha usati. Ha usato la vita sino a quando ha voluto e poi l’ha buttata via, incurante del fatto che potesse servire a qualcun altro». Giovanni prende in mano dei volumi, li rimette a posto, poi ne prende degli altri, sino a sceglierne una decina. Quando ho finito il mio sfogo, mi fa sedere sulla sedia, si fa spazio in uno scaffale e sistema i libri davanti a me. «Quante volte sei venuta qua e mi hai detto “Avevo voglia di una passeggiata in libreria”? È normale, un libro è come una persona, ti ci devi trovare a pelle, per istinto. Noi non dobbiamo far altro che passeggiarci accanto e renderci disponibili. Questo è quello che devi fare. Non pensare alle parole che stai cercando dentro questi libri. Alzati in piedi, cammina accanto allo scaffale e fatti scegliere». Respiro profondamente, attendo che i passi di Giovanni si allontanino dalla sala, poi mi alzo e cammino come mi ha suggerito lui. Mi guardo intorno e con tutte le forze cerco di non pensare a niente, poi mi giro lentamente verso il
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gruppo di volumi suggeriti da Giovanni e lo vedo: Lascia ch’io pianga di Iuone Wheatley.
poi sarò oggetto di conversazione, poi scriveranno su di me, e poi diventerò immortale.
«Prima di morire lo so che qualcuno pubblicherà le mie poesie» mi aveva detto una notte, in mezzo a tantissime chiacchiere. «Vorrei vedere la tua faccia quando lo criticherò aspramente» gli avevo risposto sorridendo. «Ma io non ti vedrò, sarò già morto». Iuone Wheatley era lo pseudonimo che usava nelle mail che mi ha scritto durante il suo viaggio in Spagna e Lascia ch’io pianga è l’aria che mi ha dedicato nel messaggio a cui non ho risposto. Negli ultimi mesi non ha fatto altro che lasciarmi briciole di pane. Sapeva che la mia curiosità mi avrebbe spinta a cercare quel libro ovunque. Fabio ha sempre avuto un debole per il melodrammatico e con la sua uscita di scena ha superato se stesso. Afferro il libro e comincio a leggere.
Perché parli del mare che violenta gli scogli, mai degli scogli violentati dal mare?
Piangimi. Lentamente piangimi tutti i giorni, sino a quando, come un veleno, non mi avrai eliminato del tutto. Dovrò uscire fuori da te per sopravvivere in questo mondo. Dovrai esplodermi, perché io la smetta di farti male e possa ritornare a camminare in queste strade. Dapprima sarò solo parole nella tua borsetta,
Perché parli del fuoco che consuma il legno, e non del legno che si riduce in cenere? Vuoi la storia del più forte, dell’onda, della fiamma. Vuoi la storia di chi sopravvive. E io ce l’ho fatta, sono qui davanti a te. Miele amaro e immortale. Leggimi. Lentamente leggimi tutti i giorni.
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gli occhi
Chiudi
di Claudia Pirina
«Apri la bocca». Con una mano mi tiene le mani, e con l’altra mi poggia qualcosa sulle labbra. «Cos’è?». «Apri la bocca». Faccio esattamente quello che mi dice. Son convinta di affondare sul morbido, invece i miei denti si scontrano con una glassa di cioccolato e l’attraversano. Solo quando sentono qualcosa di soffice coinvolgono la lingua che porta una mousse sul palato e lentamente mi riempie la bocca. Deglutisco, dò un altro morso e, questa volta, percepisco qualcosa di gelatinoso. Una crema mi sporca le labbra, cerco di afferrarla con la lingua, ma i sapori e la consistenza stanno esplodendo e finisco per sporcarle ulteriormente di saliva. Tento di pulirmi con le mani, ma me le tiene. Questo vuol dire che qualsiasi dolce stia mangiando, ancora non è finito. Apro la bocca e lo inghiottisco intero, con la lingua gusto il limone e con il palato il cioccolato bianco. Lentamente lo accarezzo con i denti. Sento la pesca uscire dai lati. E quando affondo i denti, esplode. «Apri la bocca». Dalla consistenza che avverto con le labbra, capisco che non devo morderlo, quindi comincio a scavarlo con la lingua. Il mascarpone scivola lungo le pareti della bocca mentre l’acquolina mi spinge a cercare più in fondo. Mi muovo a cerchi concentrici e all’improvviso sento con la punta della lingua qualcosa di più liquido. La posizione con la testa all’insù e l’acquolina mi costringono a deglutire. Percepisco che si sta allontanando dalle mie labbra, ma quando capisco
che sono arrivata tengo la mano, la spingo sulle mie labbra e finalmente la trovo. Con un solo colpo di lingua afferro tutta la ganache al caffé e la porto dentro la bocca. Lentamente la faccio scendere giù per la gola e sto per goderne quando una voce mi dice «Apri gli occhi». Davanti a me solo un tavolino bianco con una sfera arancione sopra. La afferro con una mano e con l’altra tiro il picciolo. Affondo le dita all’interno e le tiro su piene di crema. Quando le appoggio sulle mie labbra, sento il salato che mi contrae le guance e il dolce dello zafferano che mette in moto la mia lingua. La voglia di gustare ancora quel sapore si fa pressante. Le mie dita scavano nella sfera e all’improvviso si bagnano di crema, le porto alla bocca e rapidamente le lecco. Il sapore del cointreau sale velocemente verso la testa e da lì scende lungo la pelle del collo come gocce di sudore. Gli zuccheri raggiungono il mio cuore e lo fanno battere più frequentemente. Il respiro si affanna. Continuo a scavare dentro la sfera e questa volta le mie dita trovano una sostanza gelatinosa. Quando le porto verso le labbra, l’agro del mandarino mi stupisce al punto da farmi socchiudere gli occhi. «Apri la bocca» mi dice. Lecco ancora, e tutti i sapori si fondono. Quando deglutisco, scivolano verso il basso e l’unica cosa che posso fare è trasudare piacere. ______________ una produzione Fabrizio Fenu Bar Centrale - Marrubiu (OR) © Chìmbe - riproduzione riservata
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Vecchie ruggini
nuove terapie di Giuseppe Pili
Il maresciallo Patané Vincenzo, fresco di nomina a Villacidro, rivoltava la lettera anonima fronte retro, cercando una terza dimensione. Il foglio era un a-quattro, i caratteri ritagliati da un rotocalco popolare. Stava dentro una busta senza francobollo, recapitata a mano. Destinatario: “Ai Carabinieri”. SI AVISANO I SIGNORI CARABINIERI CHE LA FARMACIA FANNI CONDUCCE ATTIVITA’ ILLECITE PREGASI CONTROLLARE LA GENTE CHE RITORNANO DALLA FARMACIA CHE ANNO COMPORTAMENTI STRANI PERCHE’ CI SONO TRAFICI DELLE SOSTANZE STUPEFACENTI. IO VI O AVISATTI, SE SUCEDONO COSE GRAVI IO NON SONO RESPONSABILE MI RACOMANDO. Patané s’accarezzò la nuca in fiamme. Aveva trascorso un’altra notte insonne sul divanetto, cercando un programma di cultura che lo schiantasse dal sonno. Non dormiva otto ore di fila dal duemila
e quattro, in pratica da quando la moglie aveva fatto i bagagli e sbattuto la porta dietro di sé. «Quella arriva a ogni nuovo maresciallo» disse il brigadiere Tegas che sedeva di fronte alla scrivania con la destra accavallata sulla sinistra e giocherellava con un elastico. «Che significa?» replicò il maresciallo. «Qualcuno ce l’ha con la Farmacia Fanni. Vecchie ruggini». «Avete verificato?». «Beghe di paese, marescia’!» rispose Tegas con quel sorriso malizioso che risvegliava nel superiore un forte desiderio di prenderlo a schiaffi. «Non l’autore della lettera, la farmacia» rispose Patané con la calma di una pentola a pressione. «Traffici? Ma quando mai» ribattè Tegas, certissimo. «Fanni è una farmacia storica. Ha più di un secolo. L’ha aperta un certo dottor Mancosu, nel 1905. Vent’anni dopo l’ha rilevata Nino Fanni, personalità molto nota in paese, un uomo di cultura. Adesso la gestiscono le eredi, Cristina e Barbara. Persone al di sopra di ogni sospetto». Nel luogo in cui era nato Patanè, la frase “persone al di sopra di ogni sospetto”
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significava l’opposto di ciò che intendeva Tegas e il resto dell’universo mondo. E siccome era uno che spaccava il capello in quattro e poi in otto, e poi di otto ne faceva sedici, e la parola “desistere” nel suo vocabolario era voce mancante, l’indomani approfittò per far scorta di valium e si recò in farmacia, in borghese. Dopo dieci minuti di coda a osservare le tre farmaciste, impeccabili, iniziò a sospettare che fosse tutto troppo perfetto, perché il primo requisito di un’attività illecita è: non destare sospetti. Mentre era il suo turno alla cassa, un ragazzo sulla ventina, magro e butterato, si rivolse a una delle farmaciste con queste parole: «E poi, per quell’altra cosa?». E la donna rispose: «Stasera, verso la chiusura». Il maresciallo, ipervigile, colse la sfumatura e dentro di sé esclamò «Tombola». Quella sera, smontato dal servizio, Patané s’appostò in auto a dieci metri dalla farmacia, e osservò l’andirivieni. A una cert’ora la serranda calò a mezza corsa, e un minuto dopo il ragazzo smilzo della mattina entrò nel locale. Il maresciallo scese dall’auto e s’avvicinò, sperando di carpire un dialogo, uno scambio, senza successo. Si accese una sigaretta e dieci minuti dopo il ragazzo uscì, passandogli accanto. Nella mano destra teneva un post-it giallo ripiegato in due. Il maresciallo lo seguì a debita distanza, finché il sospettato, giunto nei pressi di una libreria, intercettò il proprietario che stava per chiudere, gli consegnò il foglietto e l’uomo lo guidò all’interno. Patané s’accostò alla
vetrina, fingendo di osservare le copertine. Vide il libraio sparire sul retro, tornare alla cassa con un volume, infilarlo in un sacchetto e consegnarlo al ragazzo in cambio di denaro. Le lettere anonime vanno sempre verificate, caro brigadiere-dei-miei-stivali Tegas. La scena si ripeté il giorno seguente. Stessa ora, stessa libreria, diverso cliente e colore di post-it. Quella notte, sul divanetto del soggiorno, Patané prese a smontare e rimontare il meccanismo che regolava il traffico. La farmacia è il punto di smistamento. I tossici entrano senza destare sospetti. Le farmaciste rilasciano un foglietto colorato. Ogni colore è associato a una sostanza diversa. Il vero deposito è la libreria, e il proprietario è il pusher. Il pagamento è camuffato dalla vendita. La roba viene distribuita in buste sottili infilate tra le pagine dei libri. Semplice, perfetto, pulito, geniale. Adesso occorrono le prove. Terza sera e terzo pedinamento, e stavolta Patané fermò il cliente all’uscita dalla libreria. Una donna sulla trentina, capelli a coda, niente trucco, occhiaie profonde. Il maresciallo mostrò il tesserino e con tono deciso sussurrò: «Carabinieri. Posso vedere il contenuto della busta?». La donna obbedì senza discutere. Patané estrasse il volume e guardò la copertina. Gli Umani, di Matt Haig. Si assicurò che nella busta non fosse contenuto altro, poi fece scorrere le pagine del libro, senza esito.
Farmacia Fanni
«A posto, grazie. Può andare». Quella notte Patané la trascorse a ristrutturare le ipotesi, senza venirne a capo. Si prospettavano due strade: risalire all’anonimo informatore o sondare le farmaciste. A decidere per lui fu una seconda lettera anonima che l’indomani comparve sulla sua scrivania. MARESCIALLO NON SI DEVE FARE INCANTARE CI SONO IN BALLO COSE GROSSE LEI DEVE INTEROGARE LE DUE FARMACISTE PERCHE’ NE SANNO UNA PIU’ DEL DIAVOLO. IO LO AVISATTO. Patané raccolse le due lettere anonime e caricò in auto il brigadiere. Durante il tragitto Tegas tentò di dissuaderlo: sospettare delle irreprensibili cugine era troppo rischioso per la reputazione dell’Arma e delle farmaciste, e lui – da indigeno – avrebbe subito il biasimo per non aver chiarito a s’istranzu il quadro della situazione. Ma Patané era un rullo compressore, e la sua irritabilità lo rendeva refrattario al dialogo. In farmacia si qualificò, chiese di parlare con le titolari e i due furono introdotti nell’ufficio al primo piano. La strategia era il bluff. «A cosa dobbiamo la visita?» domandò Barbara, invitandoli ad accomodarsi di fronte alla scrivania che divideva con la cugina. «La farmacia» esordì il maresciallo,
serissimo, «da mesi è stata posta sotto sorveglianza». «Sorveglianza? Per quale motivo?» replicò Barbara, allarmata. «Per via delle attività che si svolgono oltre l’orario di chiusura» rispose Patané. A seguire, strategica pausa di silenzio e analisi oculare. «Cioè?» domandò Barbara, aggrottando le sopracciglia. Al brigadiere Tegas cominciava a scottare la sedia sotto le natiche, ma aveva ricevuto l’ordine di non proferir parola, se non interrogato. «Stiamo parlando dei fogliettini colorati» disse il maresciallo, teso a percepire sul viso delle interlocutrici un segno rivelatore. «Quali fogliettini?» domandò Barbara a Cristina, che fece spallucce. «Quelli che consegnate ai clienti a fine giornata. Sappiamo dei vostri rapporti con il proprietario della libreria». «Sta parlando delle prescrizioni letterarie?» domandò Cristina. Patané annuì con la faccia da poker, mentre il cervello era intento a cercare i termini “prescrizioni letterarie” nel database, senza esito. «Abbiamo infranto la legge?» domandò Cristina con una certa preoccupazione. «Ce lo dica lei». «Posso spiegarle di che si tratta». «Siamo qui per questo». «Lei sa cos’è la biblioterapia?».
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«Faccia finta che non lo sappia». «Oltre a dispensare farmaci, noi svolgiamo anche un ruolo di consulenza. Ci informiamo sullo stato di salute dei clienti, sul loro stile di vita. Non sempre un farmaco risolve il problema. A volte ci serviamo di rimedi naturali come le erbe, in altri casi invece ci accorgiamo che il disturbo ha un carattere più spirituale che fisico. E questo è il motivo per cui invitiamo i nostri clienti a tornare a fine giornata per una chiacchierata e la prescrizione di un libro». «Un libro?» domandò Tegas. «Romanzi. La letteratura ha un effetto terapeutico, liberatorio. Spesso riesce a risolvere un problema fisico nato da una causa psicologica. Le faccio un esempio: a volte il paziente si sente solo in balia del suo problema. Leggendo di un personaggio che soffre dello stesso disturbo pone il problema in prospettiva e allevia la sua sofferenza, al punto che alcuni sintomi scompaiono. Questo è solo uno degli effetti della lettura». «Per cui avete stabilito un accordo con la libreria». «Noi consideriamo la libreria come un’estensione della farmacia. A volte ci capita di organizzare presentazioni di libri, nella stanza a fianco». Cristina porse al maresciallo un volantino pubblicitario. Libri che curano. Nessun colpevole avrebbe inventato una storia così cretina, perciò la farmacista doveva essere in buona fede. «E la cliente di ieri? Che c’entrava col
romanzo Gli Umani?». «Mi dispiace, a questo non posso rispondere» disse Cristina. «È una questione di privacy. Però posso dirle che quel romanzo ha aiutato alcune donne che soffrono di disturbi psicologici provocati dal parto». «Fattostà che a noi sono arrivate queste» disse Patané estraendo le lettere anonime e posandole sulla scrivania. Barbara lesse la prima e scoppiò in una risata fragorosa. «Conosciamo la faccenda» rispose. «Venga alla finestra. Ecco, si metta in questa posizione, scosti la tenda e guardi a destra di quell’albero. La vede?». «Quella signora anziana col binocolo?». «Esatto. Le presento la nostra Signora in Giallo. È da anni che sorveglia il quartiere. Ha giurato di sventare i nostri traffici». Patané fissò lontano, rimuginò, sorrise a mezza bocca e si sentì un tantino sciocco. «Capisco». «Cose di paese, marescia’» chiosò fastidiosamente Tegas, compiaciuto. «Gliel’avevo detto». «Chiedo scusa per l’interrogatorio» disse Patané con un tono più rilassato. «Abbiamo il dovere di verificare ogni segnalazione». «A ognuno il suo mestiere». Il maresciallo tornò a guardare fuori. «Posso chiedervi un foglio di carta e un pennarello?». Sedette alla scrivania, scrisse a grandi lettere, tornò alla finestra, scostò la tenda e mostrò il foglio. La signora notò il movimento e puntò il binocolo verso la farmacia.
GRAZIE PER LA SEGNALAZIONE. BEL LAVORO. ADESSO CE NE OCCUPIAMO NOI. I CARABINIERI La signora posò il binocolo e sollevò il braccio in gesto di saluto. «Mi scuso per il disagio» disse Patané congedandosi dalle farmaciste. «Tornino pure alle loro occupazioni». «Sempre a disposizione». Arrivati all’auto il maresciallo esitò un istante, ordinò al brigadiere di rientrare in caserma da solo e tornò dalle Fanni. «Ero curioso di sapere che percentuale di successo ha questa cura con la bibbio… bilbo…». «Biblioterapia» rispose Cristina. «Dipende dall’impegno del paziente». «Funziona anche se il paziente non legge da vent’anni?». «Anche in quel caso». «Glielo chiedo perché… mia moglie soffre di insonnia» disse accarezzando la nuca indolenzita. «Le ha tentate tutte, ha provato anche le erbe: niente da fare. Dorme poco e ogni giorno si sente sempre più tesa e irritabile». Cristina prese un post-it arancione e vi annotò qualcosa. «Poi mi dirà se funziona». Il maresciallo lesse a voce alta. «Fernando Pessoa. Il libro dell’inquietudine». E nel congedarsi aggiunse, con un mezzo sorriso: «Se funziona, sono certo che a mia moglie tornerà la voglia di leggere».
«Ah» aggiunse Cristina, sorridendo, «dica a sua moglie che dormire nel letto anziché sul divano fa miracoli per la cervicale». Quella notte Patané disfò il letto intonso, mise un secondo cuscino sotto la testa, accarezzò la copertina e affrontò il primo capitolo con uno slancio intellettuale che non credeva di possedere. Alla terza riga ebbe i primi dubbi linguistici, alla decima lesse la stessa frase due volte senza afferrarne il senso e a fine pagina gli si incrociarono gli occhi. Il giorno seguente la sveglia riuscì a malapena a tirarlo giù dal letto.
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Wu
Il maestro Lao Tzu disse: sii come l’acqua. Agisci senza agire. Sii come l’acqua: nulla esiste al mondo di più adattabile. E tuttavia quando cade al suolo, persistendo, nulla esiste di più forte. Che il tuo agire risulti senza sforzo, poiché l’agente coincide con l’azione stessa. Piegati agli eventi come l’acqua si adatta al terreno in cui scorre, senza rigidità, senza pregiudizi, senza trattenere nulla, ma in piena consapevolezza. Conduci la vita con umiltà e non fare coscientemente niente che possa contravvenire alla natura delle cose. Sii come l’acqua, perché essa è il bene supremo: reca profitto ai diecimila esseri senza lottare, dimorando nei luoghi più bassi. Purifica la tua mente, rendila limpida come uno specchio per conformarti alla spontaneità del Tao. Torna allo stato originario, vivi in perfetta armonia con il cosmo.
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Il sole e
la luna di Cristina Soddu
Oggi è il grande giorno. Andrea resta sdraiato sulla brandina, le gambe intrecciate al lenzuolo. Sente il movimento dei compagni di stanza che si alzano. Lui ha voglia di godersi ancora un po’ quel torpore languido, il preludio a una giornata che ha mentalmente organizzato in ogni dettaglio. Improvvisamente viene investito da una raffica di pacche sulla schiena. «Andre, ajò alzati! Suor Nevina è già a urla» gli fa Ivan, un piccolo furetto dalla parlantina facile e dallo sguardo curioso, con un occhio strabico che ti spiazza. Andrea, dieci anni, ha trascorso gli ultimi tre in una casa-famiglia alla periferia di Cagliari, in un quartiere che si chiama Mulinu Becciu. Quando la mamma l’ha accompagnato lì, l’ha abbracciato stretto e gli ha promesso che non appena fosse stata meno triste sarebbe tornata a prenderlo. L’educatrice che lo ha accolto quel giorno, l’ha preso per mano e ha iniziato a parlare senza respirare, mostrandogli la scuola, le stanze, la mensa. Lui non distingueva le parole ma gli piaceva il loro suono felice, una magia da Pifferaio Magico che l’aveva salvato dall’allontanarsi della mamma che correva sospinta dai singhiozzi. L’aveva messo al mondo a
vent’anni, e dopo il parto le era venuta una brutta depressione. Andrea del padre non aveva mai saputo niente; secondo Ivan era andato a cercare fortuna dagli Inghilterri, come aveva fatto suo zio. Ma d’altra parte è difficile sentire la mancanza di ciò che non c’è mai stato, e perciò Andrea a questo preferiva non pensarci. In quei tre anni Marta è andata a trovarlo ogni venerdì. Per lui il venerdì è il giorno della mamma. È anche il giorno della pizza del Sole e della Luna. Si chiama così il locale di Massimo e Simonetta: un rifugio profumato, colorato e sempre pieno di movimento. Ad Andrea quel posticino è sempre piaciuto moltissimo, lì sente di avere una certa importanza: neanche il tempo di entrare e già gli stanno preparando la sua pomodoro-emozzarella-con-capperi-senza-acciughe. Sono bastati due venerdì di seguito per far sì che Massimo la memorizzasse. Di fatto Massimo, più che i nomi, si ricorda la pizza che mangiano i suoi clienti; Andrea se n’è accorto e in cuor suo è convinto che il pizzaiolo abbia un’idea precisa del tipo di carattere da abbinare agli ingredienti. Margherita per chi non vuole pensare troppo; zucchine e melanzane normalmente va alle donne; würstel, minori dai cinque ai dieci anni; il piccante è
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per gli amanti delle sfide, e così via. Oggi, il grande giorno, è un mercoledì. Gli educatori portano i ragazzi a fare sport nel cortile di una scuola media vicino a Il Sole e la Luna, e Andrea ha programmato di fare una deviazione, di nascosto da tutti, per portare un’amica nel suo posto preferito. Nove anni, capelli castani e un ciuffo biondo che le copre gli occhi, l’aria sempre un po’ imbronciata e l’atteggiamento di chi ne ha viste tante, Giulia vive nella casafamiglia da soli quattro mesi. Per Andrea è stato come andare dritto contro un toro imbizzarrito alla festa di Pamplona: quattro mesi di stordimento. Lei parla poco, e quando lo fa è quasi sempre per lanciare fendenti. Chiederle come sta è già un suicidio, la sua risposta più gentile è «Prima che mi cercassi tu stavo meglio»: schizzi di acido, più che conversazioni. L’unico momento in cui Giulia sembra serena è quando mangia la pizza. Andrea aveva già notato che una margherita per lei è più che adeguata, ed è sicuro che se dovesse farle assaggiare quella di Massimo riuscirebbe a strapparle addirittura un sorriso. Simonetta, la moglie di Massimo, sta al banco e accoglie tutti con l’entusiasmo che si concede a un vecchio zio tornato dall’Argentina dopo trent’anni. Una sera gli aveva raccontato che le loro pizze sono così buone perché Massimo ha un metodo tutto suo, e che il lievitare della pasta segue un ritmo naturale come quello dell’avvicendarsi del sole e della luna. Guarda un po’. Da parte sua, Andrea sa soltanto che quando la mette in bocca è fragrante e piena, e che la mozzarella fusa esce dappertutto e lui continua a leccarsi le dita per non lasciarne neanche un pezzettino.
Oggi, che è il grande giorno, ha chiesto a Ivan di coprirlo. Il suo amico riesce ad attirare l’attenzione un po’ in tutti i modi, e lo sa fare in maniera irresistibile: non ha vergogna di nulla, se gli prende di fare il buffone balla e canta in mezzo alla strada, e ora sta dando il meglio di sé mettendosi a imitare il moonwalking di Michael Jackson su un muretto. In un attimo Andrea si avvicina a Giulia: «Vieni che ti porto in un posto». La ragazzina lo guarda con diffidenza, ma poi l’idea della fuga… Le piace scappare, lo fa di continuo, per vedere se c’è qualcuno che la va a cercare. «E dove, in spiaggia?». «No… ma dove ti porto c’è l’acqua, ci sono i pesci e una sorpresa per te». Nella pizzeria c’è un acquario. Simonetta adora gli acquari; e poi aveva letto in un giornale che secondo il Feng Shui il principale simbolo del denaro è l’acqua. Quindi da brava donna pratica aveva portato via da casa tutti i pesciolini nella loro vasca spaziosa, e ora l’acquario è diventato una specie di intrattenimento per i clienti in attesa. Si sono messi a correre e Andrea ha cercato di afferrarle la mano, ma Giulia va dritta con la testa bassa e i gomiti stretti, manco fossero i cento metri. Arrivati di fronte al locale lo guarda un po’ delusa. «Una pizzeria?». «Sì, ma mica una come le altre». Simonetta leva un braccio in aria facendo volare un po’ di farina, l’effetto è quello delle nuvole di fumo che esplodono ai concerti rock. «Ma che bella sorpresa! Per te il solito… e per la tua amica?». Giulia si nasconde dietro il ciuffo biondo, e il suo sguardo si posa sull’acquario colorato di piantine e pesci tropicali. Si
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ricorda del tempo in cui viveva nel camper con la sorella maggiore che, per calmarla quando aveva paura del buio, la metteva di fronte al salva schermo del tablet dove scorrevano le immagini della barriera corallina. «Lei prende la margherita, e poi per piacere metti da parte il piatto speciale». Il venerdì precedente si era timidamente avvicinato a Simonetta in un momento di calma, e le aveva chiesto di raccontargli come Massimo l’avesse conquistata. Lei era scoppiata a ridere. «Lo vedi quel ragazzo lì che impasta?» aveva risposto. «Certe volte si trasforma in un orso stitico, ma quando gli sono passate le lune diventa meglio del principe azzurro». Massimo aveva sollevato uno sguardo rassegnato: ora che quella era partita, chi la fermava più. «Quando avevamo quindici anni mi ha regalato questo», aveva aperto il cassetto sotto la cassa e tirato fuori un fazzoletto di stoffa con scritto in filo rosso TI AMO, «e poi è scappato». La faccia di Massimo si era fatta un po’ più rossa del normale e Andrea ne aveva riso di gusto. Poi, sottovoce, aveva chiesto a Simonetta di aiutarlo con Giulia. Lei gli aveva proposto di farle assaggiare un calzone alla nutella con sopra scritto un bel TI VOGLIO BENE. Lui sperava solo che quel calzone venisse servito tiepido, perché rischiava di vederselo scaraventare in faccia e la nutella bollente sul muso è una gran brutta faccenda. «Ecco qui, ragazzi». Simonetta gli passa le pizze piegate in due, e strizzando l’occhio gli dà il calzone alla nutella avvolto nella carta con un movimento quasi solenne. Il ragazzo si volta appena in tempo per
vedere Giulia correre fuori. La segue stringendosi le pizze sulla maglietta già imbrattata di sugo e lasciando una scia di gocce di nutella che colano dal cartoccio. La raggiunge giusto perché è inciampata sul gradino del marciapiede di fronte. «Giulia, ma perché sei scappata?». Lei ha il viso bagnato di lacrime. Non ha voglia di spiegare la storia dell’acquario che l’ha fatta tornare a cinque anni, né che si è spaventata a sentirsi di nuovo al sicuro per questo. Andrea però non ha più bisogno di spiegazioni, tira fuori il calzone dalla carta tutta appiccicaticcia. La scritta è una macchia color nocciola. Le dice solo: «Assaggia, che questo fa resuscitare i morti!». Giulia tira su col naso, prende in mano il calzone, e quando dà il primo morso chiude gli occhi. Andrea la abbraccia forte. «Ti voglio bene, moltissimo», le sussurra. Giulia si stacca dalle sue braccia, con la testa ancora bassa. Si guarda le mani impiastricciate, e come un fulmine se le pulisce sulla maglietta di Andrea, ridendo. Ha la risata buffa di una bicicletta arrugginita. Si mette a correre, di nuovo, e gli urla: «Muoviti prima che Ivan cominci con Freddy Mercury!». Andrea, ancora piantato lì, si guarda la maglietta inzaccherata e sorride. «Corri corri… io prima o poi ti prendo». ______________ una produzione Pizzeria Sole e Luna FB: Pizzeria Sole e Luna Su Planu © Chìmbe - riproduzione riservata
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La
squadra di Cristina Soddu e Giuseppe Pili
Arrivo a Brunico un giorno prima del previsto e decido di prendere Tizianone alle spalle. Mi imbuco nel palazzetto dello sport proprio mentre la squadra femminile di volley che allena da qualche anno sta affrontando la sua Waterloo. Siedo sugli spalti, in alto, ma non tanto da non sentirlo inveire contro quelle povere ragazze disorientate e a pezzi. Torneo della Marmotta, la Bittel è all’ultimo posto in classifica. Guardo il tabellone: non ha vinto una partita. Lui è nervoso, scatta in piedi e torna a sedersi, imprecando contro la sorte, l’inesperienza, l’arbitro, in ordine sparso. Le ragazze sono in tilt, non ci vuole molto a capire che non metteranno a segno una sola schiacciata. A un certo punto sembra che le avversarie, per non infierire, sbaglino apposta. Il fischietto, pietoso, mette fine alla tortura: le avversarie gioiscono composte e salutano le perdenti. Il palazzetto inizia a svuotarsi, tra l’allegro vociare delle vincitrici che si danno appuntamento in pizzeria e il pubblico che commenta la disfatta. Le ragazze della Bittel invece sono tutte in panchina ad asciugarsi il sudore e a bere, perché Tiziano è ancora seduto, immobile come una statua di cera sciolta. L’allenatore avversario va a stringergli la mano, lui quasi lo ignora, poi un gesto
rapido e freddo. Una delle sue ragazze si avvicina e lui ne approfitta per scaricare la rabbia, facendola piangere. Adesso il palazzetto è vuoto, ma la Bittel è ancora là. Un paio si consolano a vicenda, una dice «Mister, stavamo pensando di andare in pizzeria, lei viene?», lui stizzito risponde «E volete anche festeggiare?». Poi spedisce in malo modo le ragazze a cambiarsi ed esce a fumare. È in quel momento che lo raggiungo. «Giuro che non è colpa mia, io di solito porto fortuna». Sorpreso, accenna un «cosa ci fai qui?» e ci abbracciamo. Gli spiego che ho dovuto prendere l’aereo un giorno prima perché giù in Sardegna – nel terzo mondo, come dice lui – era previsto uno sciopero. «Se mi avessi avvertito avrei preparato qualcosa». «Niente casa. Andiamo in pizzeria. Così mi presenti le ragazze». «Lascia stare. Se le rivedo le faccio nere. Ci andiamo io e te, da soli». Io e Tiziano siamo stati compagni di liceo e d’avventure, e a tavola riesco a stemperare la tensione ridendo sui trascorsi da chitarrista metal (suoi) e da cantante grunge (miei). Poi mi rivela il perché di
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questo invito in Alto Adige, dove vive da dieci anni. «Il programma è questo: io ti ospito una settimana, tu mangi e bevi a sbafo, ti faccio conoscere le ragazze, ma in cambio mi fai una consulenza. Dai, non ti costa niente, è il tuo lavoro: per te è come bere un bicchiere d’acqua. Guarda, dovresti ringraziarmi, ti sto dando l’occasione di capire se il tuo metodo devoluscion funziona davvero». «Bvolution». «Sì, quello». «Vuoi sapere se il metodo Bvolution funziona davvero? Aspetta». Metto mano al cellulare. «Ciao Gabriella, senti: ho qui di fronte un amico che ha un problema, si chiama Tiziano. Mi ha rovinato le vacanze, ma lo perdono, ormai mi ha incastrato. Vorrebbe sapere se il metodo Bvolution funziona davvero. Te lo passo». Gabriella capisce al volo, abbiamo provato questo numero un paio di volte, è divertentissimo. Passo il cellulare a Tiziano, che silenzia il telefono e mi chiede chi sia. Gli rispondo «Il mio capo», lui fa una smorfia atterrita, mi restituisce l’apparecchio e sussurra «Sei scemo? Mi passi il tuo capo?». Io gli intimo di rispondere: ormai ti ho introdotto, non farla aspettare, ha sempre i minuti contati e valgono oro. Tiziano imposta il tono formale e risponde «buonasera» con un’espressione impagabile. Poi una sequenza di imbarazzatissimi “sì”, “certamente”, “ho capito”, “le ripasso Nicola”. Riprendo il telefono, saluto Gabriella, smetto di trattenermi e scoppio a ridere. «Bastardo» sbotta lui. «Che ti ha detto?».
«Mi ha spiegato cosa fa Bvolution. Consulenza, gestione d’impresa, bla bla bla. Sei un cretino. Che figura di emme». «E non è finita. Hai organizzato il trappolone? Adesso la paghi». «Ok, pago tutto ma, seriamente: ho bisogno di una mano. Sono alla canna del gas. Ascolta, domani organizzo un’amichevole e ti faccio assistere, così hai il polso della situazione». «Non serve. Mentre tu ti gingillavi con le ragazze, ho radiografato la situazione. Il metodo Bvolution io ce l’ho incorporato». «Sei un grande. Hai anche individuato il problema?». «Ce l’ho di fronte». È difficile spiegare a qualcuno che se una squadra non gira, la colpa non è della squadra. Per fortuna con Tiziano posso permettermi di essere brutale. Fare il capo è una responsabilità, comporta dedizione, studio della tecnica, strategie su misura. Tiziano, tu sbagli approccio. Per il tuo bene, c’è da fare un restart. «Chi era quella scura che batteva forte, e perché in panchina sedeva in disparte?». «È la cubana. Fortissima, ma non lega. È ostile perché pensa che le altre credano che se la tiri, e col suo atteggiamento conferma quello che vorrebbe smentire. Ne sto uscendo pazzo». «Devi partire da lei». A casa di Tiziano continuiamo a chiacchierare in veranda sino al mattino, tra caffè, birra e salatini. «L’ultima partita è stata un delirio. La squadra non c’era più». «Le hai mandate in confusione. Continuavano a sbirciare verso la panchina, ti vedevano paonazzo e la tua rabbia le
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rendeva insicure. Sbagliavano per paura di sbagliare. Le hai fatte finire in un loop, non potevano risollevarsi». «Sono troppo nervoso». «Se non incanali questa energia nervosa, la disperdi. Non ha direzione, è caotica». «Ho perso credibilità. Non mi ascoltano più. Credo che mi odino. Non sono tagliato per questo mestiere». Non avevo mai visto Tizianone così sguarnito. Devo fare qualcosa. «Prendi il cellulare». «Perché? Chi vuoi che chiami a quest’ora?» «Manda un messaggio alle ragazze. Scrivi: vi voglio bene». «Ma no. Che cretinata. Non se ne parla. Non l’ho mai fatto. Mi sento stupido». «Fidati». «Ha parlato l’esperto di donne». «Lavoro con otto donne spalla a spalla, ogni giorno. Non due: otto. Hai presente? Ormai quando arriva il ciclo entro in sindrome premestruale anch’io. Spedisci quel messaggio. Ubbidisci». Tiziano manda il messaggio condiviso. Nel giro di mezzora arriva il primo tin. Poi il secondo, il terzo. Alle otto e quaranta arriva anche il dodicesimo. La maggior parte sono cuoricini. «Hai capito cosa sei tu per loro? Hai capito che avevano paura di averti deluso?» Tiziano mi guarda con un sorrisetto idiota. Ha gli occhi umidi. «Cosa mi consigli di fare, adesso?» Ha ceduto. Adesso è plastilina. «Ricordi quella malga con sauna e piscina di cui mi hai parlato? Ci andiamo con le ragazze. Di’ loro che preparino il cambio per due giorni».
«Ma dobbiamo allenarci, fra poco comincia il Torneo delle Dolomiti». «Prima di allenare loro dobbiamo allenare te. L’obiettivo è mostrare alle ragazze che sei con loro, che ti interessa chi sono e di cosa hanno bisogno, convincerle che avete un unico scopo. Tu pensa a rilassarti, penso io al resto». Sabato mattina troviamo le ragazze di fronte all’ingresso del palazzetto, in tenuta da trekking. Tiziano mi presenta come un osservatore esterno. Mi scrutano, incuriosite. Blanca, la cubana, si finge disinteressata ma mi studia da lontano. Io le sorrido, lei non ricambia. «Mister, dove ci porta?» chiede Emilia, una stanga di un metro e ottantacinque e la coda bionda. Ho individuato la leader. «Passo delle Erbe» risponde Tiziano. «Facciamo trekking e ci fermiamo in un posto molto bello». «Passo di che?» ridacchia Giulia, faccia da furetto, due occhi mobilissimi. «No, Giulia» aggiunge Tiziano, «non si possono fumare». Le risate allentano la tensione. Lascio che il gruppo si avvii e studio il posizionamento. Blanca, sorvegliata speciale, cammina da sola, leggermente scostata dalle altre. Tiziano richiama l’attenzione delle ragazze. «Vi propongo un gioco: saliremo in fila per due, e dovrete dare alla vostra compagna la risposta a queste cinque domande: da dove vieni, perché sei arrivata fin qui, qual è il tuo desiderio, un aneddoto della tua vita felice e uno triste. Tenete a mente i racconti della vostra compagna, perché domani ognuna fingerà di essere l’altra e si presenterà al gruppo. Tutto chiaro?». «Cristallino» risponde Emilia. Le ragazze si associano per affinità. Blanca
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si mette in coppia con Anna, quella che stava in coda, la più timida del gruppo. Non va bene. Dopo i primi passi comincia un dialogo fitto. «Se vogliamo che Blanca si integri devi farla camminare con Emilia» suggerisco a Tiziano, a bassa voce. «Ma non si sopportano». «Perché non si conoscono. Bada a non cambiare solo loro due, o la manovra sarà troppo scoperta». Tiziano interviene, la manovra riesce e dopo un po’ anche Emilia e Blanca, con qualche incertezza, iniziano a dialogare. Di sera arriviamo alla Malga Punzer, che sembra la casa degli gnomi. Le ragazze profanano la quiete di quell’oasi di montagna come un branco di hooligans in un tempio zen. I proprietari, vestiti in abiti tradizionali, ci avvertono di toglierci gli scarponi e ci invitano a mangiare. Il profumo del goulash è irresistibile e la tavolata è al completo in meno di dieci minuti. Osservo i posti: le ragazze si sono disposte di nuovo secondo affinità. Dico a Tiziano di sparigliare e lui esegue. Sono soddisfatto: mi piace l’atmosfera, mi piace come reagiscono tutti, sento che faremo grandi progressi, anche se Blanca e Emilia, vicine di sedia, parlano con chi hanno ai lati. A fine pasto noto una chitarra poggiata su una panca e inizio a strimpellare. Le ragazze fanno le sostenute finché non accenno Smells Like Teen Spirit: arrivato all’hello, mi circondano e fanno il coro. Tiziano protesta e mi strappa la chitarra di mano, convinto di battermi in popolarità con l’intro di Nothing Else Matters. Le ragazze fischiano: uno a zero per il sottoscritto. Katya mi sussurra che è la prima volta che vede il mister ridere.
Stiamo con loro sino a notte inoltrata, e la mattina dopo è fatta di saune, idromassaggi e strudel, quindi annunciamo il momento-del-sudore: Tiziano ha barattato uno sconto sul pernottamento con la promessa di sistemare il fienile. L’idea è quella di fare un lavoro che le costringa a condividere gli sforzi. Le ragazze mugugnano ma ce la mettono tutta, Blanca ed Emilia però, nel trambusto, si evitano con cura. Pranzo, relax, e nel pomeriggio arriviamo al momento più temuto: quello della presentazione. Troviamo uno spiazzo e le facciamo disporre in cerchio. Nessuna si fa avanti, l’imbarazzo è forte. Così prendo in mano la situazione, assumo la postura tipica di Tiziano, braccia conserte e gambe semi aperte. «Mi chiamo Tiziano. Ero un bambino iperattivo, tanto che alla mia famiglia avevano consigliato di imbottirmi di psicofarmaci, ma mio padre ha deciso di cambiare medico e di farmi sfogare sul campo di pallavolo». Le risate e gli applausi partono spontanei. Tiziano ricambia con la mia parodia e qualcuna ridacchia, ma senza esagerare, per non offendermi. La prima delle ragazze a presentarsi è ovviamente Emilia, e tutte capiscono che il momento è cruciale. Emilia dovrà mettersi nei panni di quella ragazza bruna che si trova dalla parte opposta del cerchio e si massacra la pellicina delle unghie. «Mi chiamo Blanca». C’è un momento di sospensione, quasi ir irreale. Se Emilia fa la parodia di Blanca tutto è perduto. Le ragazze sono tese: non sanno cosa potrebbe scaturire da quell’incontro di personalità così diverse e così forti. «Sono arrivata in Italia due anni fa
dall’Havana. La mia famiglia aveva problemi economici, e io ho capito che l’unico modo per aiutarla era diventare brava in qualcosa. Sono partita da sola, avevo una cugina a Milano. Adesso è tanto che non riabbraccio i miei, e sento molto la loro mancanza. La pallavolo mi ha salvata, ma a volte temo di non farcela e vorrei tornare a casa. Ogni volta che sbaglio, ho paura. Ho paura perché sento come se potessi perdere tutto da un momento all’altro, scoprendo che è stato solo un bel sogno». C’è un grande silenzio. Poi Blanca spezza il cerchio, si alza e va a piangere lontano da noi. Emilia vorrebbe raggiungerla, io la fermo. «Non è colpa tua. Non l’hai offesa. I ricordi erano dolorosi. Dalle cinque minuti, poi avvicinati». Cinque minuti dopo, io e Tiziano le osserviamo a distanza. Non sappiamo ciò che si dicono, ma la mano di Emilia sulla spalla di Blanca significa una cosa sola: abbiamo vinto il primo set. Il secondo lo dovrà vincere Tiziano, lavorando su se stesso. Quel pomeriggio ascoltiamo dodici storie, e dodici anime scoprono d’avere più cose in comune di quanto non credessero. Poi il buio cala rapido come una schiacciata dalla prima linea. L’indomani si torna a Brunico, e si torna sereni. Tiziano non credeva fosse possibile un’inversione d’umore nel giro di un weekend. La Disfatta della Marmotta è già archiviata: adesso ci interessa solo il futuro, il Torneo delle Dolomiti. Concentrazione, impegno, determinazione, altruismo. Soprattutto altruismo. Coraggio ragazze, ce la potete fare. Le mie vacanze altoatesine finiscono nel gate dell’aeroporto di Verona, dove
dispenso al mio amico l’ultimo consiglio tecnico. «Fai da bravo». «L’anno prossimo torni?» «No, l’anno prossimo metto su una squadra di basket, da solo. Se ci sei riuscito tu. Tienimi informato sul prossimo torneo». Ci abbracciamo. Rimetto piede negli uffici di Bvolution vagamente abbronzato e mi accoglie la ola delle colleghe. Distribuisco sulle scrivanie souvenir e marmellate ai frutti di bosco. Gabriella e Assunta mi chiedono se sia bello carico, perché mi aspetta una montagna di lavoro. Protesto: ho bisogno di ferie. Tempo dopo, nel bel mezzo della riunione settimanale, il cellulare vibra. È Tiziano. Mi invia due foto: nella prima Emilia e Blanca sollevano il Trofeo delle Dolomiti. La seconda ritrae Tiziano raggiante che vola in piscina vestito di tutto punto. Messaggio in chat. - Prepara le scarpe da trekking: ho parlato di te alla madre di Emilia e vuole provare il metodo devoluscion sulla sua azienda. - Scòrdatelo. - Passami il tuo capo. Ti ci manderà per forza. - Azienda di? - Intimo femminile. Chi meglio di te? Digito una parolaccia, ma il T9 la trasforma.
______________ una produzione Bvolution - Nicola Mascolo bvolution.it © Chìmbe - riproduzione riservata
Il signore
delle panchine di Eliana Carrus
Il piccolo Gabriele non aveva molta simpatia per la nuova baby sitter. Era una ragazza con poca fantasia, Noemi, e la prima cosa che faceva appena entrata in casa era togliere i testi universitari dalla borsa e mettersi a studiare nella sua stanzetta mentre lui, una volta cavaliere sul destriero, un’altra esploratore in una città sconosciuta, cercava sempre di coinvolgerla nei suoi giochi di avventura. La casa stessa, ampia, priva di un corridoio e dagli ambienti perfettamente incastrati tra loro senza un’apparente regolarità, era il teatro di numerosi accadimenti. Un paio di scalini in travertino introducevano all’ampio soggiorno, impreziosito al centro da un grande rosone in marmo, quasi un fiore i cui petali bianchi erano bordati di nero, e con una piccola scritta incomprensibile su di un lato. Da qualche settimana, Gabriele aveva notato una particolarità che lo incuriosiva: due caratteri perfettamente uguali posti uno di fianco all’altro. Nella sua testolina quel rosone era diventato la porta che conduceva al centro della Terra, e sicuramente quei simboli non erano altro che le parole da pronunciare per aprirla. Come decifrarli? Non sapeva ancora leggere e avrebbe dovuto aspettare ancora un anno prima di entrare a scuola. Va da sé che non poteva chiedere aiuto ai genitori, perché
avrebbero scoperto il segreto, e a Noemi tantomeno. No, era una questione che doveva risolvere da solo. Certo un anno era lungo da passare… ma il rosone era sempre lì, fermo, a non dare segnali. La madre non gli permetteva di giocare nel soggiorno, troppi oggetti delicati in giro. Si poteva entrare solo per guardare la televisione, e stare immobili sul divano! Per motivi oscuri, il divieto era esteso anche a Noemi. Ma se fino a qualche tempo prima Gabriele non aveva badato più di tanto a quel fiore incastonato nel pavimento, ora la sua priorità era diventata scoprire cosa nascondeva. Davanti a lui si sarebbe aperto uno di quei tunnel stretti e bui, come si vedono nei film di avventura, oppure avrebbe trovato degli scalini? La sua curiosità cresceva ogni giorno di più e l’immaginazione correva come un treno. Successe poi che, per questioni di comodità, Noemi aveva iniziato a studiare in soggiorno, di nascosto dalla padrona di casa. Da qui nacque il patto fra di loro: lui avrebbe smesso di chiederle di giocare insieme e, ovviamente, non avrebbe spifferato l’infrazione, e lei gli avrebbe permesso di trafficare a suo piacimento in ogni angolo della casa. In questo modo Gabriele poteva studiare il rosone con
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calma, e fantasticare su quello che poteva esserci là sotto. Arrivò un pomeriggio diverso. Gabriele sarebbe rimasto in compagnia della mamma. Andarono a prendere il gelato al bar della piazza vicino casa e poi si sedettero lì all’aperto. Un po’ più in là, un signore alto con gli occhiali, in compagnia di un altro ragazzo, si alzava e si sedeva in continuazione sulla panchina vicina; i due la osservavano e parlavano tra loro. A un certo punto tirarono fuori una specie di nastro, poggiandolo su varie parti della panchina e scrivendo qualcosa su un blocchetto. Andarono avanti così per alcuni minuti e fecero la stessa cosa anche con un’altra panchina, che però aveva una forma diversa. «Mamma, cosa fanno quei signori?». «Non lo so, saranno gli operai del comune, magari la panchina è rotta. Com’è il gelato?». Gabriele non fu granché soddisfatto della spiegazione, ma il cioccolato lo distolse abbastanza in fretta dal signore delle panchine. L’indomani in casa ci fu un po’ di trambusto, era arrivata la nuova cucina. Il pomeriggio stesso tutta la famiglia salì in macchina. «Mamma, dove andiamo?». «Andiamo a Villasor nel negozio dell’amico di papà, il signor Serra, così scegliamo il marmo per la cucina». Il ragazzo che li accolse e li condusse nel retro era lo stesso che la sera prima prendeva appunti girando attorno alle panchine della piazza. «I campionari dei marmi sono dietro, nel piazzale» disse. Girato l’angolo, Gabriele strabuzzò gli occhi. Il piazzale era completamente occupato da gigantesche lastre, affiancate le une
alle altre, come i tasti del pianoforte che avevano in casa. Ma al contrario di questi, che erano solo bianchi e neri, quelle lastre erano di tanti colori: blu, rosse, a puntini grigi e rosa. Non fece in tempo a riprendersi dallo stupore che i suoi piccoli occhi si spalancarono nuovamente. Da dietro le lastre si materializzò il signore delle panchine, con il solito nastro bianco in mano. «Ciao Ugo, alla fine ce l’abbiamo fatta! Greta, mia moglie, e lui è Gabriele». «Eh, finalmente! Piacere signora, ciao Gabriele. Ora vi faccio vedere cosa ho per la cucina, poi ci beviamo qualcosa in ufficio, così ne approfitto per farvi vedere una delle nostre nuove scommesse: stiamo studiando il design di una panchina pubblica». Gabriele strinse la mano della madre e si nascose dietro di lei, fissando quello strano signore che conosceva suo padre tutto preso a illustrare le caratteristiche di ogni lastra. «Qui abbiamo una sessantina di tipi di marmo, considerato che stiamo parlando di un bancone da cucina e gli arredi sono chiari, ho pensato a un marmo colorato, così il bancone stesso diventa un pezzo d’arredo e stacca dal resto. Ne ho scelto dodici e mi sono fatto un’idea, ditemi voi». Mentre tornavano all’ingresso, Gabriele fu attirato da una porta semiaperta. Si sporse per guardare dentro. Uno spazio tutto bianco con un soffitto altissimo e tante macchine strane ed enormi: non aveva mai visto niente di simile. Il signore delle panchine – Ugo, a quanto pareva – si accorse subito della sua curiosità. «Ti piacciono le macchine, Gabri? Con quelle tagliamo in pezzi più piccoli le lastre grandi che hai visto fuori. Dai, vieni che ci avviciniamo». Gli spiegò quello che le
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macchine erano in grado di fare, e Gabriele assorbiva, affascinato. «Questa serve per lucidare. Hai notato che le lastre non sono tutte brillanti? Ora ti faccio vedere che cosa abbiamo fatto con la macchina che taglia». Ugo prese Gabriele per mano e lo portò in fondo alla sala d’aspetto. Sul pavimento davanti a lui, tra le mattonelle, c’era una porta magica esattamente identica a quella del suo soggiorno. Lo sguardo andò subito al bordo. La scritta incomprensibile e i due simboli uguali erano nello stesso punto. Sicuramente il signore delle panchine ne conosceva il segreto. La timidezza lasciò il posto alla sua voglia di scoperta. Gabriele gli sorrise, lo tirò per i pantaloni e con un filo di voce, assicurandosi di non essere sentito da nessun altro, gli sussurrò all’orecchio «Tu lo sai cosa sono quei segni?». Ugo si guardò in giro fingendosi cauto e complice, e gli rispose bisbigliando: «È il mio cognome, così le persone sanno che quello l’ho fatto io. È la stessa cosa che fanno i pittori che quando finiscono il quadro mettono il nome nell’angolino. C’è scritto Marmi Serra». D’improvviso Gabriele ingoiò una boccata d’aria e si coprì il viso con le mani. Ci aveva visto giusto, Ugo sapeva! A voce bassa chiese: «L’hai costruita tu questa porta? Serve per andare dentro la Terra?». Ugo abbozzò un sorriso. «Non posso dirti cosa c’è sotto la porta, è un segreto che so solo io. Però sì, ti sei avvicinato molto. In realtà la porta prima era dentro la Terra. Tutto il marmo che vedi viene da lì. All’interno della Terra succedono delle magie che durano migliaia di anni… non tutti perdono tempo a pensarci. Anzi, senti,
ti faccio un regalo». Un sorriso illuminò il suo piccolo viso. Ugo entrò in uno stanzino e ne uscì poco dopo con una scatola. «Questi sono miei, ce li ho da quando ero bambino. Ogni mese, fino a quando non entrerai a scuola, te ne farò avere nuovi». Ciò detto, gli diede un buffetto sulla guancia e gli scompigliò i capelli. Una volta a casa Gabriele si chiuse nella sua stanza. Aprì la scatola lentamente, e tanti piccoli cubetti di marmo videro finalmente la luce. Bianchi, neri, blu, rossi, a puntini. Era un tesoro inestimabile. L’indomani Noemi si mise a studiare, come sempre. Gabriele entrò in soggiorno portandosi dietro i cubetti di marmo. Seduto sul rosone iniziò a progettare e costruire. Ragionava tra sé e sé, sottovoce. Qualche ora dopo la ragazza, infastidita da quella cantilena, sollevò lo sguardo pronta a sgridarlo, ma si fermò. Una piccola città fatta di cubetti era sorta al centro del soggiorno. «Queste sono case, questo è un cane e questi sono bambini che giocano» disse Gabriele tutto concentrato. «Senti… perché non fai un parco al centro della città? Una città senza alberi è come un uomo senza i polmoni, non può respirare» disse Noemi con un sorriso. Gabriele la chiamò vicino a sé e le porse un cubetto. «Va bene. Allora tu fai gli alberi. Io ci metto le panchine». ______________ una produzione Serra Eligio marmi e graniti marmiserra@tiscali.it © Chìmbe - riproduzione riservata
La gamba. È come se me la segassero. Tagliatemi la testa. Vediamo se va via il dolore. Ricordo quando le medicine rendevano le cose tollerabili. E pensavo di poter passare altre belle giornate. Non sono depresso. Ho molti problemi col sonno. Tra dolori e medicinali non ho un sonno regolare. Sono calmo. A volte tanto più calmo quanto più aumenta il dolore. Credo che parlare, interagire con altre persone mi faccia peggiorare. Devo mettere su una facciata, essere quello che gli altri vogliono che io sia. Giocavo a hockey. Ed ero molto bravo. Non riesco più a fare i lavori domestici. Prego di trovare la forza, più che sperare. Ho una vera farmacia per la terapia del dolore. Seguo le istruzioni, ho i dispenser per non confondermi con i medicinali. Ho una moglie e un figlio che contano sul fatto che sia forte. Conosciamo a memoria tutte le stagioni di Dr. House. Ma sono inchiodati con me ogni giorno sapendo che ogni giorno andrà sempre peggio. Cercano di aiutarmi ma non possono. Non hanno idea di quello che sto passando. Mento. Voglio morire. Addormentatemi, sedatemi. Prenderò qualsiasi cosa. Questo non è un modo di vivere. Chi vorrebbe vivere così. Ma bisogna vivere per scoprirlo.
Bianco. Finalmente. Non è stato il colore della mia vita, soprattutto negli anni più recenti. Il rosso prevaleva. Per la violenza degli spasmi. Il viola. Per la morsa che chiudeva le mie carni. Il grigio. Per il buio che vedevo nel futuro. Il nero. Per la tristezza di non poter gioire coi miei cari. Ora è bianco. Da qualche tempo. Da quando il mio male incurabile, pur continuando ad avanzare, non mi piega, non mi blocca, non mi toglie la possibilità di dire a chi amo cosa provo. È stato possibile con l’intervento terapeutico sul dolore. Gli specialisti hanno troncato la mia schiavitù.
Adv: Chìmbe di M.C. - Testo: Marco Concas e Daniele Tomasi
Abbraccio il mio piccolo figlio, accarezzo il volto di mia moglie, stringo la mano di mia madre. La vita, per il tanto ignoto che mi resta, non è più un patimento. La morte, che mi accoglierà, non sarà un baratro di afflizione. Anche il mio futuro, come il mio presente, è bianco.
Insieme Contro il Dolore
Associazione di Utilità Sociale donazioni: conto n. 131392 presso BANCA PROSSIMA, via Angioni, Cagliari intestato alla “Associazione Insieme contro il dolore” - BIC: BCITITMX IBAN: IT12X0335901600100000131392 se vuoi donare il tuo 5 x 1000 scrivi il seguente codice fiscale - 02693680924 nella sezione della tua denuncia dei redditi. segreteria c/o Aservice studio Via Machiavelli n.136, 09131 Cagliari Tel: 800181418 - Fax: 07042939 s e g r e t e r i a @ a s e rv i c e s t u d i o . c o m www.insiemecontroildolore.org
Storie di
libri e leggende
di Marcello Lasio, da un soggetto di Claudia Pirina
«A quei tempi le piccole case editrici mettevano in piedi la truffa del secolo. Adescavano giovani scrittori e gli spillavano i soldi per la stampa dei loro stessi libri. E questa non è editoria, accidenti. Ormai stava cambiando tutto, e per quelli come me non c’era più spazio. Meditavo il pensionamento già da qualche mese e nel giro di un anno avrei chiuso una lunghissima carriera da redattore, vissuta nella casa editrice più importante dello Stato. Ho letto le bozze dei più importanti scrittori di questo secolo, sai? Solo fuffa! Nient’altro che parole vuote. La maggior parte di loro non sarebbe in grado di chiudere un periodo che abbia un senso compiuto, senza l’intervento degli editor. Oggi si chiamano così, prima erano semplicemente “correttori di bozze”. Sai cosa sono i ghost writer writer, ragazzo? Sono ottimi scrittori, in molti casi parecchio più in gamba di quelli che trovi sugli scaffali delle librerie, ma al contrario di loro, per qualche strana ragione, non sono stati promossi dal grande pubblico. Beh, noi ne pagavamo alcuni che senza apparire in copertina, spesso, riscrivevano il romanzo in una lingua comprensibile, accidenti. Un giorno presi in mano un plico già aperto, evidentemente i miei colleghi non ci avevano trovato nulla d’interessante. La busta proveniva dal Montana, ricordo di aver pensato “Ecco, un campagnolo che vuole raccontarci il suo mondo polveroso!”. All’interno c’era un foglio singolo con tutti i dati
scritti in ordine, e in basso l’idea del suo romanzo in poche righe, preceduta appunto dalla dicitura in grassetto “Idea”. Se non hai mai lavorato in una di queste redazioni non puoi immaginare il genere di cose che viene recapitato via posta, ragazzo. Questo campagnolo, invece, aveva colpito la mia sensibilità di redattore ferito. James Black, Montana, c’era scritto. Nato a Helena il 29 novembre del 197 . Santo cielo, guardai il calendario sulla parete sopra il distributore dell’acqua per accertarmi che non mi fossi bevuto del tutto il cervello, ma stavamo proprio nel millenovecentonovanta, in aprile. Questo campagnolo del Montana aveva appena sedici anni e ora mi era chiaro il motivo per cui i miei colleghi non gli avevano prestato attenzione. Ricordo che fui investito da un’adrenalina insolita, così la piantai di tergiversare e ne estrassi il dattiloscritto: Il sonno della coscienza.» «Boom! Il capolavoro» aveva appena esclamato Saverio Gaeta senza neanche accorgersi di aver aperto bocca. Stava seduto nel suo ufficio con il fondo schiena sul bordo della sedia, una mano piantata sul grande tavolo della scrivania e una penna ben intrecciata tra le dita, mentre ascoltava in viva voce la storia di JB direttamente dalle parole rauche del vecchio Quentin Duncan. Il quaderno aperto accanto allo smartphone sarebbe dovuto servire per raccogliere gli appunti utili che in realtà tardavano a palesarsi. Il suo corpo in tensione sembrava pronto a
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scattare non appena lo starter con la pistola avesse dato il via libera, e l’aria nel suo ufficio era elettrica come il cielo tumefatto a novembre. Il fantasma di Alessandra aprì la porta: esile e bellissima. I lunghi capelli raccolti e fissati con una matita toglievano ogni dubbio sul suo lavoro di segretaria tuttofare. In un attimo pose la cartelletta con alcune annotazioni sull’angolo della scrivania e il caffè al centro, proprio davanti al telefonino che in quell’istante taceva. Si materializzò soltanto dopo aver richiuso la porta alle sue spalle. Saverio volse lo sguardo appena in tempo per vederne l’ombra attraverso il vetro e pensò tra sé un grazie sincero. «Capolavoro, dici?» riprese Duncan, «vallo a dire ai miei ex colleghi, cosa pensavano di quel romanzo!». Il vecchio pareva ancora provare rancore per un fatto accaduto quasi trent’anni prima e questo, per Saverio, era il segnale che aveva trovato la persona giusta per arrivare dritto alla meta. Era stata Alessandra a scovarlo, già, ancora lei. Slap! Saverio era solito far schioccare le dita per intendere l’agilità delle azioni e del pensiero del suo staff, con il quale organizzava da anni il festival Leggendo Metropolitano. E Alessandra era proprio così, agile e affidabile, oltre ad avere un gran bel sorriso e due grandi occhi che sembravano fari nella notte. «Pensi che abbiano letto quel dattiloscritto? Se lo pensi sei un inguaribile ingenuo, ragazzo. Nessuno legge nulla in redazione. Stiamo parlando di scrittori mancati e frustrati, costretti dalla loro scarsa dote a riconoscere il genio altrui, di questo stiamo parlando. JB era un moccioso campagnolo, questo è il punto, ed è la stessa cosa che ho pensato anche io, per un istante. Ma poi ho preso a leggere Il sonno della coscienza e in un attimo la mia pensione è andata in malora, magia della narrativa. Ma se questo voleva dire lottare per un giovane scrittore che affidava tutto il suo futuro alla professionalità di una casa editrice così importante, accidenti a me, avrei lottato contro quella redazione cocciuta per il resto della mia vita, se fosse stato necessario.
Poi pensai che se avessi investito personalmente su di lui mi sarei risparmiato una guerra inutile, così mi venne quell’idea strampalata di creare la Sleep Editions. Il giovane James Black, nel frattempo, incassava tutti i rifiuti che uno scrittore alle prime armi può sopportare. Qualche editore gli propose di pagarsi la stampa e la distribuzione, diavolo di un impostore, ma lui era povero in canna e fortunatamente non era in condizioni di cadere nel tranello. La stella di JB sembrava non avere intenzione di illuminarsi, ma queste cose, ragazzo, sono scritte nel destino e puoi girarla come vuoi che alla fine tutto va come deve andare.» “Per niente!” pensò Saverio mentre ascoltava senza interrompere. “Se non ci avesse creduto Quentin Duncan per primo, il genio di quel giovane non sarebbe mai emerso, e questo è un fatto. Il lavoro paga. Stop” concluse. Ne era talmente convinto da farne una filosofia di vita. Anche la sua associazione, Prohairesis, faceva suo questo concetto, e nello stesso modo era nato il festival Leggendo Metropolitano. Così, dopo anni di crescita costante aveva deciso di puntare molto in alto, fino all’eccellenza. E questo non poteva essere lasciato al caso, sperando che nel destino fosse già scritto un capitolo così importante della sua vita professionale. LL’organizzatore Gaeta voleva il migliore scrittore in vita, e per farlo aveva studiato svariate strategie senza però arrivare a nulla. L’editore italiano quasi balbettava alla richiesta di un contatto diretto con l’autore da parte di Saverio, e quelli del resto d’Europa si erano limitati a fornirgli tutti più o meno la solita storiella che ormai conoscono anche i bambini: James Black non ama i premi letterari. James Black non partecipa a dibattiti pubblici. E a nulla era servito che argomentasse il suo interesse verso la poetica dell’autore, e non per le varie polemiche che da sempre lo avevano accompagnato nel corso della sua carriera. Per non parlare poi di quella brutta storia che gli accadde alla fine degli anni novanta.
Prohairesis
C’è una tacita gara in corso, nel suo settore: chi riesce a portare in Italia James Black diventerà una leggenda. “Essere straordinari, leggendari”, questo era il suo motto, la sua vision, da sempre. La sua missione è James Black, a ogni costo. Dopo il flop con le case editrici estere, la squadra non si era perso d’animo. Ognuno aveva ripreso in mano i propri appunti, i contatti e i piani d’azione. Dovevano trovare uno spiraglio. Bastava soltanto un maledetto spiraglio dove infilare gli artigli e restare aggrappati fino a farsi largo verso l’autore inafferrabile. Così Alessandra ebbe l’intuizione giusta e senza tanti proclami si era presa la responsabilità di fare una telefonata, la più importante della sua vita. «Come no, il grande James Black!» ripose qualcuno dall’altra parte del telefono e del mondo. «Ma lo sa che il suo primo romanzo lo spedì proprio a noi? A quei tempi, io...» «È proprio di questo che le volevo parlare!» lo aveva interrotto Alessandra, decisa. «Si ricorda di Quentin Duncan, lo scopritore del signor Black? All’epoca lavorava per la vostra casa editrice. Fu lui a leggere per primo il suo romanzo!». «Ma certo, signorina. Fu proprio il Santo a leggerlo. E se lo portò via, il furbetto, eh eh eh! D’altronde a quei tempi io...». «Mi servirebbe un suo recapito. Ha lavorato da voi per tanto tempo, può aiutarmi a contattarlo?». Non avendo immediata risposta, Alessandra aveva ripetuto il nome del vecchio: «Quentin Duncan. Siamo gli organizzatori del più importante festival letterario italiano e lo vorremmo come ospite!». Ok, sapeva benissimo di aver esagerato. Ma se la leggenda JB fosse poi approdata in Sardegna, la realtà non sarebbe stata così distante. «Abbiamo il numero di telefono personale del signor Quentin Duncan!» aveva detto entrando all’improvviso nell’ufficio di Saverio Gaeta, senza riuscire a prendere fiato ma sforzandosi di tenere staccate tutte le parole che componevano la frase.
«Quanta strada abbiamo percorso insieme» riprese Duncan. «E quante sciocche chiacchiere ho ascoltato con queste orecchie. Ancora oggi sento parlare di me come l’uomo che ha inventato James Black, lo sai questo? Non ci può essere nulla di più banale per chi svolge il mio lavoro. Io mi sono limitato a leggere un gran bel romanzo, riconoscendogli delle doti che già possedeva, e se un colosso dell’editoria di quel calibro non se ne rende conto, beh, significa che da quelle parti qualcuno ha sbagliato mestiere. Mi licenziai, ecco cosa feci. A sessant’anni suonati e prossimo alla pensione facevo la figura del vecchio che perde la testa per una ventenne, accidenti a me. Mia moglie non mi parlò per una settimana, santa donna. Così misi in piedi la casa editrice Sleep dal nulla. Furono tanti a non mandarla giù. La gallina dalle uova d’oro adesso snobbava i più grandi e questo non glielo perdonarono mai. Alla consegna dei premi o durante i dibattiti pubblici riuscivano sempre a metterlo in mezzo, così lui si stancò e preferì chiudersi in se stesso. Ma il risultato fu quello di inasprire i toni e la faccenda degenerò ben presto. Aveva ventiquattro anni, allora. Le sue apparizioni diventavano via via sempre più rare e i suoi critici sempre più molesti. Il pubblico cominciava a diventare aggressivo ma, santoddio, chi avrebbe mai pensato che potesse accadere una storia di quel tipo? Quella volta cercò di spiegare che la sua poetica era piuttosto varia, e nonostante fosse tinta di forti venature scure era in realtà complessa come le strade di Tokio. D’altronde con quel suo stile scorrevole, la costruzione di trama che fa presa sul lettore fatta di frasi e periodi eleganti e godibili, senza poi contare la sfrenata fantasia, James avrebbe potuto raccontare la sua lista della spesa senza subire cali nelle vendite. Quella parte di pubblico, però, aveva deciso che non era degno di tanto talento. Forse si sentivano traditi. Forse pensavano che uno come lui avrebbe potuto dare dignità all’horror. Proprio non lo so, ragazzo. Non ho mai smesso di cercare
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una spiegazione, ma in realtà non è mai esistita davvero. James sparì subito dopo il dibattito. Sparì nel nulla. Nessuno lo aveva visto allontanarsi o parlare con qualcuno, accidenti a loro! Niente di niente. Alla fine un detective collegò i fatti di quella sera con la sua sparizione. Attraverso i biglietti nominali dell’evento saltò fuori il nome di un pregiudicato, Edward Geinsbur. Nel suo ambiente lo chiamavano Il dono di Satana. Furono centotrentuno le ore trascorse da James nelle mani di quei pazzi. Cinque lunghissimi giorni e undici ore tendenti all’infinito. La polizia tenne il riserbo su tutto e quei maiali satanisti firmarono confessioni segrete che portarono ad altri casi insoluti da anni. Evitarono Old Sparky grazie alla loro disponibilità alla collaborazione. Una brutta storia, ragazzo.» «È da allora che si è definitivamente ritirato a vita privata» aveva anticipato Saverio, perché sentiva che era arrivato il momento di incalzare il vecchio. «E non c’è modo di avvicinarlo, giusto?». «Ci hai preso, ragazzo. JB era un giovane ingenuo che ha imparato dalla sua stessa vita che una superstar deve stare lontano dai propri fan. E questo è tutto ciò che c’è da sapere, il resto fa parte della storia recente. È inutile dire che le librerie vennero letteralmente prese d’assedio. I suoi romanzi vendevano come mai era capitato a nessun altro scrittore al mondo. I lettori volevano sapere ma dovevano accontentarsi di ciò che era stato già pubblicatoe mentre tutti attendevano un nuovo romanzo, per un anno fummo costretti a una ristampa al mese. Roba da pazzi. Non mi parlò mai di ciò che accadde dentro quella casa maledetta, e io non ero interessato a saperlo. Forse è per questo motivo che riusciva a sopportarmi quando lo spronavo a riprendere a scrivere. “Qualunque cosa, JB! Qualunque cosa, ma scrivi, accidenti. Fai uscire quello che hai o morirai dentro quel tuo bunker!”. Era questo, quello che gli dicevo.
Tre anni dopo quel terribile fatto tornò a essere uno scrittore. Oh, signori miei, se lo era. Il migliore di tutti! Mentre i suoi libri precedenti diventavano bestseller internazionali pubblicò Un uomo senza storia, spiazzando il mondo intero: il romanzo non parlava direttamente della sua vicenda, anche se chiunque lo poté ricollegare a presunti fatti e a stati d’animo immaginifici. E lui naturalmente non disse nulla. Il romanzo scosse un’intera generazione e da allora ne pubblica uno all’anno che diventa bestseller nel giro di pochi giorni. Quel ragazzo illumina il mondo, quali polemiche. Dovremmo ringraziare Dio per averci dato questa opportunità. » «Sono perfettamente d’accordo con lei, Mister Duncan. È proprio questo il motivo per cui...». «Ora che conosce tutta la storia può scrivere il suo libro!» aveva detto il vecchio. «Senta… mi dispiace che inavvertitamente le abbia fatto credere di essere un giornalista… ma in realtà io sto organizzando un festival letterario che punta a diventare il migliore nel suo genere!» era riuscito a confessare Saverio. Così il vecchio,aveva finito per dire semplicemente «Beh… allora, ragazzo, credo che stai perdendo il tuo tempo». Partenza da Elmas e scalo a Roma. Dodici ore dopo, a Fiumicino, Saverio prende il volo per New York. Ancora non si spiega come sia riuscito a convincere Mister Q. Duncan, ma sa benissimo che questa è un’opportunità rara, di quelle che capitano una volta nella vita. «Ha comprato una casa nel bosco, una volta. Poi ha comprato il bosco e lo ha trasformato in una fortezza ipertecnologica collegata alla polizia. Cercava di lasciarsi dietro il passato, senza rendersi conto che aveva deciso di guardarlo in faccia costantemente. Poi gli hanno offerto una cattedra alla City University of New York. Non credo che senza l’intervento di sua moglie avrebbe mai accettato. Si è traferito lì, e da allora ci sentiamo soltanto per telefono. C’è solo
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una cosa che posso fare per aiutarti: parlerò con sua moglie Nina. Ascolta, ragazzo, JB è un animale ferito, gioca bene le tue carte ma non esagerare!» Undici ore dopo Saverio sbarca all’aeroporto JFK. Poco più tardi percorre i giardini dell’università. Senza farsi notare troppo s’infila nei corridoi, legge gli orari delle lezioni affissi nelle bacheche e infine trova l’aula, e lì aspetta la lezione del Prof. James Black. Pare che ogni lezione finisca con un applauso, mentre lui bonariamente manda i suoi allievi a quel paese con un gesto della mano. E questo accade anche ora, poi qualcuno scende dalle scale per andargli a parlare e qualcun altro gli porge, timido, un dattiloscritto da leggere. Anche Saverio scende le scale, lentamente, e lo segue quando esce dalla porta in basso. Lo segue a distanza senza perderlo d’occhio nel lungo corridoio che porta a un altro più breve, e alla fine si ritrova in un ambiente affollato da giovani studenti. Troppi per capire che fine ha fatto JB. Senza smettere di camminare passa al setaccio qualunque persona i suoi occhi riescano a mettere a fuoco, poi un’ombra familiare varca la soglia dell’istituto. “Eccoti qua” pensa. Così cambia direzione e gli corre dietro per ritrovarsi nei giardini. Lo vede camminare a grandi falcate in direzione dei parcheggi e decide di uscire per aspettarlo davanti al cancello. Si para davanti all’auto, facendo ampi movimenti delle braccia per fermarlo. «Stai cercando di farti mettere sotto?» lo rimprovera JB, inchiodando e affacciandosi al finestrino. «Volevo soltanto fare due chiacchiere con lei! Ho fatto troppa strada per perdere questa occasione!» dice Saverio avvicinandosi affannato al finestrino, e cercando un approccio più sincero possibile. «Mi chiamo Saverio Gaeta. Conosco benissimo la sua storia e so perfettamente che lei non ama le uscite pubbliche...». Con un’espressione inequivocabile James Black taglia corto: «Ecco, bravo. Evitiamo di parlarne,
allora!». Subito dopo dà un colpo sull’acceleratore e lascia Saverio sul posto. Lui non ci sta, così torna indietro di qualche passo e sale su un taxi dal quale è appena scesa una donna con dei libri, probabilmente un’insegnante, e come nei più classici hard boiled urla «Segua quella macchina!». Ma vedendo sul volto del tassista un’espressione poco rassicurante, estrae dalla tasca un biglietto da cinquanta dollari e aggiunge «Per favore». L’inseguimento termina di fronte all’enorme cancello di una villa. Sul campanello il nome “O’Malley” avrebbe fatto desistere chiunque, ma non Saverio. Non ora. Un istante dopo aver suonato, risponde la voce di JB. «La vedo dalla finestra, Gaeta. Senta, io non voglio essere scortese, ma...». Poi, Saverio sente all’apparecchio una voce femminile che chiede «Gaeta, hai detto?» e sempre in lontananza un confabulare rapido e confuso. Qualche secondo dopo il mec meccanismo scatta e il cancello si apre. La stessa voce sconosciuta dice «Prego, si accomodi pure» e la cor cornetta del citofono viene messa giù pesantemente. Alla porta lo attende una bella donna con dei capelli corvini cortissimi e un piercing al naso, che fasciata da un abito elastico nero, sorregge con la mano un pancione di circa otto mesi. «Lo sa che potrebbe essere scambiato per uno stalker?». Stanno seduti in salotto l’uno davanti all’altro su due divani separati da un basso tavolino in vetro color cielo, quando sua moglie arriva dalla cucina con due bicchieri di birra appena versati. «Deve scusarlo, certe volte non ricorda come ci si comporta». E poi, al marito: «Lo vedi? Non è difficile. Dopo puoi dirgli di no, se vuoi!». JB sorride. «Ha appena conosciuto mia moglie, Nina O’Malley. Non si preoccupi, è fatta così!». Poi prende il bicchiere e lo porge all’ospite, dicendo «Quindi lei ha conosciuto il Santo». «Perché Il Santo?» «Da ragazzino pensavo fosse un santo. Un quasi
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pensionato che decide di continuare a lavorare per perché pensa di aver trovato un genio tra quei quintali di carta che vede arrivare ogni giorno. O è un santo oppure è completamente folle, non crede?». «Io penso che fosse bravo nel suo lavoro. Il migliore, a quanto pare». «Già. A volte penso che tutta questa fama... il mio successo... senza il vecchio non sarei nessuno!». Sta per portare il bicchiere alle labbra ma poi si ferma. «Dicono che sono diventato una leggenda, ma di cosa parlano? Cosa significa, poi? Non è che abbiamo ribaltato tutto? Perché io? Non sarà mica lui, la leggenda?». Saverio lo guarda dritto negli occhi e si rende conto di sapere esattamente di cosa sta parlando. «È leggendario chi non si ferma davanti a nulla! Posso darti del tu?» e dopo il cenno della testa da parte di James, continua «Ma nel senso più positivo del termine, intendo. Io sono per le cose fatte bene. Per un lavoro organizzato che non può che portarti a risultati eccelsi. Ma se le cose devono proprio andare male, beh, mi fermo e aspetto il peggio perché le avversità me le mangio. Le mastico. Ne assaporo tutto l’amaro affinché non possa mai dimenticarle e poi le ingoio. Perché io “sono” le mie avversità. Le mie sconfitte. I miei cali. E solo così posso ricominciare a vincere. Ecco cos’è leggendario. Quindi, sì. Quentin lo è esattamente quanto lo sei tu». Poi beve. James lo fissa per qualche secondo e infine beve anche lui. Un lunghissimo sorso di birra gelata che gratta delicatamente la gola. Poi posa il bicchiere sul tavolino e prima ancora di sollevare lo sguardo dice «Parlami del tuo festival». Una folla inimmaginabile si alza in piedi a regalare una standing ovation per la leggenda James Black, lo scrittore che ha frantumato ogni record di vendite, l’autore tradotto in tutte le lingue esistenti al mondo. JB con la sua poetica ha semplicemente distrutto ogni limite che si frappone tra l’autorialità e il popolare, divenendo il migliore e il più apprezzato scrittore di tutti i tempi. Ringrazia, mentre nessuno
ha la minima intenzione di smettere di osannare l’ex ragazzino del Montana. Cerca con lo sguardo sua moglie Nina che non ha voluto stare troppo vicina al palco per via del bambino che ora sta nella sua carrozzina. Nel lasciargli la scena, come fosse dentro la propria aula, JB strizza l’occhio a Saverio e agita la mano, in un gesto a metà fra il “vai a quel paese” e il “ci vedremo ancora”. Alessandra, rimasta fino a quel momento in compagnia della signora O’Malley, è costretta ad allontanarsi per raggiungere Saverio che sta salendo sul palco. È l’ora dei saluti. Dei ringraziamenti. Dell’ar Dell’arrivederci al prossimo anno sperando che possano nascere altri JB e che Gaeta possa portarli nel suo festival, mentre l’applauso riacquista vigore e chi si era ormai seduto si alza ancora una volta per un’ovazione infinita. Cinque giorni di incontri, dibattiti e letture che Saverio e i suoi avevano programmato fin nei minimi particolari. Ma ogni volta, alla fine, quella sensazione di vittoria come se il risultato fosse stato perennemente in bilico e per nulla scontato, lo riempie di adrenalina. Guarda il suo pubblico e sorride, e gli tornano alla mente alcuni momenti intensi nella Galleria Giardini Pubblici e al Teatro Civico di Castello, scenari fissi di quasi tutto il festival. «Allora, come ci si sente?» urla la segretaria tuttofare sciogliendo i suoi morbidi e lunghi ricci. «Sei riuscito a portare James Black in Sardegna. Ora sei una leggenda, no? Come ci si sente?». Saverio sorride. «Non lo so, non abbiamo tempo per queste cose. C’è il festival del prossimo anno da organizzare… e penso di avere già un ospite garantito» conclude innescando il più bel sorriso che abbia mai visto, quello di Alessandra. ______________ una produzione Prohairesis leggendometropolitano.it © Chìmbe - riproduzione riservata
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