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TEME - TECNICA E METODOLOGIA ECONOMALE
BIMESTRALE DI TECNICA ED ECONOMIA SANITARIA
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La garanzia delle certificazioni ambientali, il valore della conformità ai CAM
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D.L. 44/2021 – INTERVENTI URGENTI PER IL CONTRASTO ALLA PANDEMIA DA SARSCOV-2. LA PRIVACY NON FERMA L’OBBLIGO VACCINALE DEGLI OPERATORI SANITARI ANGELO ALIQUÒ
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ISSN 1723-9338
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UNA NUOVA VISIONE
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Un confronto serrato tra buyer della sanità, università, politica, giuristi ed imprese per comprendere se stiamo preparando una rivoluzione del settore o se stiamo vivendo solo l’ennesima breve parentesi
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sommario maggio-giugno 2021
editoriale
3 Il tempo del nuovo inizio
articoli privacy e vaccini 4 D.L. 44/2021 – Interventi Urgenti per il contrasto alla pandemia da SARS-CoV-2. La privacy non ferma l’obbligo vaccinale degli operatori sanitari
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vaccinazioni e rischi per i somministratori 8 Lo scudo penale dei sanitari e l’idea distorta di un “privilegio”
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gestione 10 Strumenti per un cambiamento culturale di strategia di governo delle Aziende Sanitarie per la realizzazione del processo di affidabilità delle cure irregolarità fiscali causa di esclusione dalle gare 16 Sulla rilevanza delle irregolarità fiscali non definitamente accertate ai fini della partecipazione alle gare pubbliche la classificazione anatomica terapeutica chimica (ATC) 21 La classificazione dell’ATC nella definizione del lotto dei farmaci biologici a brevetto non scaduto. Un progetto multistakeholder
21
normazione 28 Nomina ed insediamento del commissario ad acta: conseguenze per la P.A normazione 32 Emergenza Covid: la indisponibilità alla stipulazione del contratto da parte dell’aggiudicatario a causa di sopravvenienze legate alla pandemia, non premia
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normazione 37 Responsabilità della pubblica amministrazione: i tempi non sono ancora maturi per invertire la rotta risk management 41 Il Risk Management nelle concessioni di lavori e servizi
gli esperti rispondono
46 RUP e verifica di anomalia dell’offerta 48 focus
Le foto all’interno sono di Valentina Quarta Valentina Quarta vive a Roma e lavora come grafica da più di vent’anni e come fotografa da quasi cinque anni. Le foto di questo numero raccontano la sua città natale, Lecce, immortalata con la luce estiva dell’alba, quando il sole che illumina i palazzi in pietra leccese li rende dorati.”
Tecnica e metodologia economale Bimestrale di tecnica ed economia sanitaria fondato nel 1962 per l’aggiornamento professionale degli economi e provveditori della Sanità. ISSN 1723-9338 Organo ufficiale della FARE Federazione delle Associazioni Regionali Economi e Provveditori della Sanità
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editoriale Raffaele Petrosino - Presidente Acep
Nuove visioni per immaginare un futuro diverso
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a pandemia ha fatto drammaticamente irruzione nelle nostre vite, portando con sé una crisi sanitaria e una crisi economica mondiale che ha messo a dura prova anche i sistemi socio-economici dei Paesi più solidi: si è dovuto far ricorso a misure straordinarie ed eccezionali che hanno penalizzato pesantemente famiglie, imprese e territori. Il nostro SSN è stato sotto attacco per mesi, ma nonostante le difficoltà è stato capace di reggere all’urto: mesi durissimi durante i quali è svettata prepotentemente l’eccellenza delle prime linee, quel personale sanitario che ha pochi eguali nel resto del mondo per professionalità e abnegazione. Quanto agli acquisti di beni e servizi, la Corte dei Conti (Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica) ha evidenziato che nell’anno 2020 sono aumentati di oltre il 10,4% (a fronte di un incremento registrato nel 2019 pari all’1,2%) raggiungendo i 35,7 Mld di euro. L’incremento della spesa dà un’idea di quale sia stata la spinta assorbita dai servizi di Provveditorato, Ingegneria Clinica e Uffici Tecnici di AA.SS.LL. e AA.OO, soprattutto nella prima fase acuta della pandemia allorquando, con unità di Pronto Soccorso affollate all’inverosimile, c’è stata una corsa contro il tempo per adeguare tempestivamente il numero dei posti letto di terapia intensiva e sub intensiva. E vogliamo parlare delle mille difficoltà tra cui si sono dovuti districare gli uffici di Provveditorato/Economato per assicurare al personale sanitario la fornitura dei DPI in un momento in cui il mercato non era pronto a far fronte ad una così imponente domanda? Sui fenomeni di bieca speculazione che ne sono conseguiti è meglio calare un drappo funereo. Se il sistema non ha collassato è perché le prime linee e la logistica hanno tenuto la posizione, nonostante un piano pandemico nazionale che, per quanto datato, ha continuato ad essere custodito nella naftalina e nonostante il deficit di risorse umane e strumentali generato da anni di tagli alla spesa pubblica. E’ giunto, anche grazie ai vaccini, il tempo del nuovo inizio, ma non quello dell’oblio: è il tempo di verificare se il nostro Paese sia in grado di realizzare il suo new deal facendo tesoro delle “lessons learned” che questa pandemia ci ha consegnate. La Missione 6 del PNRR rappresenta un’opportunità per il SSN e un impegnativo banco di prova per l’intero sistema degli acquisti: confidiamo che l’attuazione sia accompagnata da una non più rimandabile implementazione del personale delle stazioni appaltanti, considerando che il blocco del turnover, che ha caratterizzato l’ultimo decennio, ha ridotto in maniera significativa il numero dei dipendenti pubblici, così generando “un crescente disallineamento tra l’insieme delle competenze disponibili e quelle richieste dal nuovo modello economico e produttivo”. Infine, l’augurio per il Paese è che prevalga la “spesa buona”, sperando che tra qualche anno non si debba disquisire su un’altra occasione mancata.
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privacy e vaccini Roberta Taurino - Direttore Amministrativo Territoriale Asl Roma 2 Mario Mazzeo - Responsabile Protezione Dati Asl Roma 2
D.L. 44/2021 – Interventi Urgenti per il contrasto alla pandemia da SARSCoV-2. La privacy non ferma l’obbligo vaccinale degli operatori sanitari
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art. 4 del D.L. 44/2021 – in vigore dal 01.04.2021 – rubricato “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SARSCoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” al comma 3 stabilisce fra l’altro che “Entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto…i datori di lavoro degli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie, socio-assistenziali, pubbliche o private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali trasmettono l’elenco dei propri dipendenti con tale qualifica, con l’indicazione del luogo di rispettiva residenza, alla Regione o alla Provincia autonoma nel cui territorio operano.”. Il successivo comma 4, a sua volta, dispone che “Entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi di cui al comma 3, le Regioni e le Province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificano lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi. Quando dai sistemi informativi vaccinali … non risulta l’effettuazione della vaccinazione anti SARSCoV-2 o la presentazione della richiesta di vaccinazione nelle modalità stabilite nell’ambito della campagna vaccinale in atto, la regione o la provincia autonoma, nel rispetto delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali, segnala immediatamente all’azienda sanitaria locale di residenza
i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati.”. Ai sensi del comma 5 “Ricevuta la segnalazione di cui al comma 4, l’azienda sanitaria locale di residenza invita l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione, l’omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1. In caso di mancata presentazione della documentazione di cui al primo periodo, l’azienda sanitaria locale, successivamente alla scadenza del predetto termine di cinque giorni, senza ritardo, invita formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1. In caso di presentazione di documentazione attestante la richiesta di vaccinazione, l’azienda sanitaria locale invita l’interessato a trasmettere immediatamente e comunque non oltre tre giorni dalla somministrazione, la certificazione attestante l’adempimento all’obbligo vaccinale.”. Da ultimo, ai sensi del comma 6, “Decorsi i termini di cui al comma 5, l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine pro-
L’esercizio del diritto di opposizione al trattamento vaccinale di cui all’art. 21 risulta inapplicabile, eccetto che nella dimostrazione di motivi cogenti, come non può che essere in costanza di un obbligo di legge – cogente e formalmente legittimo – quale quello portato dall’art. 4 del D.L. 44
privacy e vaccini fessionale di appartenenza...”. Laddove permanesse l’ingiustificato rifiuto degli operatori a sottoporsi a vaccinazione, scatterebbe “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2” con la conseguenza che il datore di lavoro pubblico o privato sarebbe a quel punto tenuto ad adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle appena indicate “con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio”. Quando poi questa diversa assegnazione non risultasse possibile, il dipendente dovrebbe essere sospeso dal lavoro “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021” senza “retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato”. In questo contesto, come era facile immaginarsi, stanno pervenendo ai datori di lavoro e alle aziende sanitarie locali numerose diffide, variamente argomentate, aventi principalmente come scopo quello di impedire proprio le comunicazioni di dati personali degli operatori sanitari così come previste dall’art. 4 del Decreto. In molti casi, le missive insistono sulla illegittimità dei trattamenti di dati previsti dalla norma in questione per contrarietà alla vigente disciplina in materia di privacy e chiedono l’intervento dei singoli Responsabili Protezione Dati (i c.d. “DPO”) e dell’Autorità Garante per la protezione dati personali cui vengono inviate in copia allo scopo di porre nel nulla la previsione normativa sotto comminatoria di denunce e richieste di risarcimento danni. Ferme ovviamente le valutazioni che le Autorità competenti vorranno fare, sussistono non pochi dubbi circa la fondatezza delle obiezioni in tal senso formulate. Al fine di meglio comprendere la portata del problema, occorre anzitutto rammentare come, ai sensi dell’art. 6 par. 1 del Regolamento 2016/679/UE (il c.d. “GDPR”), qualsiasi trattamento di dati personali “…è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: …c) il trattamento è necessario per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento; …e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso
all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento…”. Con riferimento, invece, alle cosiddette categorie particolari di dati personali – fra i quali rientrano espressamente i dati relativi alla salute degli individui – ai sensi dell’art. 9 del GDPR, il trattamento è ammissibile se “…g) …è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri…i) … è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero… sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri…”. Vero è che le medesime norme da ultimo citate prevedono anche il “consenso” dell’interessato come possibile legittimante rispetto al trattamento di dati personali1 e appartenenti a categorie particolari2, ma, per l’appunto, questa non è e non può essere considerata l’unica previsione operante rispetto a qualsivoglia trattamento di dati personali. Anzi, l’espressione del consenso, che per sua natura, al fine di essere considerato valido, richiede sempre di essere “informato”, “specifico”, ma soprattutto “libero”, nell’attuale impianto normativo posto a tutela dei dati personali e della riservatezza delle persone fisiche, è sempre meno da considerarsi quale “conditio sine qua non” per l’effettuazione di un trattamento3. Inutile dire che in presenza di un obbligo normativo non avrebbe senso parlare di consenso libero giacché tale non potrebbe considerarsi neppure quello eventualmente espresso da chi, a differenza degli autori delle diffide, scientemente volesse sottoporsi al vaccino. Piuttosto, occorre verificare il ricorrere di legittimanti diverse da invocare caso per caso. In tal senso, con riferimento all’obbligo di comunicazione di dati personali “comuni” di cui al comma 3 dell’art. 4 del D.L. 444 non v’è dubbio che sussista la piena legittimante in capo ad ogni datore di lavoro pubblico o privato operante nel settore delle strutture sanitarie, sociosanitarie, socio-assistenziali, pubbliche o private, farmacie, parafarmacie e studi professionali di comunicare, nei termini e ai destinatari indicati nella citata norma, l’elenco dei propri operatori di interesse sanitario, giusto disposto dell’art. 6 par. 1 lett. c) del GDPR. Non ci troviamo nel caso, infatti, dinanzi ad alcun trattamento di categorie particolari di dati e la comunicazione avviene sulla base di un preciso obbligo di legge che sussiste fin tanto che vige il Decreto Legge
1 Art. 6 par. 1 lett. a GDPR. 2 Art. 9 par. 2 lett. a GDPR. 3 Sul punto paradigmatico appare il Provvedimento del 7 marzo 2019 “Chiarimenti sull’applicazione della disciplina per il trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario” dell’Autorità Garante per la protezione dati personali nel quale si è definitivamente riconosciuta la non necessità del consenso al trattamento delle categorie particolari di dati personali laddove questo si svolga per finalità di diagnosi e cura ad opera (o sotto la responsabilità di) un professionista sanitario soggetto al segreto professionale o di altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza. 4 L’elenco degli iscritti agli Ordini professionali, quello dei dipendenti delle strutture in questione, la qualifica e l’indicazione del luogo di rispettiva residenza.
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privacy e vaccini 44 e continuerà a sussistere anche laddove questo, nei termini previsti, venga poi convertito definitivamente in legge5. Con riferimento alla comunicazione all’interessato di cui al comma 5 dell’art. 4 del D.L. 44, parimenti, non v’è dubbio che sussista, oltre a quella appena citata, anche la legittimante di cui all’art. 6 par. 1 lett. e) – limitatamente alle attività svolte dalle aziende sanitarie locali competenti per la residenza degli interessati – nonché quelle di cui all’art. 9 par. 2 lett. g)6 e i) del GDPR. A questo punto, infatti, parleremmo delle liste di soggetti “non ancora vaccinati” e, di conseguenza, di persone fisiche connotate da un attributo che ne rivela uno stato di salute informazione quest’ultima che richiede, oltre alla verifica di compatibilità con l’art. 6 del GDPR, anche quella con l’art. 9. Anche in questo caso, comunque, l’esistenza dell’obbligo di legge e, come si diceva, limitatamente alle AA.SS.LL. territorialmente competenti con riferimento alla residenza degli interessati, la necessità di dar esecuzione ai compiti di interesse pubblico di cui queste ultime sono investite, fonderebbero con pienezza la legittimità dei trattamenti in questione. Con riferimento, infine, alla comunicazione da parte delle aziende sanitarie locali all’interessato,
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al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza di cui al comma 6 dell’art. 4 del D.L. 44, ancora una volta, le stesse risultano legittimate dall’art. 6 par. 1 lett. c) ed e) e dall’art. 9 par. 2 lett. g) e i) del GDPR per le medesime considerazioni già svolte. Fermo quanto precede, esaminato il testo delle citate diffide, occorre anche precisare che nessun pregio può essere nel merito conferito al riferimento al D.Lgs. 51/2018 come attuativo della Direttiva 680/2016/UE contenuto in alcune di esse a sostegno della presunta illegittimità dei trattamenti in questione. Questa normativa, infatti, a differenza del Regolamento 2016/679/UE “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)” che è pienamente applicabile alla fattispecie in questione, si riferisce solamente, come peraltro indicato nella stessa rubrica della Direttiva, al “trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati”. La Direttiva e il Decreto Legislativo che la attuano7,
5 Laddove invece la conversione non avvenisse, le norme in questione, come noto, perderebbero ogni efficacia ex tunc. 6 Da ricordare, con riferimento alla legittimante di cui all’art. 9 par. 2 lett. g) del GDPR che la stessa risulta pienamente compatibile anche con il dettato dell’art. 2-sexies lett. t), u) e v) del D.Lgs. 196/2003 come adeguato dal D.Lgs. 101/2018. 7 Del resto, anche ai sensi dell’art. 1 comma 2 del D.Lgs. 51/2018 “Il presente decreto si applica al trattamento interamente o parzialmente automatizzato di dati personali delle persone fisiche e al trattamento non automatizzato di dati personali delle persone fisiche contenuti in un archivio o ad esso destinati, svolti dalle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati, o esecuzione di sanzioni penali, incluse la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica.”.
privacy e vaccini in sintesi, sono destinate a regolamentare le attività di trattamento dati svolte dalle competenti autorità nel settore penale, non altro. Nessuna delle disposizioni provenienti da tale fonte risulta pertanto applicabile al caso di specie. Parimenti da disattendere è la richiesta, formulata da alcuni operatori, di procedere alla cancellazione dei propri dati personali trattati nell’ambito della procedura vaccinale giacché, ai sensi del par. 3 dell’art. 17 del GDPR, tale diritto non si applica nella misura in cui un trattamento sia necessario “…b) per l’adempimento di un obbligo giuridico che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;”, nonché, con riferimento ancora una volta all’attività demandata alle AA.SS.LL. “c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e dell’articolo 9, paragrafo 3…”. Stesso dicasi per l’esercizio del diritto di opposizione al trattamento di cui all’art. 21 che risulta inapplicabile allorché, come nel caso in questione, il titolare del trattamento “…dimostri l’esistenza di motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento che prevalgono sugli interessi, sui diritti e sulle libertà dell’interessato…” come non può che essere in costanza di un obbligo di legge – cogente e formalmente legittimo – quale quello portato dall’art. 4 del D.L. 44. Con detta norma, infatti, come nota il prevalente orientamento dottrinario in argomento, il Governo, in evidente situazione di necessità, si è determinato a dare attuazione d’urgenza alla riserva di legge prevista dall’articolo 32 della Costituzione («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»), secondo una ratio ben spiegata, da ultimo, anche nella nota sentenza 5/2018 della Corte Costituzionale. Secondo il Giudice delle leggi, infatti, “Il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica, deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. Tale principio vale non solo per le scelte dirette a limitare o vietare determinate terapie o trattamenti sanitari, ma anche per l’imposizione di altre. Se è vero che il confine tra le terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia, a maggior ragione, e anche per ragioni di eguaglianza, deve essere riservato allo Stato - ai sensi
dell’art. 117, terzo comma, Cost. - il compito di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario, sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili.” (conformi sul punto anche le sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002). Nel tempo, la Consulta ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario – quale oggi l’articolo 4 del n. 44/2021– non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione, che postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività (cfr. sentenza n. 268/2017): se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (nello stesso senso le sentenze n. 258/1994 e n. 307/1990). Fermo tutto quanto precede, si ritiene che i trattamenti de quibus svolti alla luce del quadro normativo attualmente vigente, possano ritenersi assolutamente compatibili con i principi sanciti dal Regolamento 2016/679/UE e dal D.Lgs. 196/2003 come adeguato dal D.Lgs. 101/2018 sempre che, ovviamente, si garantisca da parte dei soggetti attuatori l’esecuzione di quanto stabilito dall’art. 4 del D.L. 44/2021 in stretta osservanza dei principi di cui all’art. 5 del GDPR e, dunque, prevedendo che ogni comunicazione di dati avvenga, in modalità sicura, negli stretti limiti di contenuto e di destinatari ivi disciplinati e con la garanzia di una corretta informazione degli interessati. A quest’ultimo proposito, attesa la vastissima mole di soggetti coinvolti e dunque la materiale impossibilità di provvedere a fornire direttamente a tutti le informazioni prescritte dagli artt. 13 e 14 del GDPR, potrà risultare opportuno pubblicare nella Intranet e nella sezione privacy del sito web istituzionale/aziendale il testo completo delle informazioni necessarie a rendere edotti gli interessati sui dettagli del trattamento. Spetterà, infine, al Titolare del trattamento (azienda o pubblica amministrazione), anche attraverso il Responsabile Protezione Dati (c.d. “DPO”) laddove nominato, riscontrare comunque tutte le missive ricevute in questi giorni dagli interessati per chiarire gli elementi che depongono per la liceità dei trattamenti in questione e per rispondere a qualsiasi esercizio dei diritti previsti dagli artt. 15 e ss. GDPR eventualmente azionati dal mittente nel contesto della diffida inoltrata.
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vaccinazioni e rischi per i somministratori bacchettone Massimiliano Brugnoletti - Brugnoletti & Associati
Lo scudo penale dei sanitari e l’idea distorta di un “privilegio”
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l decreto legge n. 44 del 1° aprile 2021 (“misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da Covid-19, in materia di vaccinazioni anti Sars-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”), convertito con legge n. 76 del 28 maggio 2021 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 maggio 2021), prevede agli articoli 3 e 3-bis le ipotesi di non punibilità del personale sanitario in ambito vaccinale e, più in generale, una limitazione della responsabilità penale per chi esercita una professione sanitaria durante la fase emergenziale Covid-19, fino ai casi di colpa grave. L’art. 3 del decreto 44/2021 prevede l’esclusione della punibilità del personale sanitario addetto alla vaccinazione per i delitti di omicidio e lesioni personali colposi, laddove detti eventi siano causati dalla somministrazione del vaccino. L’esimente per il “vaccinatore” è subordinata al fatto che l’inoculazione del vaccino sia avvenuta conformemente “alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”. Il motivo dell’esclusione della punibilità ha l’evidente obiettivo di rassicurare durante la campagna vaccinale il personale sanitario, notoriamente a rischio di coinvolgimento penale per eventi avversi derivanti dalla propria attività. La “copertura” prevista dal decreto era stata chiesta a gran voce dal mondo sanitario per l’allarme generatosi nell’opinione pubblica per i (in verità in numero assai esiguo) decessi verificatisi all’inizio della campagna vaccinale, con le (doverose) aperture di inchieste da parte delle competenti Procure e l’iscrizione nel registro degli
indagati di medici ed infermieri; allarme che ha addirittura portato a sospendere temporalmente la somministrazione del vaccino di una nota casa farmaceutica. L’esimente ha dunque scongiurato comportamenti di “medicina difensiva”, purtroppo indotti da una sempre maggiore frequenza di denunce in ambito sanitario, ed i dati in costante aumento delle vaccinazioni giornaliere fondano il proprio successo anche su tale esimente. La norma in esame prevede la non punibilità, in caso di decesso o lesione del vaccinato, se sussistono due alternativi presupposti: a) l’assenza di causalità tra somministrazione del vaccino e l’evento e/o b) la coerente conformità della somministrazione alle prescrizionali dettate per ciascuna tipologia di vaccino. Il personale sanitario ha dunque due possibili “coperture” esimenti: l’insussistenza di un nesso di causalità (o con-causalità) tra inoculazione ed evento e, laddove questa causalità fosse accertata, il rispetto delle indicazioni contenute nei documenti prescrizionali per l’inoculazione del vaccino; rispetto che va esteso a tutte le fasi correlate alla somministrazione, come la distribuzione, la conservazione e la preparazione; indicazioni tutte contenute nel “foglietto illustrativo”, ove sono presenti le informazioni inerenti posologia, conservazione, modalità di somministrazione e controindicazioni. Non si può invece negare l’incertezza che potrebbe destare il rinvio alle “circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”, che, in assenza di ulteriori specificazioni, rischia di tradursi in una formula vuota e non vincolante sul piano del rispetto delle regole cautelari.
L’art. 3 del decreto 44/2021 prevede l’esclusione della punibilità del personale sanitario addetto alla vaccinazione per i delitti di omicidio e lesioni personali colposi, laddove detti eventi siano causati dalla somministrazione del vaccino
vaccinazioni e rischi per i somministratori Deve essere sottolineato come l’art. 3 del decreto legge n. 44/2021 rappresenti una “disposizione speciale” rispetto a quella “generale” dettata dal secondo comma dell’art. 590 sexies del codice penale (che prevede la non punibilità per imperizia solo se il “sanitario” abbia rispettato pienamente le raccomandazioni previste per la relativa prestazione). Difatti l’art. 3 del decreto legge a) non limita il proprio ambito operativo alle sole ipotesi di “imperizia”, estendendo il campo di applicabilità dell’esimente anche ad ulteriori ipotesi; b) non fa riferimento all’adeguatezza della normativa secondaria (linee guida pubblicate ai sensi di legge) in relazione alla “specificità del caso concreto”, anche in questo caso dettando una norma “aperta” volta a comprendere ipotesi ulteriori rispetto a quelle dettate dal codice penale; c) rende flessibile il richiamo alle regole comportamentali, svincolando il processo di vaccinazione alle cautele poste dal sistema delle linee guida e dalla formalizzazione richiesta all’art. 5 della legge n. 24 dell’8 marzo 2017. Poiché è più favorevole, ai sensi dell’art. 2 del codice penale la disposizione prevista dal decreto legge n. 44/2021 ha efficacia retroattiva; essa potrà quindi valere anche per fatti commessi prima del 1° aprile, giorno di entrata in vigore del decreto, purché relativi a somministrazioni effettuate “nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457 della legge 30 dicembre 2020, n. 178”. Si deve poi rilevare che in sede di conversione del decreto legge (legge n. 76/2021), oltre all’esimente prevista nell’art. 3 in ambito strettamente vaccinale, il Parlamento ha inserito il nuovo articolo 3-bis, rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19”. La misura, fortemente auspicata dagli operatori del settore, prevede che, in caso di omicidio colposo e lesioni personali colpose, chi esercita professioni sanitarie è punibile “solo nei casi di colpa grave”: il secondo comma del citato art. 3-bis elenca poi i presupposti utili ad escludere la gravità: i) la limitatezza delle conoscenze scientifiche in un preciso momento storico, ii) la scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare e iii) il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato, impiegato per far fronte all’emergenza. Si deve sottolineare che i fattori citati nella disposizione non sono tassativi, poiché la stessa li indica sottolineando espressamente che “…il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità…”, potendo il giudice tener conto di altre cause legittimanti l’esclusione della colpa. La misura, come anticipato, è stata a più riprese auspicata dalla Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici (da ultimo nell’audizione svolta dal Presidente Anelli dinanzi alla Commissione Affari
Costituzionali del Senato lo scorso 20 aprile), al fine di tenere in considerazione sino in fondo le difficoltà che i sanitari – trovatisi a combattere una malattia ignota, in un contesto in cui le evidenze scientifiche sono in continuo divenire e derivano prevalentemente da studi osservazionali – hanno dovuto affrontare (e stanno ancora affrontando) nella lotta contro il virus. Lo scudo penale previsto dal decreto legge, per effetto dell’articolo 3-bis, non riguarderà dunque solamente la somministrazione dei vaccini, ma l’intero perimetro delle professioni sanitarie in tempo di pandemia: la norma introdotta in sede di conversione, ampliando la sfera di non punibilità a tutti gli eventi avversi occorsi durante la fase emergenziale, limita infatti la responsabilità penale degli operatori sanitari alla sola colpa grave e, nel definirla, attribuisce un peso decisivo al “fattore contestuale” e alle difficoltà nelle quali gli operatori stessi sono chiamati a lavorare in siffatto contesto. Descritte le due norme introdotte dal decreto legge n. 44 del 1° aprile 2021 e dalla legge di conversione n. 76 del 28 maggio 2021, devo rilevare che, differentemente da quanto emerge nel dibattito pubblico, a mio parere non è corretto parlare di “scudo penale”, termine che lascia in qualche modo trasudare l’idea di un privilegio a tutela di persona (comunque) colpevoli ed altrimenti “indifendibili”. A mio avviso, invece, la previsione dettata dal decreto legge dovrebbe essere valorizzata quale norma di “buon senso”, che tiene “realisticamente” conto delle condizioni eccezionalmente critiche e dell’estrema difficoltà ed incertezza scientifica in cui operano i sanitari. La norma ha dunque il pregio di tutelare lo “slancio” che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza, di “abbracciare” gli “eroi” ampiamente celebrati nei primi momenti della pandemia ed evitare che quegli eroi si trasformassero in un battito di ciglia in imputati, in veri e propri capri espiatori, togliendoli dall’imbarazzo di dover scegliere tra la propria incolumità giudiziaria e la tutela “a proprio rischio e pericolo” della salute dei pazienti, evitando la (giusta) tentazione di atteggiamenti “auto-cautelativi”.
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gestione Angelo Aliquò - DG ASP Ragusa – Riccardo Giammanco - Direttore UOC Controllo di gestione ASP RG Lucia Borsellino - Dirigente AGENAS - Roma – Paola Santalucia - Direttore U.O. Neurologia con Stroke Unit, Ospedale S.Giuseppe - Milano
Strumenti per un cambiamento culturale di strategia di governo delle Aziende Sanitarie per la realizzazione del processo di affidabilità delle cure
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a situazione pandemica in atto, nel mettere alla prova - nella straordinaria complessità che la connota - la capacità di tenuta del sistema sanitario sotto vari profili, ha forzatamente indotto anche nel nostro Paese un radicale ripensamento degli strumenti di governance del Servizio Sanitario in tutte le sue articolazioni e ad ogni livello di responsabilità decisionale, gestionale e organizzativo. E’ un richiamo doveroso, quello alla pandemia, che si evoca non a caso quale esempio emblematico di come il concetto di governo di un sistema complesso - quale è il sistema salute e più in generale il welfare sociosanitario non possa (più) risiedere, nemmeno in parte, su una visione statica dello stesso. Ed infatti, a partire dal management e dagli strumenti di governo strategico dei servizi sanitari regionali e delle Aziende Sanitarie, il rapido evolversi del contesto a causa di un evento straordinario di dimensioni esponenzialmente crescenti, ha reso evidente la necessità di trovare preventivamente ed in progressione (non in via emergenziale), soluzioni strutturali per adattare in modo dinamico gli strumenti di governo e le stesse organizzazioni alle esigenze di cambiamento dei bisogni di cura della collettività ora dettate, nella fattispecie, dalla diffusione di un nuovo agente patogeno (Sars - Cov2). Questa esperienza ancora in fase di consolidamento, ha certamente segnato un cambio di passo per quel che concerne la capacità di resilienza del sistema sanitario ai fattori di cambiamento, che più che mai in questo momento ha mostrato i limiti di una programmazione ancorata a schemi rivelatisi da un giorno all’altro poco flessibili e non pronti ad accogliere in modo rapido le nuove esigenze assistenziali. La patologia SARSCov-19 ha innescato un’ulteriore emergenza nell’”emergenza”: la simultaneità delle cure con le altre patologie. Il sistema delle reti dell’emergenza è stato saturato dall’ondata pandemica, le patologie tempo dipendenti non hanno più avuto la disponibilità alla presa in carico da parte del sistema, con conseguenze a volte
drammatiche per il singolo cittadino. Inoltre, è stato significativamente penalizzato l’organizzazione sanitaria per le esigenze dei pazienti cronici e delle cure oncologiche. A questo riguardo, il continuum assistenziale ospedale-territorio che prevede organizzazione e regolarità di follow up è stato condizionato dall’emergenza che ha assorbito ogni risorsa disponibile e rimodulato le attività, soprattutto quelle ambulatoriali. Questa premessa si ritiene utile ad introdurre quindi una ulteriore riflessione che possa rispondere più puntualmente alla domanda su quali strumenti possano essere messi in atto per un cambiamento culturale di strategia di governo delle Aziende Sanitarie per la realizzazione del processo di affidabilità delle cure. Se l’obiettivo superiore da perseguire è quello di preservare il valore dell’ “affidabilità” delle cure, letto nella sua duplice accezione, sia dal punto di vista degli operatori affinché possano disporre degli strumenti organizzativi, tecnologici, formativi e di qualificazione professionale più adeguati per operare in sicurezza, sia dal punto di vista dei cittadini-pazienti perché percepiscano la qualità, l’appropriatezza e la sicurezza delle cure che ricevono o che si apprestano a ricevere, occorre da subito re-indirizzare gli sforzi verso una nuova rivoluzione culturale che investa in sanità, nel modo migliore possibile, le risorse di cui essa dispone a partire dalla valorizzazione del patrimonio professionale, finanziario, strutturale, tecnologico, delle conoscenze scientifiche e delle capacità manageriali. La prerogativa dell’”affidabilità” del sistema di cure pubblico deve valere tanto per l’ambito assistenziale ospedaliero che per quello territoriale, incluse le cure domiciliari. Anzi, non è da sottacere che proprio per la componente territoriale è ancora più preminente l’esigenza di affermarne la “credibilità” in considerazione del più lento processo di riqualificazione che ha riguardato nel tempo la rete dei servizi integrati di assistenza territoriali rispetto a quelli ospedalieri, tra l’altro anche con diffusione non omogenea sull’intero territorio nazionale e all’interno delle stesse Regioni.
gestione Affinché il sistema di salute pubblico sia credibile e instilli fiducia nei cittadini a partire dalla medicina di base che è il primo livello di cura del cittadino, è fondamentale che le aziende sanitarie siano nella condizione di esercitare l’autonomia gestionale e organizzativa in funzione della richiesta. Senza entrare lo specifico del dibattito sul reale livello di autonomia del management aziendale sul piano formale e sostanziale, va detto che le politiche regionali di riforma dei sistemi sanitari hanno attribuito alle Aziende Sanitarie funzioni di produzione o di committenza ed in altri casi di entrambe. Ne deriva pertanto un assetto aziendale variegato nel contesto nazionale rispondente ai diversi modelli sanitari regionali, con un diverso grado dei livelli di autonomia propria delle Aziende stesse in relazione agli ambiti verso i quali le funzioni loro assegnate vanno indirizzate. In questo contesto, la funzione aziendale che più direttamente incide sul tema della affidabilità delle cure è quella di produzione, in quanto finalizzata appunto alla erogazione dei servizi e delle attività assistenziali. Come accennato in premessa, la affidabilità delle cure non può essere disgiunta dalla garanzia della loro qualità e sicurezza. La qualità e sicurezza delle cure nella migliore delle ipotesi è vincolata al sistema di certificazione e accreditamento. Il sistema con il quale si è inteso fino ad oggi presiedere alla “certificazione” dei requisiti che i servizi di erogazione delle cure devono avere, si compone di diversi strumenti che è utile in questa sede richiamare, anche a titolo esemplificativo, per meglio analizzare i possibili margini di miglioramento e di innovazione che certamente oggi il sistema richiede. Pensiamo agli strumenti per l’accreditamento istituzionale e ai processi di controllo e verifica interni, volti ad assicurare il possesso e il mantenimento dei requisiti e degli standard, strutturali, organizzativi, tecnologici e di qualità dei servizi e delle attività assistenziali nelle loro articolazioni e specificità. Pur riconoscendo a tali strumenti l’originaria finalità di attenersi ai requisiti “strutturali”, ovvero dei luoghi fisici sede di attività sanitarie, oggi essi appaiono più suscettibili di rinnovamento per quel che concerne gli aspetti organizzativi, della qualità e sicurezza delle cure. Ad esempio: se dovessimo applicare in maniera pedissequa i
vincoli posti dal sistema di accreditamento istituzionale alle nuove strutture pensate per l’assistenza i pazienti COVID o alle riconversioni di reparti o di strutture già esistenti per altre finalità sanitarie, non si potrebbe coniugare la rigidità del sistema rispondente ai requisiti strutturali con la flessibilità (e velocità) con la quale le nuove e diversificate esigenze di salute impongono che si proceda, per trovare adeguate (e nuove) soluzioni organizzative anche per periodi predeterminati. Analogamente, per fare un altro esempio, un sistema di valutazione delle performance aziendali ancora prevalentemente sbilanciato sui centri di costo nonché sulla quantificazione e valorizzazione della produzione in termini di volumi e di costi dei singoli segmenti produttivi, non ha reso ancora vera dignità al tanto invocato “percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale” nel quale si inserisce oramai ogni atto di cura o prestazione non più valutabile nella sua singolarità. In questo senso sarebbe auspicabile volgere l’analisi e la valutazione delle performance, ma ciò vale anche per i sistemi di finanziamento, verso una reale valorizzazione dei risultati in termini di esito dei percorsi di cura attivati e implementati (e non di singole prestazioni) e in termini di grado di soddisfazione dell’utente. L’indice di performance è strettamente correlato con l’indice di attrattività delle nostre strutture sanitarie e con la riduzione della migrazione sanitaria. Pertanto l’analisi e la valutazione non fini a se stesse dovrebbero costituire le più valide ragioni per applicare correttivi o incentivare politiche di investimento (ma lo stesso può dirsi per quelle di disinvestimento/riconversione) in atto prevalentemente ancorate ad una programmazione pluriennale e ad un fabbisogno che non tiene conto delle variabili di contesto mutevoli nel corso degli anni. “Inseguire”, come accaduto nel recente periodo, i fabbisogni emergenti di tecnologie e di professionisti, così da dover ricorrere ad approvvigionamenti in emergenza o al massivo reclutamento di personale in formazione specialistica, accresce i rischi sia sotto il più ampio aspetto della qualità e sicurezza delle cure che per la possibilità di ri-allocazione delle risorse. I tempi possono quindi ritenersi maturi, cogliendo anche
Le difficoltà maggiori nella reingegnerizzazione dei PDTA, raramente riguardano la tecnologia, quasi sempre queste sfide, sono compromesse dalla prontezza dell’organizzazione e dalla poca attitudine delle persone ai cambiamenti e al mettersi in gioco
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gli effetti di questa esperienza pandemica in atto, per ripercorrere radicalmente alcuni capisaldi dell’attuale assetto del SSN affinché, a partire dalle Aziende sanitarie e nel rispetto dei relativi livelli di autonomia e responsabilità, si inneschi un percorso di rinnovamento culturale delle strategie e degli strumenti di governo fino a questo momento consolidati, rivedendone in chiave critica gli elementi forza e di debolezza con l’obiettivo di rendere il sistema più aderente alle moderne e nuove necessità e, in generale, più flessibile ai processi di cambiamento. Entrando adesso più specificamente nella questione dell’autonomia delle aziende e quindi delle direzioni strategiche delle Aziende così come concepite dalle varie leggi di riforma, è opportuno chiarire che la tanto discussa “eticità” della “aziendalizzazione” della organizzazione sanitaria, spesso non corrisponde alla dinamicità ed efficienza tipiche delle Aziende private. Infatti questo tipo di organizzazione sanitaria “aziendale”, che in accordo alla definizione enciclopedica è “un’organizzazione di persone e beni economici ovvero - con accento dinamico - come un sistema di forze economiche, che sviluppa nell’ambiente con cui interagisce processi di produzione e di consumo, a favore dei soggetti economici che vi cooperano” (in questo caso i cittadini), non è rimasta separata, ma fortemente legata, soprattutto nell’ultimo decennio, a principi di ragioneria e a tecniche di gestione, con l’obiettivo di studiare i vari ordini di rilevazione nelle stesse aziende, a scopo di controllo prevalentemente economico, piuttosto che di reale soddisfacimento dei bisogni di salute. Il principio ritenuto fondamentale, quello della separazione all’interno dell’Azienda delle responsabilità di programmazione e controllo (la direzione strategica) da quelle di gestione delle attività sanitarie, decentrate nelle strutture operative (distretti, presidi ospedalieri, servizi di prevenzione collettiva etc.), non è sufficiente o utile in assenza di un collegamento strategico funzionale tra le direzioni strategiche e gli operatori sanitari. La linea di intesa e sinergia tra le direzioni strategiche e i segmenti operativi, favorisce inevitabilmente il miglioramento e la standardizzazione delle cure in accordo alla migliore pratica clinica (i sopracitati PDTA). Si deve in sostanza creare un collegamento, strutturare una parte di “ascolto” ed esame dei processi sanitari, in coerenza con un progetto sanitario aziendale. Diventa irrinunciabile che si ponga la massima attenzione all’attuazione di percorsi clinico assistenziali attinenti per ogni previsione di servizio sanitario, creando una struttura di supporto e coordinamento. Lo sviluppo e l’implementazione dei percorsi clinico assistenziali è a garanzia della erogazione delle cure a livello ospedaliero e della integrazione e continuità tra le cure ospedaliere e quelle territoriali. Nell’ambito delle prerogative e dell’autonomia aziendale,
una nuova forma di strategia per il governo delle aziende sanitarie, sperimentata in alcune realtà aziendali, è quella di strutturare una unità di audit clinico allo scopo di supportare le articolazioni organizzative aziendali nell’attuazione delle strategie per lo sviluppo e il miglioramento sistematico della qualità dei servizi sanitari e del governo clinico in sinergia e congiuntamente con il servizio di Controllo di Gestione aziendale, anche al fine di un preciso monitoraggio degli indicatori di processo e di esito e per indirizzare le politiche aziendali in termini di efficacia e qualità dell’offerta sanitaria nel territorio. Quindi se le aziende sanitarie nelle formulazioni oggi concepite dalle legislazioni regionali, non possono essere considerate semplici articolazioni territoriali del SSN, ma vere e proprie unità territoriali autonomamente operanti, devono essere in grado di strutturarsi non esclusivamente con una forte connotazione “imprenditoriale”, ma nel contempo devono essere in grado di pensare e 2realizzare con lungimiranza, un assetto organizzativo che abbia una logica volta alla progettazione e implementazione di modelli rivolti alla ricerca di una efficace erogazione di servizi sanitari che, se realizzati, comporteranno con effetto domino, il conseguimento degli obiettivi di sostenibilità anche economica. Ogni Azienda Sanitaria deve progettare e modificare la propria macro-struttura, disegnare un nuovo organigramma adattando strutture e processi organizzativi in funzione delle proprie specifiche esigenze sanitarie e non più - lo si ripete con convinzione - solo delle esigenze economiche, perché queste ultime saranno un’ovvia e consequenziale ricaduta delle prime. Un passaggio da un approccio giuridico-formale all’organizzazione ad un approccio strumentale e di finalità è ormai imprescindibile e necessario e non potrà mai avvenire se non si pensa al punto fondamentale che ha generato il sistema di salute pubblica più evoluto del mondo. Questo momento storico rappresenta una finestra di opportunità in cui siamo chiamati ad interpretare nel modo più nobile e moderno, l’intenzione di chi questo sistema ha sognato e contribuito a far nascere. La riflessione conclusiva a cui vorremmo, in questa prima parte, pervenire è un ripensamento metodologico nella progettazione dell’offerta sanitaria. Invero la letteratura economico sanitaria ci ha inondato con fiumi di inchiostro sulla imprescindibile relazione tra il bisogno di salute e la rete ospedale-territorio per il suo soddisfacimento. Ma da Nord e Sud nel corso del 2020 sono emerse tutte le criticità di un’offerta sanitaria basata su opportunità di investimento o opportunità di scelta politiche clientali, scelte per nessun motivo correlate al bisogno di salute. Chiediamoci pure come è possibile che un sistema sanitario regionale definito “efficiente” sia entrato in crisi fino
gestione al suo collasso allorquando è esplosa la pandemia? Forse la missione era, massimizzare il tasso di rendimento degli investimenti e, pertanto, la “povera” medicina del territorio, non possedendo revenue interessanti ha perso il proprio appeal? E ancora, come è possibile che in alcune regioni si sia reingegnerizzata, almeno sulla carta, la rete di offerta ospedale-territorio e permangono ospedali in vita nonostante se ne preveda la rifunzionalizzazione? Come mai i processi di accorpamento tra Ospedali avvengono, ma permangono in vita reparti cosiddetti “doppioni”? Forse la missione non è fornire una risposta ad un bisogno di salute, bensì mantenere e/o consolidare il consenso per la prossima campagna elettorale? Crediamo che la classe Dirigente, manager in testa, non possa “far finta di niente”, voltarsi dall’altro lato, quando davanti ai propri occhi si consumano scelte inappropriate. Il tema lo conosciamo tutti: progettare un sistema che costituisca una risposta efficace (esiti) ai bisogni di salute. Le risorse sono un parametro che misura l’effort necessario non sono il fine, ma il mezzo. Il Manager deve avere il coraggio di decidere in funzione del massimo risultato possibile (misurato in termini di esiti) per la cittadinanza che è chiamato a governare. Questa è anche la filosofia con cui abbiamo gestito in questo biennio l’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa. L’esperienza dell’ASP di Ragusa. Il progetto di “Auditing Sanitario” L’AUDIT è uno degli strumenti del Governo Clinico e il suo utilizzo sistematico a livello intra e inter aziendale favorisce l’implementazione della pratica clinica ottimale, l’applicazione di percorsi e protocolli e la standardizzazione dei processi di cura in accordo alle linee guida. L’Auditing è un processo di analisi, revisione ed una opportunità strutturata per il miglioramento delle attività cliniche e gestionali. Può essere considerato una metodologia diversificabile in funzione delle necessità organizzative aziendali in area clinica, gestionale-amministrativa o di sistema. E’ una sorta di piattaforma interattiva di analisi e revisione mono e multiprofessionale, mono e multidisciplinare, intra e interaziendale, interna o esterna, rivolta ai processi o agli esiti. La conseguenza dell’applicazione strutturata e sistematica delle attività di auditing a livello aziendale è l’analisi dei processi in funzione degli esiti e la critica costruttiva degli esiti in funzione del miglioramento dei processi. Il risultato è l’implementazione ottimale delle Linee Guida, l’identificazione dei meccanismi utili alla medicina traslazionale, l’utilizzo della digitalizzazione in Sanità funzionale alla pratica clinica e all’analisi dei bisogni, e in ultimo la realizzazione di modelli di processi e cura standardizzati a livello di eccellenza, anche attraverso l’applicazione pratica
di sistemi di simulazione. L’eccellenza nel Sistema Sanità, in quanto Organizzazione ad Alta Affidabilità (High Reliebility Organization-HRO), è dato dalla minimizzazione della possibilità di errore e massimizzazione della sicurezza sia a livello individuale che di sistema. L’Audit è l’elemento chiave per la realizzazione del processo di “affidabilità” del sistema sanitario strettamente correlato al controllo del rischio e alla qualità delle cure. Gli strumenti e la metodologia del processo di auditing sono subordinati alla creazione di un modello di sistema sanitario fondato sulla consapevolezza del rischio, la valorizzazione costruttiva dell’errore e la garanzia della sicurezza del sistema delle cure. La medicina basata sull’evidenza, le Linee Guida, l’attenzione agli aspetti tecnici e alle abilità non tecniche attraverso l’utilizzo di scienze cognitive e la valorizzazione del “fattore umano”, attraverso corsi di formazione aziendale e condivisione dei percorsi, sono gli strumenti principali cui i processi di auditing fanno riferimento per la costruzione di un Sistema Sanitario sicuro ed efficace. L’istituzione aziendale di una unità di coordinamento operativo di auditing sanitario rappresenta la piena espressione del governo clinico punto di riferimento Aziendale per il controllo strategico di qualità e l’applicazione ottimale dei Percorsi Diagnostico-Terapeutici-assistenziali (PDTA) basati sulla evidenza e la personalizzazione delle cure. L’attività svolta nell’ambito dell’auditing sanitario, così strutturato si è basata sulla revisione, analisi e valutazione delle componenti dei processi di cura, l’identificazione delle aree di miglioramento e la contestuale pianificazione delle azioni. Particolare attenzione è stata dedicata alla puntuale analisi dei bisogni di salute espressi della popolazione del bacino di utenza dell’ASP di Ragusa con un focus particolare sulle prestazioni erogate presso altre aziende sanitarie pubbliche e private della Regione Siciliana e del resto d’Italia (fuga sanitaria). L’Azienda ha utilizzato l’analisi della domanda di salute per la definizione dei PDTA e per condividere con gli operatori ospedalieri e territoriali le risultanze dei principali processi clinico sanitari/assistenziali. Solo dopo la consapevolezza del bisogno di salute espresso in termini qualitativi e in termini quantitativi si è riprogettata la funzione di offerta mettendo tutto in gioco l’assistenza ospedaliera e quella del territorio, la medicina generale con l’assistenza specialistica. Inoltre si è posta attenzione alla integrazione delle Linee Guida nei PDTA con riferimento alla personalizzazione delle cure e in funzione del contesto specifico e delle risorse disponibili e/o prevedibili. Elemento imprescindibile a ciascuna attività è stata la identificazione degli indicatori di cura e di esiti con analisi delle non conformità alla best clinical practice. Pertanto
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gestione il processo di auditing sistematico e strutturato, svolto in modalità interattiva e formativa con l’inclusione di tutti gli attori del sistema, ha conseguito i risultati auspicati in termini di miglioramento assistenziale. (*PDTA Ictus, **PDTA SCA, etc.). Sono state applicate tecniche di “simulazione in situ” comprensive di processi di feedback e critica costruttiva su abilità tecniche e non, che si sono confermate utili strumenti per la implementazione di percorsi clinico assistenziali. Sono inoltre stati presi in considerazione modelli di eccellenza nelle varie aree cliniche contestualizzandoli alle risorse locali in armonia con le disposizioni sanitarie regionali. La stretta collaborazione con il sistema di Controllo di Gestione ha consentito l’analisi, la misura e la valorizzazione degli esiti in funzione degli obiettivi anche in una ottica premiante1. L’innovazione Digitale come strumento per il miglioramento dei percorsi e degli esiti.
Lo strumento utilizzato dall’ASP di Ragusa per agevolare e/o avviare il percorso evolutivo de quo è stata l’Innovazione digitale, tenendo però presente che “Innovare i processi” e i prodotti è un approccio metodologico, sistemico non una tantum, e questo rende ancora più importante procedere con un approccio strutturato. E abbiamo usato la leva digitale per fare innovazione in Sanità, ritenendo la transizione digitale una necessaria certezza, non una possibilità. L’ASP, come tutte le pubbliche amministrazioni, non è una Organizzazione «nativa digitale» ed è per questo che l’approccio sistemico è più oneroso e complesso in termini di cambiamento e provoca stress su tutta la Struttura, ma tante sfide hanno una naturale risposta nel digitale (integrazione ospedale-territorio, logistica del farmaco, process mining, Cartella Clinica elettronica, telemedicina, tele consulto e connect care), stando però attenti a non considerare l’innovazione digitale come un fine piuttosto a vederla e utilizzarla come uno strumento. Inoltre anche a fronte di tantissimi bisogni e stimoli (dall’interno, dai fornitori, etc.), si rischia
1 La Stroke Unit dell’ASP di Ragusa ha ricevuto il Gold Status degli ESO Angels award.
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gestione di intraprendere singole iniziative in modo tattico, solo per ottenere un risultato nel breve periodo o anche solo per emulazione. Quanto volte ci siamo innamorati di una soluzione digitale, senza mai chiederci se era davvero la soluzione giusta e opportuna? Quante volte ci siamo resi conto che la soluzione digitale acquisita è stata in realtà un fallimento, rassegnandosi ad un laconico “non funziona” ? L’ASP, quindi, ha adottato una visione sistemica per generare valore nel medio-lungo periodo nella consapevolezza che la strategia digitale si realizza in modo iterativo e incrementale rendendo evidente un approccio strutturato, non improvvisato. La chiave per attuare una trasformazione digitale sistemica è ampliare il principio del “come” fare rispetto al “cosa” fare con la trasformazione digitale. In altri termini avere il coraggio di investire ogni sforzo sulla definizione dei requisiti tecnici e funzionali per realizzare un progettazione pertinente. E infatti volgendo lo sguardo direttamente alle refluenze della innovazione digitale sugli aspetti sanitari, le difficoltà
maggiori nella reingegnerizzazione dei PDTA, raramente riguardano la tecnologia, quasi sempre queste sfide, possono essere compromesse dalla prontezza dell’organizzazione e dall’attitudine delle persone ai cambiamenti, a mettersi in gioco. Quindi, se il governo e la gestione dei processi sono necessariamente allargati a molti attori, la direzione aziendale deve assicurare una guida forte e continuativa di tutto il percorso di trasformazione, ma anche di ascolto di tutte le componenti organizzative (paziente, cittadino,..) per far evolvere insieme l’organizzazione. _____________________________ Bibliografia: Tanese A., Il ruolo del management nella gestione dell’emergenza Quotidiano Sanità - 24 aprile 2020 Sorbero A., La gestione dell’innovazione. Strategia, organizzazione e tecniche operative - Carocci 1999 AA.VV. a cura di M. Del Vecchio e A. Romiti, Governare le Aziende Sanitarie in cambiamento - FIASO - Egea editore 2020
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irregolarità fiscali causa di esclusione dalle gare Annalisa Damele - PhD Collaboratore Amministrativo Professionale E.O. Ospedali Galliera Genova
Sulla rilevanza delle irregolarità fiscali non definitamente accertate ai fini della partecipazione alle gare pubbliche
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a causa di esclusione nella versione antecedente al d.l. semplificazioni L’art. 80, comma 4 del d.lgs. n. 50/2016, nella versione antecedente al d.l. semplificazioni, disponeva che “un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”, con la precisazione che “costituiscono gravi violazioni quelle che comportano un omesso pagamento di imposte e tasse superiore all’importo di cui all’articolo 48-bis, commi 1 e 2-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 6021. Costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle contenute in sentenze o atti amministrativi non più soggetti ad impugnazione. Costituiscono gravi violazioni in materia contributiva e previdenziale quelle ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), di cui al decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 30 gennaio 2015, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 125 del 1° giugno 2015, ovvero delle certificazioni rilasciate dagli enti previdenziali di riferimento non aderenti al sistema dello sportello unico previdenziale”. Il quinto e ultimo periodo del comma 4 prevedeva,
inoltre, che “Il presente comma non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l’impegno siano stati formalizzati prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande”. La previsione delineava un’ipotesi di esclusione automatica dalla procedura che doveva operare ove fossero integrati entrambi i presupposti di gravità e definitività delineati dal legislatore e della quale, proprio per la determinatezza dei presupposti, la stazione appaltante verificava la sussistenza – in maniera relativamente agevole – mediante richiesta all’Agenzia delle Entrate (per l’aspetto fiscale) e tramite il DURC (per le debenze contributive).
Con il d.l. semplificazioni è stato modificato il comma 4 dell’art. 80 innestandovi tout court la previsione comunitaria circa la facoltà della stazione appaltante di escludere operatori che risultino aver commesso gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale o contributiva
La nuova causa di esclusione dopo le modifiche introdotte dal d.l. semplificazioni, convertito con modificazioni in legge n. 120/2020 1) L’art. 8, comma 5, lett. b) del d.l. n. 76/2020 (d.l. semplificazioni), confermato in sede di conversione dalla legge n. 120/2020, ha implementato il quinto periodo sopra citato dell’art. 80, comma 4 aggiungendo la previsione che “un operatore economico può
1 L’importo cui fa riferimento la disposizione oggetto di rinvio è di € 5.000.
irregolarità fiscali causa di esclusione dalle gare essere escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se la stazione appaltante è a conoscenza e può adeguatamente dimostrare che lo stesso non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali non definitivamente accertati qualora tale mancato pagamento costituisca una grave violazione ai sensi rispettivamente del secondo o del quarto periodo”. Conseguentemente, ad oggi, il medesimo art. 80 comma 4 prevede: • al primo periodo, una causa di esclusione automatica dalle gare, che opera (necessariamente) ove l’operatore abbia commesso violazioni gravi e definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali; • al quinto periodo, una causa facoltativa di estromissione che la stazione appaltante può far valere nelle ipotesi in cui venga a conoscenza che l’operatore ha commesso violazioni contributive o fiscali gravi anche non definitivamente accertate, ove motivatamente ritenga che ciò influisca sull’affidabilità dell’operatore stesso. 2) A dispetto della sedes materiae (per l’appunto, il d.l. semplificazioni) la novella2 non sembra tanto legata ad una qualche esigenza di semplificazione, quanto alla necessità di dare seguito alla messa in mora della Commissione UE, la quale, con lettera 24.01.2019, n. 2018/2273, ha segnalato all’Italia la non conformità alla normativa europea dell’art. 80, comma 4 del d.lgs. n. 50/2016 proprio in quanto non riconosceva – accanto alla causa automatica di esclusione – la facoltà della stazione appaltante di estromettere dalla gara un concorrente ove fosse venuta a conoscenza di sue irregolarità fiscali o contributive, anche se non definitivamente accertate3.
In effetti, l’articolo 38, paragrafo 5, commi 1 e 2, della direttiva 2014/23/UE stabilisce che “le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), escludono un operatore economico dalla partecipazione a una procedura di aggiudicazione di una concessione qualora siano a conoscenza del fatto che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali e se ciò è stato stabilito da una decisione giudiziaria o amministrativa avente effetto definitivo e vincolante secondo la legislazione del paese in cui è stabilito o dello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice o dell’ente aggiudicatore” ed inoltre che le medesime amministrazioni “possono escludere o possono essere obbligati dagli Stati membri a escludere dalla partecipazione a una procedura di aggiudicazione di una concessione un operatore economico se l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore può dimostrare con qualunque mezzo adeguato che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali” 4. 3) Come si vede, quindi, con il d.l. semplificazioni è stato modificato il comma 4 dell’art. 80 innestandovi tout court la previsione comunitaria circa la facoltà della stazione appaltante di escludere operatori che risultino aver commesso gravi violazioni non definitivamente accertate in materia fiscale o contributiva. In altri termini si è tentato di superare la contestata non conformità comunitaria dell’art. 80, comma 4 con il mero, pedissequo e testuale inserimento della corrispondente disciplina europea. La previsione, tuttavia, suscita non poche perplessità. 3.1) Innanzitutto, si pone un problema di proporzionalità della norma, in quanto – come si è visto –
2 Non si tratta, in realtà, di una vera e propria novella, ma di una re-introduzione, in quanto il decreto c.d. “sblocca cantieri” n. 32/2019 aveva già previsto una norma analoga nella quale, peraltro, non si faceva neppure riferimento alla gravità dell’irregolarità fiscale non definitivamente accertata, sicché assumeva rilievo qualsiasi pendenza fiscale. In allora, tuttavia, la norma era stata stralciata dalla legge di conversione n. 55/2019. Più precisamente l’art. 1 del d.l n. 32/2019 “Un operatore economico può essere escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se la stazione appaltante e’ a conoscenza epò adeguatamente dimostrare che lo stesso non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali non definitivamente accertati. Il presente comma non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l’estinzione, il pagamento o l’impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande.” Come si vede la previsione non faceva riferimento alla gravità del mancato adempimento fiscale, sicché introduceva una causa di esclusione dalla gara – seppure non automatica – applicabile a qualsiasi violazione fiscale, anche di natura irrisoria. 3 La lettera di messa in mora della Commissione contesta che “L’articolo 80, comma 4, del decreto legislativo 50/2016 non è conforme alle suddette disposizioni della direttiva 2014/23/UE e della direttiva 2014/24/UE in quanto non consente di escludere un operatore economico che ha violato gli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali qualora tale violazione – pur non essendo stata stabilita da una decisione giudiziaria o amministrativa avente effetto definitivo – possa essere comunque adeguatamente dimostrata dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore” (par. 2.1). 4 La stessa disposizione è contenuta nell’articolo 57, paragrafo 2, primo e secondo comma, della direttiva 2014/24/UE, ai sensi della quale “Inoltre, le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), possono escludere o possono essere obbligati dagli Stati membri a escludere dalla partecipazione a una procedura di aggiudicazione di una concessione un operatore economico se l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore può dimostrare con qualunque mezzo adeguato che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali.”
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irregolarità fiscali causa di esclusione dalle gare la gravità viene fatta coincidere con il superamento della soglia di € 5.000, che è, evidentemente, non alta. Ora, se per la causa automatica di esclusione di cui al primo periodo dell’art. 80, comma 4 l’esiguità della soglia viene in una certa misura contemperata dalla necessità che l’accertamento in ordine alla debenza sia definitivo, con riferimento al “nuovo” motivo di estromissione tale contemperamento non sussiste. E’ pur vero, infatti, che in tale ultima ipotesi l’Amministrazione ha una facoltà – e non già un obbligo – di escludere, ma sussiste comunque la possibilità che un
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operatore venga escluso da una procedura per una pendenza fiscale “irrisoria” ancora sub judice. Spetterà, quindi, alle stazioni appaltanti applicare con motivata ragionevolezza la novella. Ma sul punto si tornerà tra breve. 3.2) Sotto ulteriore profilo la previsione sembra suscettibile di comprimere notevolmente – e forse eccessivamente – il diritto di difesa degli operatori economici. Ed invero, l’ultimo periodo del comma 4 dell’art. 80 specifica che la causa di esclusione – sia quella
irregolarità fiscali causa di esclusione dalle gare automatica del primo periodo, che quella “facoltativa” dell’ultimo –“non si applica quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, ovvero quando il debito tributario o previdenziale sia comunque integralmente estinto, purché l’estinzione, il pagamento o l’impegno si siano perfezionati anteriormente alla scadenza del termine per la presentazione delle domande”. Ora, è evidente che, stante detta previsione, l’operatore raggiunto da una contestazione fiscale o tributaria è tendenzialmente disincentivato ad adire la via della tutela in giudizio – la quale comunque non scongiurerebbe l’applicabilità della causa di esclusione di cui al quinto periodo del comma 4 dell’art. 80 – per privilegiare l’estinzione della debenza tramite pagamento. Gli adempimenti in capo alla stazione appaltante La modifica del quinto periodo del comma 4 dell’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016 grava, ancora una volta, le stazioni appaltanti di ulteriori oneri procedimentali e motivazionali. Innanzitutto, v’è da domandarsi se, tra le dichiarazioni dei requisiti dell’art. 80 richieste ai concorrenti, vada inserita anche quella relativa all’insussistenza di violazioni fiscali e contributive non definitivamente accertate al momento della presentazione della domanda di partecipazione/dell’offerta. In caso di risposta affermativa – tesi che pare oltremodo ragionevole – occorrerà altresì effettuare le pertinenti verifiche in capo al primo graduato, interrogando Agenzie delle Entrate e Inps circa la sussistenza o meno di tali violazioni. In ogni caso, ove la stazione appaltante riceva – per le più diverse ragioni – notizie circa la sussistenza in capo ad un concorrente dei motivi di esclusione di cui al quinto periodo del comma 4 dell’art. 80, è ragionevole che non proceda all’immediata estromissione dalla gara, ma avvii un procedimento in contraddittorio con il concorrente, onde poter effettuare una globale e motivata valutazione di non affidabilità che sembra comunque rimanere l’unico presupposto per addivenire all’esclusione dell’operatore. Come si anticipava, quindi, ancora una volta sono le Amministrazioni a dover conferire ragionevolezza ad una previsione normativa, di per sé piuttosto discutibile, applicandola secondo i principi di imparzialità, proporzionalità e buon andamento. 4) Il d.d.l. S. 2025 (presentato il 20.11.2020) avente
ad oggetto “Modifiche all’articolo 80 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, in materia di motivi di esclusione degli operatori economici”. É attualmente all’esame del Senato il d.d.l. n. 2025, finalizzato ad introdurre le seguenti modifiche all’art. 80, comma 4 del d.lgs. n. 50/2016: a) al sesto periodo, dopo le parole: «modo vincolante» sono inserite le seguenti: «, anche attraverso la rateizzazione delle somme dovute,»; b) sono aggiunti, infine, i seguenti periodi: «L’esclusione non si applica altresì quando l’operatore sia stato informato dalla stazione appaltante dell’importo dovuto dopo il termine di presentazione delle domande, a condizione che ottemperi ai suoi obblighi pagando le imposte e i contributi previdenziali dovuti o si impegni in modo vincolante a pagare l’importo dovuto entro trenta giorni dalla comunicazione da parte della stazione appaltante. All’operatore economico è riconosciuta la differenza tra l’importo delle imposte o dei contributi previdenziali versati a seguito della comunicazione pervenuta dalla stazione appaltante e l’importo stabilito al termine del procedimento giudiziario o amministrativo, se inferiore. In tale caso, la somma è restituita all’operatore economico entro novanta giorni dal termine del procedimento giudiziario o amministrativo». Lo scopo della modifica è quello di cercare di ovviare alle criticità delineate sub 2.3.2. e consentire, pertanto, all’operatore economico di procedere al pagamento dell’imposta o del contributo anche dopo la scadenza del termine di presentazione dell’offerta, ovviando, così, all’applicazione della causa di esclusione, salvo il diritto di rivalsa ove il debito accertato a seguito di giudizio risultasse inferiore a quello pagato. Il testo del d.d.l., peraltro, prevede che sia la stazione appaltante a comunicare al concorrente l’importo dovuto non corrisposto. Lo scenario, quindi, sembra essere quello definito nel paragrafo precedente, in cui l’Amministrazione interroga l’Agenzia delle Entrate e l’Inps in ordine a violazioni non definitivamente accertate e, ottenuta la relativa informativa, ne rende edotto il concorrente, facendo così decorrere il termine per il pagamento, ancorché successivamente alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte. Al riguardo non rimane, quindi, che attendere la conclusione dell’iter legislativo per poter conoscere il testo definitivo dell’art. 80, comma 4 … almeno fino alla successiva modifica normativa.
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la classificazione anatomica terapeutica chimica (ATC) Filippo Drago - Paola Minghetti - Angelo Claudio Molinari - Raimondo De Cristofaro - Monica Sacco - Claudio Amoroso - Fausto Bartolini Maria Ernestina Faggiano - Piera Polidori - Piero Fidanza - Maria Teresa Bressi - Davide Cafiero - Stefania Lopatriello - Daria Putignano
La classificazione dell’ATC nella definizione del lotto dei farmaci biologici a brevetto non scaduto. Un progetto multistakeholder
I
l Progetto La legislazione farmaceutica italiana è esaustiva nel delineare le regole di acquisto di farmaci originator e biosimilari1, 2, ma lo è meno per quanto riguarda i farmaci di tipo biologico e biotecnologico coperti da brevetto. D’altro canto, farmaci avanzati, ivi inclusi i biologici e biotecnologici, possono essere considerati alla stregua di prodotti standard da gestire in un unico lotto? Il giudizio tecnico sull’equivalenza terapeutica ai fini dell’acquisto mediante un unico lotto è molto complesso e non può essere autonomamente deciso dalla Stazione Appaltante: è subordinato alla valutazione di equivalenza da parte di AIFA (determina 818/2018)3 che definisce specifici criteri di equivalenza per principi attivi diversi. Le criticità nascono se AIFA non si esprime, o meglio, se non è chiamata ad esprimersi sull’equivalenza da parte di Regioni o istituzioni affini, come prevede la normativa. Il progetto SIFO-FARE 4 ha indicato che discriminanti nella formazione del lotto sono le indicazioni terapeutiche, i dosaggi, le vie di somministrazione, la forma farmaceutica. Tuttavia, quest’analisi non viene sempre approfondita e condivisa nella multidisciplinarietà della fase di stesura di un protocollo, con evidenti ripercussioni successive
nella fase esecutiva della gara. Cosa succede se si utilizza la classificazione ATC come strumento che raggruppa “tutto ciò che è uguale”? È stato questo l’oggetto di un progetto italiano, con dodici esperti scelti per rappresentare le competenze accreditate circa la comprensione del problema ATC-equivalenza terapeutica-acquisti. Il valore i limiti della classificazione ATC La classificazione Anatomica Terapeutica Chimica (ATC) cataloga i farmaci assegnando a ciascun principio attivo un codice alfanumerico in cinque livelli gerarchici (figura 1): tutti i principi attivi presentano un codice ATC univoco che li classifica in base all’organo o al sistema su cui agiscono e alle loro proprietà terapeutiche, farmacologiche e chimiche. Tuttavia, questa corrispondenza non è sempre precisa. Se così fosse, in teoria, l’utilizzazione del codice di V livello della classificazione ATC nelle gare pubbliche significherebbe, appunto, che tutti i prodotti contenenti un medesimo principio attivo sono “uguali” e quindi possono essere inseriti in concorrenza in uno stesso lotto. Due inappropriatezze molto rilevanti devono essere prese in considerazione nell’utilizzo della classificazione ATC in una gara di acquisto pubblico, per esplicita
L’ATC non è sufficientemente flessibile da recepire le diversità dei farmaci biologici. Pertanto, il suo utilizzo va attenzionato. Infatti, nel caso dei Fattori della Coagulazione VIII e IX, l’ATC al V livello non differenzia principi attivi in realtà diversi.
1 Position paper AIFA sui biosimilari 13/05/2013; secondo position paper AIFA sui biosimilari 27/03/2018 2 Determina AIFA n204 del 6/03/2014, Determina AIFA n 458 del 31/03/2016, Determina AIFA n. 697 del 19/05/2016, Determina AIFA n. 1571/2016, Legge Finanziaria 2017 (L. 232 dicembre 2016) 3 Procedura di applicazione dell’articolo 15, comma 11-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135. (Determina n. DG/818/2018). (18A03925) (GU Serie Generale n.131 del 08-06-2018) 4 Bartolini F, Boni Marco et al “L’evoluzione del Sistema di acquisto di Farmaci e Dispostivi Medici. SIFO-FARE, marzo 2019
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ATC
Figura 1: la classificazione ATC
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dichiarazione del WHOCC5, l’organismo che ha ideato e gestisce questo sistema di classificazione. La prima è che la classificazione ATC non è stata costruita per fini amministrativi, ma per scopi di studio, quali drug utilizazion e farmacovigilanza. Infatti, l’utilizzo di questa classificazione nelle politiche di rimborso e contenimento di spesa è improprio. Inoltre, non è raccomandato basare pareri su prezzi e rimborsi sull’inclusione dei farmaci nelle varie categorie di livello ATC. Inoltre, la rigidità con cui la classificazione ATC è costruita ha come conseguenza il fatto che un codice che da essa deriva può non rispecchiare l’innovazione farmaceutica. Numerosi sono gli esempi che risentono di tale rigidità: un codice ATC può includere principi attivi con indicazioni diverse; inoltre, farmaci con un uso terapeutico simile possono essere classificati in categorie di livello diverso. In altri casi, la classificazione ATC non rispecchia le differenze tra formulazioni farmaceutiche, in termini di profilo farmacocinetico e maneggevolezza delle stesse. Inoltre, la classificazione ATC può non riflettere le differenze tra farmaci relative all’indicazione d’uso e al loro meccanismo d’azione. Infine, l’ATC può non rappresentare innovazioni riguardanti miglioramenti nella modalità di somministrazione, nella maneggevolezza, nella conservazione e nella farmacocinetica delle molecole, soprattutto se esse rappresentano l’avanzamento di principi attivi pre-esistenti. Tutto questo è ancora più evidente nel caso dei farmaci biologici e biotecnologici. Un farmaco biologico contiene una o più sostanze attive derivate da una fonte biologica o ottenute attraverso un processo biologico, e necessita di una rigorosa standardizzazione delle fasi di produzione e
di controllo delle sue caratteristiche chimico-fisiche e biologiche. Tra i medicinali biologici sono compresi anche i farmaci biotecnologici, per i quali il processo produttivo definisce le caratteristiche stesse del farmaco e quindi il suo profilo di efficacia e sicurezza. Le differenze tra medicinali biologici e farmaci di sintesi riguardano la fonte del principio attivo, la struttura, i metodi di produzione, la formulazione e i criteri di equivalenza terapeutica6,7. Per esempio, mentre i processi produttivi dei farmaci convenzionali ottenuti per sintesi chimica sono facilmente replicabili, il processo produttivo determina l’unicità e le caratteristiche del farmaco biologico8,9 . Può quindi verificarsi un certo grado di variabilità tra lotti diversi di uno stesso prodotto10. Una tale complessità presenta molti risvolti. Il più importante riguarda la definizione di equivalenza tra farmaci biotecnologici. Due medicinali, alla fine del processo produttivo, per essere perfettamente uguali, dovrebbero presentare un’identica composizione in principi attivi e in eccipienti, essere sottoposti allo stesso processo tecnologico di lavorazione, essere prodotti dallo stesso impianto di produzione. Per poter escludere che le differenze esistenti tra i due prodotti non siano tali da comportare effetti terapeutici significativamente differenti, essi devono essere inoltre bioequivalenti11. La bioequivalenza, dimostrata mediante studi di farmacocinetica, certifica l’equivalenza terapeutica dei due prodotti. L’equivalenza terapeutica basata solo su studi di bioequivalenza, tuttavia, vale solo per forme farmaceutiche finite, contenenti principi attivi identici e che, pur potendosi differenziare per la composizione degli eccipienti, presentano uguale dosaggio, via di somministrazione, e numero di unità posologiche.
5 WHO Collaborating Centre for Drug Statistics Methodology. Guidelines for ATC classification and DDD assignment 2020. 6 Rader, R (2008) Nat. Biotechnol. 26, 743–751. 7 Kesik-Brodacka M. Progress in biopharmaceutical development. Biotechnol Appl Biochem. 2018;65(3):306-322. doi:10.1002/bab.1617 8 Dimitrov, D. S. (2012) Methods Mol. Biol. 899, 1–26. 9 Carter, P. J. (2011) Exp. Cell Res. 317, 1261–1269. 10 Weise, M., Kurki, P.,Wolff-Holz, E., Bielsky, M. C., and Schneider, C. K. (2014) Blood 124, 3191–3196. 11 Lemme L. La sicurezza e l’efficacia dei farmaci equivalenti. Bollettino d’Informazione sui Farmaci 2008;15(3):104. Disponibile sul sito: http://www.agenziafarmaco.gov.it/allegati/bif3_08_lemme.pdf (accesso del 15/04/14)
ATC Nel caso di farmaci biologici, il requisito di bioequivalenza non è sufficiente a garantire l’equivalenza terapeutica: più la struttura farmacologica e/o la formulazione sono complesse, più difficile è la dimostrazione di equivalenza terapeutica. Infatti, tra il biotecnologico originator e il biosimilare, deve essere eseguito il cosiddetto Esercizio di Comparabilità, ovvero una serie molteplice di prove di tipo pre-clinico e clinico. E neppure nel caso di ottemperanza a questa prova, la normativa (vedi il Secondo Position Paper di AIFA) prevede la sostituibilità tra biologico “originator” e biosimilare.12 Il caso dei fattori VIII e IX della coagulazione del sangue per l’emofilia A e dell’Emofilia B Un esempio è quello dei fattori VIII e IX della coagulazione del sangue per l’emofilia A e dell’Emofilia B, un disordine emorragico ereditario raro (1/5.000 e 1/25.000 nascite maschili, rispettivamente per Emofilia A e B). La classificazione ATC di V livello raggruppa numerosi principi attivi tra loro molto differenti. Le differenze riguardano le indicazioni d’uso per patologia (alcuni Fattori VIII sono utilizzati sia per trattamento dell’emofilia A, sia per Malattia di Von Willebrand) e per gruppi di pazienti (esiste un solo Fattore VIII a emivita prolungata e indicato per bambini fino a 12 anni), elementi questi che rivestono una rilevante importanza clinica (quali l’indicazione su tutte le tipologie di pazienti e la posologia differente nel regime di profilassi). Altre specifiche caratteristiche, come la linea cellulare di produzione e l’emivita, possono avere un impatto sull’efficacia e la sicurezza dei prodotti. L’evoluzione delle tecnologie ha permesso di passare da derivati del plasma a processi biotecnologici complessi: con differenti strategie produttive sono state realizzate nuove molecole con clearance ridotta ed emivita prolungata (EHL rFVIII e EHL rFIX), che permettono un trattamento profilattico continuativo con il minor numero possibile di iniezioni endovenose ripetute. I fattori VIII e IX a emivita prolungata, per le loro caratteristiche farmacocinetiche, infatti, permettono di ridurre il numero di infusioni e di adattare la posologia allo stile di vita o al fenotipo del paziente, migliorando l’aderenza al trattamento e di conseguenza l’outcome clinico13,14. L’estensione dell’emivita ha consentito un intervallo tra
le infusioni di 3-4 giorni (nel caso del Fattore VIII) e, in alcuni casi, anche a 14 giorni o oltre (per il Fattore IX), oppure, utilizzando regimi standard, di ottenere livelli circolanti di questi farmaci più elevati. Per contro, i codici ATC B02BD02 e B02BD04, che già raccoglievano concentrati disomogenei, sono rimasti immodificati al variare delle biotecnologie disponibili, rendendo questa classificazione ancora più inadeguata ed insufficiente. B SANGUE ED EMOPOIESI B02 Antiemorragici B02B Vitamina K e altri emostatici B02BD Fattori di coagulazione del sangue B02BD02 Fattore VIII di coagulazione: Damoctog Alfa Pegol, Efmoroctocog Alfa, Lonoctocog Alfa, Moroctocog Alfa, Octocog Alfa, Rurioctocog Alfa Pegol, Simoctocog Alfa, Turoctocog Alfa, Turoctocog Alfa Pegol, fattore VIII di coagulazione del sangue umano liofilizzato B02BD04 Fattore IX di coagulazione: Eftrenonacog Alfa, Nonacog Alfa, Nonacog Gamma, Albutrepenonacog Alfa, fattore IX di coagulazione del sangue umano liofilizzato La ricaduta sulle gare: la giurisprudenza di rifermento Che risvolti ha avuto tutto ciò in tema di gare di acquisto regionali? L’analisi delle gare regionali evidenzia che il Sistema Dinamico di Acquisizione, per importi al disopra della soglia europea di 214 mila euro, è il tipo di procedura più utilizzato; il criterio di aggiudicazione evidentemente auspicabile è quello dell’Offerta Economicamente Più Vantaggiosa (OEPV); soltanto il Servizio Sanitario della Toscana (Estar) per il Fattore IX (ESTARFAPR04) ha definito la Qualità con il parametro della quantità di sodio. La maggior parte delle Stazioni Appaltanti descrive i lotti per singolo principio attivo, definendo dosaggi e modalità di produzione e durata di emivita specifiche. In alcuni casi, invece, l’utilizzo dell’ATC al V livello, come elemento caratterizzante del lotto, ha portato di fatto a mettere in concorrenza diretta principi attivi biologici diversi, rendendo la strada di accesso al farmaco costellata di ricorsi e sentenze. Il Tar Sardegna (sentenza n. del 997 del 2018), confermata dal Consiglio di Stato (CDS) con sentenza n.
12 Secondo position paper AIFA sui biosimilari 27/03/2018: “l’esercizio di comparabilità”: ’insieme di una serie di procedure di confronto graduale (stepwise) che inizia con gli studi di qualità (comparabilità fisico-chimiche e biologiche) e prosegue con la valutazione della comparabilità non-clinica (studi non clinici comparativi) e clinica (studi clinici comparativi) per la valutazione dell’efficacia e della sicurezza. Tali studi includono la valutazione dell’immunogenicità sia in fase pre-clinica che clinica. L’obiettivo primario dell’esercizio di comparabilità è la dimostrazione della similarità (similarity throughout), attraverso studi disegnati in modo tale da individuare le eventuali differenze di qualità tra il biosimilare e il prodotto di riferimento e assicurare che queste non si traducano in differenze cliniche rilevanti in termini di sicurezza ed efficacia tra i due prodotti. 13 Chowdary P. Extended half-life recombinant products in haemophilia clinical practice - Expectations, opportunities and challenges. Thromb Res. 2020 Dec;196:609-617. doi: 10.1016/j.thromres.2019.12.012. Epub 2019 Dec 20. PMID: 31883700 14 Lambert et al. Practical aspects of extended half-lifproducts for the treatment of haemophilia. Ther Adv Hematol 2018, Vol. 9(9) 295– 308
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ATC 4459 del 2019, relativamente ad una vicenda riguardante l’acquisto regionale del fattore VIII in una gara indetta dalla Regione Sardegna, ha affermato che il principio di equivalenza, in materia di pubbliche gare, trova una limitata applicazione nel caso in cui la procedura abbia ad oggetto la fornitura di farmaci, in particolare biologici. In quest’ultimo caso, infatti, l’art. 15, c. 11 ter, D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, afferma che l’equivalenza tra tali farmaci deve essere dichiarata da AIFA e, in mancanza, farmaci con principi attivi differenti non possono essere messi in competizione. Nel caso in esame, tale riconoscimento non è stato fornito e non può essere compensato da studi depositati agli atti di causa dalle parti; né, del resto, un riconoscimento ex post dell’AIFA potrebbe colmare tale lacuna, dovendo l’equipollenza precedere l’indizione della gara. Le conclusioni alle quali è giunto il giudice rendono irrilevante accertare l’equivalenza tra i prodotti esaminati, ritenendo insuperabile la mancanza della previa dichiarazione di equivalenza di AIFA. Un altro caso riguarda la Società di Committenza del
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Piemonte (SCR), che nel 2018, ha emesso un bando europeo per l’approvvigionamento dei diversi fattori di coagulazione con codice ATC di V livello B02BD02. Il TAR Piemonte (con sentenze nn. 1174/2018 e 1333/2018) ha annullato successivamente il bando, limitatamente alla suddivisione in lotti per l’ATC B02BD02 (fattore VIII della coagulazione, lotti n. 2167 e n. 2168, poi accorpati nel lotto 2161). Le sentenze del TAR si sono basate su quanto chiarito dall’Agenzia Europea (EMA): “anche se tutti i prodotti considerati sono fattori VIII ricombinanti, non può essere da ciò automaticamente desunto che tutti i medicinali di questa classe contengano il medesimo principio attivo”. La procedura di gara è stata giudicata illegittima dal TAR Piemonte perché AIFA non ha mai esplicitamente dichiarato i fattori VIII equivalenti. Successivamente, SCR è ricorsa in appello sostenendo che i farmaci oggetto di gara con medesimo codice ATC di V livello possiedono lo stesso principio attivo e non necessitano di richiesta di parere AIFA per l’equivalenza. Il CDS con sentenza n. 578/2020 ha accolto il ricorso,
ATC considerando legittima la scelta di SCR di ritenere terapeuticamente equivalenti due farmaci con la stessa classificazione ATC di V livello, senza ricorrere al preventivo parere dell’AIFA. La sentenza fonda la sua motivazione sul fatto che “se la legge italiana individua la diversità di principio attivo quale presupposto del parere AIFA sull’equivalenza terapeutica, e se AIFA espressamente limita i pareri di equivalenza terapeutica ai soli farmaci che condividono il quarto livello ATC, è evidente che, ai fini dell’acquisto centralizzato dei farmaci, la medesima classificazione ATC di quinto livello è un dato sufficiente per consentire gare in concorrenza, indipendentemente dalle eventuali differenze tecniche, posologiche o molecolari”. La sentenza n. 4760 del 27 luglio 2020 afferma che il CDS, con la sentenza 578/2020, ha commesso un errore di fatto (il cosiddetto “abbaglio dei sensi”, che è uno dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza per la revocazione), quando ha affermato che erano identici tutti i principi attivi contenuti nei farmaci appartenenti alla categoria ATC B02BD02. L’errore in cui è incorso il CDS con la sentenza revocata è rappresentato dall’aver affermato
che i farmaci con lo stesso quinto livello di codice ATC avessero anche identico principio attivo, mentre risultava il contrario dal parere reso sul punto dall’EMA, pur incompetente in ordine al giudizio di equivalenza terapeutica di unica competenza di AIFA. Il CDS, inoltre, ha commesso un secondo errore laddove ha ritenuto che non fosse necessario il parere dell’AIFA circa l’equivalenza tra farmaci che condividono lo stesso livello di classificazione ATC, ivi compreso il quinto e che quindi l’identità di principio attivo potesse fondarsi solo sullo stesso quinto livello della classificazione ATC. L’errore sarebbe quindi fondato, da una parte, su un’errata valutazione della valenza tecnico-scientifica del codice ATC e, dall’altra, dall’omesso esame degli atti di causa dai quali emergeva in maniera incontrovertibile la diversità di principi attivi, come risultante dal parere dell’EMA depositato in giudizio. Viene quindi ribadito che il preventivo parere di equivalenza terapeutica di AIFA è necessario. Infine, anche le linee guida di AIFA adottate nel 2018 sono state interpretate erroneamente dal CDS in quanto nelle stesse non viene mai affermato che il fatto che due farmaci
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condividano lo stesso quinto di livello della classificazione ATC sia sufficiente per sancirne l’equivalenza terapeutica. Esiste secondo il CDS “una insanabile contraddizione tra l’assunto secondo cui i farmaci avrebbero lo stesso principio attivo e l’affermazione, peraltro in sé erronea, che il loro inserimento nello stesso quinto livello del codice ATC garantirebbe l’equivalenza, affermazione che presuppone, logicamente, la diversità di principi attivi”. Non da ultimo, il 29 settembre 2020 il TAR Piemonte (sentenza n. 00578/2020) – non considerando di fatto le precedenti sentenze del CDS - ha deciso, sulla sospensiva dell’aggiudicazione del Lotto 2162 (Fattore VIII) di una gara 15, di avviare una verifica istruttoria chiedendo ad AIFA specifico parere su diversi punti: 1. se tutti i FVIII e IX, oggetto dei ricorsi relativi alla gara Piemonte 2020, siano gli stessi principi attivi, 2. se i farmaci specifici, per ogni ricorso, siano gli stessi principi attivi, 3. se al momento dell’indizione della gara c’erano i presupposti per esprimere un giudizio di equivalenza, 4. se nella determina 818/2018 si sia inteso implicare che l’appartenenza alla stessa classificazione ATC di V livello escluda la possibilità di chiedere ad AIFA la valutazione di equivalenza terapeutica tra farmaci, poiché l’appartenenza all’ATC di V livello significa automaticamente possedere lo stesso principio attivo. E’ attesa la risposta ufficiale di AIFA. Pertanto, appare evidente che l’infinita e intricata sequela di ricorsi sia stata originata nel caso dei fattori della coagulazione dal far precedere la stesura di un protocollo di gara rispetto al parere ufficiale di AIFA sull’equivalenza di principi attivi biologici diversi, ma con lo stesso codice ATC di V livello.
decisioni che riguardano la configurazione dei lotti di gara in una situazione di estrema incertezza. Le soluzioni proposte dal Panel si articolano su diversi fronti. In primis, il richiamo forte (accordo al 92%) a prestare molta attenzione all’utilizzo della classificazione ATC nelle gare di acquisto dei farmaci originator, perché essa è definita quale strumento amministrativo, idoneo per la classificazione dei farmaci e ampiamente e propriamente utilizzato per gli studi di drug utilization, ma che risulta problematico qualora utilizzato fuori contesto. Da un approfondimento sulla classificazione ATC, le sue linee guida e il suo utilizzo in letteratura, il Panel ha dimostrato che i problemi originano da criticità nelle modalità della procedura di assegnazione ed eventuale modifica dei codici che da essa derivano e che sono pertanto modificabili soltanto con un intervento diretto dell’Ufficio preposto. Le procedure sono infatti lente e macchinose. Con livelli di accordo molto alti 16 (90%-100%), il panel pensa che sia necessario modificare l’assegnazione dei codici ATC, introducendo livelli successivi al V per le biotecnologie (tenendo conto, in particolare delle formulazioni e del profilo farmacocinetico delle molecole), velocizzare il calendario dei meeting e, fin dalla richiesta di assegnazione di un codice, identificare il tipo di medicinale (da sintesi chimica, estrattivo, biotecnologico, o Advanced Therapy Medicinal Products - ATMP), valutare il riferimento all’equivalenza e ammettere un ruolo interattivo da parte del Medicinal Authorization Holder (MAH) nelle fasi di assegnazione del codice stesso e durante le fasi di pre-lancio di un farmaco. Il 75% dei panelisti ravvede nei ritardi dei pareri di AIFA un elemento generante contenziosi in caso di criticità nell’uso del codice ATC in fase di gara e pertanto auspica che venga rispettato il termine dei 90 giorni nella pubblicazione delle deliberazioni previsti dalla normativa, ma soprattutto che il parere di equivalenza sia espresso
Le Stazioni Appaltanti devono attendere la valutazione di equivalenza di AIFA prima di indire una gara in concorrenza tra principi attivi di farmaci biologici diversi e con lo stesso ATC. Il Panel ritiene auspicabile che una platea più ampia possa richiedere un parere di equivalenza ad AIFA.
Le proposte del Panel Le vicende legali raccontate evidenziano che gli operatori del settore si trovano, a volte, tuttavia, a dover adottare
15 Gara Europea per la fornitura di Farmaci ed emoderivati ai fini del consumo ospedaliero, distribuzione diretta e in nome e per conto e servizi connessi per le aziende del servizio sanitario regionale di cui all’art. 3 comma 1 lettera a) L.R. 19/2007, e delle Regioni Valle D’Aosta, Molise, Lazio e Puglia - N. Gara SIMOG: 7684083 - LOTTI da 1 a 2082 - Codice Procedura: SCR03CC10” 16 L’accordo è stato dimostrato attraverso il metodo Nominal Group Tecnique. Referenza: Fare ricerca con i gruppi. Guida all’utilizzo di focus group, brainstorming, Delphi e altre tecniche – Claudio Bezzi, Ed. Franco Angeli
ATC preventivamente e non nel corso di un giudizio pendente (accordo al 92%). L’importanza di questo “tempismo” si rende evidente dall’esempio a dir poco intricato e complesso delle gare dei Fattori della coagulazione: di fatto, l’assenza di un giudizio ha impedito un accesso alle cure omogeneo per le persone affette da emofilia su tutto il territorio italiano. Inoltre, le Stazioni Appaltanti dovrebbero considerare in fase di istruzione di gara i criteri di esclusività dei farmaci, che sono coperti da brevetto e che eventualmente vantano una designazione di Orphan Drug o un’esclusività di uso per una patologia rara iscritta nel Registro Orphanet (accordo al 92%). Infine, secondo il Panel (accordo al 83%) sembra opportuno allargare la platea di chi può richiedere un parere di equivalenza ad AIFA, non limitando questa possibilità alle sole Regioni. Infatti, la formulazione di proposte potrebbe arrivare da Tavoli Tecnici nazionali istituiti ad hoc, e composti da rappresentanti delle Società Scientifiche, delle Regioni, delle Associazioni Pazienti e delle Ditte Farmaceutiche, utilizzando la stessa modulistica proposta da AIFA nella determina 818/2018. In particolare, le Società Scientifiche potrebbero richiedere alle Regioni o alla stessa AIFA di esprimersi su particolari criticità in caso di principi attivi non differenziati dalla classificazione ATC, allo scopo di attivare la procedura di richiesta di applicazione della Delibera 818/2018 da parte delle Regioni (accordo all’83%). Infine, la partecipazione delle Associazione Pazienti, eventualmente attraverso il cosiddetto “paziente informato”, nelle fasi preliminari della stesura di un protocollo di gara per i farmaci - su aspetti riguardanti la posologia, le vie di somministrazioni preferenziali, le eventuali allergie agli eccipienti o altri aspetti peculiari di impatto sulla qualità di vita e aderenza alla terapia che dipendono in primis del paziente - favorirebbe una discussione approfondita sulle peculiarità dei prodotti (in particolare, di quelli biotecnologici) ed un uniforme accesso al farmaco in tutti i contesti regionali (accordo al 75 %). Elementi da valorizzare nelle gare dei farmaci coperti da brevetto Quali fattori differenziano i prodotti biotecnologici coperti da brevetto sul mercato? Per rendere la ricognizione precisa e dettagliata favorendo la corretta scelta dei parametri valutativi e della procedura di gara, i fattori di differenziazione da rilevare sono: forma farmaceutica, dosaggio, indicazione clinica, profilo farmacocinetico, via di somministrazione, caratteristiche del processo produttivo (quali salificazione, glicosilazio-
ne, ingegnerizzazione, eccipienti). Considerazioni generali e conclusioni L’utilizzo dei codici della classificazione ATC nelle gare pubbliche riguardanti in particolare i farmaci biotecnologici coperti da brevetto, uso che pure è totalmente escluso dalle linee guida del WHOCC, può essere rischioso poiché essi non sono in grado di descrivere l’evoluzione delle tecnologie farmaceutiche in modo esaustivo ed efficace. La stessa struttura della classificazione, rigidamente pensata per essere persistente nel tempo, non si adatta alle innovazioni tecnologiche e non appare adeguata a descrivere le differenze dei farmaci biologici e biotecnologici raggruppati nelle categorie di IV e V livello. Numerosi esempi (primo tra tutti quello dei fattori della coagulazione del sangue), dimostrano che non esiste una assoluta automaticità tra “avere lo stesso codice ATC di V livello ed essere lo stesso principio attivo”. La classificazione ATC non definisce l’equivalenza tra farmaci, la cui valutazione, sulla base di prove di carattere scientifico, deve precedere la fase amministrativa dell’espletamento di una gara, e deve quindi essere sollecitamente richiesta prima della stessa e tempestivamente fornita per scongiurare una possibile sequela di ricorsi che allungano i tempi di accesso al farmaco. Sarebbe auspicabile, pertanto, che nel processo di definizione dell’equivalenza tra farmaci possano partecipare le Società Scientifiche, ma anche i rappresentanti dei pazienti, e le stesse Ditte Farmaceutiche in un rapporto di interazione costruttiva con le istituzioni quali AIFA e le Regioni. Per le Regioni la sostenibilità economica dell’assistenza farmaceutica è certamente una priorità che, tuttavia, non può porsi in contrasto con i principi della scienza, e deve rispettare la libertà prescrittiva del medico e il diritto del malato di avere rapidamente accesso alle cure appropriate senza discriminazioni regionali. E’ necessario ampliare le dimensioni di questo ragionamento in termini di value based healthcare, ovvero allargando i criteri di efficienza del sistema sanitario regionale al principio di equità, un “dominio morale che ha a che fare con il diritto alla salute”17. E’ questo il dettato della Corte Costituzionale che sentenzia: “È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” 18. A questo principio fa eco il Codice degli Appalti pubblici che, pur con tutti i suoi limiti, fornisce strumenti adeguati a implementare acquisti che assicurino continuità delle cure, terapia personalizzata e sostenibilità del sistema. Il lavoro è stato prodotto con il contributo incondizionato di SOBI.
17 Fantini et al. Value based healthcare for rare diseases: efficiency, efficacy, equity. Ann Ist Super Sanità 2019 | Vol. 55, No. 3: 251-257 18 Madau. https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Madau%20definitivo.pdf, Marzo 2017
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normazione Michele Lo Squadro - www.terzodiritto.com
Nomina ed insediamento del commissario ad acta: conseguenze per la P.A.
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osa succede dopo la nomina del commissario ad acta? quali sono le conseguenze degli atti posti in essere dalla P.A.? A questi ed altri interrogativi ha risposto l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella recente pronuncia n. 8 del 25 maggio 2021. In particolare è stato sottoposto all’Adunanza Plenaria il problema di individuare nell’attuale regime giuridico una disciplina unitaria, con principi e regole comuni, sulle attività del commissario ad acta rispetto ai diversi procedimenti per cui è nominato (giudizio di ottemperanza, giudizio sul silenzio e giudizio cautelare). In linea generale, la Plenaria afferma che il potere della P.A., attribuito ex lege, e quello del Commissario, conferito dal Giudice, sono poteri tra loro concorrenti e possono essere esercitati fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto. Questo per tutte le tipologie di giudizi nei quali il commissario è nominato. In passato vi erano infatti tre diversi orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento, quello più risalente, il potere - dovere dell’amministrazione di dare esecuzione al decisum veniva meno già dopo la nomina del commissario ad acta. Un secondo orientamento faceva scattare la preclusione non già dopo la nomina bensì dopo l’insediamento del commissario. Per entrambi i sopra elencati orientamenti l’atto posto in essere dalla P.A. dopo la nomina o l’insediamento del commissario era da considerarsi nullo. Infine un terzo orientamento secondo cui vi sarebbe concorrenza tra poteri del commissario e poteri della P.A. del che sarebbe legittimo l’atto adottato dall’amministrazione successivamente alla nomina/insediamento del commis-
sario. Per sgombrare il campo dalle contraddizioni e trovare elementi e principi comuni cui ancorare la disciplina del commissario ad acta a valere per tutte le ipotesi di nomina i Giudici procedono nel loro ragionamento partendo dal dato normativo. Quando è possibile nominare il commissario ad acta? Il Codice del processo amministrativo prevede i seguenti casi: - art. 34, co.1, lett. e), secondo il quale il giudice “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”; - art. 114, co. 4, lett. d), in base al quale il giudice dell’ottemperanza “nomina, ove occorra, un commissario ad acta”; - art. 117, co. 3, secondo il quale, nell’ambito del giudizio sul silenzio dell’amministrazione, “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente, su istanza della parte interessata”; - art. 59, relativo alla “esecuzione delle misure cautelari”, che consente, laddove i provvedimenti cautelari non siano in tutto o in parte eseguiti, che il giudice, su istanza motivata dell’interessato, eserciti “i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza”, e dunque possa disporre anche la nomina di un commissario ad acta. Dal quadro normativo sopra delineato emerge chiaramente che la funzione del Commissario ad acta è quella di “ausiliario del giudice” la cui attività è “sempre” di carattere giurisdizionale in quanto legata da uno stretto nesso
La funzione del Commissario ad acta è quella di “ausiliario del giudice” la cui attività è “sempre” di carattere giurisdizionale in quanto legata da uno stretto nesso di strumentalità con l’ordine contenuto nella sentenza
normazione di strumentalità con l’ordine contenuto nella sentenza. Il commissario il cui munus di ausiliario del giudice, lo si ricorda, deve ritenersi intrinsecamente obbligatorio, sicché non può essere né rifiutato né inciso da disposizioni interne all’Amministrazione di appartenenza, non esercita “poteri amministrativi” perchè non è un “Organo straordinario” dell’Amministrazione ma attua la decisione del giudice anche eventualmente attraverso l’esercizio di poteri amministrativi non esercitati dei quali il comando contenuto in sentenza (o nell’ordinanza) costituisce il fondamento genetico e l’approdo funzionale. Il Commissario potrà essere chiamato ad esempio ad adottare atti dalla natura giuridica più varia come ad esempio il pagamento di somme di denaro cui l’amministrazione è stata condannata; provvedimenti amministrativi di natura vincolata o
di natura discrezionale, ma sempre attraverso l’esercizio di un potere “distinto” da quello di cui l’amministrazione è titolare. Fondamentalmente i presupposti per la nomina del Commissario sono due: • che il giudice debba sostituirsi all’amministrazione; • che tale circostanza si verifichi nell’ambito della giurisdizione del giudice medesimo, così come definita dalle norme che la attribuiscono. Tali presupposti delineano anche l’ambito entro il quale il commissario potrà e dovrà operare. Rispetto agli altri “ausiliari” del Giudice il commissario è l’unico che agisce “dopo” la decisione ed in “sostituzione” dell’amministrazione, senza mai però, come già detto, assumere la funzione di organo straordinario.
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normazione La “sostituzione” si verifica laddove l’ordine del giudice (contenuto nella sentenza ma anche nell’ordinanza) non venga eseguito dall’amministrazione, con pregiudizio per l’effettività e la pienezza della tutela della situazione soggettiva della quale è titolare la parte vincitrice nel giudizio di cognizione; tutela della situazione soggettiva che, per realizzarsi pienamente, ha bisogno della necessaria attività dell’amministrazione ed è garantita sia dalla nostra Carta Costituzionale che dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Tale “sostituzione”, tuttavia, non determina l’esaurimento dei poteri amministrativi attribuiti ex lege alla P.A. ne una “interdizione” dall’esercizio dei poteri medesimi, in quanto il venir meno dell’inerzia della P.A., pur dopo la scadenza del termine assegnatole, rende priva di causa la nomina e la funzione del Commissario. D’altronde la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte dell’Amministrazione sia da parte del commissario ad acta rafforza la posizione della parte vittoriosa in sede di cognizione. Ecco quindi che, come sopra ricordato, la concorrenza della competenza del commissario ad acta e dell’amministrazione ha termine
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allorché uno dei due soggetti dia attuazione alla decisione del giudice. Secondo la Plenaria gli atti emanati dall’Amministrazione in presenza della nomina e dell’insediamento del Commissario ad acta non possono considerarsi “nulli”. Semmai potranno essere dichiarati nulli dal Giudice per violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, L. 241/90), ovvero annullati perché illegittimi all’esito di ordinario giudizio di cognizione, ma non sono affetti da nullità in quanto adottati da un soggetto nella pienezza dei poteri e quindi non in “difetto assoluto di attribuzione”. In sostanza la nomina/insediamento del commissario non “consuma” il potere dell’Amministrazione di provvedere. Ma che valore assumono allora gli atti adottati dal commissario in esecuzione della sentenza dopo che l’amministrazione abbia provveduto? sono validi ma non potranno produrre alcun effetto. Stessa sorte subiscono gli atti adottati dall’Amministrazione “dopo” l’intervento provvedimentale del Commissario. In sostanza il potere esercitato dopo l’intervento esecutivo della pronuncia giurisdizionale viene reso sterile negli effetti pur conservando l’atto intrinseca validità. In conclusione questi i principi di diritto espressi dall’A-
normativa dunanza Plenaria: a) Il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto. b) Gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario. c) Gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.
d) Gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio. Se da un lato l’intervento della Plenaria ha chiarito i meccanismi che governano la fase dell’ottemperanza al giudicato, dall’altro non può non interrogarsi sul perchè un’amministrazione rimanga inerte rispetto all’esecuzione giudiziale tanto da costringere l’apparato giurisdizionale ad intervenire attraverso l’attivazione dei poteri commissariali con allungamento dei tempi ed incremento dei costi a carico della collettività. Per evitare questo sarebbe buona norma che le amministrazioni prevedessero dei meccanismi interni atti a garantire tempi certi e l’individuazione puntuale delle figure apicali direttamente responsabili rispetto all’attuazione tempestiva del decisum giurisdizionale così da rendere non necessaria la nomina/insediamento del commissario. Ne beneficerebbe l’interesse pubblico.
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normazione Francesca Petullà - Foro Romano
Emergenza Covid: la indisponibilità alla stipulazione del contratto da parte dell’aggiudicatario a causa di sopravvenienze legate alla pandemia, non premia
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o ha mirabilmente stabilito il Tar Lombardia, Milano, Sez. I, nella sentenza del 27 aprile 2021, n.1052 in un caso in cui l’aggiudicatario intendeva subordinare la stipulazione del contratto a tre modifiche. Il caso: Un’impresa, dopo essersi aggiudicata una gara d’appalto, si è detta disponibile a stipulare il contratto, ma a patto che venissero introdotte alcune modifiche dovute, a suo dire, alla crisi sanitaria. Nello specifico, sono tre le “richieste” avanzate alla Stazione Appaltante e precisamente: - la bozza di contratto non avrebbe contenuto alcun riferimento all’art. 207 del D.L. n. 34/2020, convertito con modifiche dalla L. n. 77/2020, che ha innalzato la percentuale dell’anticipazione dal 20% al 30%; - sarebbe stato necessario il riconoscimento di ulteriori costi della sicurezza previsti dall’art. 8 c. 4 lett b) del D.L. n. 76/2020; - infine, lo scioglimento del vincolo dell’offerta, ai sensi dell’art. 32 c. 8 D.lgs. 50/2016, in quanto la situazione dovuta all’emergenza sanitaria avrebbe determinato un’alterazione delle previsioni economiche e finanziarie che avevano condotto a produrre l’offerta. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 91 c. 1 del D.L. n. 18/2020, convertito nella L. n. 27/2020, l’offerta non era più attuabile, dal momento che l’imprevista onerosità avrebbe, a reso quelle condizioni, l’appalto “non più congruo e remunerativo”. Il Tar nel rigettare il ricorso ha ribadito che il provvedimento in autotutela dell’amministrazione, con il quale la Stazione Appaltante ha revocato l’aggiudicazione, incamerato la cauzione provvisoria, richiesto il rimborso delle spese per la pubblicazione, e inviato la segnalazione all’ANAC, è legittimo. Le fasi del procedimento e il titolo giuridico vantato Per giurisprudenza costante, la fase che precede la stipula del contratto, e la sua esecuzione, resta nel campo della giurisdizione del g.a. anche dopo l’aggiudicazio-
ne, che non equivale ad accettazione dell’offerta, e la cui efficacia, è comunque subordinata alla verifica del possesso dei requisiti (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. IV, 7.6.2018, n. 3809). Le vicende che precedono la stipulazione del contratto, appartengono ancora alla fase pubblicistica, e in presenza dei presupposti, legittimano, l’attivazione dei poteri di autotutela fatti salvi dall’art. 32, c. 8, D.Lgs. n. 50/2016, posto a fondamento del provvedimento oggetto del presente giudizio, spettando al g.a. la cognizione della controversia sull’impugnazione dei provvedimenti di revoca dell’aggiudicazione, emanati allorché il contratto non sia stato ancora concluso (T.A.R. Veneto, Sez. I, 16.10.2020, n. 952). Ai sensi dell’art. 32 comma 8 “divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni (…). Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l’aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto. All’aggiudicatario non spetta alcun indennizzo”. Pertanto, detta norma si limita a riconoscere all’aggiudicatario la facoltà di sciogliersi dal vincolo contrattuale, nel termine ivi indicato, senza invece imporre alla stazione appaltante alcun divieto di revoca dell’aggiudicazione. Anzi, al contrario, il tenore letterale dell’art. 32 c. 8 cit. è inequivoco nel fare salvo “l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”, che a loro volta, con riferimento a quanto disposto dall’art. 21 quinquies L. n. 241/90, consentono la revoca “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, per mutamento della situazione di fatto, nonché per una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario”. Del resto è giurisprudenza costante quella che afferma il riconoscimento del potere di revoca dell’aggiudicazione definitiva, esercitato prima della stipula del contratto, ed è un dato inconte-
normazione stato anche in giurisprudenza (giurisprudenza costante CdS. Sez. V, 31.12.2014, n. 6455, 13.3.2017 n. 1138, 22.8.2019, n. 5780). La questione: è possibile chiedere modifiche al contratto prima della stipulazione? Atteso quanto sopra ricostruito, la questione sottoposta ai giudici, verte di fatto sulla valutazione di un titolo vantato dalla ricorrente ad ottenere la modifica del contratto, in conseguenza della normativa emergenziale entrata in vigore successivamente all’aggiudicazione, ed in sostanza, la sussistenza dei presupposti del provvedimento di revoca sanzionatoria oggetto del presente giudizio, adottato in conseguenza del suo rifiuto alla stipula. Sul punto, il Collegio rileva che, in primo luogo, il comma 4 dell’art. 8 cit. subordina il riconoscimento die maggiori costi ivi indicati, “ai lavori in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore” del D.L. n. 76/2020, e cioè, al 16.7.2020, non essendo quindi applicabile alla fattispecie per cui è causa. Quanto all’incremento dell’anticipazione del prezzo da corrispondere all’appaltatore, di cui all’art. 207 cit., lo stesso non configura un suo diritto, quanto invece, una facoltà esercitabile dalla stazione appaltante (“può essere incrementato”), “nei limiti e compatibilmente con le risorse annuali stanziate per ogni singolo intervento a disposizione”. La ricorrente non ha peraltro documentato, e neppure affermato, che la mancata tempestiva disponibilità delle maggiori somme che, a suo dire, le avrebbero dovuto essere riconosciute dalla stazione appaltante, pari ad un incremento del 10% dell’anticipazione del prezzo, sia stata determinante, al fine di rendere antieconomica la stipulazione del contratto. Da ultimo, neppure con riferimento a quanto previsto nel comma 6-bis della L. n. 13/2020, la ricorrente ha offerto alcun dato obiettivo da cui desumere, in conseguenza dell’emergenza sanitaria, un peggioramento della propria condizione patrimoniale, tale da precluderle l’esecuzione del contratto, limitandosi invece, del tutto genericamente, a richiamare lo stato di emergenza sanitario, ciò che tuttavia contravviene il principio secondo cui ciascuna delle parti ha l’onere di provare i fatti che allega e dai quali pretende far derivare
conseguenze giuridiche a suo favore, e pertanto, l’eccessiva onerosità sopravvenuta che ha alterato il rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni Una riflessione sugli strumenti presenti nell’ordinamento Il caso di specie però ci porta a riflettere su una situazione contingente dei contratti in essere coinvolti nella fase di esecuzione da circostanze “nuove” talmente pesanti da portare ad una alterazione del sinallagma. Il Codice dei contratti sappiamo prevede delle modifiche limitate, di cui all’art. 106, la possibilità di sospendere la prestazione all’art. 107 e di risolvere il contratto all’art. 108, tutti strumenti che durante l’evento pandemico sono stati ampiamente utilizzati ma che segnano il passo perché tutti legati ad una concezione di evento sopravvenuto episodico e non sistematico come è quello attuale. Nella situazione attuale siamo in presenza di acclarate cause di “forza maggiore”, la riflessione successiva porta ad un’analisi su due fattispecie del Codice Civile, la “impossibilità sopravvenuta” e la “eccessiva onerosità sopravvenuta”, che potrebbero comunque risultare applicabili ai contratti in essere. Del resto l’articolo 30 comma 8 del D.Lgs 50/2016 dispone che “Per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”, e pertanto occorre analizzare le conseguenze derivanti all’applicazione del Codice Civile alla fase esecutiva dell’appalto, avendo comunque ben presenti le disposizioni del Codice degli Appalti e un dato certo la normativa e la giurisprudenza non sono esaustive per governare la situazione attuale. L’impossibilità della prestazione L’art. 1672 del Cod. civ. disciplina i casi di impossibilità di esecuzione dell’opera nei contratti di appalto. Esso stabilisce che il contratto si scioglie quando l’esecuzione è divenuta impossibile in conseguenza di una causa non imputabile ad alcuna delle parti. In tal caso il committente deve pagare parte di opera già eseguita,
L’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore per causa a lui non imputabile, pur se normativamente non specificamente prevista, è da considerarsi causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalla sopravvenuta totale o parziale causa
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normazione nei limiti in cui è per lui utile in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera. Si tratta di una impossibilità sopravvenuta che deve essere assoluta ed oggettiva, come riconosciuto unanimemente dalla giurisprudenza. Per cui nel contratto di appalto, la mancanza di liquidità del committente non può costituire condizione di impossibilità della prestazione. L’impossibilità sopravvenuta che libera dall’obbligazione (se definitiva) o che esonera da responsabilità per il ritardo (se temporanea), deve essere obiettiva, assoluta e riferibile al contratto e alla prestazione ivi contemplata, e deve consistere non in una mera difficoltà, ma in un impedimento, del pari obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso, a nulla rilevando comportamenti di soggetti terzi rispetto al rapporto. L’eventuale difficoltà finanziaria delle parti non può configurarsi quale causa di impossibilità sopravvenuta all’esecuzione del contratto. Ne è prova l’articolo 91 del D.L. 18/2020 che non ha previsto l’impossibilità di rendere le reciproche prestazioni, ma soltanto una limitazione alle responsabilità del debitore. Per cui anche si volesse considerare l’art. 1256, 2° comma del Codice Civile (impossibilità temporanea) devono valere le considerazioni fatte sopra sulla ricon-
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ducibilità alla “assoluta ed oggettiva impossibilità”, e le difficoltà finanziarie del debitore. L’eccessiva onerosità L’art. 1467 del Codice Civile prevede che, nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, quando la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall’articolo 1458 prevedendo altresì che la parte contro la quale è domandata la risoluzione possa evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. Nel contratto di appalto, il rimedio generale dell’art. 1467 è applicabile soltanto se la sopravvenienza derivi da “avvenimenti straordinari ed imprevedibili” diversi dalle fattispecie indicate per il contratto di appalto, in particolare dall’art. 1664. Va segnalato come, proprio per ridurre i rischi derivanti all’appaltatore da contratti di durata, il “vecchio Codice” il D.Lgs 163/2006 aveva previsto all’art.115 una clausola di adeguamento dei prezzi per i servizi e forniture ad esecuzione periodica. La norma non è però presente nel D.Lgs 50/2016,
normazione ove all’ 106 comma 1 lettera a) ammette modifiche al contratto per clausole previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. E va ricordato pure che a tutela dell’appaltatore, l’articolo 133 del D.Lgs 163/2006 prevedeva ai commi 4, 5 e 6, un meccanismo che tenesse conto anche delle oscillazioni dei prezzi dei materiali, parzialmente riproposto all’articolo 106 comma 1 del D. Lgs 50/2016, di cui proprio in questi giorni si discute molto per il cd. “caro acciaio”. La eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, per potere determinare, ai sensi dell’art. 1467, la risoluzione del contratto richiede la sussistenza di due necessari requisiti: da un lato, un intervenuto squilibrio tra le prestazioni, non previsto al momento della conclusione del contratto, dall’altro, la riconducibilità della eccessiva onerosità sopravvenuta ad eventi straordinari ed imprevedibili, che non rientrano nell’ambito della normale alea contrattuale. Il carattere della straordinarietà è di natura oggettiva, qualificando un evento in base all’apprezzamento di elementi, quali la frequenza, le dimensioni, l’intensità, suscettibili di misurazioni (e quindi, tali da consentire, attraverso analisi quantitative, classificazioni quanto meno di carattere statistico), mentre il carattere della imprevedibilità ha fondamento soggettivo, facendo riferimento alla fenomenologia della conoscenza. Va però evidenziato come l’onerosità sopravvenuta non produca una “risoluzione automatica” del contratto, perché per giurisprudenza costante ad eccetto dei casi di risoluzione di diritto del contratto (previsti dagli artt. 1454, 1456 e 1457 Cod. Civ.), nessuno dei quali ricorre nel caso in esame, in ogni altro caso la risoluzione del contratto per qualsiasi causa deve essere pronunziata dal giudice e la pronunzia ha carattere costitutivo. Di conseguenza in questi ulteriori casi la risoluzione non può costituire oggetto di eccezione, ma deve formare oggetto di una specifica domanda, eventualmente proposta in via riconvenzionale”. Da ciò discende che in presenza delle condizioni di eccessiva onerosità, la parte tenuta all’adempimento può agire in giudizio per chiedere la risoluzione del contratto. Ma questa conclusione non è quella cui sembra mirare l’articolo 91 del D.L. 18/2020, che incide sul risarcimento del danno da mancato o ritardato pagamento ed eventualmente sugli interessi dovuti, ma non esclude il dovere all’esecuzione della prestazione da parte dei contraenti. Per cui, qualora le stazioni appaltanti ragionino in termini di impossibilità sopravvenuta o eccessiva onerosità si proiettano inevitabilmente verso una conclusione, la risoluzione del contratto, che non sembra la migliore delle soluzioni.
L’interesse a ricevere la prestazione Ferma restando una necessaria verifica sui contratti in essere, finalizzata ad analizzare le eventuali pattuizioni stabilite tra le parti nei casi di forza maggiore, è fondamentale verificare l’interesse della stazione appaltante a ricevere la prestazione, e dunque a mantenere il contratto in essere. Infatti “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta inutilizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione (Cassazione civile, sez. III, 20/12/2007, n. 26959)” (si rammenti che l’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore per causa a lui non imputabile, pur se normativamente non specificamente prevista, è da considerarsi causa di estinzione dell’obbligazione, autonoma e distinta dalla sopravvenuta totale (ex art. 1463 c.c.) o parziale (ex art. 1464 c.c.) impossibilità di esecuzione della medesima, cfr. altresì Cass., 24/7/2007, n. 16315). Per cui, a meno che non si versi in casi limite in cui la stazione appaltante non ha più interesse a ricevere quella prestazione, è da presumersi che gli appalti in essere siano necessari o al funzionamento di questa o, come nel caso degli appalti di lavori, all’ampliamento/manutenzione del patrimonio pubblico. Una eventuale risoluzione dei contratti di appalto, anche qualora legittima, determinerebbe infatti la necessità di stipula di nuovi contratti, con l’attivazione delle apposite procedure. Pertanto, piuttosto che orientarsi sulla risoluzione dei contratti in essere, che potrebbe incidere anche sul corretto funzionamento dell’attività delle stazioni appaltanti (oltre a determinare anche presumibili strascichi legali), potrebbe sembrare maggiormente ragionevole agire secondo le previsioni del Codice degli Appalti. Anche in questo caso, però, analizzando, le varie fattispecie sopra elencate, le problematiche non mancano. Conclusioni La sentenza qui commentata apre un ampio spazio di riflessione sulla delicatezza della situazione contingente, caratterizzata da un perpetuarsi di straordinarietà che anche il codice civile non riesce a “governare “ in toto, lasciando alle parti l’onere di verificar e la reale volontà di giungere ad un negoziato basato su quel principio generale della buona fede dei contraenti di cui all’art. 1374 cod. civ., senza il quale il rischio reale è solo un contenzioso certo senza sicurezza sulla esecuzione di prestazioni che vedono come destinatari noi tutti in un momento di estrema fragilità e vulnerabilità.
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normazione Valerio Frosi - Silvia Trovato - dottori in giurisprudenza
Responsabilità della pubblica amministrazione: i tempi non sono ancora maturi per invertire la rotta
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on la sentenza n. 7 dello scorso 23 aprile, l’Adunanza Plenaria sembra aver definito a vantaggio della soluzione extracontrattuale il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione che derivi da atti illegittimi o dal ritardo nella loro adozione. La questione rimessa al Supremo Consesso prendeva le mosse dalle richieste di autorizzazione che, tra il giugno 2009 e il luglio 2010, la Iris Impianti Energia Rinnovabile Siracusa s.r.l. presentava alla Regione Sicilia per la realizzazione e gestione di quattro impianti fotovoltaici nel Comune di Siracusa ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2009 (attuativo della Direttiva 2001/77/CE sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità). A seguito di un prolungato silenzio della amministrazione - contro il quale la ricorrente aveva dapprima agito ai sensi dell’art. 117 c.p.a. e, quindi, in ottemperanza -, la Regione Sicilia concludeva il procedimento amministrativo solo in data 18 febbraio 2013 autorizzando solamente tre dei quattro impianti domandati. A fronte di ciò l’impresa adiva il TAR Sicilia chiedendo la condanna della Regione al risarcimento dei danni subiti in ragione della sopravvenuta antieconomicità dell’intervento tardivamente autorizzato, per effetto della preclusione all’accesso al regime tariffario incentivante previsto da (l’allora vigente) art. 7 del d.lgs. 387 del 2003, successi-
vamente abrogato nel 2012. Tali istanze venivano però rigettate. La ricorrente adiva quindi il CGARS il quale, ravvisando orientamenti contrastanti in giurisprudenza (e ritenendo invero i tempi maturi per una “revisione critica del regime consolidato”), invocava l’intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria deferendole alcune questioni giuridiche in tema di responsabilità pubblica. L’organo siciliano chiedeva in particolare di pronunciarsi sulla idoneità della sopravvenienza normativa menzionata ad interrompere il nesso causale tra l’inerzia della amministrazione nel definire i procedimenti autorizzativi e il danno lamentato dalla ricorrente a titolo di lucro cessante, e consistente nel venire meno dei margini economici realizzabili con il regime abrogato. Con ulteriori questioni - poste in dipendenza a quella relativa alla natura contrattuale od extracontrattuale della responsabilità pubblica - si chiedeva poi al Supremo Collegio di pronunciarsi in tema di commisurazione del danno risarcibile derivante dal ritardo.
La Plenaria non si tira indietro e innova con efficacia chiarificatrice un dibattito che forse solo oggi può dirsi concluso. Da oggi ogni interprete è chiamato ad inquadrare nella cornice aquiliana la responsabilità pubblica per lesione di interessi legittimi da provvedimento illegittimo o da ritardo
La risposta della Plenaria In relazione al primo quesito, la Plenaria risponde alle istanze riformistiche in modo negativo, confermando ancora una volta che la responsabilità in cui incorre l’amministrazione per l’esercizio delle sue funzioni pubbliche sia inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito.
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normazione Nel fare ciò il Supremo Consesso vaglia le possibili strade argomentative che per anni hanno colorato il dibattito di dottrina e giurisprudenza in tema di responsabilità da inadempimento della p.a.: contratto e contatto sociale. Quanto alla suggestiva ( quasi tentatrice) ipotesi di configurare un contratto tra privati e pubblica amministrazione nelle more del procedimento amministrativo, la Plenaria chiarisce che la relazione giuridica che si instaura tra il privato e la p.a., lungi dall’essere assimilabile a quella tra soggetti formalmente e sostanzialmente privati, si caratterizza per la (com)presenza di due situazioni giuridiche soggettive entrambe attive: da un lato il potere della p.a., attribuito dalla legge e da esercitarsi in conformità alla stessa, dall’altro l’interesse legittimo del privato. Proprio muovendo dalla qualificazione della relazione tra privato e amministrazione in termini di “supremazia” e, dunque, di asimmetria, la Plenaria rigetta anche l’impostazione teorica del “contatto sociale”. Ricostruzione su cui fa leva parte della giurisprudenza per richiamare lo schema contrattuale anche in assenza di un sinallagma, ma che, secondo i giudici di Palazzo Spada, è imprescindibilmente collegato ad una relazione di tipo paritario. Superato (o glissato?) il primo ostaco-
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lo postole dal giudice rimettente, la Plenaria passa in rassegna l’evoluzione storico-normativa degli strumenti posti a tutela dell’interesse legittimamente vantato dal privato. In questo quadro, sostiene che lo strumento di tutela elettivo di carattere generale per l’interesse legittimo è e rimane quello dell’azione costitutiva di annullamento dell’atto amministrativo. Nondimeno, rammenta che nel corso del tempo, il progressivo abbandono della originaria concezione dell’interesse legittimo quale interesse occasionalmente protetto in favore della dimensione sostanzialista dello stesso, ha determinato un aumento degli strumenti posti a tutela del privato, tra cui spicca la tutela risarcitoria, ammessa anche nei confronti del potere pubblico, in una logica eminentemente “rimediale”. Fra gli interventi di riforma operati sul piano sostanziale assume efficacia dirimente la possibilità per il privato di domandare “la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria” (articolo 30 comma 2 c.p.a.) nonché derivante dall’“inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 30 comma 4 c.p.a.). A parere del Supremo Consesso simili conclu-
normazione sioni inquadrerebbero l’illegittimo esercizio del potere amministrativo proprio all’interno di quel principio generale secondo cui “qualunque fatto doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Ossia, in altri termini, nella responsabilità aquiliana. Ciononostante, precisano i giudici di Palazzo Spada, la responsabilità in esame, malgrado il descritto inquadramento, presenta elementi di peculiarità rispetto alla controparte civilistica. E tanto vale non solo quando l’amministrazione agisce come potere dello Stato, bensì anche quando opera in qualità di soggetto erogatore di prestazioni, vista la descritta posizione di supremazia dalla stessa vantata. Un primo elemento di peculiarità si rinviene in punto di proponibilità. Sia il risarcimento per lesione di interessi legittimi, sia il risarcimento per il danno da ritardo sono infatti assoggettati a termini decadenziali più brevi rispetto a quelli previsti dal legislatore civile; e ciò in virtù della imprescindibile esigenza di “certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria”, che la Consulta non ha mancato di richiamare nella nota sentenza n. 94 del 2017 e che a quanto pare assume carattere sicuramente più marcato nei rapporti con il potere pubblico. Altra caratteristica che denota la responsabilità dell’amministrazione poggia sul piano dell’ingiustizia del danno. Declinato nel settore “pubblico”, tale requisito implica che il risarcimento può essere riconosciuto solo se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso un bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere, deponendo in questo senso anche gli univoci indici normativi contenuti negli artt. 30, commi 2 e 4, c.p.a. e 2 bis, comma 1, l. n. 241/90. Ciononostante, l’ingiustizia del danno deve essere valutata alla luce di caratteristiche sue proprie a seconda del settore in cui viene in rilievo. In materia di lesione di interessi legittimi, la Plenaria precisa che l’ingiustizia del danno si correla alla natura sostanzialistica di questi ultimi. Ragion per cui solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica derivi una lesione della sfera giuridica del privato, egli potrà domandare il risarcimento per equivalente monetario. Viceversa, difettando un accertamento in ordine alla fondatezza della pretesa del privato, quest’ultima rimarrà lettera morta. Così opinando, il Supremo Consesso giunge ad affermare che nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo, il requisito dell’ingiustizia esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento ampliativo favorevole per il quale aveva presentato istanza. In questo senso gioca un ruolo fondamentale lo strumento di collaborazione
previsto e disciplinato dall’art. 2, commi 9 bis- 9 quinquies l. 241/90: istituto attraverso il quale il privato è in grado di stimolare l’intervento della p.a. rimasta inerte a mezzo dell’avocazione dell’affare. A questo profilo la Plenaria aggiunge poi due osservazioni. Da un lato sgombra il campo da potenziali incertezze: il citato dispositivo non si atteggia a presupposto processuale da valutare in punto di an per l’accoglimento della domanda risarcitoria. Esso opera piuttosto come strumento di perimetrazione del risarcimento dovuto in quanto fattore di mitigazione – o di esclusione – del risarcimento ai sensi dell’art. 30 comma 3 c.p.a., laddove si accerti che “che le condotte attive trascurate (…) avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno”. Per altro verso, ritiene che il citato onere di cooperazione debba essere ricondotto allo schema di carattere generale di cui all’art. 1227, comma 2, c.c. (complice il richiamo operato dall’art. 2056 c.c. per la responsabilità da fatto illecito). Ma con un’importante precisazione. Diversamente da quanto disposto nei rapporti regolati dal diritto civile, l’onere di cooperazione del privato nei confronti dell’esercizio della funzione pubblica assume i connotati – come affermato dalla Ad. Plen. del 23 marzo 2011, n. 3 – di un “obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno)”, da cui discende immancabilmente l’irrisarcibilità di quel danno che “il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza”. Così tratteggiati i caratteri peculiari connessi alla responsabilità dell’amministrazione rispetto alla fattispecie di cui all’art. 2043 del c.c., la sentenza si sofferma sul danno-conseguenza: elemento comune all’illecito civile, rispetto al quale, però, si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo. Anzitutto – rileva la Plenaria - deve escludersi l’operatività del limite rappresentato dalla prevedibilità del danno, salvo ovviamente il caso di dolo. In secondo luogo, al fine di tracciare il perimetro del danno risarcibile, assume centrale rilievo il dispositivo di cui all’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.) secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Sicché, il criterio della consequenzialità immediata e diretta, operando quale limite alla individuazione delle conseguenze dannose risarcibili comprese nella serie causale originata dal fatto illecito, porta ad escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali tale fatto non si pone in rapporto di necessità o rego-
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larità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi. Sulla scorta di detta ricostruzione del danno-conseguenza, la sentenza fornisce una risposta in tema di risarcibilità ex se del bene “tempo” e, dunque, sul valore che esso assume ai fini della determinazione del danno. Ebbene il Collegio conferma l’impostazione tradizionale seguita dalla giurisprudenza amministrativa, che a più riprese ha confermato che il bene “tempo” ha dignità di interesse risarcibile ex art. 2 bis l.n. 241/90 se e nella misura in cui, per effetto di tale lesione, si sia prodotto un danno ingiusto. Con la conseguenza che non sarà risarcibile il c.d. danno da mero ritardo, salvo che il privato provi “sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), nonché i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione” (così Ad. Plen. del 4 maggio 2018, n. 5). In ultimo, la Plenaria si concentra sul quesito avanzato dai giudici siciliani: una sopravvenienza normativa è fattore causale autonomo, in grado di interrompere il nesso causale richiesto ex art. 1223 c.c. oppure il ritardo ha natura di mera occasionalità rispetto al pregiudizio patrimoniale lamentato dalla società ricorrente? o più semplicemente: il mancato accesso al regime di favore può essere imputato alla Regione siciliana o meno? Nell’individuare un punto di approdo, il Supremo Consesso rileva che nel caso di specie, lungi dal porsi come mera “occasione” del pregiudizio, il ritardo nel rilascio del provvedimento autorizzatorio ne è stata sicuramente la causa. In tal senso, se da un lato ammette che nei rapporti giuridici la sopravvenienza normativa costituisce il factum principis, in grado pertanto di escludere l’imputazione soggettiva delle relative conseguenze pregiudizievoli, dall’altro è fuor di dubbio che l’ingiustificato ritardo nel rilascio del provvedimento inneschi una responsabilità in capo all’amministrazione (secondo le modalità descritte dalla Plenaria) che impone alla stessa di definire un quadro certo relativo ai tempi in cui il potere pubblico deve essere esercitato cui consegue la legittima pretesa del privato affinché tale potere sia esercitato. Pertanto – sostiene la Plenaria – il mutamento normativo deve senz’altro essere considerato un rischio imputabile all’amministrazione quando la sopravvenienza normativa non avrebbe avuto rilievo se i tempi del procedimento autorizzativo fossero stati rispettati. Sempre nell’ambito della dicotomia tra danno emergente e lucro cessante il Consiglio di Stato aggiunge che il mancato accesso al regime tariffario favorevole si colloca indiscutibilmente nel secondo concetto, confermando quanto già evidenziato dallo stesso giudice rimetten-
te. Ciononostante, non manca di avvertire come i due concetti si distanzino enormemente in punto di prova. Mentre il danno emergente si identifica con la perdita patrimoniale avvenuta, il lucro cessante richiede necessariamente una diversa valutazione causale da effettuarsi in termini ipotetici, che consentano di stabilire – secondo un giudizio di verosimiglianza – se il guadagno futuro e solo prevedibile si sarebbe concretizzato con ragionevole grado di probabilità se non fosse intervenuto il fatto ingiusto altrui. E nel rispondere all’implicito quesito i giudici di Palazzo Spada individuano lo strumento elettivo per riconoscere e quantificare un danno di tal fatta nel giudice e nel suo equo apprezzamento delle circostanze del caso secondo il richiamo dell’art. 2056 c.c.. In definitiva, pur mantenendo fermi approdi giurisprudenziali già raggiunti, la Plenaria non si tira indietro e innova con efficacia chiarificatrice un dibattito che forse solo oggi può dirsi concluso. Da oggi ogni interprete è chiamato ad inquadrare nella cornice aquiliana la responsabilità pubblica per lesione di interessi legittimi da provvedimento illegittimo o da ritardo. E ciò in forza di un rapporto fra privato e amministrazione che la Plenaria definisce asimmetrico, ossia caratterizzato da una posizione di supremazia dell’organo pubblico. Sarebbe questo, in altri termini, l’ostacolo che impedisce di operare quel cambiamento di rotta da molti auspicato. L’ingiustizia del danno deve conseguentemente essere provata, seppure entro termini brevi. Nondimeno, qualora vengano in esame lesioni subite a mezzo di provvedimenti illegittimi, il danno ingiusto si configura quando, ad essere leso, sia stato un bene della vita cui il privato aveva diritto di mantenere od ottenere. Diversamente, nel caso di lesione da ritardo, il danno ingiusto non giace nella semplice lesione ex se del bene-tempo bensì nella effettiva lesione che la sfera del privato ha subito. Infine, quanto alla quantificazione delle conseguenze risarcibili, da un lato riveste centrale importanza la cooperazione procedimentale del privato, la cui condotta potrà essere valutata dal giudice anche al fine di escludere il risarcimento; dall’altro, in punto di liquidazione del lucro cessante, rimangono fermi i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, dovendosi invocare l’equo apprezzamento del giudice. La sentenza in esame fornisce in definitiva un solido quanto convincente componimento del dibattito sulla natura della responsabilità della pubblica amministrazione per la lesione degli interessi legittimi sia per l’illegittimità dei provvedimenti, sia per il ritardo nell’adottare gli stessi.Tuttavia rimane da chiedersi: è forse questa l’ardua sentenza che si demandava ai posteri o è da attendersi a breve un nuovo pronunciamento che sconfessi il tutto a favore del cambio di rotta auspicato?
risk management Marco Mariani - Università eCampus e di Salerno
Il Risk Management nelle concessioni di lavori e servizi
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oggetto del presente elaborato è costituito dai principali profili di risk management nelle operazioni di Partenariato Pubblico Privato (PPP) disciplinate dal Codice dei contratti pubblici1. Il punto di partenza è fornito dalla constatazione che tutti gli attori nelle realizzazioni in PPP vogliono certezze, in termini di costi e di garanzie, a fronte di eventi che possono gravemente danneggiare il progetto fino a determinarne l’abbandono. Nelle operazioni di PPP il più importante elemento di partenariato tra parte pubblica e parte privata riguarda il “rischio”, definibile come ogni elemento futuro e incerto, prevedibile o imprevedibile. Per affrontare questi problemi si deve dar luogo nell’ambito del progetto ad una consapevole attività di analisi e trattamento dei rischi, cioè ad una consapevole attività di Risk Management. Questa attività deve porsi degli obbiettivi che di norma possono essere così definiti: – Massimizzare le variabili assicurabili; intendendo l’assicurazione nella sua funzione fondamentale di scambio del certo (premio) contro incerto (rischio), è questo un obbiettivo fondamentale per i finanziatori. – Minimizzare il rischio d’impresa, inteso come insieme di rischi non assicurabili. Infatti la possibilità di cedere rischi al mercato assicurativo (Risk Transfer) varia a seconda che questo si trovi in condizione «soft» (capacità disponibile a costi contenuti, flessibilità nella
sottoscrizione) o in condizione «hard» (capacità scarsa e costosa, forte rigidità e selettività nell’assunzione dei rischi). – Ripartire il rischio residuale (Risk Sharing) tra i partecipanti. Nel perseguire questi obiettivi si deve tener presente che: – se ciascun soggetto cerca di minimizzare i propri rischi, spesso tramite il trasferimento ad un altro dei soggetti coinvolti, emergeranno facilmente problemi; – la valutazione dei rischi deve invece essere globale per poter essere efficace; solo in base ad essa si potrà decidere qual è la allocazione più economica2. Va subito evidenziato che un elemento fortemente caratterizzante le operazioni di PPP è rappresentato dall’analisi e dalla gestione del rischio: infatti un’operazione di PPP avrà tante più probabilità di successo quanto più le diverse tipologie di rischio presenti nell’iniziativa siano state individuate, isolate ed attribuite ai soggetti che maggiormente sono in condizioni di gestirle e controllarle. Questo risultato è particolarmente significativo nell’ambito della costruzione e gestione di opere pubbliche o nella realizzazione di grandi interventi infrastrutturali, in particolare quelli con tecniche di project financing, ma è comunque presente anche nelle concessioni di servizi. L’entità dei rischi connessi all’operazione è sempre molto rilevante (attesa la grandezza dei capitali coinvolti nelle medesime
Il c.d. security package deve seguire, e non precedere, lo studio di scenario in quanto esprime la protezione che le clausole contrattuali danno complessivamente al progetto al termine di un approfondito percorso di studio e allocazione dei rischi
1 Il presente contributo si colloca in continuità con il mio precedente lavoro (“L’impatto delle sopravvenienze nelle concessioni di servizi. Il caso del servizio di ristoro a mezzo distributori automatici”) pubblicato su TEME n. 1/2021, pagg. 38-43. 2 Altrettanto si può dire per le coperture assicurative: l’acquisto di assicurazioni fatto autonomamente da ogni attore può portare a insiemi difficilmente coordinabili e con possibili lacune. Purtroppo questa impostazione pare sia quella seguita dal legislatore.
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risk management operazioni): dunque, la tecnica di ripartizione dei rischi tra i vari soggetti rende possibili interventi che non sarebbero altrimenti realizzabili se il rischio per intero gravasse su un unico soggetto. I rischi di un’operazione di PPP possono essere classificati in funzione essenzialmente di due criteri: 1. un criterio strutturale, nel quale le tipologie di rischio possono essere generali, cioè comuni a tutte le operazioni di PPP, o specifiche, cioè legate solo al singolo progetto; 2. un criterio temporale, che analizza il rischio nelle diverse fasi di vita di un progetto. I rischi strutturali Si riscontrano nelle operazioni di PPP varie tipologie di rischio. Il “rischio politico amministrativo” rappresentativo di tutte le incertezze legate alla stabilità politica, alla disponibilità delle necessarie autorizzazioni, oppure legato alla variazione dell’imposizione fiscale, o della normativa in materia di determinazione e adeguamento delle tariffe. Sono rischi legati a comportamenti della pubblica amministrazione rappresentativi dell’eventualità, pur-
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troppo non remota, che l’atteggiamento delle autorità pubbliche possa in relazione ad un progetto mutare, non essere più favorevole alla realizzazione dell’opera, oppure, alla realizzazione in base alle specifiche e alle caratteristiche già decise. Il “rischio di forza maggiore” è rappresentativo degli eventi non prevedibili il cui verificarsi non dipende dai soggetti direttamente o indirettamente coinvolti nell’iniziativa imprenditoriale: terremoti, incendi, alluvioni. Si tratta di rischi che possono presentarsi in qualsiasi fase di vita del progetto. In genere la copertura è ricercata con la stipula di polizze assicurative. Il “rischio paese” è caratteristico dei progetti internazionali, ed indica la probabilità di perdita di un credito internazionale derivante da eventi che sono direttamente o indirettamente sotto il controllo del governo del Paese nel quale si interviene, e verso il quale la banca è esposta ma, comunque, al di fuori del controllo dei singoli operatori. È un rischio al quale sono esposti i soggetti finanziatori dell’opera, che può, come detto, compromettere la restituzione dei finanziamenti prestati. Il rischio paese si compone di vari sub rischi rispettivamente di carattere politico, economico sociale ed ambientale.
risk management Il “rischio completamento” esprime la possibilità che un progetto non venga completato secondo le specifiche ed entro parametri di costo e di tempo predeterminati. Comprende dunque due distinti sotto rischi: un rischio di superamento dei costi ed un rischio legato alla possibilità che si verifichino ritardi. Il rischio di superamento dei costi si manifesta quando il costo della realizzazione dell’opera è superiore a quello stimato in origine: circostanza che può verificarsi per imprevisti tecnici, per maggiori costi delle forniture, per inefficienze del realizzatore. Un incremento dei costi di realizzazione dell’opera in un’operazione di finanza di progetto ha conseguenze piuttosto serie che possono pregiudicare il successo dell’intera iniziativa: infatti la capacità di autofinanziamento deve essere riparametrata sulla base del maggior costo effettivo dell’opera, e non è detto che i livelli di redditività originariamente accertati siano, nelle nuove circostanze, verificati. Il rischio legato ai ritardi nella realizzazione dell’opera, ugualmente, si riflette in modo incisivo sulla redditività dell’iniziativa, in quanto produce l’effetto di spostare in avanti il momento in cui l’opera inizierà a produrre ricavi. I rischi di completamento sono gestiti con apposite
garanzie. In linea generale è fondamentale la scelta del costruttore, che deve dimostrare di possedere l’esperienza tecnica e la solidità finanziaria per sopportare maggiori costi, danni, penali in caso di ritardi, e soprattutto deve dimostrare di possedere le risorse necessarie per fronteggiare con successo i problemi che si dovessero presentare. Inoltre per evitare che tali rischi vengano sopportati dagli sponsors o dai finanziatori dell’opera, invece che dai realizzatori della stessa, vengono stipulati contratti a prezzo fisso chiavi in mano che stabiliscono delle penali a carico dei contractor di ammontare pari ai maggiori oneri derivanti da eventuali ritardi nella realizzazione dell’opera. Il contratto chiavi in mano a prezzo non modificabile in aumento è una caratteristica sempre più diffusa nei contratti internazionali di opere pubbliche. Inoltre assai utilizzate dalle prassi internazionali sono garanzie specifiche volte a coprire i rischi della fase di realizzazione: si tratta ad esempio del performance bond (garanzia che copre il rischio che l’appaltatore non realizzi l’opera alle condizioni prestabilite di tempo e di costo per qualsiasi ragione) o l’advance payment guarantee (garanzia richiesta dal soggetto appaltante all’appaltatore costruttore a fronte dell’anticipazione
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sulle somme dovute per la realizzazione dei lavori che viene solitamente accordata al realizzatore dell’opera); o, ancora, la retention money guarantee (a garanzia dei rischi che si manifestino dopo la fine dei lavori, spese impreviste conseguenti a errori commessi dall’appaltatore nella fase di esecuzione; l’ente appaltante promotore dell’opera, può trattenere o detrarre una parte dei pagamenti dovuti al costruttore in base allo stato di avanzamento dei lavori). Il “rischio di esistenza del mercato” è legato alle caratteristiche della domanda di beni e servizi da fornire (entità, elasticità e loro andamento nel tempo) ai prezzi o tariffe che siano in grado di generare il programmato cash flow per tutta la durata di vita del progetto. L’entità di tale rischio è stimata mediante ricerche di mercato ed analisi di fattibilità economico finanziaria; l’esito di tali studi e ricerche è alla base della decisione se intraprendere o meno un’iniziativa in PPP. Infatti, tali attività sono mirate ad accertare che il progetto soddisfi le condizioni di validità economica che lo rendano finanziabile. Ancorché oggi si disponga di strumenti piuttosto sofisticati per condurre ricerche di mercato e analisi di fattibilità economico finanziaria, una componente di rischiosità legata alla possibilità che le previsioni svolte non trovino reale riscontro è sempre presente: è dunque necessario predisporre strumenti di copertura dei rischi connessi. In linea di massima le garanzie a copertura di tale rischio sono rappresentate dalla stipulazione di contratti che assicurano al gestore dell’opera un flusso di introiti certo nel suo ammontare e nel suo profilo temporale (contratti T.O.P. take or pay; T.A.P., take and pay; T.O.P. Through Put). Gestire tale rischio è invece abbastanza difficile nei casi in cui l’iniziativa di PPP abbia come oggetto la costruzione e gestione di un’opera pubblica o infrastrutturale, perché in questi casi non è identificabile un unico soggetto acquirente del servizio (con il quale eventualmente stipulare un contratto take or pay): per gestire tale rischio si può chiedere all’amministrazione interessata di stipulare un contratto di pagamento minimo che assicuri un flusso di ricavi sufficienti al rimborso del debito. Il “rischio finanziario” è espressione fondamentalmente della volatilità dei tassi di interesse e dell’andamento del tasso di inflazione (e dell’andamento dei rapporti di cambio, nei casi in cui si compiano operazioni in valuta estera) ed hanno un ruolo determinante essendo le operazioni di PPP caratterizzate da indici di indebitamento elevati. Da questo rischio è possibile tutelarsi ipotizzando una copertura del fabbisogno finanziario realizzata prevalentemente con finanziamenti a tasso fisso (ciò che non è facile perché la vita del progetto è di solito abbastanza lunga, e dunque solo in minima parte l’iniziativa potrà essere finanziata con finan-
ziamenti a tasso fisso). Va poi menzionato il “rischio legale”, vale a dire quello connesso alla possibilità per i finanziatori di far valere i propri diritti sulle garanzie. Infine, vi è il rischio di credito, da valutarsi tramite due diligence, relativo al merito creditizio del costruttore, dell’acquirente del prodotto, del fornitore dell’input e del gestore. Riguardo al tema qui trattato, è rilevante l’intervento effettuato dall’ANAC con le Linee guida n. 9 del 28.3.2018 aventi ad oggetto “Monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato”. Si tratta di un documento sufficientemente corposo, nel quale vengono posti in luce ulteriori profili di rischio che possono presentarsi sia nella fase antecedente l’aggiudicazione e/o la stipula del contratto, sia in quella successiva, ovvero durante l’intero ciclo di vita del PPP. Tra di essi si possono citare (punto 2.8 LG ANAC n. 9) il rischio di commissionamento, il rischio amministrativo, il rischio espropri, il rischio ambientale e/o archeologico, il rischio normativo-politico-regolamentare, il rischio di finanziamento, il rischio finanziario, il rischio di insolvenza, il rischio delle relazioni industriali, il rischio di valore residuale, il rischio di obsolescenza tecnica, il rischio di interferenze. Innovando rispetto alle fonti normative precedenti, il Codice dei contratti pubblici del 2016 conferma la scelta di matrice eurounitaria (Direttiva UE n. 23/2014) di assumere il rischio operativo quale elemento distintivo del contratto di concessione (così come di tutti gli altri istituti di PPP) rispetto a quello di appalto, e per mezzo del comma n. 4 dell’art. 181 assegna alle linee guida ANAC una funzione attuativa/integrativa. Le sopra citate Linee guida ANAC n. 9 del 2018, hanno finalmente individuato la “matrice dei rischi” quale strumento atto a definire e ripartire i diversi tipi di rischi e che dev’essere obbligatoriamente elaborato e quindi allegato al contratto. Una corretta analisi dei rischi genera, infatti, nelle amministrazioni pubbliche una più informata consapevolezza delle possibili criticità che potrebbero emergere nel corso dell’operazione, contribuendo a rafforzare le prerogative contrattuali del soggetto pubblico nei confronti dell’operatore economico privato. L’ANAC consiglia di utilizzare tale strumento “a monte dell’indizione della procedura di gara, per verificare la convenienza del ricorso al PPP rispetto ad un appalto tradizionale “e”a valle dell’operazione, dal momento che - essendo in essa rappresentata la ripartizione dei rischi tra le parti, così come definitivamente fissata nei documenti contrattuali - consente un agevole controllo sul mantenimento in capo al privato dei rischi allo stesso trasferiti”. Sull’argomento sono recentemente intervenuti alcuni atti, che meritano di essere almeno
risk management menzionati: – Comunicato del Presidente ANAC del 22 dicembre 2020, con cui si è disposto l’avvio della verifica di impatto della regolazione delle Linee guida n. 9 sopra citate. Lo scopo della verifica di impatto della regolazione è quello di acquisire dati ed informazioni circa gli elementi ostativi all’avvio di operazioni di partenariato e in merito agli aspetti fondamentali delle operazioni di partenariato pubblico privato, che possono incidere significativamente sul loro trattamento statistico: a) allocazione dei rischi tra soggetto pubblico e soggetto privato; b) revisione del piano economico finanziario; c) flusso informativo per il monitoraggio dei rischi. - Schema di contratto di concessione per la progettazione, costruzione e gestione di opere pubbliche (approvata dall’ANAC con delibera n. 1116 del 22 dicembre 2020 e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con determina del Ragioniere Generale dello Stato n. 1 del 5 gennaio 2021). Nel corpo di tale documento è presente un modello esemplificativo di matrice dei rischi. - Delibera ANAC n. 219 del 16 marzo 2021 (Risultanze emerse nel corso dell’attività di vigilanza sul PPP svolta nel 2020 – Analisi). Tra le criticità della fase di esecuzione, l’ANAC ha “ravvisato in talune ipotesi il trasferimento del rischio di domanda sull’amministrazione. Ne rappresentano un esempio le modalità con le quali alcune amministrazioni hanno affrontato le conseguenze negative connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19 sulle concessioni in essere”3. Quanto alla corretta allocazione dei rischi e rispetto delle tempistiche, si è con forza evidenziato che “nel corso dell’esecuzione, va, altresì, mantenuta una corretta allocazione dei rischi in capo al concessionario e verificato il rispetto delle corrispondenti clausole contrattuali, anche alla luce del contenuto della matrice dei rischi; (…) d. al fine di evitare continui allungamenti “in corsa” (proroghe, revisioni, ecc.) della durata dei contratti di concessione (per rinegoziazione delle condizioni, anche in conseguenza delle varianti proposte, che talvolta introducono nuove lavorazioni), appare necessario dotarsi di strutture in grado di comprendere l’effettiva ricorrenza delle condizioni di rinegoziazione del PEF specificatamente indicate negli atti contrattuali (…) e delle difficoltà tecniche, addotte a base delle varianti proposte, riconducendole alle sole ipotesi consentite dalla norma, al fine di evitare il ribaltamento del rischio in capo all’amministrazione”.
Osservazioni conclusive Tutti gli istituti di PPP hanno come elemento indefettibile l’assunzione da parte del soggetto privato del “rischio operativo”. Proprio in questa fase l’Amministrazione concedente è chiamata a svolgere un ruolo che esprime nel senso più nobile la sua missione di ente esponenziale degli interessi della collettività rappresentata: da un lato devono essere evitati alla parte privata eccessive opportunità di lucro, ma senza mai perdere di vista la necessità di non allocare eccessivi rischi sul privato, perché ciò in definitiva finirebbe per esporre la stessa collettività all’utilizzo di opere o servizi di scarsa qualità, se non addirittura al fallimento dello stesso progetto. Pertanto il c.d. security package deve seguire, e non precedere, lo studio di scenario in quanto esprime la protezione che le clausole contrattuali danno complessivamente al progetto al termine di un approfondito percorso di studio e allocazione dei rischi. Sotto questo profilo, la prassi talvolta appare davvero mortificante perché evidenzia forme di asservimento degli istituti giuridici a esigenze esogene rispetto al progetto stesso, portando ad un ottimismo eccessivo (in quanto privo di alcun ragionevole fondamento) delle Amministrazioni riguardo alla domanda e all’utilizzo dell’infrastruttura pianificata. Finora dunque il risk management è stato utilizzato prevalentemente in contesti ad alto contenuto tecnico o alta pericolosità, in quanto diversamente ritenuto inopportuno per il tempo e le risorse impiegate. Vi è tuttavia da segnalare che – fermo restando il gap culturale di cui si è detto – recentemente il legislatore e l’ANAC hanno mostrato una certa attenzione non solo ai profili di gestione del rischio limitati agli aspetti amministrativi, ma anche alle componenti che definiscono l’equilibrio economico-finanziario, in tal modo massimizzando il value for money per la PA durante tutto il ciclo di vita del contratto. Nel vigente Codice dei Contratti – migliorando la situazione previgente nel cd. Codice De Lise e nella c.d. Legge «Merloni» che ignoravano il tema qui oggetto di esame - il processo di Risk Management viene perlomeno evocato (cfr. art. 165). Tuttavia resta la sensazione che nella prassi applicativa uno degli scopi – comunque fallito – sia quello di trasferire controlli dalla pubblica amministrazione agli assicuratori (come, ad esempio, per le polizze dei progettisti), e pertanto nella migliore delle ipotesi l’approccio al tema del risk management risulti comunque capovolto.
3 In particolare, per consentire ai gestori degli impianti sportivi di mitigare le conseguenze connesse alla contrazione della domanda, un’importante amministrazione ha consentito in via generale di prorogare la durata delle concessioni in essere senza richiedere una attenta e ponderata analisi delle condizioni di fatto accedenti alla concessione - quali ad esempio la durata residua della stessa - e connesse sul quale l’evento di forza maggiore ha inciso. Al riguardo, sebbene sia comprensibile la volontà di fornire un sostegno ad operatori economici in difficoltà a causa di un evento eccezionale come quello dell’emergenza epidemiologica da COVID19, deve nondimeno rammentarsi che le concessioni – a differenze degli appalti – prevedono per definizione un’allocazione peculiare dei rischi che non può essere completamente annullata, anche in presenza di un evento imprevedibile.
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gli esperti rispondono Monica Piovi e Piero Fidanza
RUP e verifica di anomalia dell’offerta Un nostro lettore chiede di sapere se il RUP debba necessariamente farsi supportare dalla commissione di gara nel sub-procedimento di verifica dell’offerta anomala
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er rispondere al quesito, occorre preliminarmente distinguere due sub-procedimenti particolarmente significativi che emergono all’interno della procedura di selezione del contraente: l’esame delle offerte tecniche e la verifica di anomalia delle offerte economiche. Entrambi i giudizi de quibus sono espressione dell’esercizio di un potere discrezionale dell’Amministrazione, sindacabile unicamente sotto il profilo delle “macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti, oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto” (ex multis Consiglio di Stato, Sez. III, 22.1.2016, n. 211; Tar Sicilia, Catania, Sez. III, 27.8. 2019, n. 2075). Essi presentano, tuttavia, rilevanti differenze di fondo. Per quanto concerne la valutazione delle offerte tecniche, questa è affidata senz’altro alla Commissione di gara, quale Organo Tecnico composto da esperti chiamati ad esprimere un giudizio ai sensi dell’art. 77 del D. Lgs. 50/16. Si tratta di un esame qualitativo compiuto in termini comparativi ed espresso in riferimento a ciascun elemento tecnico individuato dalla legge di gara. Diverso è il giudizio di anomalia dell’offerta economica, che consta di “una valutazione che, sulla base di quanto indicato dall’offerente, si articola in richieste di giustificazione aventi ad oggetto voci specifiche che più incidono sull’ammontare dell’offerta e che si presentino, ad un primo esame, non del tutto in linea con i costi medi. Ciò sulla base della chiara previsione di cui al comma 6 dell’art. 97 del codice dei contratti pubblici, a mente del quale la stazione appaltante in ogni caso può valutare la congruità di ogni offerta che “in base ad elementi specifici” appaia anormalmente bassa.” (Consiglio di Stato, Sez. III, 15.2.2021, n. 1361). La valutazione tecnica postula un esame ponderato e comparativo delle offerte, mentre la verifica di congruità di un’offerta economica “è formulat[a] in assoluto, avendo riguardo all’affidabilità dei prezzi praticati ex se considerati” (Consiglio di Stato, Sez. V, 24.2.2020, n. 1371). Quanto all’organo competente a compiere la verifica di anomalia dell’offerta, l’art. 97, c. 5, D.Lgs. n. 50/16 fa
un generico riferimento alla Stazione Appaltante; a questo riguardo occorre rilevare che tanto il RUP, quanto la Commissione sono, nella normalità dei casi, organi della Stazione Appaltante. In un primo momento la Giurisprudenza ha sostenuto che, a fronte della generica formulazione dell’art. 97 del D.Lgs. 50/16, nella parte in cui prevede una competenza alternativa della Commissione o del RUP nella predisposizione dei criteri per la determinazione della soglia di anomalia, non sarebbe stato possibile individuare un soggetto competente ex lege. Piuttosto, la scelta avrebbe dovuto “essere rimessa alla stazione appaltante, la sola che conoscendo le peculiarità della singola competizione, in termini di valore economico, complessità fattuale, esigenze di rapidità ecc., può consapevolmente decidere a quale organo fare svolgere la verifica di anomalia.” (in tal senso si veda TAR Liguria, Genova, del 13.8.2019, n. 688). Tale orientamento è stato da ultimo superato dal Tar per la Campania, sede di Salerno, il quale con sentenza n. 697/2021, ha chiarito che “nelle gare di appalto spetta al RUP, quale dominus della gara, la competenza nel sub-procedimento di verifica di anomalia: “è, in effetti, fisiologico che sia il RUP, in tale fase, ad intervenire con la propria funzione di verifica e supervisione sull’operato della commissione aggiudicatrice, in ordine alle offerte sospette di anomalia”. Infatti, nella sistematica del Codice dei Contratti Pubblici al RUP sono affidate tutte le competenze che non appartengono ad altro organo o soggetto (ex art. 31 D. Lgs. 50/16): orbene, dal momento che la verifica dell’anomalia dell’offerta non rientra tra le competenze specifiche della Commissione di gara, descritte all’art. 77 D. Lgs. 50/16, questa non può che essere attribuita, in via indiretta e residuale, al Responsabile del Procedimento. E ciò sarebbe altresì confermato, a detta del giudice campano, dalle Linee Guida ANAC n. 3 (relative alla figura del RUP) le quali precisano che “nel bando di gara la stazione appaltante indica se, in caso di aggiudicazione con il criterio del minor prezzo, la verifica di congruità delle
offerte è rimessa direttamente al RUP e se questi, in ragione della particolare complessità delle valutazioni o della specificità delle competenze richieste, debba o possa avvalersi della struttura di supporto istituita ai sensi dell’art. 31, comma 9, del Codice, o di commissione nominata ad hoc. Nel caso di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, invece, la verifica sulle offerte anormalmente basse è svolta dal RUP con l’eventuale supporto della commissione nominata ex articolo 77 del Codice.”. Pertanto, qualora il criterio di aggiudicazione sia quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la competenza a svolgere la verifica di anomalia è affidata sempre al
RUP, mentre alla Commissione è attribuita unicamente una funzione di supporto, per di più solo eventuale. In conclusione, qualora il Responsabile del Procedimento ritenga di non farsi coadiuvare dalla Commissione di gara nell’esame dell’anomalia delle offerte, non si determinerà alcun vizio di competenza, quanto al più un vizio di natura procedimentale censurabile, ai sensi dell’art. 21 octies della legge n. 241/1990, solo in presenza di una prova da parte del ricorrente “che, in caso di pieno coinvolgimento della commissione nell’ambito del rinnovato giudizio di anomalia, il procedimento sarebbe pervenuto a conclusioni sostanzialmente diverse” (TAR Campania, Salerno, Sez. I, del 16.3.2021, n. 697).
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Se c’è una cosa che questa pandemia ci ha insegnato è che c’è urgente necessità di “nuove visioni”. Non fa eccezione il settore degli approvvigionamenti pubblici. Per questo Fare si prepara ad un appuntamento tra i più importanti della sua storia, il XXI Congresso Nazionale -che segna anche il sessantesimo compleanno dell’ Associazione-, con uno sguardo particolare ai nuovi scenari: “Una nuova visione per il Procurement pubblico della sanità” è il tema-chiave di questo appuntamento in calendario a Milano il 28 e 29 ottobre, con una “coda” il 30 per l’Assemblea con l’elezione del nuovo presidente. La scelta di Milano non è casuale, anzi è densa di significati: storici, perché proprio a Milano, nel 1960, è stata fondata l’associazione e mai, sino ad oggi, il capoluogo lombardo aveva ospitato un suo congresso nazionale. Ma anche attuali, perché la Lombardia, locomotiva dell’economia (e della sanità) italiana, è stata la Regione più colpita dall’emergenza della pandemia, ed è quella da cui, con ogni probabilità, ripartirà il cammino di ricostruzione. La cornice sarà quella del moderno Starhotels Business Palace, scelto per permettere l’affluenza di tutti i partecipanti nel rispetto delle distanze di sicurezza previste da norme e protocolli. Il Congresso si svolge dopo un anno che ha lasciato e lascerà un segno profondissimo in ognuno di noi, nella società e in particolare nella sanità pubblica. Una sanità pubblica chiamata senza preavviso a rispondere prontamente ad una catastrofe di proporzioni inimmaginabili, dopo avere vissuto decenni di continui tagli lineari e politiche gestionali tese a disarticolare le professionalità e le competenze esistenti nelle singole Aziende, per fare spazio ad un sistema di acquisti centralizzati e massificati. Si sente urgente il bisogno di una visione di prospettiva che faccia riflettere la politica sugli errori commessi nel recente passato e che sappia immaginare il futuro possibile per il mondo degli approvvigionamenti, formulando un nuovo paradigma che riporti la sanità pubblica ai livelli di efficacia necessari per affrontare al meglio le sfide future. Il giorno 28 ottobre, dopo l’apertura ufficiale dei lavori, e la Lectio Magistralis di Oscar Di Montingy, avrà luogo la prima sessione dedicata a “Pandemia ed esperienza”, accompagnata da 4 seminari paralleli e seguita dalla seconda Lectio magistralis della giornata a cura di Nino Cartabellotta. Il giorno 29, sarà scandito da due sessioni plenarie in mattinata, rispettivamente dedicate a “Norme, competenze e controlli” e a “Procurement come funzione strategica” (sviluppata come tavola rotonda) e una nel pomeriggio, su “Visione e progettualità anche alla luce del Recovery plan”, con di nuovo seminari paralleli. Per conoscere il programma definitivo e i relatori che lo svilupperanno, visita il sito www.congressofare2021.it
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