58 minute read
Vino: testimonianze, fra luci e speranze Cover Story Giorgio Bartolucci, l’Atelier che ridisegna il gusto
from BARtù 09-10 2020
by Edifis
Giorgio Bartolucci, l’Atelier che ridisegna il gusto
di Alberto P. Schieppati
A Domodossola, terra di frontiera, una cucina che combina egregiamente sapori, raffinatezza e cultura
Giorgio è nato a Domodossola il 29 settembre del 1979: da otto anni -dopo aver girato mezza Europa, lavorando nelle brigate di grandi chef- è finalmente ritornato in Ossola, ovvero alle sue origini, dove ha dato sbocco pratico al suo grande sogno: aprire il “suo” ristorante e portarlo ad ottenere la prima stella Michelin (2020). “Solo chi ha un grande sogno può realizzare un grande sogno” diceva Gandhi. Non a caso questa frase campeggia sulla parete dell’Atelier, come Giorgio ha voluto chiamare il ristorante. Fra le sue tante esperienze professionali, ha trascorso un anno a Parigi, all’Hotel De Crillon, dove, nelle grandi cucine, regnava il rigore assoluto. “Philippe Guerin, l’executive chef, era fortemente meritocratico. Un giorno, senza alcun preavviso, mi chiese se me la sentissi di diventare capo-partita, dall’oggi al domani. Sì o no. Rimasi a pensarci per qualche minuto. Poi, incalzato dallo chef, accettai la proposta, correndo anche il rischio di risultare antipatico ai miei futuri sottoposti, che magari lavoravano lì da anni e si vedevano sorpassati... Da quel giorno cominciai a capire cosa significano responsabilità e fatica : “Valori del passato? “Non direi, anzi. Insieme al sacrificio, li ritengo valori molto attuali, direi necessari”, ribadisce Giorgio Bartolucci. Dopo la Francia, é stata per lui fondamentale l’esperienza da Marco Sacco, due stelle al Piccolo Lago di Verbania, non troppo distante da Domodossola.”Un professionista di grande spessore, per me un vero maestro”. L’altro personaggio, che Giorgio nomina con emozione, é Gennarino Esposito, lo chef di Vico Equense che tanto impulso ha dato e continua a dare ai giovani emergenti della “scuola napoletana”, sparsi poi nel resto d’Italia e del mondo a fare cucina di altissima qualità. Il ristorante di Giorgio è all’interno dell’hotel Eurossola, proprio di fronte alla Stazione di Domodossola, uno snodo ferroviario importante prima di imboccare la via verso il Sempione. L’albergo, con la supervisione di Elisabetta, sorella di Giorgio, è una vera bomboniera, in questa cittadina di frontiera, dove proprio non ti aspetteresti di trovare uno “stellato” di livello. Giorgio, al mio arrivo, mi viene incontro cordiale, con al fianco la moglie Katia, la cui cortesia è pari alla professionalità nel governare la sala, ma direi tutta l’offerta di ristorazione, che si divide fra bistrot per il pasto di mezzogiorno e “ Atelier” gourmet per la cena. Eurossola profuma di semplicità, con quell’impronta familia-
re che, in un certo senso, rimanda alla gestione originaria della famiglia Bartolucci, ovvero dei genitori di Giorgio e Elisabetta che, al ritorno in Italia del figliolo, gli cedettero l’attività: un ricambio generazionale in piena regola. “La stavo aspettando”, dice Giorgio incontrandomi. Per prima cosa mi mostra la cucina, un ampio, pulitissimo, quadrato di luce, efficienza ed ergonomia. Lo spazio è funzionale e i ragazzi della brigata si muovono molto bene, li vedo già impegnati nelle preparazioni per la cena. “In questo momento sono alle prese con gli amuse bouche, ci sono arrivati dei porcini freschi e li stanno impanando, saranno l’ingrediente principale del “saluto della cucina”. Un’entrata davvero gradevole, questo Cappuccino di funghi, buono e di particolare intensità
gustativa. Ma vogliamo parlare del cilindro di burro salato, con povere di spezie del Marocco, da assaggiare (o divorare?) spalmato sulla pagnotta calda e croccante di lievito madre appena sfornata? La sala, elegante e riservata, una trentina di coperti, coordinata dal bravo e preciso sommelier Alessandro Isufi, si affaccia sulla cucina a vista, dove Bartolucci realizza, silenziosamente e con estremo rigore, le sue creazioni. I commensali seduti agli altri tavoli, in questa serata di settembre inoltrato, sono di varia tipologia: amici gourmet della zona che si festeggiano “mangiando da Dio”, dicono; una coppia di ginevrini alla scoperta dei piatti di Giorgio; uomini d’affari che, inteneriti dal buon cibo, concludono accordi importanti. Un parterre gaudente e diversificato... Sì, sembra davvero lontana quell’atmosfera un po’ cupa del post covid milanese, tutta mascherine e distanziamento sociale, che accompagna ormai da mesi il centro città in una desolazione
da cui vorremmo tutti uscire presto. Qui in provincia lo smart working non è un problema per gli esercizi commerciali, visto che in una serata infrasettimanale di un martedì, il locale è da tutto esaurito. Meglio così. Forse ci eravamo montati la testa, pensando che Milano fosse caput mundi. O no? Nel frattempo, all’Atelier la sequenza dei piatti incalza, silente e progressiva: buono il Carciofo, anguilla e animelle, con riduzione di pesce di lago. Eccellenti i Tortelli ripieni di ossobuco (certamente un piatto che rimanda ad altri già visti ma che, in questo caso, supera se stesso, grazie alla consistenza della farcia, ma anche al fondo di aglio orsino zafferano e crema di riso, con grattata di limone nero fermentato, una vera goduria. La Bouillabaisse di pesce con cous cous di piccole verdure, capesante, gamberi rossi e triglie, con i suoi colori brillanti, conferma l’ aspettativa di freschezza, senza appesantire (nonostante l’invito trasgressivo di Katia a fare scarpetta con una strepitosa focaccia di cipolle!). I dolci, introdotti da un ghiacciolo al rabarbaro e fragole come predessert, sono un capitolo accessorio, che conferma la grande tensione/passione che caratterizza il lavoro dello chef e di tutta la brigata. Così come la piccola pasticceria, incastonata su una piramide in legno, all’insegna di stile e raffinatezza. Una ricerca continua della perfezione, ma non ossessiva: sostenuta, semmai, dalla convinzione profonda che il cliente dell’Atelier è soprattutto un ospite, che può e deve raggiungere la felicità: senza clamore, senza accostamenti fragorosi, senza stupire a tutti i costi. E, soprattutto, senza quelle “liturgie” che connotano ancora troppi ristoranti stellati. Ma solo con la rigorosa selezione delle materie prime e con un impegno incessante e instancabile nel segno del rispetto, dell’eleganza e della raffinatezza. Che sono valori universali, che vanno ben oltre il gradimento offerto da un’esperienza gastronomica e si fanno cultura, nel nome di un’Italianità autentica, non fittizia, da cui è imperativo ripartire. •
I cocktail del castello con lo stile metropolitano
di Gualtiero Spotti
foto di Benedetta Bassanelli Al Belmond Castello di Casole si rifugia un nuovo asso della mixology, Alessio Onida al Bar Visconti
La miscelazione moderna sembra in qualche modo ricalcare il percorso già affrontato negli anni scorsi dalla ristorazione. Se da un lato ci si spinge a ricercare con curiosità una materia prima esotica e poco conosciuta, poco importa se si tratta di una erba, un frutto o un liquore, dall’altra c’è sempre più la volontà di avvicinarsi al proprio territorio, di valorizzare ciò che di buono nasce a pochi chilometri dal banco del bar, magari giocando con le aromatiche del giardino o con quelle bottiglie, che come è stato in passato per le birre, segnano oggi l’approdo verso un gusto più artigianale e “d’autore” nel mondo della mixologia. In questo caso ci troviamo dalle parti della Toscana più profonda e, nello specifico, a Casole d’Elsa, dove tra dolci colline e filari di uva, si trova il Belmond Castello di Casole, che è l’ultimo resort entrato a far parte, in ordine di tempo, di una grande famiglia di alberghi internazionali nei quali spiccano anche gli italiani Splendido a Portofino e Cipriani a Venezia. In una tenuta che si estende a perdita d’occhio e nella quale non è poi così difficile perdersi, la discrezione e la tranquillità per gli ospiti sono parte di un’esperienza ben più completa, che passa anche attraverso la solida cucina di Daniele Sera al ristorante Tosca, e i gustosi cocktail di Ales-
sio Onida al Bar Visconti. In attesa del poderoso restyling che vedrà Castello di Casole modificare nel giro di poche stagioni il suo aspetto originale e ampliare i servizi a disposizione (ci sarà un nuovo ristorante gastronomico e nuove ville, tra le altre cose), il Bar Visconti è l’approdo ideale per ripercorrere visivamente, attraverso i quadri alle pareti, un po’ di storia della tenuta, che nel passato è appartenuta alla famiglia di Luchino Visconti, e soprattutto per lasciarsi andare a qualche degustazione di cocktail intriganti. Con il supporto del sagace e navigato livornese Alessio Onida, che prima di arrivare a Casole ha vissuto esperienze a Londra e in Sardegna, ci si può avventurare tra molti classici ideali per la clientela internazionale abituata a frequentare il resort (pur in una annata che per ben note ragioni ha visto un notevole incremento degli italiani tra gli ospiti), con perfetti Cosmopolitan, Negroni e Moscow Mule. Anche se la partita più avvincente la si gioca al banco quando ci si abbevera dalla selezione del barman, dove esce con maggior forza la sua creatività. Il Negronida, ad esempio, la cui personalizzazione parte già dal nome, è un cocktail che passa non solo dal Campari bitter o dal vermouth, ma propone, alla base, la presenza del Galliano e di una vodka allo zenzero e rosmarino realizzati in casa. Lo stesso discorso si applica per The Mask, dove la tequila bianca e il succo di lime vengono addolciti dal miele (prodotto nella tenuta da quest’anno) e dalle foglie di basilico estratte, che sanno conferire un potente colore verde e un gusto ben definito. Il tutto presentato in una coppa dal sapore un po’ old style che ben si sposa con l’ambiente e per il gusto recente della miscelazione di affidarsi a un tocco vintage. Le curiosità proseguono con una carta forse non particolarmente estesa ma che lascia spazio a cocktail frizzanti dove il prosecco diventa il protagonista, oppure in quelli di maggiore eleganza con lo champagne in primo piano. Vedi il Blue Eyes composto da Gin, Cointreau, blue curacao e, appunto, champagne, oppure l’Honey Moon, con una vodka ai mirtilli, lime juice, elisir alla rosa e champagne). I Virgin cocktail analcolici completano la scelta a disposizione tra uno Skywasser e un Gre-
en Power dove la menta la fa da padrone.
Una scelta ponderata, quest’ultima e che sicuramente va incontra ai gusti di una clientela che, forse, va ala ricerca di un contatto più forte con la natura e con le materie prima della terra anche quando si concede una pausa aperitivo. Se poi si vuole continuare a stuzzicare qualcosa al tavolo del ristorante Tosca, Daniele Sera, il cuoco, sa sempre muoversi con brio tra piatti di tradizione toscana e classici all’italiana, come rivelano la presenza in carta di una Lasagna all’emiliana e delle Linguine alle vongole veraci e pomodori del Piennolo. •
Piemonte, i fratelli Alciati sempre in prima linea
di Giovanna Moldenhauer A Fontanafredda si racconta la tradizione e la memoria dei piatti di Guido Alciati e Lidia Vanzino in chiave moderna
Una visita alla riserva bionaturale di Fontanafredda, situata nel cuore di Serralunga d’Alba, circondata dal meraviglioso panorama vitivinicolo delle Langhe patrimonio mondiale dell’Unesco. Tutte le altre attività d’ospitalità, di proposta dei vini Fontanafredda e Casa Vinicola E. di Mirafiore, delle attività del Villaggio, sono state ripensate dopo il lockdown. Oltre a Guidoristorante che ha sede nelle sale affrescate dell’edificio ottocentesco della Villa Reale, dove abbiamo assaporato la golosa esperienza del menu Esperienza Guido di cui scriveremo in seguito, è stata creata l’Osteria Disguido con la nuova sede presso il garden del lago, dove la supervisione della cucina è di Ugo Alciati. Qui i sapori della cucina locale si esprimono in una veste più informale con la griglia come elemento distintivo. In previsione dell’autunno la struttura a giardino d’inverno sarà adattata e resa idonea alla stagione. L’esperienza della famiglia Alciati prosegue al piano terreno della Villa Reale con il Gbistrot, uno spazio nuovo, con cucina a vista, sala e cantina nello stesso locale, dove vengono organizzati talvolta show cooking, in un ambiente che vuole fare sentire l’ospite come a casa. E non solo dalle cucine della Villa Reale esce anche il delivery “Al banco di Guido”, realizzato dalla ripartenza a maggio. Tra le attività seguite da Piero e Ugo c’è la parte gastronomica del-
lo spazio 100vini nella bottega del vino di Fontanafredda al via dal 1 settembre. Aperto tutti i giorni dalle 10 alle 20 vede un servizio di piccoli piatti e assaggi di specialità gastronomiche con la formula “come tapas” per accompagnare i vini in degustazione. Nello stesso spazio si trova il locale delle colazioni del 4 stelle Hotel Vigna Magica, affacciato sul panorama collinare delle Langhe e caratterizzato da ambienti accoglienti ed eleganti dotati di tutti i comfort, e del raffinato boutique hotel Foresteria delle Vigne a pochi passi
dalla Villa Reale Fontanafredda. Questo, come tutti i progetti che li vedono coinvolti, sono condivisi e studiati insieme. Il fratello Andrea è parte della società, ma non operativo direttamente perché impegnato con l’altro Guido al Relais San Maurizio a Santo Stefano Belbo. A soli venti minuti da Fontanafredda si trova poi il Castello di Santa Vittoria, tra Alba e Bra, dove ha sede un albergo 4 stelle con 38 camere di proprietà di Farinetti. I fratelli gestiscono la ristorazione con lo chef Paolo Decio che collabora con loro da tanti anni. A completare l’esperienza della cucina degli Alciati è stata creata da Andrea Farinetti, figlio di Oscar ed enologo dei vini Fontanafredda e Casa Vinicola E. di Mirafiore, e da suo padre una linea con etichette personalizzate. Un Arneis, un Nebbiolo vinificato in anfora sono completati da un Altalanga Blanc de Noir da 100% Pinot Nero, millesimato e da un Barolo del comune di Serralunga, entrambi della Casa E. di Mirafiore e della vendemmia 2015. Accennavamo in apertura dell’assaggio
delle diverse portate del menù Esperienza Guido nel corso di una cena, dove ogni dettaglio raffinato è da ristorante stellato. L’esordio, all’interno della saletta affrescata dedicata alla Bella Rusin, prima amante e poi sposa di Re Vittorio Emanuele, è stato con la loro versione del Vitello tonnato, seguito dalle versioni degli Agnolotti in tre assaggi. Dalla sfoglia sottile nel tovagliolo, dove il tessuto permette di mantenere tiepido l’agnolotto per una vera esperienza gustativa, a i Quadrati al ragù per poi concludere con la ricetta di Lidia al sugo d’arrosto. Come secondo il Capretto di Roccaverano è stato reso speciale sia dal Barolo del comune di Serralunga che dal cru Lazzarito, entrambi dell’annata 2015 e della Casa E. di Mirafiore. Concludeva la cena stellata il gelato al fiordilatte mantecato al momento con il latte della vacca bianca piemontese della Valle Stura. Piero ha la capacità di fare sentire l’ospite accolto, di anticipare ogni suo desiderio, di stupirlo con spiritose proposte come i cocktail monodose creati con la complicità della Distilleria Mazzetti. Ugo invece, dal carattere più schivo, dà la certezza che ogni portata, assaggiata nei diversi momenti conviviali, possa avere un gusto unico, speciale.
Ugo, vorremmo sapere se l’esaltazione della materia prima, appresa da tua madre Lidia, ha ancora adesso lo stesso significato per te ?
Sempre di più, è la traccia sempre presente del mio lavoro in cucina che comincia con la ricerca.
La situazione drammatica che abbiamo vissuto ha in qualche modo modificato il tuo punto di vista sugli ingredienti delle ricette della tradizione, fortemente legate alla memoria e alla stagionalità?
Al contrario – ribatte Ugo – quegli elementi vogliamo diventino ancora di più il nostro segno. La nostra resta una cucina di stagione, territorio e memoria.
Ugo, nella vostra presentazione dell’opuscolo Le ricette di Lidia raccontate come siete nati come famiglia ristoratrice, delle idee avveniristiche allora dei vostri genitori, di come portate avanti questi concetti. Immagino che questo ha con il Covid-19 assunto ancora un maggior valore per te, per voi.
La situazione di emergenza ci ha fatto riflettere molto sulle conseguenze che potevano verificarsi e ci siamo trovati molte volte a discutere su cosa fare dopo. Abbiamo deciso che c’erano molte strade percorribili in modi diversi e cose che non avevamo ancora fatto e che si potevano provare nel nostro mondo. Come per esempio “Al banco di Guido” che vorremmo sviluppare, oltre al servizio di delivery, facendolo diventare un piccolo negozio delle nostre cose. Ma Guidoristorante, resta intoccabile, è il nostro se-
gno e rappresenta tutta la nostra storia dal 1960. Lì applichiamo quello che diceva sempre mia madre ‘per domani fai quello che hai fatto oggi, ma fallo meglio. Motivo per cui anche lì stiamo lavorando per migliorare, ma senza stravolgerne l’essenza.
Ugo, cosa significa per te essere alla guida dal 2013 di Giudoristorante ?
È un segno di continuità dato che la nostra famiglia è in cucina da sempre, prima con nonna Pierina, poi madre Lidia e ora io.
La stella quando è arrivata? Nel 1974 e la
stiamo mantenendo da allora. Ci potresti raccontare Ugo se hai un tuo piatto del cuore ? Mi piace cucinare e ho iniziato dai dolci nella cucina di mia madre. La panificazione è un altro dei settori che amo particolarmente, ma se devo scegliere un piatto dico il risotto!
Piero, abbiamo avuto la fortuna di avere un vostro menu con la copertina illustrata da Annalisa Bollini. E’ legato a quale stagione ? Avete modificato le vostre aperture per il resto dell’estate e del prossimo autunno ?
Quel menu è legato all’estate. Cambierà in alcuni piatti a settembre e poi decisamente molto da ottobre fino a Natale. Da settembre il ristorante è tornato in modalità classica con apertura da martedì a sabato la sera, sabato e domenica anche a pranzo.
Come è cambiata la carta dei vini?
Ci sono in carta – risponde Piero – tutti i vini del gruppo oltre ad altre 600 etichette piemontesi, italiane e straniere. La nostra responsabile vino è Giorgia Salvano a cui abbiamo delegato gli acquisti e la gestione delle cantine, così come dei rapporti con i produttori per la carta vini di tutti i locali. •
Royale inarrestabile, nasce Spiegelau Italia
La distribuzione di calici, bicchieri e complementi in cristallo dell’azienda tedesca segna un nuovo traguardo per il gruppo della famiglia Fanfarillo
Altro tassello importante per la famiglia Fanfarillo: dopo l’accordo del 2016 con Bonnà “Premium Porcelain”, ormai protagonista indiscussa nella produzione di porcellana professionale dallo stile casual-dining, ora tocca a Spiegelau, senza dubbio una delle realtà più conosciute a livello mondiale nel comparto “vetro per tavola”. L’azienda di Como, nata nell’ormai lontano 1986 grazie all’intuizione imprenditoriale dei Fanfarillo, con la produzione “Handmade in Italy” di porcellane da buffet e cottura, nel 2015 ha assunto un ruolo da protagonista sullo scenario internazionale, con il lancio sul mercato delle sue originali ed uniche linee realizzate artigianalmente in Italia nella fabbrica di Lomazzo e destinate al mondo del lusso, SuMisura. Ora per la prima volta nella sua storia, un marchio internazionale per la cristalleria: si tratta dell’azienda tedesca Spiegelau, un marchio prestigioso, ben conosciuto dagli addetti ai lavori. Il “Crystal Glass”, realizzato esclusivamente in Germania, conduce le prime testimonianze al 1521. Affermatasi durante il XVI secolo con la realizzazione di specchi, perline e bottiglie decorative di grande pregio situate presso le corti europee, la produzione viene rinnovata all’inizio del ‘900 con una ricerca tecnologica continua e incessante che ci porta
Angelo Fanfarillo
ai nostri giorni. Spiegelau tuttavia mostra un aspetto comune con Royale, quello di non dimenticarsi mai delle proprie origini: le importanti tecnologie messe a punto non sono infatti impiegate a discapito della sapienza artigianale e della passione che accompagna la creazione di ogni oggetto d’arte. Tale competenza antica sta alla base della selezione delle materie prime, vero punto di forza di entrambe. Elementi come il potassio, aumentano la rifrazione della luce, garantendo trasparenza e brillantezza, lo zinco fortifica la resistenza agli agenti chimici e la sabbia con un altissimo grado di purezza evita che si formino aloni verdastri o colorati durante la produzione. Nell’utilizzo quotidiano, la purezza delle materie prime si traduce nel prodotto finito con l’assenza di graffi, macchie, perdita di brillantezza, aloni e il deposito di residui o di sostanze chimiche. Vero fiore all’occhiello è proprio il brevetto “Platinum Glass Process”, attraverso il quale vengono eliminate tutte le impurità e le imperfezioni che possono verificarsi: il rivestimento in platino delle linee di tubi impedisce infatti la separazione dei componenti solubili in acqua. Il vetro così ottenuto si colloca nella tipologia “Crystal Glass”, una delle migliori esistenti; con questo incredibile surplus si garantisce la sicurezza della superficie fino a 1.500 lavaggi in lavastoviglie. La moderna tecnologia, le macchine ottimizzate e la produzione 100% “Made in Germany” assicurano massima resistenza alle rotture. Da ultimo, ma non perché meno importante, una considerazione per il design
delle forme, sempre studiato in collaborazione con i migliori sommelier ed opinion-leader del settore, per esaltare l’aroma e il gusto delle bevande. Non ci scordiamo, che il marchio Spiegelau è parte integrante della famiglia Riedel ! Tutti gli aspetti del singolo articolo – forma, altezza, diametro - sono stati creati per valorizzare al massimo il carattere e il “bouquet” di sentori tipici del vino. “Proprio come le nostre porcellane SuMisura - realizzate a mano in Italia – commenta Angelo Fanfarillo, direttore generale di Royale – Spiegelau propone articoli dalle grandi caratteristiche tecniche, ma anche dal design raffinato. Questa sinergia garantisce di creare una mis-en place sempre elegante e originale, di altissimo livello, sia per le porcellane, sia per il vetro”. Performance, funzionalità ed eleganza sono le parole con cui potremmo dunque riassumere l’intesa nata tra le due aziende in nome di una ricercatezza sempre più ambita dalla ristorazione contemporanea. “Sono molti i punti comuni alle nostre aziende, la storicità della lavorazione, l’attenzione al design… con questa partnership – continua Angelo – vogliamo offrire un servizio a 360 gradi al cliente, che può così completare la tavola con un’accurata selezione di calici e bicchieri di qualità eccelsa. Come già accaduto con la porcellana Bonna, cercheremo di prestare attenzione anche al rapporto qualità-prezzo, in quanto dobbiamo permettere a tutti
Francesco Alabrese
di accedere al ‘portafoglio’ Spiegelau, si tratti di un hotel 5L, di un ristorante stellato, per arrivare fino alla piccola trattoria attenta alla qualità”. Entrambe le realtà dimostrano infine grande attenzione all’ambiente e alla sostenibilità, Spiegelau a tal proposito garantisce una lunga durata dei prodotti anche per molti anni e più del 50% del vetro è riciclato all’interno della fabbrica ed è sempre riciclabile al 100%. L’azienda gode di tutte le certificazioni ambientali, le materie prime ottenute in loco assicurano trasporti brevi, vengono effettuati continuativamente progetti per il risparmio energetico e i materiali pericolosi per la salute sono stati sostituiti con opzioni più ecologiche. “Sono molto felice di questa unione, questo ci permetterà di avere una distribuzione sempre più capillare sul territorio, è un grande marchio già conosciuto ed apprezzato non solo in Italia, dove è presente da più di 20 anni, ma in tutto il mondo; questo ci consentirà di raggiungere significativi risultati sul mercato, ma anche di fare un altro grande passo nella nostra ricerca di soluzioni sempre più complete, nuove ed affascinanti”. “Annunciamo da subito che saremo molto severi nella scelta dei partner per la commercializzazione del brand, ci affideremo ad agenzie specializzate e forniture alberghiere solo di ‘prima fascia’. La direzione commerciale sarà affidata ad un’altra figura di “spessore” del panorama HoReCa, Francesco Alabrese, da più di 13 anni nel settore vetro, che si occuperà del mercato con attenzione, a disposizione e supporto della clientela in ogni momento. Abbiamo da poco concluso l’ampliamento della già imponente logistica attuale con altri 550 posti pallet dedicati solo ed esclusivamente al progetto “Spiegelau Italia”. Ricordiamo che Royale può contare su una delle più importanti aziende di distribuzione italiana del settore Ho.Re.Ca: CIFA – Centro Italiano Forniture Alberghiere - realtà fondata nel 1982 da Vittorio e Teresa Fanfarillo e “guidata” oggi dai figli Angelo e Silvia; un fatturato complessivo di 17 milioni di euro una media di 180 spedizioni giornaliere, 5 stabilimenti in provincia di Como ed oltre 80 collaboratori. •
La nuova carta di Alchimia stile e accessibilità
di Alberto P. Schieppati
La creatura milanese di Alberto Tasinato non smette di stupire: i piatti più recenti dello chef Postorino svelano ricerca e rigore
Alberto Tasinato mi chiama per presentarmi la nuova carta, “ovviamente appena posso vengo, grazie”. Arrivo, dunque, avevate dei dubbi? Alchimia è uno dei miei luoghi preferiti, il posto del cuore (non il solo, chiaramente, come potete immaginare). Alberto e i suoi collaboratori mi accolgono fra queste mura, ospitali e calde come una lounge coloniale, direi hemingwayana, delle Antille Olandesi. Uno di quei luoghi dove già, entrando, prefiguri una grande cena, magari con sigaro cubano alla fine. Qualche chiacchiera sulla situazione, ma Milano riparte o non riparte? Locali sì, locali no... Turismo internazionale assente da mesi ormai. Italiani
che vogliono venirne fuori, che escono di casa, che manifestano insofferenza verso ogni forma di terrorismo psicologico, che non vogliono sentire parlare di possibile ripresa del virus... Ma che, responsabilmente, non accettano il negazionismo un po’ fanatico che dilaga, soprattutto fra i giovani. Allora, si comincia. Il nuovo menu, intellligentemente, ha tenuto vivi alcuni piatti-bandiera, alchemici verrebbe da dire. Piatti che non potranno mai uscire dalla carta. Penso ai Finti plin di vitello
Giuseppe Postorino
tonnato, foglie di cappero e fondo di vitello. Un’esplosione di sapori. O al Risotto Milano - Langhe, con tartare di Fassona e polvere di nocciole, un mito. Unico. Lo stile, inconfondibile, dello chef Giuseppe Postorino, è come lo ricordavo: pieno, rotondo, diretto. E l’ambiente, semplice e senza fronzoli, seppure raffinato, è reso funzionale dall’eccellente presenza di Alberto Tasinato, il grande regista, con Ilario Perrot, sommelier di razza, e Valerio Trentani, che coordina i tavoli, in questa sera milanese di un caldo autunno che invoglia a godersi la vita, compatibilmente ai tempi pandemici. Chiudo un occhio sulla sedicente food blogger che, da un tavolo vicino, declama le sue impressioni sui piatti e passo a concentrarmi sulla festa che ha inizio. La festa del gusto, intendo. La “bomba” nera, parmigiana di melanzane e polvere di ricotta salata, che fa parte del Menu L’Alchimia 90, colpisce per la rotondità, agevolata dall’invito a “mangiarla in un solo boccone”. E che dire della Ricciola cruda, culatello, crema di arachidi e zenzero, più sperimentale forse, ma ugualmente interessante. Intanto, l’attenzione cade sulla pagnotta, sezionata in quattro fette, che ci riporta indietro nel tempo, quando il pane era il fondamento della tavola. Gli Scampi alla brace, melanza-
Alberto Tasinato
na bruciata e ricotta ai due latti, un’altra entrata, colpiscono per la consistenza, una bella introduzione al piatto che sta per arrivare. E che non lascia dubbi: un piatto che rimanda a calore familiare, a memorie passate: fantastica la Zuppa di pescato e crostacei, mischiato potente di Gragnano (pastificio dei Campi), cozze, cicale di mare e triglia. Grandissimo piatto, proposto all’insegna della accessibilità e della condivisione (50 euro in due, ne vale molto di più). Le portate si susseguono, i piatti nuovi del menu toccano nel profondo, denotano impegno, passione, rigore. Quando cuore e tecnica si abbinano... diceva qualcuno... il Petto d’anatra arrosto, con la terrina di cosce, il fico fondente e i fegatini al Porto ben dimostra l’amore dello chef Postorino per le sfide possibili, che quelle impossibili le
lasciamo ai sognatori incalliti, bravi forse ma lontani dalla realtà. Ci pensa il dessert a farci avviare alla degna conclusione di una bella esperienza: Marte! ovvero: sfera rossa di cioccolato e caramello, con cuore di frutto della passione. Che dire? Una esperienza di alto livello, corroborata dalla professionalità di Tasinato e dei suoi, ma anche dagli abbinamenti di Perrot, che oscillano fra Alto Adige (Lagrein Riserva Gries 2015 di Cantina Terlano) e Campania (Greco di Tufo 2016 di Bellaria). Vini che fanno parte di una carta dei vini composita e ordinata, frutto di attente selezioni. E, per concludere, una Grappa Riserva 7 anni, Fuoriclasse Leon, di Roberto Castagner: chiusura perfetta e italiana di una serata memorabile.•
Roberto Di Pinto, talento gastrocratico
di Albero P. Schieppati Il suo Sine punta su piatti fuori dagli schemi, lontano dai cliché e da inutili esibizioni. E il risultato è sorprendente
Se Gastrocrazia, come si legge nell’insegna “SINE Ristorante gastrocratico”, dovrebbe significare potere al cibo, chi sceglie la grande cucina di Roberto Di Pinto capirà subito la “filosofia” del milanese SINE. Vale a dire, il gusto assoluto della materia, la migliore possibile, sta al primo posto,in pole position.. .. Insieme alla capacità di renderla chiara, comprensibile, in un certo senso didascalica, è il vero asset dello chef. Per raggiungere il cuore delle persone, per conquistarle a una cucina raffinata, elegante ma, insieme, diretta come un uppercut, di gusto e di sostanza. Chi, infatti, volesse dare al termine gastrocratico (neologismo peraltro registrato dallo chef) una diversa accezione, forse ancora più sottile, potrebbe intenderlo come “una gastronomia accessibile a tutti”: una ristorazione civile, aperta e inclusiva, appunto, democratica. E questo è, in fondo, l’obiettivo finale dello chef, il suo messaggio culturale e la sua sfida. Raggiungere più persone possibili, e non solo una ristretta élite, come accade spesso nel segmento alto della ristorazione. Farle godere, educandole ad apprezzare il meglio e a valorizzarlo il giusto. Senza esasperazioni né voli pindarici. Grazie a quella parola solo apparentemente privativa (SINE=SENZA, in latino), Roberto vuole sottolineare il valore di una cucina senza ingredienti inutili, senza la volontà di stupire, senza le stanche ritualità che connotano tanti locali, senza futili esasperazioni modaiole. Senza la necessità di essere esclusiva. Quella di Roberto è una vera rivoluzione nel mondo del Fine dining, che spesso privilegia la forma alla materia, o l’effetto alla sostanza. Che, in realtà, come ripeteva spesso Gualtiero Marchesi sono due aspetti del tutto complementari. Nella cucina di Roberto Di Pinto, napoletano verace, molte esperienze per il mondo (con partenza, giovanissimo, dalla pasticceria Scaturchio, a Napoli, per arrivare da Gennarino Esposito, un’esperienza che ha lasciato il segno, e poi i milanesi Nobu e soprattutto Bulgari ma anche Londra, presso gli stellati Fiore e Conservatory). Una cucina talentuosa, la sua, ma non furba, che prende spunto dalla tradizione campana per arrivare a definire una proposta di assoluta (e assolata, verrebbe da dire) autenticità, che, fa tesoro di una cultura dell’impegno, della ricerca e dell’equilibrio: nessun eccesso, nessuna esagerazione, ma semmai una lenta, progressiva selezione delle priorità, ovvero di “ciò che conta”. Per arrivarci, bisogna togliere, ridurre all’essenziale la linea di cucina, riempiendola di contenuti, puntando direttamente alla soddisfazione del cliente. Per arrivare al centro del gusto, senza, SINE, appunto, inutili preamboli. Con passione ed energia. Dai piatti di Roberto, affiancato nell’attività dalla dolcissima moglie Martina Ventura, che si occupa della sala e dell’accoglienza dei clienti, emergono contenuti di alto valore culinario, ma anche, oserei dire, profondamente culturale. Fra gli antipasti, piatti come la Scarpetta napoletana, o la Pizzetta fritta,zucchine trombetta, palamita e basilico sono riferimenti diretti alla tradizione partenopea che ha fatto la storia del piacere e del gusto. Ma poi Roberto sa anche stupire, spostando l’asse su un piatto estremamente raffinato, come il Crudo di ricciola, crumble di mais e gazpacho di fico d’India. E che dire della Parmigiana espressionista? I primi si ispirano pure alla napoletanità, per poi riscattarsi in corso d’opera e assurgere a piatti dal tono cosmopolita,
Gambero rosso, pesca, créme fraïche e caviale
come la Mescafrancesca (napoletanissima, la pasta mischiata di grano duro di diversi formati) patate e astice. O il Risotto Milano-Napoli, o i Cappelletti ripieni di datteri o liquido, salsa di burrata e variazioni di pomodori: un capolavoro. Tra i secondi, spicca il Diaframma al barbecue, cipolla caramellata, ravioli di guanciale e wasabi napoletano, intenso e tenero come solo i tagli di carne me-
Tiè, dessert scaramantico
no pregiati (e più buoni) sanno essere. O la Cotoletta del figlio ultimo, che evoca il prendo della domenica in famiglia, quando la preparazione della cotoletta era un rito e, nel tegame in cui friggeva, la sequenza di cottura consegnava a Roberto, il figlio minore, l’ultimo, una cotoletta che risultava bruciacchiata, venendo utilizzato lo stesso olio di cottura per ben quattro cotolette., una dopo l’altra. Ripensando a quel rito familiare, Roberto ha pensato di proporre un piatto straordinario, per succulenza e fragranza, in cui la cotoletta, cotta “al giusto rosa”, diventa un piatto iconico. Una carta semplice e equilibrata, quella del SINE, che non ama le forzature e che si propone all’insegna di un rapporto democratico, egualitario, fra cucina e cliente, fra chef e ospite: una “gastrocrazia” che diventa un fatto concreto anche sotto l’aspetto dei prezzi, onesti e coerenti. Addirittura, il Menù Gastrocratico, previsto per l’intero tavolo, di 5 portate, viene proposto a 45 euro, un prezzo decisamente competitivo. “Cinque portate in cui lo chef e ogni cuoco della brigata mettono un po’ della loro storia, della loro vita e della loro esperienza, per presentare un menu creativo, in cui si incontrano, in modo unico, sapori sorprendenti e rassicuranti” si legge nella carta del Sine. C’è poi il Sine Tempore, un menu degustazione di 6 portate, a 65 euro, che parte con Pizzetta fritta, Scarpetta, Mescafrancesca patate e pesci, Ombrina cruda e cotta, limone candito e acqua pazza, Babà tra sacro e profano: un bel modo per entrare nel mondo del Sine. La carta dei vini è adeguata allo stile del luogo e offre un bel repertorio di vini italiani a un prezzo con ricarico equo e non roboante. SINE è il frutto di una scelta intelligente, in cui
Pizzetta fritta, zucchine trombetta e basilico
la visione di Roberto Di Pinto e di Martina Ventura, supportati da una brigata superlativa e da un servizio di sala perfetto senza essere liturgico ed opprimente. si avvalgono di grande cultura di prodotto, di genialità estrema e di infaticabile impegno. Una bella novità per Milano (hanno aperto a gennaio 2019 ma, dopo solo un anno, il covid ha bloccato temporaneamente un percorso ben avviato). E ora, con la riapertura a giugno dopo il lockdown, il Sine sta riprendendo il suo volto, aperto, accessibile e un po’ sognatore, per accogliere una clientela desiderosa di tornare finalmente alla normalità. •
Davide Botta e il suo risotto regale
di Camilla Rocca Davide Botta è l’ambasciatore del Vialone Nano IGP di Isola della Scala nel mondo con il suo mulino del 1612, il più antico del Veneto
“I fantastici 4” è un percorso più esaltante di sfogliare le imprese degli eroi dei fumetti: una degustazione di tre risotti a scelta a un’ottima qualità prezzo. Siamo nel veronese a Isola della Scala, patria del Vialone Nano IGP: otto tavoli nel cuore di un antico mulino del 1612 perfettamente conservato, la vecchia pila adiacente al palazzo nobiliare della settecentesca Villa Boschi. Storia, cultura e savoir fair si fondono nelle mani del re del risotto Davide Botta a L’Artigliere. Dopo l’esperienza del primo “artigliere” a Gussago, nel franciacortino e quella in un resort nel bresciano, Botta, tra i primi Jeunes Restaurateur d’Europe in Italia, si è insediato in un ristorante-museo (quello del Vialone Nano IGP di Isola della Scala) e ha messo in piedi un’irresistibile carta dei risotti. Meta imperdibile per i puristi del risotto all’onda che qui trova la sua più alta espressione. «Il riso è come un foglio di carta bianco dove poter disegnare ciò che si vuole» racconta Botta. Al centro sempre le eccellenze del territorio e la stagionalità degli ingredienti, per una proposta che, dall’apertura a Isola della Scala, potrebbe essere la più grande raccolta di risotti in un singolo ristorante. «La filosofia della mia cucina si basa sulla verità degli ingredienti. La verità è dentro l’ingrediente ed è ben nascosta, ma la cucina è un mezzo per tentare di farla venire alla luce, semplicemente» e a fare da tramite sembra proprio il candido riso. Dalla carta i risotti che ci hanno fatto battere il cuore sono quello appena affumicato con crudo di gambero rosso, limone candito e caviale d’aringa, irresistibile il Risotto al mango con Ombrina affumicata sesamo nero e limone nonostante fossimo scettici sull’abbinamento e quello alle carote, capasanta cruda, polvere di radicchio e finferli, per gli amanti del pesce. Ma se spaziamo sulla carne
IL SEGRETO PER IL RISOTTO PERFETTO
Davide Botta ci svela i suoi segreti per realizzare il risotto in “modo scientifico”: vi sono delle proporzioni da rispettare. Per ogni 100 g di Vialone Nano IGP bisogna calcolare 200 g di liquido (circa 25 g di vino, a scelta tra rosso o bianco a seconda del condimento, e i restanti 175 g di brodo). Il riso viene tostato a secco e quindi sfumato con il vino per donare acidità al piatto, che rimane anche in cottura, e poi viene aggiunto man mano il rimanente liquido. Altro segreto importante: il burro deve essere inserito a temperatura molto fredda con la proporzione 40 g su 100 g e mescolato con una frusta che permetta di inglobare aria, rendendo il risotto cremoso senza l’aggiunta di ulteriore burro.
troviamo tutto l’estro e il gusto di Davide Botta: l’indecisione regna per stabilire il risotto migliore. Si contendono il titolo il Risotto al Grana Padano Riserva 24 mesi con fondente di cipolla rossa e quaglia arrosto (tra i signature del ristorante), il Risotto al “Bagos” scaloppa di foie gras e riduzione di Moscato d’Asti e il Carnaroli al taleggio, tartara di manzo e granella di olive. In sala la compagna di Davide Botta, Flutra Muca, accoglie con il sorriso, dando leggerezza e regalando quel tocco femminile, insostituibile, in una sala dove tutto è curato nei minimi dettagli. E per chi volesse fermarsi diventa locanda con cinque camere, appena sopra il museo che raccoglie gli attrezzi attrezzi contadini per la raccolta del riso. Sono rinominate con le varie tipologie di riso, le più importanti nel globo per realizzare un risotto, quale che sia la nazionalità: sono Carnaroli, Arborio, Vialone nano, Venere e Basmati. Una bella novità è la zona relax, con mini spa idromassaggio e lettini per godere del sole della campagna del riso di Isola della Scala. E se i risotti sono innovativi, qual è il rapporto con la tradizione di Davide Botta? Creativo o tradizionale? «La cucina è tradizione, seppur adoro esplorare tecniche e sapori internazionali o nuovi. Nei piatti della tradizione bisogna saper estrapolare anche solo un ingrediente o una tecnica, in modo da riuscire a comprenderne a pieno le emozioni di un tempo ormai lontano, di cui ancora però si percepisce il profumo, il gusto e le sensazioni. Amo definire la mia una cucina in moderna evoluzione, un mio piccolo contributo al rinnovamento» ci risponde così.•
Luca Abbruzzino e la nuova Calabria Felix
di Camilla Rocca
Spazio ai giovani e a un territorio brullo quanto generoso, dove è ancora possibile scrivere una nuova pagina nella cucina della regione
Passione, eleganza, essenzialità: si potrebbe riassumere così la mano di Luca Abbruzzino. Calabria Felix: solo sette tavoli per un ristorante che sta cambiando il volto gastronomico di una regione che fino a qualche anno fa sembrava essere dimenticata dalla guida Rossa. E ora, grazie a giovani talenti come Nino Rossi di Qafiz a Santa Cristina d’Aspromonte, Antonio Biafora di Hyle a San Giovanni in Fiore e Caterina Ceraudo del Dattilo a Strongoli sta riprendendo quota.Giovani che credono nel loro territorio e non se ne allontanano. Che hanno voglia di ripescare le proprie radici e costruirvi le fondamenta del proprio futuro. «I miei piatti nascono dall’istinto, che si fa poi guidare dalla memoria gustativa. Nella mia vita, ho avuto la fortuna di girare, viaggiare, assaggiare e mangiare tanto, conoscere culture diverse, stili di cucina diversi. Il processo creativo può intraprendere strade diverse, così cerco di rifarmi alla tradizione oppure a volte parto da un ingrediente, studiandolo e declinandolo al meglio», racconta Abbruzzino, tra i primi a credere nella propria terra. Una villetta alla periferia di Catanzaro che proietta in un locus amoenus fuori tempo. Il nido d’amore di Antonio e Rosetta, genitori di Luca :«Di mattina andavo al liceo scientifico e la sera davo una
mano in sala. Vedendo i sacrifici che faceva mio padre non avrei mai pensato di fare anche io il cuoco, anzi odiavo il suo lavoro tanto che decisi di iscrivermi all’università di economia a Roma. Poi all’improvviso mio padre licenziò tutto il personale nella primavera del 2010, scesi da Roma per dargli una mano, come d’accordo, giusto per un paio di mesi, il tempo necessario per riorganizzare lo staff.
In realtà sono ancora in quella cucina. Quella fu l’occasione per fare uscire fuori la mia passione» racconta con calore Luca Abbruzzino. E mentre donna Rosetta fa da sempre gli onori di casa nella sala ultra moderna del ristorante, accorgendosi di ogni mancanza e orchestrando con occhio attento ogni movimento,
ingolosendo l’ospite con un cestino del pane che merita da solo il viaggio, Luca fa uscire piatti dal gusto goloso e dalla tecnica mirabile; un’esperienza che si è accumulata nelle cucine di chef di calibro come Gennaro Esposito, Enrico Crippa, Mauro Uliassi e Pier Giorgio Parini. Ma sulle tavole del ristorante troverete essenzialmente prodotti locali: «Ho un rapporto romantico con qualsiasi ingrediente, cerco di rispettarlo e di valorizzarlo al meglio, perché dietro ogni prodotto c’è il lavoro di uomini, contadini, pescatori, che vengono prima del cuoco. Seguo l’istinto e la stagionalità, mi piace la semplicità, ma tutto deve essere guidato dal gusto» racconta Luca. E incalza: «La Calabria non ha una forte tradizione gourmet, o per lo meno che sia riconosciuta nel resto d’Italia. Il che è assolutamente un bene, perché noi cuochi abbiamo questi prodotti eccezionali da valorizzare, senza alcun vincolo: siamo liberi di creare. Per me cucinare è passione e rispetto per la materia prima e i rituali che accompagnano l’esecuzione. La mia cucina è istinto, gusto e memoria». Tra i piatti signature il Fusillone, pecorino, ’nduja e ricci di mare o gli Spaghettoni al nero di sesamo con colatura di alici uvetta e cipollotto, in cui confluiscono più suggestioni, dal sapore ammaliante, preciso ed estremamente delineato. Ma anche il Riso, latte di cardo e baccalà, con limone salato e polvere di cicoria tostata, e le Mezzelune ripiene di erbe di campo amare, condite con ragù di lumache di mare, che raccontano della verde e brulla Calabria. Tra i piatti più innovativi il Baccalà “total white” con le sue trippe, un cameo alla nuova tendenza di realizzare piatti mono ingrediente riuscendo a riutilizzare tutte le parti, anche considerate di scarto, grazie a innovative tecniche di cucina. E la centralità assoluta del piatto ruba spesso l’attenzione a una scelta decisamente d’avanguardia per una carta di vini davvero invidiabile: dal metodo ancestrale di Casa Comerci alle nuove sperimentazioni di vino in anfora di Donnanò, scegliendo rigorosamente produttori locali. •
Tutti i vantaggi dell’ “acqualità”
Brita lancia un nuovo concetto di qualità che si basa su cura, sicurezza e sostenibilità, al servizio del segmento professional
Il periodo complesso che stiamo attraversando ha modificato equilibri e priorità di tutti. Brita, azienda leader nel settore del trattamento dell’acqua potabile e brand inventore della caraffa filtrante, ha ascoltato il cambiamento in atto nel mercato professionale. Una gamma che racchiude i filtri per macchine da caffè, l’acqua per il settore ristorazione, per il settore del vending, per la produzione di ghiaccio e distributori collegati alla rete idrica per l’utilizzo in uffici, scuole, nella
ristorazione e nel settore sanitario. L’analisi delle attuali sensibilità e del bisogno crescente di sicurezza ha portato Brita a fare un lavoro su più livelli aziendali, interrogando sia il comparto sales che quello marketing, per comprendere meglio le esigenze dei propri interlocutori e per aiutarli il più possibile ad affrontare il “new normal”. Una riflessione che ha portato a capire meglio che per Brita l’unicità della sua filtrazione sta nella capacità di offrire al settore professional: un’Acqua Certificata di Qualità, Unica nel suo gusto, Attenta alle attrezzature, Libera da impurità, Igienica, Trattata su misura e Amica dell’ambiente. In una parola, Acqualità: un neologismo semplice, orecchiabile e che si fa ricordare. Brita “Acqualità” garantita! è il claim della nuova comunicazione di Brita Professional, che interpreta la qualità come sicurezza, cura e sostenibilità dell’acqua filtrata, alla luce delle nuove esigenze degli operatori professionali. Quale testimonial per il segmento Caffé Gian Zaniol, Campione Italiano Brewing 2017, racconta: «Uso Brita da anni e ho scoperto che la qualità offre tanti vantaggi» . Riducendo la durezza dell’acqua in modo mirato, rimuovendo il cloro e trattenendone le impurità fisiche, la filtrazione con Brita è infatti in grado di garantire un caffè di qualità, che esalta il gusto e le caratteristiche dei prodotti in estrazione. Un ottimo espresso nasce dal connubio di due ingredienti di qualità: caffè e acqua. L’acqua ideale per il caffè è priva di sapori e odori estranei con una composizione equilibrata di minerali. La qualità dell’acqua è dunque fondamentale per la migliore estrazione del caffè, ma determina anche la funzionalità della macchina espresso. Più è alta la percentuale di bicarbonati di calcio e magnesio, più rapida è la formazione di calcare, con una conseguente riduzione dell’efficienza dell’apparecchiatura, una peggior resa del caffè, oltre a rischi di fermo macchina, inattività e onerosi costi di manutenzione. Filtrando l’acqua si può ridurre la durezza, rimuovere il cloro e trattenere le particelle, favorendo un’estrazione ottimale e proteggendo dai guasti la macchina del caffè. Brita, da sempre attenta alle esigenze dei clienti del mondo Caffè, propone un’ampia gamma di soluzioni per offrire un caffè eccellente: si passa dalla gamma Purity C Quell ST che riduce efficacemente i depositi di calcare, gli odori e i sapori sgradevoli e preserva le attrezzature, alla gamma Purity C Finest che crea il contenuto di Sali minerali ideale per sviluppare il pieno aroma di caffè; completa la gamma il sistema a osmosi inversa Proguard Coffee. •
VANTAGGI DELLA FILTRAZIONE BRITA
• Aroma intenso • Crema persistente • Protezione della macchina
Tenuta Artimino Bellezza italiana
di Giovanna Moldenhauer Un’oasi dove si incontrano arte,storia e natura a meno di un’ora da Firenze, tra i 14 siti delle Ville Medicee
Storia, arte e natura rendono la Tenuta di Artimino un posto speciale, un luogo dove il tempo scorre più lentamente, dove abbandonarsi per godere l’infinito piacere del silenzio delle colline, tra gelsi antichi e lecci monumentali. E’ a tutti gli effetti un’oasi rasserenante nel cuore della campagna toscana, sita a soli 20 km da Firenze, dove sono proposte svariate soluzioni di ospitalità atte a incontrare le diverse esigenze dei suoi ospiti. Dopo essere stato un antico insediamento etrusco, poi un borgo medioevale è successivamente divenuta dimora e ampia tenuta di caccia appartenente alla dinastia dei Medici che nel 1626 la vollero delimitare da un muro di cinta lungo più di 51 km, di cui ancora oggi sono visibili alcuni resti e una porta. Villa Medicea La Ferdinanda, cuore di Artimino in posizione dominante sul poggio, fu costruita nel 1596 per volere del Granduca Ferdinando I de’ Medici, su disegno di Bernardo Buontalenti architetto, scultore, pittore e ingegnere militare, uno degli artisti più importanti e influenti della seconda metà del Cinquecento. Nel 2013 La Ferdinanda ha ottenuto il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità Unesco, insieme alle altre ville e giardini medicei che, in Toscana, formano un complesso di ben 14 siti. Dal 1989, il complesso della Tenuta è di proprietà della famiglia Olmo. Fu proprio Giuseppe Olmo, noto ciclista degli anni ’30, medaglia d’oro olimpionica e recordman dell’ora, a volerne il restauro per trasformarla in un luxury resort. Nella proprietà di oltre 732 ettari sorgono sia la Paggeria Medicea, un incantevole hotel di charme 4 stelle, oltre agli appartamenti del borgo medioevale, poco distante, dove ha sede anche la spa con il suo centro wellness, per poi completare l’offerta dell’ospitalità con le residenze di campagna per chi cerca la privacy più assoluta. Un cosmo di cui
fanno parte inoltre l’azienda agricola con le sue vigne, le cantine. Un mondo tutto da scoprire tra vitigni e oliveti, campagne coltivate e natura incontaminata. La rinascimentale Paggeria Medicea è un quattro stelle che coniuga il fascino di una struttura antica con la più raffinata ospitalità. Un attento restauro ha trasformato l’elegante edificio, a pianta rettangolare dei primi del XVII secolo, dove sono stati valorizzati i preziosi elementi originali che spaziano dai camini ai lavabi in pietra serena, dalle travature in legno ai pavimenti in cotto. Nell’antico borgo di Artimino, situato a breve distanza dalla Villa Medicea, raccolto dalle sue antiche mura, si trovano invece più di 50 appartamenti pensati per chi desidera una formula più libera e informale, comunque esclusiva e completa di tutti i comfort. Tutte le unità abitative, ognuna diversa dall’altra, hanno un ingresso indipendente, un angolo cottura, un parcheggio interno al borgo. A completare l’offerta ci sono cinque grandi appartamenti, ristrutturati secondo la filosofia del restauro conservativo che
valorizza le finiture di pregio, dotati di terrazza panoramica con vista sulla Villa Medicea e sulla dolce campagna toscana. Nella zona cucina, ambiente accogliente e spazioso, si possono organizzare raffinate cene con private chef. Il centro Wellness & Spa è proprio nel borgo. Una strada di campagna costeggiata da una fila di cipressi porta alla Villa, all’hotel Piaggeria Medicea, al ristorante, alla piscina e al campo da tennis. Le case toscane Le fagianaie sono invece eleganti
case di campagna immerse nel silenzio degli ulivi. All’interno di un antico casale ristrutturato, si trovano sei appartamenti con locali ampi e finemente arredati, come a rimandare a quel passato nobile che ha segnato questo territorio. Adiacente all’Hotel il ristorante Biagio Pignatta Cucina e Vino è il luogo delle tradizioni e dei sapori locali. Il nome è dedicato al primo maggiordomo di Ferdinando I de’ Medici. Sono ancora in menu alcuni piatti ripresi dalla grande tradizione culinaria medicea, come l’Anatra all’Arancia, legata storicamente a Caterina de’ Medici. Piatti particolari, reinterpretati con competenza e creatività per riscoprire quelle ricette che derivano dalla storia dei Medici e che costituiscono l’origine di molti piatti della cucina francese. L’executive chef è Michela Bottasso, piemontese di nascita e toscana d’adozione, che mette nei suoi piatti tradizione, innovazione e gusti intensi, in un mix vincente. Un curriculun da vero exe-
cutive chef di respiro internazionale in importanti cucine, da Londra ai Caraibi. Dal punto di vista prettamente enologico Artimino produce i suoi vini grazie al raccolto di ottanta ettari di vigneto, dove l’origine della coltivazione della vite risale all’epoca etrusca. La Tenuta si trova nell’area di produzione del Carmignano – una Docg tra le più piccole in Italia e in cui il suo blend unisce il Cabernet Sauvignon (o Cabernet Franc) al Sangiovese. La proprietà ha avviato un progetto di riposizionamento della Tenuta che ha avuto il debutto con uno studio attento per individuare il terreno più adatto per la coltivazione di ogni diversa varietà, creando di conseguenza nuovi vi-
gneti o reimpiantandone di nuovi al posto di precedenti. Un processo che è stato avviato dall’agronomo Alessandro Matteoli. L’enologo Filippo Paoletti segue invece il percorso del vino dopo il raccolto dell’uva prendendosi cura di ogni singola varietà, da vinificare e affinare con sapienza. Da qualche anno è stata creata una linea destinata all’Ho. Re. Ca. 1596, anno che segna l’inizio dei lavori di costruzione di Villa La Ferdinanda, che si affianca a quella precedente. Ogni vino ha una sua storia a partire dalle due Carmignano DOCG Grumarello e Poggilarca, due Doc Barco Reale di Carmignano declinate nel rosso Ser Biagio e nel rosato Vin Ruspo, tradizionale del luogo, senza dimenticare il Chianti di Montalbano DOCG, prodotto dalle uve di quella zona. Completano la gamma gli IGT Centocamini, un rosso gentile, e Artumes, un bianco profumato e versatile, senza tralasciare le tre piccolissime produzioni di Vin Santo Occhio di Pernice, di Carmignano e del Chianti. L’assaggio dei diversi vini trasmette sia l’esaltazione delle vocazioni del territorio così come il frutto di una coltivazione il più possibile naturale, grazie a una forte spinta verso ecosostenibilità. Le più avanzate tecnologie di cantina e la scelta attenta delle botti permettono ad Artimino di realizzare vini eleganti, equilibrati ed emozionali. •
Nuove alchimie vegetali per Alessandro Cozzolino
di Gualtiero Spotti
foto di Benedetta Bassanelli Il nuovo chef de La Loggia al Belmond Villa San Michele a Fiesole, il gruppo punta alla stella
Nonostante l’annata non certo favorevole e le incertezze proiettate sul mondo dell’hotellerie e del turismo, spira un vento di rinnovamento che non accenna a diminuire nel gruppo Belmond, facente parte del colosso internazionale del lusso LVMH. E l’Italia rimane un Paese centrale a un progetto di sviluppo in realtà iniziato ben prima che il gruppo del magnate Bernard Arnaut diventasse proprietario della catena di alberghi, poco meno di due anni fa. Poi sono arrivate le nuove aperture, le opere di rinnovamento e di riposizionamento del brand, si è iniziato a dare un valore importante al comparto gastronomico e a svecchiare luoghi dai contorni mitici senza snaturarne la storia ed oggi si iniziano a vedere i frutti. Soprattutto quando si tratta di mettere i piedi sotto il tavolo per avvicinarsi a una esperienza gourmand. Il punto di svolta è coinciso con l’arrivo ormai qualche anno fa di Davide Bisetto alla guida dell’Oro, il ristorante del Cipriani a Venezia, dopo i successi in Corsica a Casadelmar dove aveva raggiunto la seconda stella. Poi è stata la volta di Roberto Toro che al secondo anno dell’Otto Geleng in quel di Taomina, al Timeo, si è aggiudicato una stella Michelin. E questi sono stati segnali inequivocabili di un cambio di rotta per dare maggior forza ai ristoranti del gruppo. L’ultimo indirizzo in odine di tempo, e dal quale ci si attende grandi cose, è sicuramente il ristorante La Loggia, ospitato all’interno di Villa San Michele a Fiesole. Qui, dopo la lunga cavalcata pluridecennale di Attilio Di Fabrizio, il cambio di guardia ai fornelli ha portato il trentenne di origine casertana Alessandro Coz-
zolino all’ombra della cupola del Brunelleschi, già all’apertura della stagione nel 2019. Per il giovane cuoco, a dire il vero, si è trattato di un vero e proprio ritorno in Toscana, visto che nel suo curriculum figurava il passaggio, fondamentale per lui, da Arnolfo, il bistellato di Gaetano Trovato a Colle val d’Elsa. Solo in seguito è arrivata la lunga trasferta asiatica di quattro anni a Hong Kong, per gestire il ristorante Grissini del Grand Hyatt, prima del rientro in quel di Fiesole. Oggi si può dire che la scelta di Belmond è qualcosa di più di una semplice scommessa per un giovane di talento e dal sicuro avvenire, che come ci ha raccontato, durante il lockdown dei mesi scorsi non si è perso d’animo ma ha utilizzato parte del suo tempo a “ripassare” i grandi della cucina e a leggere molti libri per migliorarsi nella professione. “Confinato a lungo tra le mura domestiche”, ricorda oggi “ho consultato nuovamente buona parte dei libri della mia collezione. E’ il caso, ad esempio, di Octaphilosopy – the Eight Elements of Restaurant André, di André Chiang, che trovo sempre di grande ispirazione, ed è questo un ristorante che io conosco bene, essendoci stato ai tempi in cui lavoravo nel sud-est asiatico. Anche se, per dirla tutta, di solito mi interessa molto più conoscere il percorso del cuoco che non i suoi piatti.” Meno pomposa e rinascimentale rispetto allo stile di un tempo, la cucina de La Loggia oggi si proietta verso nuovi orizzonti grazie al taglio d’autore che Cozzolino ha saputo infondere a buona parte dei piatti. Certo, non manca un percorso di Tenta-
zioni Toscane che celebra la Chianina (in un piatto di tortelli), la panzanella o il Peposo, ma anche in questi casi l’approccio non è esclusivamente tradizionalista e si spinge a riconsiderare il piatto in una nuova veste. Come nel caso dei Bischeri, la pasta risottata al cacciucco livornese che cambia registro con le seppie “koshigiri”, i gamberi e la melissa. Ancora più ardita è poi la sezione del menù nominata Alchimie Vegetali dove si mescolano in una sequenza di piatti le diverse esperienze professionale di Cozzolino. Così capita con il Nostr’ovo! unisca l’Ovetto bio cotto nel Tè Sencha ai fichi canditi nel vermouth di Prato e al radicchio in tempura, per un viaggio dal sud est asiatico alla Toscana più cinese, se vogliamo, oppure il delicato Ricordo d’Infanzia prenda il via da un Risotto al peperone abbrustolito, con l’aggiunta del pecorino toscanello, le polpettine di seitan (mai così buone) e la polvere di finocchietto. Nell’anno più difficile e in attesa di condurre in porto il progetto già avviato di modificare l’assetto della cucina nel dietro le quinte, Alessandro Cozzolino ha il merito non da poco di essere riuscito a ridefini-
re un’idea di cucina toscana in stile fine dining che sa nutrirsi di tanto in tanto di spunti mediterranei ed esterofili. Una proposta ambiziosa che non tralascia neanche il recupero di una materia prima locale di qualità (la quaglia del Valdarno, il pesce del litorale, l’agnello maremmano) da vivere e assaporare in un ambiente davvero unico e dal fascino assoluto. L’esperienza di una cena a uno dei tavoli della Loggia con la vista che abbraccia l’intera Firenze, e magari anticipata da un cocktail sorseggiato nel giardino pensile vicino alle camere dell’albergo, rimane un lusso cui è davvero difficile rinunciare se si capita da queste parti. •
Grand Hotel Kronenhof Sfarzo nel bosco
di Gualtiero Spotti
foto di Benedetta Bassanelli Un viaggio nella Kronenstűbli, ad assaporare i piatti dello chef Fabrizio Piantanida attorniati dal legno delle classiche stube alpine
Pontresina è a una cittadina a un tiro di schioppo dalla mondana Sankt Moritz, nella Svizzera più vicina al confine italiano, ma a differenza di quest’ultima località vive da sempre di un turismo più discreto e meno incline alla movida invernale da dopo sci. Da queste parti è più facile incontrare il viaggiatore che si inoltra per qualche chilometro nel bosco ad ammirare le bellezze paesaggistiche della Val Roseg oppure che sale agilmente con il trenino a cremagliera sul panettone di Muottas Muragl dal quale si gode una vista unica sui laghi dell’Engadina, e magari si ferma giusto il tempo per deliziarsi con una fetta di Nuss torte, uno dei dolci più famosi e proteici dell’Engadina, accompagnata da una tazza di tè corroborante. A voler entrare ancor più nello spirito montano, il percorso di avvicinamento ideale a Pontresina, per chi vuole sostare qualche giorno, rimane quel treno, il Bernina Express, che partendo da Tirano raggiunge la sua destinazione
in circa due ore tra passaggi su rotaia da mozzare il fiato e con gli spettacolari ponti costruiti a cerchio per permettere di superare sui vagoni il notevole dislivello che porta fino al passo del Bernina. Se invece guardiamo a quale può essere quanto l’opzione più classica per il pernottamento, il luogo da segnare sul taccuino per tante ragioni rimane il Kronenhof, un imponente albergo diventato monumento svizzero col trascorrere degli anni e capace in un sol colpo di unire un gusto antico ai confort moderni grazie, in particolar modo, alla ristrutturazione che, qualche anno fa, ha portato alla costruzione di una spettacolare Spa, di una serie di nuove camere dai colori e dagli arredamenti in stile più contemporaneo, e da una serie di servizi che hanno portato ad accogliere un ospite certamente più giovane rispetto alle stagioni anche recenti. Certo, il Grand Hotel Kronenhof rimane una casa che nel suo impatto primario rivela all’ospite il passato sfarzoso, puntualmente evocato fino ai giorni nostri con l’ingresso nella grande hall che funge da biglietto da visita, ma poi anche nel ristorante che, se è vero che durante la mattina ospita le colazioni, nelle ore serali si trasforma in una sala elegante ricca di affreschi, di attenzioni antiche da parte di maitre e camerieri, di gesti cui forse non si è più troppo abituati. E che dire di quelle due salette che accolgono rispettivamente un tavolo da biliardo e, addirittura, una pista da bowling in legno? La stirpe di appartenenza dell’hotel, pur considerando le diverse modifiche attuate negli anni (alcune delle quali tuttora in corso visto che si sta lavorando alacremente per ultimare delle nuove suite in tempo per l’inizio della stagione invernale) è quella delle grandi case dove una volta si riuniva una certa aristocrazia mitteleuropea per le vacanze invernali sulla neve o per concedersi salutari soste estive respirando l’aria buona. Una logica che, pur in tempi diversi e con le incognite di una stagione tormentata dalla ben nota pandemia del Covid-19, non ha cambiato di una virgola
i ritmi e tempi di un hotel che mantiene un fascino assoluto capace di trasmettersi anche all’offerta gastronomica. La punta di diamante rimane la sala intima e raccolta del Kronenstűbli, che, come dice bene il nome, riporta all’ambiente caratterizzato dal legno delle classiche stube alpine, mentre il suo padrone di casa ormai da diversi anni è il quarantacinquenne Fabrizio Piantanida, originario della Val Vigezzo, ma a tutti gli effetti uno svizzero d’adozione visto che da più di trent’anni cucina in giro per i cantoni. Piantanida è l’executive di tutti i ristoranti dell’albergo, ma il Kronen-
stűbli rimane quello dove meglio riesce ad esprimere il suo carattere e lo stile di una cucina che pesca a piene mani nella materia prima italiana pur rimanendo ancorata alla storia e alla tradizione della casa. Così se da un lato un piatto molto personale come i Ravioli all’ossobuco con gallinacci, spinaci e Parmigiano ha saputo assurgere a classico irrinunciabile del menù, poi ci si muove verso altri lidi con la Terrina di foie gras con fragole, brioche, vaniglia e chutney di rabarbaro oppure si rappresenta il buon gusto della valle nella Spalla d’agnello di Poschiavo con melanzane, maggiorana, limone e grano saraceno. Infine non può mancare la storica Canard a la presse che qui rappresenta un signature molto apprezzato dagli ospiti. Purtroppo in questa stagione non viene preparata in sala ma in cuci-
na, per attenersi alle norme anti covid, ma la curiosità qui risiede nella possibilità da parte del cliente di vedere tutte le fasi della preparazione in leggera differita. Semplicemente perché uno dei camerieri all’occorrenza può registrare, sullo smartphone dell’ospite, tutte le fasi di realizzazione del piatto scendendo nelle cucine sotterranee dell’albergo. Fabrizio Piantanida, come detto, coordina anche le cucine degli altri due ristoranti, il Pavillon, che con il suo ampio spazio in terrazza propone pranzi agili a base di specialità grigionesi (formaggi e salumi) e insalate, oppure piatti di maggior sostanza, come i pizzoccheri, il vitello tonnato, la Black Angus e il Rösti di patate. Mentre è diverso lo stile del Grand Restaurant, che offre l’opzione di un menù vegetariano il quale va ad affiancare un percorso più sottilmente elegante dove si trovano i Ravioli del plin (non dimentichiamo le origini del cuoco…), la zuppa di vitello con patate e porri e il Filetto di lavarello in mantello d’uovo. Il Grand Hotel Kronenhof offre così tre situazioni gastronomiche ben distinte, ognuna delle quali, però, rivela la profonda conoscenza del cuoco di casa, che sa muoversi con cognizione di causa e versatilità tra piatti della tradizione regionale italiana, preparazioni e salse francesi e materia prima spesso locale. Forse anche aiutato dal fatto di essere un cacciatore e un cercatore di funghi che, nelle stagioni propizie, gira per i boschi dell’Engadina insieme ad un gruppo di amici. Pare che qui una delle cene più singolari e ambite della stagione sia quella dedicata alla marmotta! •
L’autarchia sostenibile delle Madonie
Nella masseria di Susafa al via la campagna “Seminiamo il futuro”
«La sostenibilità è un sacrificio, se si vuole esserlo realmente, ma anche un dovere etico» così ci accoglie Manfredi Rizzuto, che in una frase stigmatizza la filosofia di Susafa. E proprio come indica l’antico nome di questa masseria fortificata nell’entroterra delle Madonie, “loro sanno come si fa”. Si riferiva alla comunità autarchica che, protetta dalle alte mura di fortificazione, contava fino a 110 famiglie per una comunità di 600 persone, per un totale di 1200 ettari coltivati, oggi dimezzati. Questo è un modello reale di agricoltura sostenibile, dato che questo albergo diffuso ha l’ambizioso progetto di auto-sostenersi e nutrire gli ospiti di Susafa con soli prodotti della loro terra. «Tornare come una volta, quando gli abitanti di questo borgo erano autosufficienti per il 90% della loro alimentazione» racconta Manfredi. Fuori dalle classiche mete della Sicilia, Susafa parla di un turismo alternativo, esperienziale, contadino, di ritorno alla tradizione e alla natura, rincorrendo anche ora, nella più sfrenata modernità tecnologica, quell’età dell’oro tanto decantata dagli antichi. Oggi Susafa conta 10 mila metri quadri d’orto e 250 alberi da frutta autoctoni delle Madonie, attraverso una ricerca sui ceppi realizzata in collaborazione con l’Università di Palermo. E tra gli alloggi sparsi sulla collina più alta del territorio, tra i muri medioevali e la piscina a sfioro, le 22 aiuole che abbracciano la cittadella sono state ripopolate di erbe officinali e aromatiche come la rosa canina, la salvia autoctona di questi
luoghi, il tamaceto e la rosa gallica, solo per citarne alcuni. E da poco a Susafa si è dato il via al progetto “Seminiamo il futuro”: un’iniziativa per riconnettere il pubblico con la produzione della terra, un filo diretto con Polizzi Generosa e quella Sicilia che è stata il granaio della Magna Grecia. «Si condivide con il consumatore i saperi di quella cultura contadina per cui rispettare le stagioni era fondamentale per un consumo sostenibile e possibile, quello che oggi chiamiamo responsabile» racconta Manfredi. «Ci piace pensare che Susafa sia un luogo dove l’uomo possa ritrovare se stesso e il proprio equilibrio in una dimensione senza tempo, ritrovando quella cultura della condivisione e armonia con la natura che talvolta dimentichiamo. Come farlo? Abbiamo studiato una serie di adozioni dirette di alberi che sono partite da alberi da frutto, considerati poco produttivi dall’industria agroalimentare moderna, ulivi, appezzamenti di grano, pezzature dell’orto. La produzione derivante da queste adozioni diventano prodotti di proprietà dell’adottante, quindi marmellate, taniche d’olio extravergine, farine e pasta, prodotti di stagione dell’orto. Ma si possono ricevere a casa anche erbe aromatiche e officinali, a seconda del periodo dell’anno». C.R.