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Stage di Cristina Kezich ISBN 978-88-6438-073-5 © 2010 Editrice ZONA via dei Boschi 244/4 loc. Pieve al Toppo 52041 Civitella in Val di Chiana - Arezzo tel/fax 0575.411049 www.editricezona.it – info@editricezona.it ufficio stampa: Silvia Tessitore – sitessi@tin.it progetto grafico: Serafina - serafina.serafina@alice.it Stampa: Digital Team - Fano (PU) Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 2
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INTRODUZIONE “Quando un lavoro non è più un diritto ma diventa un lavoro a qualsiasi condizione”. Potrebbe sembrare il titolo di un reportage, in realtà, è il tema prevalente intorno al quale si articola Stage. Cristina Kezich, infatti, descrive non solo uno spaccato di realtà lavorativa italiana che coinvolge un gran numero di persone, ma incarna e rappresenta una generazione intera di giovani lavoratori che non ha mai conosciuto un lavoro stabile e dignitoso. La metamorfosi del lavoro se da una parte ha generato cambiamenti e flessibilità, dall’altra, ha creato precarietà, insicurezza, debolezza contrattuale, percorsi professionali atipici non sempre certi e gran disponibilità a svolgere lavori che non competono o che altri colleghi non vogliono fare. In molti casi accade che si fanno esperienze lavorative “solo riempitive del proprio curriculum” senza alcuna utilità sul piano personale e professionale. Una situazione difficile fatta di contratti che scadono, occupazioni provvisorie, scarso riconoscimento di meriti e perdita di motivazione; di “emergenza lavoro”, numeri, statistiche e indagini di mercato su cosa accadrà. Cristina Kezich oltrepassa i numeri e supera le statistiche per entrare nella realtà concreta delle cose con la chiave dell’ironia e della creatività. 5
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Quando la realtà diventa creatrice e quando la creatività permette di entrare nella realtà, dando vita a qualcosa che è assieme reportage, inchiesta ma, soprattutto, narrazione. L’autrice assapora le cose che racconta e le sue esperienze tanto da consentirci di immaginare i personaggi, i posti, le persone, i colori; tanto da permetterci di essere spettatori invisibili di una autentica pièce. All’amarezza, alle illusioni e disillusioni qui si accompagna un’audace “filosofia da sfondamento che non mi fa desistere dal preservare”; a dispetto di una realtà fuori controllo, entusiasmo e ironia rappresentano, forse, l’antidoto vincente: “Non posso fare altro che ringraziare il materiale umano in cui mi sono imbattuta. Ha rimesso in moto il mio ardore per la scrittura…” Lucia L.
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Sono un po’ populista, servizievole, volenterosa, in fondo molto volitiva, credo-spero più o meno colta e credo-spero più o meno intelligente. Sono sopravvissuta a interessanti e, molto spesso, umilianti esperienze lavorative differenti e variegate. Ho terminato precocemente l’università e a ventisette anni credo-spero di poter vantare un curriculum di tutto rispetto, di cui solo in parte sono orgogliosa. Per l’altra parte, mi fa rabbia non trovare un degno corrispettivo nella realtà, ma questa è storia italiana più che contemporanea. Per lavoro ho girato molte città: i trasferimenti sono stati felici, altre volte un po’ traumatici. Non ho indugiato un secondo perché da sempre abita in me la convinzione, da estirpare quanto prima, che la sola forza di volontà possa sfondare qualsiasi porta. E proprio l’essermi appropriata di questa assurda “filosofia da sfondamento” non mi fa desistere dal perseverare. È trascorso l’anno di stage all’Ufficio Stampa del Senator Capretta e ho racimolato un’ennesima “esperienza riempitiva” del mio curriculum. Devo solo confidare, mea maxima lectio, che un domani possa inserirmi in una qualsiasi loggia partitica e 9
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politica. Al momento sono una mina vagante. La possibilità – ma è utopica e stizzante – è darla. A chi, però? Non c’è nessuno che conta che s’imbatta sul mio percorso, meglio che non mi crei altre illusioni. Ammissione fondamentale: se avessi avuto uno straccio di contratto, non mi sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello buttare giù queste righe. Mi sarei, anzi, adeguata a giochi sotterranei del “sistema” e, a cuor leggero, avrei fruito del mio stipendio. A oggi sono solo un po’ incattivita e il mio intento è dare voce alla mia acredine che, in fondo, è un sentimento negativo che risiede nella media delle persone. Ed è, altresì, sputare nel piatto in cui – si fa per dire – ho mangiato (anche se il cibo mi è andato quasi sempre di traverso). Non cerco attenuanti al mio meschino comportamento perché è evidente la bassezza della mia natura di stagista usata e gettata via. D’altro canto, com’è noto, gli uomini sono malevoli e io non sono certo da meno. Intendo appuntare riflessioni che, ai più, fanno sogghignare e pensare: “Ma questa persona ha vissuto sotto una campana?!”. “Ha fatto la scoperta dell’acqua calda!”, e via discorrendo. A tutti costoro dico, anzitempo, che hanno ragione e che è vero: sono cresciuta per lungo tempo sotto la campana dei miei spiccioli idealismi. Dico 10
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anche che devono andarsene all’altro paese perché voglio scrivere della mia scoperta dell’acqua calda. Prima di iniziare lo stage, ho fatto diversi lavori tra cui insegnare. Mi sono anche specializzata per dare inizio alla mia “carriera” da professoressa. Al sud, fare il professore è una di quelle professioni che più ambita non ce n’è. Forse perché molti meridionali, inconsapevolmente, nascono con la “vocazione” per il prossimo. Sarà un caso ma molti terroni in cui mi imbatto (matematicibiologiagronomifilosofiletteratiingegneriastrofisicisciamaniscientologistygiuristifancazzisti) vogliono insegnare, lo fanno già, oppure sono in procinto di inserirsi nelle graduatorie. Tant’è che un mio amico lumbard mi chiedeva spesso: “Ma da voi fate tutti i professori?”. Carissimo, devi sapere che la nostra è una vera e propria missione: al sud siamo comunicativi e gesticolanti. Ci viene naturale farci capire quando spieghiamo un argomento; in più risiede in noi la fierezza di acculturare giovani menti (il polentone sa bene che non caviamo un ragno dal buco e sfotte). La mia divagazione significa che: per evitare la carriera di professoressa – carriera che tra breve riprenderò in considerazione – ho iniziato lo stage all’Ufficio Stampa del Senator Capretta. E, prima che io lasci quello che è stato, è mio compito scrivere la “relazione di fine tirocinio” che, da quanto 11
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appreso, rappresenta un’importantissima attestazione. Così la butto giù e spero tanto di essere il più obiettiva possibile. Il mio “percorso formativo” ha avuto inizio in un’ancora calda giornata d’ottobre. All’epoca, l’ufficio stampa era costituito da: il capoufficio stampa + 2 collaboratrici del Senatore (mie coetanee) + 3 stagiste (me compresa) + un addetto stampa del Senatore (inviso ai più) + una risibile manciata di impiegati storici del Palazzo (sostanzialmente irrilevanti ai fini della narrazione). Le prime settimane di stage sono state, in fondo, arricchenti. Tutti sembravano cordiali e c’era un clima goliardico. Da subito noi stagiste ci siamo sentite parte integrante della “squadra del Senatore” o “grande squadra”, costituita da menti eccelse. Le funzioni, comuni alle stagiste e alle collaboratrici ufficiali, erano relative ad attività di segretariato. Poco male: in fondo occorreva imparare e svolgevo di buon grado anche le mansioni più umili. A pranzo si andava sempre a mangiare assieme. Il nostro capo era simpatico e disponibile con le sue collaboratrici (includo noi tre stagiste identificate dalle “ufficiali”, per diversi mesi, semplicemente come “le stagiste” o “le ragazze”).
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In quelle occasioni conviviali si parlava di rapporti di ogni genere. Rappresentavano una parentesi allegrotta che, in qualche modo, ricompattava “la squadra”. Il capo era parecchio presente e, spesso, era invitato dalle “ufficiali” a tutelarci dagli apprezzamenti di quei “porci-maschilisti” (spesso piccole adunanze di giovani delle forze dell’ordine) rivolti a noi cinque fanciulle di ritorno all’ “anticamera del potere”. L’ “anticamera del potere” (così come la definiva Pallina, che tra breve presenterò) era la camera che introduceva all’ufficio del capo in cui, quotidianamente, si assegnava il lavoro e si attribuivano le rispettive mansioni. Prima di raggiungerla, capitava spesso ci trovassimo tutti assieme in ascensore, ove il capo ci “caricava” con discorsi leggeri. Si dissertava, per esempio, di: rapporti, rapporti in generale, rapporti sessuali, sesso di gruppo in ascensore, rapporti di coppia; confronto tra l’orgasmo delle occidentali e quello delle orientali (assai più sentito da queste ultime). Dissertazioni, ritengo, tese a stemperare la stanchezza post prandium, e finalizzate a rendere il più sereno possibile l’approccio al lavoro di squadra. Che figata! Talvolta lo scorsi a sbirciare nei decoltè.
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Le collaboratrici del capo erano piene di attenzioni nei suoi riguardi e spesso se lo contendevano. Altrettanto spesso, erano gelose che lui spostasse l’attenzione dalla loro attività di segretariato all’operato di noi stagiste. In particolare una, sempre nella sua stanza. L’altra invece, più schiva e selvaggia, vantava una breve esperienza da centralinista e un viscerale legame familiare con il Senator Capretta. Un legame che ricordava sovente a noialtre (la “raccomandazione” non rappresenta onta, né vergogna. Essa è un essenziale requisito da spiattellare in faccia a chiunque per avvalorare le personali capacità intellettive). Se, quindi, tua madre è la migliore amica del Senatore per cui lavori, vallo a gridare ai quattro venti. Da subito, ti conferirà un aplomb da intellettuale e ti aiuterà a importi, senza freni né maniere civili, nell’ambiente in cui lavori. Questa collaboratrice, riottosa e sprezzante verso noi stagiste, mi parve una cavalla allo stato brado; d’ora innanzi, avrei piacere di chiamarla Nocciolina. L’altra invece Pallina, vezzeggiativo anche questo che non significa granché. Il mio capo lo chiamerò, sempre d’ora innanzi, Paccotto, perché 14
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stava sempre con le mani sul “pacco” e non se ne poteva. Nocciolina e Pallina si davano parecchie arie perché erano le collaboratrici particolari del Senatore e quando dovevano essere ricevute da lui si imbellettavano il più possibile. Mi viene in mente una cena alla quale, molti mesi fa, presenziai. Tutti noi della squadra e pochi, scelti simpatizzanti del Senatore. Credo proprio fosse un’occasione importante: il banchetto suggellava un momento politico di particolare rilievo. Ed era stato, allo stesso tempo, allestito per festeggiare il compleanno di “Lui”, il Senator Capretta, ovviamente al centro della tavolata. Per “Lui”, ad essere sincera quella sera provai un po’ di tenerezza (chiuderò ovviamente gli occhi sulla veemenza con cui si accaniva sul prosciutto e sull’intimistico e malcelato sadismo che utilizzava per bersagliare – si accanì in particolare verso una giovane donna un po’ pingue – ciascun commensale). Oltre a essere letteralmente circondato da ienette sorridenti che pretendevano di interpretare mentalmente e fattivamente ogni suo pensiero (caraffadacquacaraffadivinoaltroprosciuttosaledolcesorrisettiespressionidipartecipazioneedivicinanzaalsuopensieroocchiaddossorisatinediconvenienzaquandoprendevaingirogliastan15
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tigraziePaoloVillaggioiotiadoroemanfrinevarie), fu l’inconsapevole protagonista di un piccolo e improvvisato grand guignol. Si spensero, d’un tratto, le luci dell’angusto locale. Anzitempo, Pallina e Nocciolina si erano premurate di rassettarsi il trucco e, nel buio, abbandonata rapidamente la tavolata scivolarono delicatamente verso le cucine del ristorante per prendere la torta del Senatore. Trionfalmente, facendosi poi largo nell’oscurità, portarono a quattro mani il dolce e glielo offrirono. Una si fece alla sua destra, l’altra a sinistra. Gli si poggiarono delicatamente sulle spalle, abbassandosi di poco e, chi su una guancia chi sull’altra, gli schioccarono due baci fragorosi. In quel momento avvertii, come dire, una compassionevole simpatia per il poveraccio braccato da petulanti commensali e chiuso nella morsa di Pallina e Nocciolina che, estatiche e silenziose, lo contemplavano senza porre al lecchinismo alcun freno di facciata. A essere sincera, contribuivo anche io, di tanto in tanto e timidamente, a stizzire il Senatore con dei sorrisetti fuori luogo. Intimamente riflettevo: è comunque un Senatore, è sconveniente non sorridere. In fondo, il poveraccio non mi era poi tanto antipatico. E credo che, in parte, i miei timidi incroci non l’infastidissero perché – credo, altresì – da buon 16
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uomo di montagna fosse amante delle donne in carne come me. Che calotta le gelosie che serpeggiavano in ufficio! Io sono una donna e da donna posso dire che, ahimè, quando metti cinque donne assieme a fare un lavoro che potrebbe rivelarsi fruttuoso, cinque donne coetanee e più o meno carine, molto spesso può capitare che la miscela diventi esplosiva. Tanta era l’invidia che generavano i commenti di Paccotto verso noi tre stagiste (che belline, che belle gambe eccetera eccetera) che, quasi da subito, si creò una lotta all’ultimo sangue su chi dovesse essere la prescelta al fine di rientrare nella sua aura. Pallina, inizialmente, era in assoluto la preferita e beavasi di questa peculiarità. Come una ligia alunna, furoreggiante quando è premiata dal maestro, trascinava il portatile nella stanza del capo e si intratteneva lì per tempo. Per un po’ ebbe il predominio incontrastato. La calotta spingeva vieppiù verso terra ed io, ingenuamente, pensai bene di ritagliarmi il mio angolino di mondo. Occorse un po’ di tempo ma, assieme a Compagna (stagista come me), evitai anche i momenti in cui si andava paciosamente a mangiare assieme. Da subito, si stabilì tra noi una certa affinità e, 17
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da subito, cominciammo alla sera a intonare timidamente Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce…Un canto che si trasformò in un lamento, sempre più roboante. Di poi noi stagiste venimmo confinate in stanzette attigue all’anticamera del potere. Ogni giorno ci venivano rifilate decine di mail di cittadini peroranti alle quali bisognava rispondere. Non disdegnai, all’inizio, questo tipo di lavoro. Anzi, fui offuscata mentalmente da non so quale balzana intuizione che trovai interessante la mansione. Così le mail mi incuriosirono; poi, dopo molti mesi, mi venne una specie di rigetto: il copia e incolla sopravvenne a prestamente sistemare i peroranti. Quando il Governo cadde e la squadra si sfasciò del tutto, tutte quelle centinaia di mail finirono nel tritacarte e a me dispiacque in parte perché, per scrivere tutte quelle manfrine (Concordo pienamente con lei e, ogni giorno, ce la metto tutta, ma solo in pochi mi accompagnano in questa avventura... Non faccio altro che condannare un sistema assolutamente obsoleto, in cui è assente ogni forma di meritocrazia…. Da sempre perseguo ideali di libertà e giustezza, a costo di fare terra bruciata attorno a me e crearmi ulteriori nemici eccetera eccetera), ho scaricato le migliori ore della mia esistenza. 18
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E poi le mail, a dirla tutta, sono state lesive per la mia scrittura. Occorreva, infatti, esprimersi in un canovaccio totalmente scevro da orpelli. Ossia, più erano immediate e “pasta e patate”, più risultavano credibili ai destinatari (a masnada espressioni sintomatiche del tipo Voi gente per bene – i peroranti – La papera non galleggia etc. etc.). Solo due minuti fa, dal ciarpame che conservo, ho riesumato un significativo stralcio scampato all’eccidio di fine Governo. Esso recita: “Le lotte che ho affrontato nel corso della mia esistenza le ho portate avanti specialmente pensando a tutti coloro che nella vita devono avere un’opportunità. Tutti coloro che, senza distinzione di ceto sociale, hanno il sacrosanto diritto di esprimere le proprie capacità e vederne riconosciuti i meriti. Mi auguro che nepotismi e clientelismi non debbano mai più insinuarsi nella politica, che deve essere solo al servizio dei cittadini”. È un monito che voglio tenere a mente. Qualora mi passasse per la testa di non portare a termine la mia relazione. Nocciolina e Pallina, ancheggianti e a lunghe falcate, planavano i corridoi del Palazzo. Il mio stage prendeva, invece, una strana piega. Poco di quanto facessi carpiva il mio interesse e le “lezioni di giornalismo” di Paccotto mi venivano facilmente a noia. Le cose non quadravano appieno e, da mane a 19
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sera, carica di frustrazione cercavo di allontanarmi da quella realtà col pensiero o spedendo blog nell’etere.
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Un giorno, Paccotto mi invitò per scherzo a cena con lui per fare ingelosire “quello lì” (aitante quarantenne). Dentro di me riflettei: sì, sì! Già la storia con “quello lì” è fiacca… Se poi mi becca a cena con Paccotto penserà di vedersi con una stupida. Desunsi, a quel punto, che il capo si sentisse oltre misura avvenente. Nocciolina e Pallina non facevano altro che incrementare questa sua convinzione con complimenti spropositati. E lui si prendeva agio di fare il tombeur de femmes un po’ con tutte. Da parte mia, a volte mi occupavo di ricerche che trovavo sterili; altre, invece, lavoravo a sporadiche interviste. Talvolta, non mi sentivo pienamente competente, perché la mia testa con lentezza afferrava talune dinamiche politiche. Avevo lacune pregresse e cercavo di far fronte alle mie carenze oggettive. Nonostante tutto, ad oggi, sono fermamente convinta che in determinati ambienti le capacità individuali non è che contino granchè. Delle piccole avvisaglie, inoltre, che avevo recepito agli inizi del mio “percorso formativo”, mi avevano leggermente scombussolata. 21
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Qualche aneddoto. Tanti mesi fa andammo tutti assieme ad una manifestazione e restammo fuori città per qualche giorno. A noi stagiste, come nel più tipico dei copioni, era destinato un albergo very low cost. Non ne fui disturbata, perché l’opportunità prospettataci poteva rivelarsi “simpatica”. Paccotto ci intimò con fare perentorio e a lungo che, nel corso della permanenza, ci avrebbe lavorativamente massacrate (un minaccioso avvertimento finalizzato ad avvalorare il proprio ruolo di kapò). Tutto sommato, invece, ci divertimmo. E lavorativamente ci adoperammo ben poco. Specie noi stagiste conoscemmo numerosi giornalisti e, in generale, ci imbattemmo in gente interessante e cordiale. Le “ufficiali”, invece, scelsero la strada della “non confidenza” e, quando occorreva visionare le agenzie di stampa dal nostro pc, difendevano alacremente la postazione del Senatore (deus ex machina). Nocciolina mi invitava ad essere più professionale e si mostrava schiva. Credo che esistano due categorie di persone: quelle che temono il confronto con l’alterità in generale, per riservatezza e pudore. Ci sono poi quelle che l’evitano, semplicemente, perché tramortite dalla paura e perché tesoriere di un personalissimo disconoscere. Spesso lo
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custodiscono con gelosia e talvolta ne sono spaventate. Postilla irrilevante ma preferisco annotarla: ho collaborato per alcuni giornali, davvero misconosciuti. Quando mi sono imbattuta in giornalisti in gamba mi hanno chiamata “collega”, pur essendo me medesima di livello oggettivamente più infimo. Questo, forse, è il particolare che fa la differenza tra chi ha nella testa due persiane spalancate sul mondo e chi, invece… Piccoli motivi di scontro erano generati dal carattere in cui mutare le agenzie di stampa da destinare al Senatore (che, da quanto appresi, amava “arial” perdutamente). C’era chi, inviperito da piccole dimenticanze, sosteneva con veemenza che necessariamente il titolo dovesse andare in “times new roman”; il corpo del testo abbisognasse della mutazione in “arial”. In fondo, la “diatriba del carattere”, era massimamente esemplificativa dell’assoluta prevaricazione della forma sulla sostanza che arrovellava le menti de “la squadra”. Di quella manifestazione, a parte la “popolazione” che conobbi, mi rimasero impresse in particolare due accadimenti. Innanzitutto, una sera andammo in un ristorante in cui si mangiava da dio e spero tanto di ritornarci quanto prima. Di poi, una mattina, nella più assoluta confusione
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di un salone gremito di persone, fui incaricata di consegnare le agenzie a Paccotto. Avevo delle scarpe altissime e lamentavo un mal di piedi terrificante. Paccotto se ne accorse e, nella folla, si posizionò proprio dietro di me. Cominciò a carezzarmi le spalle e mi invitò a riposarmi su di lui che mi stava proprio… dietro. Rimasi di ghiaccio e, lì per lì, non seppi che fare. Da una parte pensavo “boh”, dall’altra che occorresse tacere. Così io tacqui. Ma, col senno di poi, può essere che se mi fossi “riposata” il liquame di mesi di stage non mi sarebbero caduto addosso. I più avveduti si chiederanno, a ben ragione, le motivazioni per le quali la mia permanenza si sia spinta ad oltranza. Avrei dovuto, credo, mettere fine ad essa una volta accortami di tanti passaggi poco chiari (cioè, quasi dapprincipio). Innanzitutto perché, di solito, sono abbastanza recidiva e perseverante. Di poi perché c’è una misteriosa forza dentro di me che sempre mi incita a pensare, probabile causa la mia meridionalità, che “non è mai detta l’ultima parola…” (stronzate: quando l’antifona è sin troppo evidente, meglio alzare i tacchi). Ancora di poi perché sono ipocrita (ipocrita mea culpa); caratteristica, questa, che mi ha permesso di inghiottire alcuni rospi. Ma, specialmente perché, in fondo, non volevo sloggiare. Desideravo altresì, spesso e con ardore, che la “squadra” smobilitasse e, in segreto, giorno per giorno, “io” 24
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donna di sinistra, imparentata strettamente a gente di sinistra, asserragliata da amici di sinistra, cominciai a concentrarmi sulla reale possibilità che cadesse il Governo di sinistra. Nitidamente visualizzavo quando la squadra, sulla “via del non ritorno”, sfilasse per i corridoi del Palazzo. Trolley alla mano. Sono occorsi alcuni mesi di sopportazione, di quanto più nitide “visualizzazioni” della caduta che, com’è risaputo, caduta è stata. Così anch’io, anello irrilevante di una catena di variegata umanità, ho concorso, in grazia delle mie infinitesimali possibilità e in grazia dell’effusione nell’aere attorno a me di intimistiche “sprigionazioni” negative, al buffo crollo. D’altronde, le discese, le cadute e le risalite altro non conducono che alle solite quadriglie. E i “pancioni”, eccetto pochi, sono sempre narcisi assolutamente autoreferenziali e identici dietro un cambio di vessilli e di colori, in una girandola di mesi e di stagioni…
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Le “sprigionazioni” furono per me assai chiarificatrici. Finalmente iniziai a mettere in tasca gli spiccioli dell’ideale e a concludere, serenamente, che tutto fosse riconducibile alla pagnotta. La scuola di pensiero dei “pagnottisti”, infatti, cominciò ad aggradarmi parecchio e, in essa, riuscivo a riconoscermi al meglio. Presi atto che inducesse l’uomo alla serena liberazione da insegne surrogate e che, in fondo, avesse una matrice millenaria e universale. Il “pagnottismo” altro non era che la manifesta presa di coscienza di alcuni giochi mentali, cui partecipava gran parte degli uomini. I pagnottisti non erano dei semplici voltagabbana, ma seguaci di pulsioni personali tendenti, di continuo e fattivamente, alla salvaguardia del proprio istinto di autoconservazione. Insomma, ragionevoli edonisti dotati della piena facoltà di scegliere, in libertà, il meglio per sé, senza badare a insensate paturnie di natura ideologica e religiosa. Per esempio, tu che sei un ancora giovane “rifondatoreradicalesocialistacentristalleanzinochetenefrega”: di cosa vorresti occuparti nella vita? Sentiamo: vuoi diventare un famoso astronauta? Vuoi partire per una spedizione al Polo Nord? 26
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Ti interessano l’architettura, la stronzologia o la superchirurgia? Che ti piacerebbe diventare: un milionario? Un parrucchiere, un attore, un imbianchino, un clochard, un impiegato, un Premio Nobel o un calciatore? Oppure sogni, semplicemente (che è meglio), di raggiungere il nirvana tuo e basta, per toglierti quella maschera che non ti si addice appieno, redivivo fancazzista, libero da quei legacci verso abitudini e persone che ti stringono? Redivivo, che vuoi allora? Ci hai riflettuto? Spero di sì. Bene, se voti Pallino Pinco il Grande, prosciugatore di tasche e annebbiatore di menti, è possibile tu ottenga una di queste possibilità di vita lavorativa a scelta (all’erta: conviene individuarla opportunamente, che ti accompagnerà fin quasi gli ultimi tuoi giorni). Anche se, pubblicamente, dichiari di odiare Pallino Pinco il Grande (millantatore-autarchico), andrai a votarlo e, col più assoluto riserbo, non farai menzione dell’accaduto. Suvvia, non crearti tutte queste fisime! Da quanto ho appreso, ma è probabile che io cada in errore, siamo solo di passaggio ed incontriamo spesso intoppi. Godi pienamente del premio che hai ricevuto con la tua preferenza elettorale e non pensare all’ideale. Con l’ideale fatti un viaggio, ama quel che ti piace, percorri i sottoboschi della disperazione (che è dietro casa tua ma nessuno se ne cura) o adoperati nell’incanalarlo verso quella nobiltà d’animo che è in te. Ma non dar peso a tante sciocchezze. 27
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Ecco che la palla torna a me: si faccia avanti un buon offerente. Alla manifestazione di deus ex machina, andammo tutti assieme a cena. A presenziare anche un giornalista più o meno conosciuto. Tra sorrisetti e modi esasperatamente bon ton, Paccotto prese a tessere le lodi di una di noi tre stagiste, ragazza intelligente e capace, dalle gambe lunghe e snelle. Signori e signore: entra in scena Pupilla, uno dei personaggi più importanti della relazione. Colei che concorse involontariamente all’assoluta pandemia dell’ufficio, tramortendo Paccotto e atterrendo Pallina. Da quel momento, credo, ebbe inizio l’innamoramento di Paccotto per Pupilla. Liaison a quanto pare univoca. Tra le palline di pane, Paccotto andò in brodo di giuggiole. Le due di un pomeriggio come tanti: si parlava del meno e poco del più. Gli uomini della scorta, simpatici e dai modi gentili, vivacizzavano noiose faccette sabotanti. La palla infuocata passava di mano a ciascun commensale. E si volgeva ad un “gioco bambino” che toccava le corde stonate di ciascuno. L’odio serpentello camminava sulla tavolata, in nome di una
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convivenza coatta suggellata da “sentimenti” amichevoli. Trallalalallalalallallero. Amici. Da subito. Amici perpetuamente sull’attenti (homo homini lupus, non stupirti delle calamità mondiali se solo un banchetto può essere annientante!). Le fattezze botticelliane della commensale, erano esasperate dalla natura di complimenti mirati ad indicizzare, sottolineare. L’indomita stoltezza si ritagliava un pezzetto di mondo ed era morbosamente attenta e ruffiana. Orpelli, belletti. Visetti segaioli. Disinteresse. Disinteresse: quest’anno ho conosciuto molti politici (sottotitolo: buio oltre la siepe. Si odono voci lontane: natiche, prego!). Non ho approfondito rapporti di alcunché, ma li ho osservati ed ascoltati. Chissà se l’idea di adoperarsi nell’interesse di, che so, milioni di pecoroni, per un istante abbia fatto una passeggiatina per quelle teste? Forse che sì, forse che no, ma io credo che “NO”. NOcciolina, venerante, talvolta portava in tripudio la generosità del Senatore che dispensava da pagamenti onerosi i collaboratori, relativamente agli alberghi un po’ costosi, in cui era abitudine pernottare. Ma un dubbio si insinuava sovente dentro me e la mia mente raggiungeva spesso le tasche dei miei familiari, dei miei amici, dei miei conoscenti, della gente che incrocio per strada e di tutta l’umanità che popola questo strano paese e che io non conosco.
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Paccotto e Pupilla presero a darsi guerra con le palline di pane e il cervello delle leziosità cominciò ad ardere. In men che non si dica noi stagiste “in esubero” venimmo abbandonate ad una sorte miseranda; analogo destino incontrarono Pallina e Nocciolina. Pallina tolse tutti i propri effetti dalla stanza di Paccotto, oramai dedito solo ad erudire Pupilla. Pupilla andava alle conferenze stampa, Pupilla presenziava agli eventi più importanti. Pupilla accompagnava Paccotto ai programmi televisivi. Pupilla si occupava delle ricerche. Pupilla lanciava comunicati. Pupilla si dedicava, insomma, a tutto il da fare. Riflessione opportuna: è indispensabile che nel mondo del lavoro abbia la possibilità di primeggiare il migliore, colui che ha le cosiddette “carte in più”. Altrimenti, quando comincerà a cambiare questo nostro paese? E Pupilla, effettivamente, era sensata ed intelligente. Ma anche nei “mediamente capaci”, negli “uomini di buona volontà”, credo, ci siano delle possibilità da cui attingere. Delle possibilità da convogliare verso la resa più o meno ottimale di un qualsivoglia lavoro. Si fece avanti, invece, una morbosa accentrazione di compiti e mansioni.
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Nel frattempo, nell’“anticamera del potere” si prese a svenire e gli attacchi di ansia divennero i nuovi invitati della giostrina multicolore. Un giorno, io e Compagna stagista, “manovalanza in esubero”, pesantemente percorrevamo i corridoi del Palazzo. Beccammo Paccotto e Pupilla che scendevano per il pranzo. Paccotto fece finta di non vederci, pur passandoci di fianco. Pupilla abbassò il capo, imbarazzata credo da siffatta morbosità. Di lì a poco, pensammo di affrontare la questione “esclusione continuativa dal lavoro” con Paccotto. Fummo, difatti, ricevute da lui e gli chiedemmo le motivazioni della palese estromissione dal “gioco di squadra”. Preambolo necessario affrontato nel corso del “confronto”: l’importanza del garantire ai meritevoli la possibilità di farsi strada. Il concetto di “meritocrazia” venne sviscerato, dunque, in lungo e in largo. Da contraltare, rivendicammo il nostro sacrosanto diritto a non essere tagliate fuori. Paccotto sostenne che non eravamo destinatarie di discriminazioni di alcun tipo; invalidò le nostre pretenziosità sostenendo fossero generate da un sentimento di “gelosia” che provavamo per Pupilla. Non era la prima volta che “gelosia” svolazzava in Ufficio e nidificava in quelle stanze. Dopo il vis-àvis, i rapporti con Paccotto precipitarono e il trattamento riservato peggiorò di giorno in giorno. 31
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Eloquenti esclusioni, conferenze di cui non c’era dato sapere e estromissione dal “progetto di comunicazione”. Alla conferenza antecedente il Natale, trascorsi il tempo vacante in “anticamera del potere” a polemizzare e a rispondere al telefono. Mi si chiese solo di trasportare due piantine ed eseguii il compito. Pur non essendo invitata, presenziai ugualmente (Pupilla prendeva appunti in prima fila). Poco male, del resto il Leviatano stava per cadere (sottotitolo: ghigno sovrumano…). Qualche giorno e partecipammo a La Notte degli Oscar (Pallina ci aveva fatto presente dell’indispensabilità di trucco e parrucco ok…). I preparativi per la serata furono lunghi e meticolosi. “Atterrai” in villa affamatissima, ma le pietanze del buffet non soddisfarono appieno la mia ingordigia, ché tutti si erano razzolati tutto. A me e a Pupilla, appiedate, ci aveva offerto un passaggio Paccotto. Nell’abitacolo sprofondai nel mutismo più assoluto; osservavo lo scorrere delle straordinarie vestigia di un’eterna città. Pupilla giocherellava con lo stereo impazzito e cambiava velocemente stazioni radiofoniche. Paccotto, per scherzo, schiaffeggiava affettuosamente le manine vorticose. Al ricevimento natalizio, organizzato dal Senator Capretta, Paccotto e Pupilla facevano gli onori di “Casa Ufficio Stampa”. 32
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Anch’io portavo avanti le mie pubbliche relazioni, dimentica di trovare un nuovo passaggio per il ritorno. A un’ora dall’inizio de La Notte degli Oscar, in un parterre costituito da affabili, Pupilla e Paccotto mi raggiunsero. “Noi ce ne andiamo”, fece Paccotto brandendo Pupilla per un braccio. Dissi loro di non preoccuparsi per me e che sarei riuscita di certo a trovare qualcuno cui affidarmi. Alla fine della fiera, andai via con Pupilla che era riuscita a svincolarsi da Paccotto, e ci accompagnò gentilmente un cavalier servente.
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Il Governo era paurosamente in bilico. Il carrozzone andava fuori strada quando poi (…e porca miseria), riprendeva la carreggiata. Caduta imminente-calma apparente; calma apparente-caduta imminente. Discese precipitose e risalite. Insomma, rovinose oscillazioni per il mio umore. Ma quando ero, mio malgrado, riuscita a farmi una ragione dell’impossibilità de “la caduta” ecco che, zacchete, il Governo cadde. Niente più che un impercettibile venticello di strizza (prestamente levitarono gli stipendi degli stretti collaboratori) entrò nel Palazzo. Anche noi ci adoperammo per la campagna elettorale e, sinceramente, ci fu un bel da fare. Pupilla, intanto, aveva tolto le tende e litigato con Paccotto. Quest’ultimo, cascato dal pero e rimasto da salame, credo sofferse profondamente. Alle quattro di un bel pomeriggio, alzai la cornetta e comunicai a Paccotto la mia urgenza di andarmene prima; necessitavo di dettagliate informazioni dal vicino Palazzo della Misericordia. Menzogna: volevo andare all’outlet perché era troppa in me la voglia di evadere. In fondo, c’era chi non veniva più a lavorare. Chi si era trasferito altrove. Nella
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roccaforte in distruzione era in atto una miscellanea di ruoli e funzioni… Paccotto, con sarcasmo, prese a farmi tante domande, del tipo: “Ci devi andare per forza?”. E incalzava: “Non puoi rimandare il da fare a domani?”. Da parte mia, mi ero messa di cipiglio: non avrei mai rinunciato all’outlet. Anche perché mi era stato accreditato, dopo svariati mesi, lo stipendio “dell’onore e della gloria”. “Tu devi portare avanti una missione”, mi “rivelò” nel corso della discussione che cominciava a muovere lungo un binario grottesco. La lingua mi andò in gola e trasalii… Una missione?!? Sinceramente non ne ero a conoscenza. O almeno, mi era stata nascosta sino a quel momento. Provai un senso di straniamento. Era la prima missione della mia vita. Praticamente mi scopersi una “guerriera della luce” che, segregata sino ad allora per chissà quale ragione superiore, doveva scendere sul campo di battaglia. Ma un punto non m’era chiaro: la guerriera, cosa avrebbe ottenuto in cambio? Un contrattino? Una qualche possibilità futura? Forse del denaro? No, niente di tutto questo. Era la missione della gloria e dell’onore di altri, di estranei. Di benestanti oltre misura che fruivano (vi prego di non raccontare stronzate contrarie: risulterebbero troppo offensive) di privilegi inimmaginabili ai più. Se sul banco ci fosse stata anche una piccola
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offerta, forse, avrei pensato di prosciugare le mie forze. Ma sul banco c’erano solo: un senso di sconforto, il resto di niente. E me medesima, mercenaria senza portafoglio. Non vado fiera del mio populismo e non sono stata mai vittima di una “rotta” che io, liberamente, scelsi per me stessa e seguii. Anzi, non posso fare altro che ringraziare il “materiale umano” in cui mi sono imbattuta che ha rimesso in moto il mio ardore per la scrittura. Andai all’outlet, come da programma, e litigai con Paccotto. Este samba que e misto de maracatu… Preso atto della cattiva parata, mi premurai di inoltrare in ogni dove il mio C.V. Mi sincerai che anche il Cristo di Rio ne ricevesse una bozza (…e samba de preto velho, samba de preto tu…). Un colloquio che mi rimase impresso… si svolse “en plain air”. Rendez-vous: piazza del Frittomisto. Attesi per infiniti minuti Grazia ****. “Ella” si fece a me, senza scusarsi del ritardo. Mi venne naturale perdonare, con allegria, quella piccola inadempienza: avevo dinanzi una “creatura” sorniona, trasognata e, al tempo stesso, sinceramente “impegnata”. La storia e la critica del cinema l’appassionavano, credo più di ogni cosa al mondo. Difatti, circumnavigava la materia, indomita e sicura. Procedeva a piccoli passi. Pacata e fiera. Di tanto in tanto, aggiustavasi con la candida mano, il riccioletto ribelle che le 36
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scivolava dalla castana chioma, morbida e scomposta, sulla fronte bianca. Mi prese per mano (metaforicamente) e mi condusse nei meandri del cinema d’essai, quello che pochi hanno gli strumenti per fruire. I cineasti rumeni, ungheresi, cambogiani (ossia quelli in assoluto più misconosciuti) l’appassionavano. Riabilitava il cinema americano e bacchettava invece l’europeo (italiano e francese), sempre così autoreferenziale…. Ci sedemmo su una panchina di un parco assolato. Le consegnai il raccoglitore nel quale custodivo piccola parte delle mie pubblicazioni. Pedissequa lesse il tutto, sino all’ultima parola. Pareva saggiare ed interiorizzare ogni sillaba, ogni virgola, che riconduceva infine all’intera frase. Quindi rifletteva, indugiava poi e sorrideva piano. Beata. Chissà quali contenuti “altri” avevo affrontato: neanche lo ricordavo più. Mi fece notare un uomo che passeggiava. “Non credi somigli a Robert Redford? È così Ottanta…”, bisbigliò come per confidarmi un segreto di bambina. Ed io, ancora una volta, assecondai la sua esaltazione (…chissenefrega! Il tempo stringe e conviene arrivare al sodo: parliamo, invece, di euro. Quanto al mese?). “Sei coperta per tre mesi?”, mi chiese. “Senza stipendio per tre mesi?”, risposi con fare tutt’a un tratto disincantato. “Bisogna attendere i finanziamenti… per l’ufficio stampa”, mi fece 37
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flautata. “Ma quando arrivano?”, profferii carica di meraviglia. “Non so quando. Dovrebbero arrivare”. L’offerta consisteva, dunque, nell’impiegarmi “chez Grazia”, full time, in attesa di utopici finanziamenti… Prima di metterle quel flauto che “l’appassionata di cinema” aveva in bocca dolorosamente altrove, presi rapida la borsetta e la liquidai con freddezza. Avevo perso il pomeriggio, invano. Altro colloquio… Fui contattata da un produttore che necessitava di un addetto stampa. Mi fece fissare un appuntamento dall’assistente statunitense Sharon. Anche il produttore non era italiano (il che, in ambito lavorativo, non è sottovalutabile); dettaglio che mi fece parecchio contenta. Giunsi puntualissima all’appuntamento e Sharon mi accolse, ilare. Mi portò in perlustrazione di ogni angolo della struttura, su due livelli, in cui operava la società. Mi mostrò finanche il sottoscala e indugiò nei due cessi. Dopo un capziosissimo “giro turistico”, mi accomodai nell’ufficio ove avrebbe dovuto svolgersi il colloquio. Sharon era terribilmente logorroica, e credo naturalmente tendente a “sviscerare” ogni infinitesimale spunto argomentativo le passasse per la testa. Ma mi era simpatica perché adoro gli animi barocchi e strimpellati. Non facevo neanche in tempo a dire “a” che Sharon, repentina, riprendeva con foga il comando 38
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delle parole. Dal raccoglitore che le consegnai, come d’accordo, faceva cadere a terra tutte le pagine catalogate all’interno, con pazienza certosina e seguendo un ordine cronologico. Finalmente arrivò il produttore che, con un largo sorriso, si sistemò dietro la scrivania. Sharon, al mio fianco, mi invitava invece a parlare degli studi e delle esperienze lavorative pregresse. Quando la raggiunse una telefonata e si allontanò, incitandomi a continuare a conferire. Così, “ebbe cominciamento” il mio soliloquio. Il produttore, con la testa sprofondata nel PC, credo non ascoltasse nulla di quanto dicessi. Sharon, invece, gridava al telefono e, ogni tanto, rientrava in stanza al fine di incoraggiarmi. “Sei grintosa?”, mi chiedeva. “È vero che sei grintosa? Lo so che sei molto grintosa e tenace! E allora, grinta!”. “Si, sono grintosa”, le rispondevo convinta. Dopo lo sprone, tornava alla telefonata. D’un tratto, il produttore, premurandosi che Sharon non udisse, con sguardo sorridente e complice mi fece dissacrante: “È pazza, vero? Dai, non la trovi pazza?”. Che avrei dovuto rispondere? (…concordo, è una pazza scatenata!) Così, reagii alle sue sollecitazioni assai evasivamente. “Ma no… Non è pazza…”. Di poi, ripresi le fila del soliloquio. Desideravo approfondire la materia della mia eventuale mansione lavorativa ma il produttore, immerso nel PC, non esautorava appieno le mie richieste di chiarimento. All’ennesimo “Grinta!” di Sharon, timidamente 39
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risposi: “Forse non sono poi così tanto grintosa…”. Credo arrecai loro un singolare tuffo al cuore; mi osservarono con tenerezza e mi sorrisero gentili. Così, poco dopo, raccattai le mie cose che erano alla rinfusa, un po’ sulla scrivania, un po’cadute a terra. Il produttore mi accompagnò all’uscita e mi fece l’occhiolino. Questo, per esempio, non fu tempo speso invano, perché mi feci delle grasse risate… Era un periodo congiunturale e assai delicato. La “squadra” si stringeva attorno al Senatore che, in quel momento necessitava di vicinanza ideologica (?), affetto e in generale manifestazioni di solidarietà da parte della cricca tutta. Per ovvie ragioni, risiedeva nello strettissimo interesse della cricca stessa che le elezioni fossero vittoriose o, quanto meno, che il riscontro politico a venire fosse apprezzabile. Così, quella sera, gli garantimmo il nostro sostegno a Ecce Bombo, nazionalpopolare programma politico e di attualità. Mi sistemai alle “Sue” spalle, di fianco a due altre dela “cricca”. La tensione si tagliava col coltello e l’acerrimo nemico Leprino, che con sufficienza continuamente l’aizzava, ce l’aveva proprio di rimpetto. Nelle pause, era incitato dagli accoliti a mantenere la calma e a cercare di sdrammatizzare i ripetuti attacchi di Caron dimonio con occhi di 40
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bragia…. Ad essere sincera, il mio studio dell’avversario era abbastanza limitato e le sue scialbe vicissitudini politiche non erano propriamente il mio pane quotidiano. Ma sul suo conto ero assolutamente certa di un dettaglio non irrilevante: che, in un panorama assai grigio, fosse un politico assai affascinante. La mia tesi era avallata ampiamente dalle vicine di posto che, come me, gli volgevano sguardi apprezzanti. Leprino, il furbacchione, lesse con facilità le nostre civetterie e, pur continuando a dibattere con veemenza e, pur sputando rospetti da maschie labbrucce, incrociava i nostri sguardi attoniti con occhiatine ammiccanti. Infieriva sul poveraccio e di poi ci sorrideva, non più adirato ma garbato e gentile. Deliziate dalla considerazione riservataci, ci strattonavamo con aria complice e ricambiavamo, con larghi sorrisi, i suoi galanti incroci. Al termine del programma, il Senatore ricevette i dovuti complimenti: era stato bravo, si era fatto valere e aveva messo a tacere il “vile (…virile) Caron”, ben bene… Paccotto, adirato, s’era legato al dito il “disobbedisco”. Oziando passeggiavo per l’“anticamera del potere” quando, sprezzante, mi fece cenno d’entrare in camera sua. Mi adagiai, in principio indifferente, su una poltrona della garçonnierre, in attesa della crocifissione riferita alla mia 41
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mancata immolazione di quel pomeriggio. E infatti, come era prevedibile, poco dopo aprì le danze al solitario latrato. In quel periodo caldeggiavo solo una piccola ambizione personale: starmene buonina e tranquilla, nella serena attesa dell’immediata dipartita di Paccotto e discepoli. Però, ero talmente pungolata dai ripetuti attacchi, che non potei fare a meno d’aprire, ancora una volta, l’annoso capitolo “esclusione continuativa dal lavoro”. Da corollario, m’ero pure assai stancata di essere incoraggiata con espressioni del tipo “ottimo lavoro” e “molto bene”, quando imbustavo lettere, trascrivevo indirizzi o stampavo miriadi di pagine che finivano sulla vacuità di una scrivania. Capii in seguito che l’efferato dibattito era occorso quanto meno a motivare il clima di “guerra fredda” dell’Ufficio. E non era quello l’unico alterco sorto, in quei mesi, tra me e Paccotto. Una volta, dissertammo alacremente su: la valenza dell’abbraccio nella società di oggi. Nel salutarmi, a sera, bonario recriminava sovente la mia “freddezza”, risultanza a suo dire della turpedine dei tempi moderni, ove i rapporti umani non facevano altro che intiepidirsi, e l’abbraccio era da considerarsi solo un’inusitata esternazione. Aveva ragione, senza ombra di dubbio. Da contraltare sostenevo una “tesi altra”, ossia: se l’abbraccio stesso non fosse generato da un intimo trasporto, era cosa assai
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assurda snaturare un’esternazione bella e viscerale per assunto. Credo che entrambi cogliemmo la rispettiva antifona…. Scivolai dalla stanza con le alucce abbassate dalla mia vacuità. Le mie ataviche manfrine relative alla necessità di meritocrazia, all’urgenza di sfondare porte chiuse, alla necessità di elargire mere “possibilità” erano lontane, e non m’appartenevano più. Avevo colto un’opportunità incontrata per strada, non garantista d’alcunché; nel microcosmo in cui ero per caso capitata, invece, occorrevano spalle forti e potenti. Io ero solo lo spiffero dalla finestra, subentrato chissà come. Meditai, e per giorni, anche intorno all’evenienza di rafforzare la mia esile posizione. Poteva, infatti, succedere che io mi imbattessi in chi di dovere; che entrassi, che so, in una qualsiasi corte e cominciassi finalmente a lavorare. Ma, in fondo, non ero convinta appieno dell’improbabile proposito. Faticavo, infatti, ad intravedere il significato “primo e ultimo” dell’eventuale causa che avrei dovuto sposare. In cosa, essa, consisteva? Come era concepibile pensare di legarsi a un’associazione di uomini, d’aria e carne come tutti, edificata sull’imponderabile? Il microcosmo era assai aereo per essere ricondotto ad una solida e salvifica
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matrice, salvo che la matrice stessa risiedesse nel lauto tornaconto personale (il che non è negativo). L’ultima volta, alle urne, ho avuto delle serie difficoltà: venti minuti sono occorsi a direzionare la mia “croce”, che poi è finita su un horror vacui casuale.
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Continuavo a pascere nel mondicciolo e, giorno dopo giorno, m’allontanavo con la testa alla ricerca dei significati della causa (di cui sopra). Quando, un bel pomeriggio, “sfogliando” internet, m’imbattei nelle immagini di un nonnetto vituperato, offeso, messo alla pubblica gogna e, forsanche, sputato in pieno volto dai suoi alleati. Mi scosse parecchio la foga riversata verso quell’uomo sofferente; ne ebbi tanta compassione. Di lì a poco appresi che non era un nonnetto come tanti, ma niente meno che il redivivo salvatore del nostro regno in terra. Una specie di martire che aveva avuto la forza di inimicarsi i suoi simili, pur di preservare quegli ideali che sempre l’avevano contraddistinto. Una specie di fiera, accerchiata da un branco crudele, che solinga e imperterrita continuava a ruggire pur di non veder fritte le aspettative di milioni di pecoroni, me compresa. Da subito m’appassionai al personaggio: anch’io avrei voluto, un giorno, emulare il suo coraggio. Molti, credo, apprezzarono la rilevanza storica del gesto; tant’è che, dall’Ufficio, si levò un telegramma volto a tesserne le lodi.
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Nella stessa giornata m’imbattei in un animo sprezzante e crudele che mi disse: “Nonnetto-Cuordi-Leone ha barattato il suo dissenso con un posto di lavoro per un conoscente che gli è assai caro”. Che ingiuria deplorevole e vergognosa! Giammai gli crederò… Proprio come in un film americano: quel giorno Paccotto, Nocciolina e Pallina raccattarono tutti i propri effetti personali e li riposero in capienti scatoloni. In “anticamera del potere” un’annoiata adunanza dava l’arrivederci a Paccotto. “Ringrazio tutti voi” – esordì il leone oramai vecchio e stanco – “per la preziosa collaborazione”. “Vi ringrazio perché avete supportato, fedelissimi, questa straordinaria avventura. Se rientrasse nelle mie possibilità, vi porterei tutti con me”. Ringraziò pure me, “collaboratrice efficiente” e, in quella particolare contingenza, “commossa”. In effetti quella mattina ero andata a lavorare con due occhi gonfi, piagnoni ed irritatissimi. Però, per ragioni squisitamente professionali, mi riservo dall’annotare cosa me li avesse ridotti così la notte trascorsa…. Alle raccomandazioni di comportarci bene con il nostro nuovo capo, finalmente successe “Vacanza”. E i trolley degli amici degli amici del Senator Capretta se ne andarono per sempre.
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Finalmente la virata a destra ed io non mi sentivo affatto scontenta. Mi entusiasmava parecchio sposare una nuova causa, seguire altri vessilli e sentirmi di nuovo suddita. È vero: mi trovavo di nuovo in compagnia di altri porci-fascisti-figli-di-troia ma, sin da principio, non ebbi alcuna reticenza nel condividere pienamente – ne fui anzi esultante – i precetti del nuovo credo. Giunse così anche il dottor Cavallo, il mio nuovo capo, che era rigoroso e professionale. A volte amabilissimo; nei “momenti equini”, invece, massimamente irascibile. Ma-manteneva-la-giusta-distanza e questo mi stava bene; tant’è che ricominciai a sentirmi energica, volitiva e produttiva. “Sono molto rammaricato che la sinistra non abbia rappresentanza alcuna” – fece il nuovo capo un giorno che ospitò noi superstiti dell’Ufficio nella sua stanza. “Si, perché la sinistra rappresenta quantunque la memoria storica del Paese ed è imprescindibile dalla nostra identità nazionale, pur essendo io lontanissimo da certe posizioni…”. Mi parve una riflessione intelligente. “Ma il Senator Capretta” – continuò – “è proprio fuori dalla grazia di dio perché continua a dire delle cose che non stanno né in cielo, né in terra. È un televisivo, un affabulatore delle folle ignoranti, uno che ama farsi pubblicità e come se non bastasse è anche inviso ai suoi”. Grande discorso: concordai pienamente. In fondo, avrei assentito su qualsiasi cosa: 47
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sulla corruttibilità del Senator Capretta, sulla millanteria di Nonnetto Cuor di Leone, sulla civetteria di Pompetta, sulla bieca accentrazione di Calzetta. Avrei concordato, tranquillamente, anche sulla lestofanza di Leprino… Se avesse, però, messo in dubbio quella possenza di cui madre natura l’aveva dotato credo che no, non ce l’avrei proprio fatta. Me ne sarei andata indignata… Purtroppo, non posso esimermi dal citare, agli sgoccioli della relazione, lo strettissimo collaboratore del capo “Mèlo”, mio coetaneo. Potevo anche rispiarmarlo ma, giacché entrava in anticamera del potere ove per lavori in corso eravamo “parcheggiate” temporaneamente io e la scrivania, non ricambiando il buongiorno. Giacché quando rispondevo alle sue telefonate agganciava la cornetta senza dire ciao. Giacché non riservava a tutti quell’atteggiamento fuori luogo. Giacché, quelle volte in cui mi ero allontanata dalla postazione per andare al cesso, si era appropriato della mia scrivania comportandosi come se nulla fosse e, al mio ritorno, continuava i suoi comodi senza neanche un graziescusa-perdonamimialzo… Giacché per quei modi di fare spropositati non riuscivo a digerire la sua presenza e, specialmente, giacché in questo momento sono padrona solo della scrittura, io posso solennemente consacrarlo “vero e proprio pezzo di
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merda”. E altresì “pallone gonfiato strizzato nelle vesti di mio nonno”… “Arrivederci! Signorina, arrivederci!”, mi intimò il capo incazzato. Ebbi difficoltà a mettere a fuoco che dovevo, repentina, alzare il culo dalla sedia e sloggiare in brevissimo tempo. Ma come? Un minuto prima era l’essere più pacioso del mondo; un minuto dopo si era volto a me con aria da cagnaccio. Pertanto mi sollevai ma con mollezza estrema. Non aveva gradito, desunsi, dei passaggi della mia intervista e m’invitava a lasciare la stanza. Invece che in altre circostanze, me ne tornai con allegria alla scrivania. Pensai, infatti, che talvolta occorresse solo far sbollire. Qualche tempo e cominciarono a giungere pure le rogne dal basso perché i “buoni”, quelli che da sempre c’erano e ad oggi permangono, sul finire presero a fare i cattivi. Gira e che ti rigira io non potevo più “pescare” neanche un’agenzia. Era terminato l’anno di stage e, in un’ancora assolata giornata di ottobre, si insediò in “anticamera del potere” un ennesimo “parente” del Palazzo. Apprezzato sin da subito, venne inserito senza eccessive pretese nella “pesca delle agenzie”. Rientrava nella natura del sistema che, in maniera collaterale, cominciava ad espellere.
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Fine della fiera: il mio contributo non aveva più senso e professionalmente non esistevo già più. Dunque, l’anno è scivolato in parte lento, in buona parte veloce e le aspettative via con lui. Che ne sarà di loro? Io… non riesco proprio ad immaginare. So soltanto che si è chiuso un periodo.
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