OPENINGS | L’HOUSE ORGAN DI EDILPIÙ | N.1 2021
«Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa fate duri una vita intera o perfino più a lungo» [Sergio Marchionne]
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La soglia del cinema
Ridare vita alla storia
Francesca Molteni
La Rocca Brancaleone
Musica oltre i confini
Emozione sostenibile
La Romagna di Mirko Casadei
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22 Da luce a ombra. E ritorno
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Una sfida interessante Sulla soglia di Finstral
Navigare innovando Edilpiù e il suo viaggio
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Il gusto della curiosità Dentro il San Domenico
Dimensione naturale
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Luminoso rigore La Chiesa del Varignano
Lo spazio vivibile Soglie fra luce e ombra
L’armonia essenziale
editoriale
28 La soglia condivisa I disegni di Álvaro Siza
60 40 anni verso l’orizzonte Costruire la cultura Il Renzo Piano World Tour
OPENINGS_
L’house organ di Edilpiù Anno II - N. 1
Progetto grafico KAERU - kaeru.it Testi Chiara Tartagni Coordinamento Nicolò Montevecchi, Giusy Di Stasio Fotografie Intro p 4: Gianluca Gasperoni Art. pp 8, 14, 36, 42: Gianluca Gasperoni Art. p 41: Alessandro Belussi Art. pp 18, 56: Alvise Raimondi Art. p 22: Chiara Pavolucci Art. p 28: Raul Betti, Andrea Piovesan, Greta Ruffino Art. p 60: Elisa Scapicchio © Professione Architetto, Thomas Pepino, TP, IM Art. p 66: Daniele Domenicali Art. p 74: Cristina Bagnara, Marco Curatolo, Mauro Prevete Stampa La Greca Arti Grafiche - Forlì (FC) Edilpiù S.r.l. Via Piratello, 58/2 48022 - Lugo (RA) edilpiu.eu Finito di stampare nel mese di maggio 2021 Il presente è un progetto editoriale indipendente, finanziato esclusivamente in forma privata, privo di periodicità e distribuito brevi manu gratuitamente. Pertanto - ai sensi della L 62/2001 esso non rappresenta c.d. testata giornalistica.
In questo nuovo numero di Openings, celebriamo il nostro compleanno più importante: 40 anni. Siamo giovani o vecchi? Saggi o folli? A noi non interessa la risposta, perché significherebbe classificare solo il momento presente. La prospettiva da cui guardiamo questo traguardo è la risposta. Ma si sa, l’azienda è un organo dinamico in costante tensione e movimento. Noi preferiamo rivolgerci all’orizzonte e cercare i nostri prossimi traguardi da raggiungere. Questo numero racconta con il presente il nostro passato, condensa tutta la nostra visione di architettura, di progetto, di relazioni, di azienda. In questi 40 anni abbiamo voluto porre attenzione a tutti gli ingredienti per creare una ricetta equilibrata, ma con un pizzico di innovazione. Il nostro impegno continuerà a essere costante nel seminare i nostri valori e la nostra cultura su questo territorio che tanto ci ha dato e a cui cerchiamo di restituire. Per far germogliare le foglie e i frutti, occorre prendersi cura di quei semi, curarli con perseveranza e aspettare il giusto momento. Quello che crescerà reggerà all’urto del tempo, qualcosa che potrà vivere oltre noi. Non smettiamo mai di voler cambiare il mondo, perché proprio nel momento in cui lo vogliamo lo stiamo già facendo. Marcello Bacchini
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La soglia del cinema PRIMO PIANO | La soglia del cinema
Aprirsi all’imprevisto
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Fondatrice della casa di produzione Muse Factory of Projects, Francesca Molteni è curatrice, regista e autrice di film documentari, e con Edilpiù ha dato vita al grande viaggio di Openings. Con lei abbiamo parlato di cinema, imprevisti e naturalmente soglie. Qual è la relazione fra cinema e design? È la forma di soglia che incontri nel tuo lavoro? Cinema e design, come cinema e architettura, hanno molto in comune. Entrambi sono progetti: più che il prodotto finale, è interessante il processo. Sono mondi dov’è molto importante la creatività del singolo, ma anche il gioco di squadra. Nulla si fa da soli, ciascuno mette in gioco capacità e competenze tecniche. Ed entrambi si fanno per passione, richiedono coinvolgimento e curiosità per ciò che ancora non si conosce e ciò che si potrebbe fare meglio.
Francesca Molteni sul set del documentario Openings.
Didascalia foto nobis eturem simagnitatia ipictio restius.
PRIMO PIANO | La soglia del cinema
«Ogni volta che si accende l’occhio cinematografico, devi scegliere cosa tenere dentro e cosa tenere fuori»
Il design faceva parte del DNA di famiglia, ma io ho fatto un altro percorso: ho studiato filosofia, ho lavorato in RAI e in America. Nel frattempo la rivoluzione digitale rendeva il video uno strumento più accessibile. Quando sono tornata in Italia, il design aveva bisogno di raccontare delle storie, attraverso un linguaggio verbale ma anche visivo. La tecnologia e i dispositivi come hanno quindi cambiato il nostro sguardo? Hanno democratizzato cinema e video, con tutti i limiti di questo libero accesso: chiunque può fare un video con lo smartphone, quindi è diventato più difficile far capire il valore dell’utilizzo professionale di un linguaggio. Per come lo concepiamo noi, il video è un’arte totale, in cui ogni elemento contamina l’altro: dalle interviste alla scrittura dei testi, fino alla grafica, al montaggio, alla musica. Parliamo del progetto che hai dedicato ai 40 anni di Edilpiù, il documentario Openings. Cosa ti ha stimolato?
Quando ho incontrato Edilpiù, aveva già capito che lo strumento cinematografico è un mezzo potente per lanciare un tema e poi discuterne. Abbiamo approfondito la collaborazione con il Renzo Piano World Tour e con il mio Il potere dell’archivio. Da questi incontri è nata la volontà di raccontare un’azienda che vuole aprire una discussione su un tema specifico e allo stesso tempo ampio. Indagare la soglia ci ha consentito di incontrare persone molto diverse fra loro ma unite dal lavoro in questo territorio, dal fatto di avere la Romagna nelle proprie radici e nel proprio cuore. Un film è un po’ come un bambino: lo nutri, gli dedichi tempo, energie e affetto, ma cosa diventerà non è mai scontato. La materia quindi non è totalmente sotto controllo durante il processo? No, anzi le cose più sorprendenti succedono quando si presenta un’altra soglia, ovvero l’apertura all’imprevisto, alle persone, alla vita. Alcune interviste
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PRIMO PIANO | La soglia del cinema
potrebbero risolversi in un’ora e poi incontri persone come i Casadei, generose nel condividere la propria storia. Ci dedichiamo sempre a lavori abbastanza lunghi e profondi, nessuno uguale all’altro. Una cosa che abbiamo in comune con Edilpiù: come loro ci mettiamo al servizio di un’idea, portiamo il nostro interlocutore a fare le scelte giuste per quel singolo progetto. Questo periodo particolare, in cui il concetto di soglia è ancora più complesso, ha cambiato la tua visione? Anche noi abbiamo dovuto rimetterci in gioco. Ci ha tolto la possibilità di viaggiare, ma ci ha dato quella
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di approfondire, di scoprire storie più vicine a noi, di conoscere realtà che fino a un anno fa non avrebbero mai pensato di comunicare attraverso il digitale. È un’occasione per imparare e per aiutare le aziende a fare dei passi avanti, soprattutto quelle in difficoltà. Anche l’occhio cinematografico è quindi una soglia? Ogni volta che si accende, devi scegliere cosa tenere dentro e cosa tenere fuori. Il frame è l’equivalente di una cornice. Quasi sempre è più importante quello che decidi di escludere, di non raccontare. Fuori c’è un mondo e tu decidi di focalizzarti su qualcosa di preciso. È una scelta molto forte.
Mirko Casadei ci ha aperto la porta della propria casa.
Musica oltre i confini
«Sono la terza generazione della famiglia Casadei e porto avanti questa tradizione proiettandola nel futuro. È una missione che mi rende orgoglioso, perché la nostra musica mette insieme le persone e le generazioni». Così si presenta Mirko Casadei, che in occasione del documentario Openings ha conversato con Francesca Molteni. Esiste un termine in musica che possa essere assimilato al concetto di soglia? Più che un termine, posso dire che nella musica siamo abituati ad attraversare delle soglie per scoprire il nuovo. La musica è sempre in evoluzione grazie agli incontri, alla contaminazione. È così che nascono nuovi generi. Tu hai dovuto oltrepassare la tradizione per portare questo stile nel mondo contemporaneo. Sì, l’Orchestra Casadei ha quasi 100 anni di storia e abbiamo sempre guardato avanti: è il segreto della longevità di questa musica. Io l’ho fatto girando il mondo: ho portato la Romagna in Brasile, Australia, Argentina, Russia, Cuba. Ho incontrato tanti artisti, come Paolo Fresu, Goran Bregović, Gloria Gaynor. Questo mi ha permesso di tenere come punto fermo la tradizione e di evolvermi. Ho preso spunto da un grande architetto, Antoni Gaudí, che diceva che per essere originali bisogna sempre guardare le proprie origini. Questo connubio fra tradizione e innovazione com’è stato recepito?
Il nostro pubblico è in evoluzione a sua volta, in certi casi è molto più pronto di noi. Si aspetta già un cambiamento. Portare la musica a latitudini così lontane e incontrare rock, punk, jazz, blues e tanti altri generi ci permette di nobilitarla. Non hai mai avuto voglia di scappare dalla Romagna e dalla famiglia? In realtà io ho iniziato proprio fuggendo! Ho viaggiato, ho fatto il dj e l’animatore lontano da casa. Ho fatto un po’ la parte del rivoluzionario, ma poi ho capito che la famiglia è un valore aggiunto, dove spesso ritrovi le persone di cui ti puoi fidare. E poi qui in Romagna si sta davvero bene: è un’isola felice. Non la cambierei per nulla al mondo. Oggi che la Romagna è cambiata rispetto agli anni ’70, quali sono i valori e le unicità di questa terra? Qui “si tiene ancora botta”. È un posto sano e bello, in cui si integrano anche persone che vengono da lontano. Si vive ancora con serenità e con condivisione. Il mare ci illumina ogni giorno, le colline sono splendide. Le persone sono sincere, si parlano al mercato, le relazioni sono ancora quelle di una volta. È una caratteristica che ci teniamo stretta. Siamo un punto ideale d’incrocio fra animo conviviale e organizzazione. Quali sono oggi le tue fonti d’ispirazione? Il mare sicuramente, così come lo era nel passato dell’Orchestra. Noi siamo cresciuti a contatto con
PRIMO PIANO | Musica oltre i confini
La Romagna di Mirko Casadei
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La collezione Casadei, chitarre che sono ricordi e ispirazioni.
il mare, quindi è davvero qualcosa che abbiamo dentro: non riusciamo a farne a meno. Credo che anche l’abbraccio con le persone, l’incontro, la condivisione siano nel nostro DNA, anche semplicemente nell’identità di tutti gli italiani. Abbiamo bisogno del contatto fisico, di condividere bei momenti. Ho scritto proprio una canzone sull’incontro fra popoli lontani, sull’abbraccio che è anche l’abbraccio del liscio. Il liscio è il ballo sociale per eccellenza: ci si pesta i piedi, nascono storie d’amore, amicizie, famiglie. Anche la curiosità è molto importante: non vogliamo restare chiusi nella nostra isola felice, il mondo è prezioso. Fra tanti figli e nipoti, speri che ci sia un Casadei per l’Orchestra del futuro? È una speranza, ma non ci voglio contare per forza. Ognuno deve trovare la propria strada. I miei figli sanno
PRIMO PIANO | Musica oltre i confini
suonare e si divertono con la musica, che è un grande linguaggio universale. Ho partecipato a un progetto nelle scuole e ai bambini ho detto: non aspirate ad avere successo, ma a suonare uno strumento, perché apre un mondo nel comunicare con gli altri. Questo desidero per i miei figli e i miei nipoti. La soglia è anche un confine da superare. Se pensi all’Orchestra fra qualche anno, come potrebbe essere? Alzare l’asticella è il nostro obiettivo da sempre. Quando sono entrato nell’Orchestra, sono stato io a portarla per la prima volta in giro per il mondo, anche perché Raoul aveva paura di volare! E poi aveva trovato la sua “America” in Italia. Quindi ho superato questa soglia fisica per poi attraversare le altre, attraverso le contaminazioni musicali. Bisogna sempre guardare il proprio passato per costruire il futuro. Ci saranno
sempre nuovi obiettivi. Raoul negli anni ’70 ha portato questa musica a Sanremo, al Festivalbar, a un grande successo. Ecco, questo è l’esempio che seguo. Hai nominato tuo padre Raoul, amatissimo molto oltre la Romagna. Cosa significa per te? Di generazione in generazione dev’esserci una trasformazione: è la storia di tutti noi. Il mio rapporto con mio padre è sempre stato molto sincero ma anche conflittuale, pur avendo lo stesso pensiero di fondo. L’ho sempre chiamato Raoul e in molti mi hanno chiesto perché, sembra quasi una forma di distanza. Ma io lo faccio perché tutti lo conoscono come Raoul Casadei, re del liscio. Mi ha insegnato tanto come padre e come artista: il rapporto con la gente, il modo di comunicare, la trasparenza, l’onestà, che è una dote rara ma fondamentale. Lui l’ha sempre avuta.
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Ridare vita alla storia
PROGETTI | Ridare vita alla storia
La Rocca Brancaleone
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Ravenna, capitale di un impero, è colma di beni preziosi. Uno di questi è la Rocca Brancaleone, la fortificazione che si trova fra il centro cittadino e la cosiddetta “darsena di città”. Un luogo che da anni è al centro di interventi di restauro e riqualificazione, con un doppio obiettivo: valorizzarne il lato monumentale e dare nuova vita ai suoi spazi più fruibili dal grande pubblico, il parco della cittadella e l’arce dedicata agli eventi. Per volontà dell’Amministrazione e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, insieme alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e del Paesaggio di Ravenna, i lavori in corso prevedono interventi di restauro conservativo uniti alla realizzazione di nuove strutture che consentano di arricchire i servizi disponibili. In tale ottica si inserisce la riqualificazione e l’ampliamento del punto ristoro
presente nel parco. Il progetto ha avuto inizio dall’analisi puntuale delle caratteristiche distintive dello scenario circostante, in modo da rendere il nuovo edificio un elemento di connessione fluida, in cui si sposano valore storico, spazio verde e nuove opportunità. In un sito come la Rocca Brancaleone è infatti essenziale tenere conto della funzionalità degli spazi così come dei criteri di conservazione e tutela dei beni culturali. Dopo una rigorosa ricerca su materiali e design, si è posta una particolare attenzione alle finiture, alle texture materiche e alla permeabilità visiva e percettiva tra interno ed esterno. Trattandosi di una riqualificazione studiata per rendere lo spazio appetibile e vivibile, sono state fondamentali le riflessioni sul benessere indoor e sull’efficientamento energetico, legati alle caratteristiche tecnologiche dei materiali
I lavori per il nuovo dehor del punto di ristoro Il Brancaleone.
e delle finiture. Altro tema determinante nel progetto è quello della reversibilità, proprio a causa dell’elevato valore storico-culturale del contesto. Ecco perché si è dato alto rilievo al sistema costruttivo declinato con tecnologie a secco, che permettono di soddisfare i requisiti in termini di sicurezza sismica e garantire un nuovo insediamento a basso impatto rispetto alle preesistenze. I lavori tuttora in corso consentono di apprezzare non solo la cura nella progettazione, ma anche l’estrema precisione negli aspetti logistici legati al cantiere. A causa dei ponti che collegano la sede stradale al parco, le grandi vetrate a filo di 4 metri d’altezza sono state prima scaricate in strada e in seguito trasportate all’interno da un furgone-shuttle in tre viaggi lungo l’arco di una giornata. Una volta dentro il cantiere, i vetri sono stati sollevati singolarmente da
una gru pneumatica dotata di un braccio con ventose e posizionati nella cornice già installata. Ogni vetro strutturale pesa fino a 400 kg e lo scarto in dimensione fra vetro e cornice è nell’ordine di millimetri: pena la rottura del vetro stesso, non deve avvenire alcun contatto fra i due elementi. Il vetro andava quindi inserito di sbieco dall’esterno verso l’interno della struttura, poi raddrizzato e inserito nella cornice. In seguito, doveva essere sospeso da distanziali in gomma posti lungo tutto il perimetro e appositamente siliconato. Una complessa operazione d’installazione, che richiede un impegno di circa due ore per ciascun vetro. Impegno che sarà ripagato dal risultato finale: uno scrigno in vetro con sottilissimi infissi neri, con un’area anteriore scorrevole, al cui interno si troveranno le cucine del punto ristoro.
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The Shell – Progetto di Studio Piraccini + Potente Architettura Arch. Stefano Piraccini, Arch. Margherita Potente Cesena 2018-2020.
Emozione sostenibile
PROGETTI | Emozione sostenibile
La struttura esterna segue la stagionale inclinazione dei raggi solari. Le finestre sono state oggetto di un calcolo estremamente accurato: la loro posizione consente di ottenere la massima luminosità, così come il massimo livello di calore, a seconda dei momenti della giornata.
Da luce a ombra. E ritorno Cangiante ed evanescente quanto una conchiglia. Progettata con protocollo Passivhaus, questa residenza esprime l’equilibrio fra ciò che la sostenibilità richiede e ciò che l’occhio desidera. Lo schermo solare in legno abbraccia interamente l’edificio, modificando la percezione della luce durante il giorno. A sua volta, l’involucro interno si immerge perfettamente nelle ombre create dallo schermo. Niente accende di più la fantasia dell’ombra: ciò che vi si può nascondere è lasciato alla nostra immaginazione. Quando cala il buio, è la luce proveniente dall’interno a portare l’ombra sull’esterno, cambiando di segno la percezione. La casa si trasforma così in una suggestiva lanterna. La struttura esterna segue la stagionale inclinazione dei raggi solari. Se nei mesi più freddi i raggi entrano dal basso attraverso le finestre e regalano calore all’interno, nei mesi più caldi la loro intensità viene
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PROGETTI | Emozione sostenibile 26
respinta dallo schermo solare, assicurando il miglior comfort a chi vive la casa. Proprio le finestre sono state oggetto di un calcolo estremamente accurato: la loro posizione consente di ottenere la massima luminosità, così come il massimo livello di calore. Il riscaldamento dell’edificio si basa esclusivamente su fonti energetiche passive, ossia radiazione solare, calore proveniente dal corpo umano e calore generato dagli elettrodomestici in uso. La casa è quindi totalmente autonoma e non necessita di ulteriori sistemi di condizionamento. È presente soltanto un impianto di ventilazione meccanica controllata con recuperatore di calore, che espelle l’aria viziata e immette aria dall’esterno alla medesima temperatura, riducendo i livelli di CO2 ed evitando il manifestarsi di aria secca o umida. Le sue caratteristiche non solo permettono all’edificio
di produrre più energia di quella consumata, ma determinano l’assenza di emissioni nell’atmosfera. Anche all’interno l’emozione sostenibile vuole la sua parte e ogni elemento si relaziona agli altri per armonia o sapiente contrasto. La pavimentazione continua, in cemento trattato al quarzo, amplia gli spazi e richiama la pietra arenaria delle soglie. Il suo consistente spessore fa sì che il calore del sole assorbito venga poi rilasciato durante la notte, mentre la barriera sul lato inferiore frena l’ingresso delle emissioni di gas radon dal terreno. Tranne alcuni strategici particolari d’ispirazione naturale, gli arredi sono semplici, geometrici e realizzati per rispecchiare l’amorevole attenzione per l’ambiente: con l’ausilio di collanti privi di emissioni di formaldeide, si sposano legno naturale di rovere e marmo di Carrara.
Studio Piraccini + Potente Architettura, 2020.
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La soglia condivisa INTERVISTA | La soglia condivisa
I disegni di Álvaro Siza
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Dopo aver oltrepassato la soglia dello studio di un grande architetto, Raul Betti e Greta Ruffino si sono fatti una domanda: come possiamo condividere la nostra esperienza? Così è nata la mostra itinerante Álvaro Siza. Viagem sem programa. Tutto è partito da una foto: il civico 53 dello studio di Siza a Porto. Durante il nostro incontro nel 2005, Siza ci ha accolti con grande disponibilità, pronto ad ascoltarci in maniera aperta. Ci ha emozionati profondamente trovare curiosità e volontà di condivisione in un architetto la cui qualità è manifesta nelle sue opere. Sulla strada del ritorno, abbiamo iniziato a chiederci come condividere quello che è un vero approccio etico. Dopo un periodo di incubazione, nel 2010 siamo tornati da lui con un’idea di progetto più chiara. Libri, mostre, documenti sulle
Ritratto di Álvaro Siza, Fori Imperiali.
RUBRICA | tema
architetture di Siza esistono da decenni. Ci siamo quindi soffermati su un aspetto che era noto solo alla sua stretta cerchia personale: la capacità di raccontare la vita tramite il disegno figurativo. Abbiamo voluto indagare il rapporto umano che si instaura fra Siza e il mondo che lo circonda, la sua semplicità nel raccontare incontri e viaggi. Abbiamo intuito che molto del valore delle sue architetture deriva da una sensibilità sì nella ricerca del dettaglio, ma anche nell’osservazione delle persone che le vivono. Sono architetture senza tempo, sempre a dimensione umana. Niente meglio dei ritratti e dei momenti di vita avrebbe raccontato questa visione.
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Cos’è successo quando Siza ha finalmente approvato il progetto? Abbiamo passato intere giornate in archivio insieme a lui e alla sua archivista Chiara Porcu, ad ascoltare aneddoti e racconti per ogni disegno, ogni viaggio. Forse è una forma di memoria che viene innescata dal tratto disegnato. È così anche sul lavoro: in quanto attento compositore di opere architettonicomusicali, Siza coglie subito l’eventuale stonatura di una modifica progettuale che non porta la sua firma. Ama la musica e soprattutto il jazz, per l’importanza dell’improvvisazione. Ma essa non è mai fine a se stessa
INTERVISTA | La soglia condivisa
Nella pagina a fianco, Memorie di viaggio, Magazzini del Sale, Cervia 2020. A lato, Rua do Aleixo 53, Porto. Sotto, un interno dei Magazzini del Sale, Cervia.
ed è solo apparente, proprio come nei progetti. Qual è il legame della mostra con l’idea di viaggio? Siza ha vissuto il viaggio con un senso di liberazione: fino agli anni ’70 in Portogallo c’era una dittatura. E la parola “viaggio” è diventata la chiave di tutto, anche nel titolo. Quando gli abbiamo chiesto cosa pensasse di Viagem sem programa, lui ci ha risposto: «sì, ma i miei viaggi hanno sempre un programma!». Anche l’idea della mostra è stata un viaggio per noi, che in genere lavoriamo su committenza. Per questo è un progetto molto personale. Com’è andato avanti il percorso? In modo naturale. Dal 2010, quando abbiamo parlato per la prima volta del progetto, al 2012, quando la mostra è stata allestita alla Biennale di Venezia, abbiamo prodotto l’idea, il documentario, la pubblicazione. La collezione di disegni, realizzati in oltre 60 anni di attività, compone un’opera unica. Del resto, come si
poteva soppesare la memoria? Questo ci ha permesso di creare un format itinerante e replicabile, ma abbiamo anche dovuto ragionare sull’esposizione ed essere flessibili sulle location. Abbiamo portato la mostra nei musei, ma anche in luoghi rubati ad altre funzioni. Si rende disponibile e cerca di integrare le istanze di ciascun territorio. E di fronte a ogni nuova richiesta espositiva, ci poniamo sempre nel medesimo modo: condivisione e cuore aperto. Da un punto di vista operativo, bisogna collaborare con chi si occupa di infrastruttura e organizzazione. Per la prima edizione durante la Biennale di Venezia siamo debitori della Fondazione Querini Stampalia, che ci ha ospitato appoggiando la filosofia progettuale e proponendo una cultura trasversale. È quindi una mostra non solo itinerante, ma anche aperta? Vuole dialogare con tutti e non vuole essere elitaria,
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INTERVISTA | La soglia condivisa 32
quindi ci sembra giusto condividere questo libero accesso. Ci siamo sempre divertiti a mescolarci con il pubblico delle mostre per cogliere cortocircuiti e impressioni. Alla Fondazione Querini Stampalia c’era chi visitava la mostra senza conoscere Siza come architetto e commentava il tratto del disegno. Nel diario delle presenze abbiamo trovato schizzi o note di simpatia. E durante la proiezione del videodocumentario, qualcuno rievocava le atmosfere del suo studio. È stato emozionante. Quali luoghi ha toccato la mostra? Siamo passati dal Museo di arte moderna di Dubrovnik a una piccola galleria a Zagabria, dove Siza aveva già esposto. Poi a Castellarano, in un luogo industriale dove abbiamo usato metodiche espositive nuove, come i grandi leggii in ceramica. Il disegno deve essere
protetto e valorizzato, ma può anche permettersi di essere adagiato su una superficie piuttosto che appeso alla parete. Vogliamo portare chi guarda a una postura diversa, più accogliente, che faccia entrare in intimità con il disegno. Lo stesso Siza aveva già scelto questa soluzione nella Basilica Palladiana e inconsciamente abbiamo riproposto questa idea in modo coerente. Grazie all’invito di Manuel Aires Mateus a Lisbona, abbiamo portato la mostra anche nel suo studio. Come si esprime il vostro concetto di soglia in questi frangenti? L’ingresso in uno spazio nuovo è una genesi: lo immagini, pensi a come valorizzarlo. È stato così anche per l’incontro stesso con Siza, che ti accoglie proprio sulla soglia del suo studio. L’incontro con i luoghi è un momento di creatività, com’è accaduto per le due
Nella pagina a fianco, Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2012. Sopra, in senso orario, Aires Mateus Atelier, Lisbona 2018, tre scatti di FAB, Castellaro (RE) 2017 e Santa Maria della Scala, Siena 2019.
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INTERVISTA | La soglia condivisa
mostre organizzate con ProViaggiArchitettura a Siena e Cervia. La presenza del mattone sulle pareti è diventata simbolo di legame con la storia, con il cambiamento di funzione. Avete un’idea di flusso naturale fra discipline: anche questo è un modo di oltrepassare una soglia. Abbiamo unito le nostre competenze di architettura e comunicazione dell’architettura in questo progetto, che deve esprimersi su diversi supporti ed è sempre in progress. Un esempio lampante sono le casse studiate per trasportare i disegni, che in alcuni casi hanno fatto anche da supporto espositivo. A proposito di fluidità,
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nella nostra videointervista Siza afferma che in realtà non si disegna mai su un foglio di carta bianca: si inizia sempre da un elemento di ancoraggio. Quale ricordo vi ha lasciato la mostra ai Magazzini del Sale di Cervia? Come sempre, abbiamo coinvolto realtà che credessero nel progetto: è stato così anche con Edilpiù, fra gli sponsor della mostra. È un ricordo importante, perché è stata unica in tutto e per tutto: ha inaugurato poche ore prima del lockdown. Quando si potranno organizzare nuove esposizioni, tutti capiremo davvero cosa ci è mancato in questo ultimo periodo.
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INTERVISTA | Il gusto della curiosità
Il gusto della curiosità
Dentro il San Domenico Per Massimiliano Mascia il ristorante San Domenico di Imola non è solo una questione di famiglia. Due stelle Michelin, esempio di unione fra gusto tradizionale e nuove visioni, il San Domenico è un’altra delle soglie varcate durante il documentario Openings. C’è una soglia nel tuo lavoro? Se intesa come punto di partenza, è sicuramente la curiosità. Curiosità della materia prima, del territorio, delle tecniche, dei profumi e sapori delle stagioni che si susseguono. Il palato va allenato all’eccellenza e ai buoni prodotti. Sempre con la curiosità, ho incontrato altri prodotti e culture, altri modi di approcciare il lavoro. Ma credo valga per qualsiasi mestiere fatto davvero con il cuore. Raccontaci anche della soglia fra dentro e fuori la cucina. Io non abuso di tecniche o ingredienti troppo esotici, quindi la parte più importante del mio lavoro è proprio la ricerca, la relazione con artigiani, produttori, allevatori. Preferiamo magari avere a disposizione
la metà dei pomodori, ma buoni il doppio. La soglia fra dentro e fuori la cucina può essere paragonata a ciò che accade nello sport, fra l’allenamento e la gara: una volta che si è in campo, ci si concentra sulla partita e sul risultato migliore, che si ottiene proprio con la preparazione. A Imola la soglia fra città e campagna è molto sottile. Quanto aiuta nello sviluppare un nuovo progetto di cucina? È fondamentale. La nostra cucina è incentrata proprio su questo. Siamo fortunati a essere in Emilia-Romagna, piena di eccellenze come il Parmigiano Reggiano, l’aceto balsamico, l’olio di Brisighella, il pesce dell’Adriatico, la carne, i salumi, frutta e verdura di qualità. Qual è la persona da cui hai imparato di più? Mio zio Valentino mi ha trasmesso più di tutti a livello di conoscenza enogastronomica. Da entrambi i miei zii e dal signor Morini, che ha aperto il San Domenico 50 anni fa, ho ricevuto una cultura del lavoro,
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INTERVISTA | Il gusto della curiosità
che comprende sacrifici, fatica e confronto alla pari. Dentro la cucina c’è un rapporto orizzontale, perché tutti abbiamo avuto altre esperienze e condividiamo ciò che abbiamo imparato, senza imporre un metodo. L’importante è mantenere una filosofia chiara, nel rispetto dei clienti che cercano un’esperienza precisa. Cos’hai imparato dalla tua esperienza con il grande Alain Ducasse? È quella che mi ha lasciato di più. Quando sei chef (una parola che non mi piace e non uso), devi sapere anche cosa evitare. Ma tutte le esperienze nei piccoli ristoranti mi hanno aiutato a capire le relazioni
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interne ed esterne, i pro e i contro dei passaggi generazionali nelle famiglie. Anche le stelle Michelin sono una soglia? Sono importantissime nel nostro lavoro ed è un orgoglio per me cercare di conservarle: il San Domenico le ha da 40 anni. Danno un senso di completezza del lavoro. Ma non penso siano una soglia, altrimenti, una volta raggiunte, ci si fermerebbe. Questo luogo ha anche la forza di non cambiare. Ti senti a casa, ma meglio. Il San Domenico nasce proprio come cucina di casa. Ecco perché le tovaglie non sono bianche, non ci sono
La cucina di casa si unisce alla cura del dettaglio.
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INTERVISTA | Il gusto della curiosità
La relazione paritaria in cucina porta a un nuovo concetto d’esperienza.
solo sedie ma anche divanetti. Anche gli altri oggetti sono stati studiati in questo modo. Lo stesso vale per il servizio e l’empatia di chi ci lavora. Negli anni sono cambiati i colori e la luce, ma la visione resta la stessa. Quali sono le soglie personali che vorresti oltrepassare? Vorrei cercare di comunicare ai più giovani la bellezza di questo lavoro e renderli consapevoli che non basta frequentare la scuola per essere “arrivati”. Quella è solo la base necessaria. Bisogna voler migliorare sé stessi, cercare la cura del dettaglio. Fra le cose più belle e sentite del mio lavoro c’è il confronto con i clienti, per capire cosa è piaciuto e migliorare attraverso le critiche. Quanto sono importanti le persone che lavorano con te per fare sempre meglio? Io ho la capacità di sintesi per dare qualche linea guida, ma le persone vanno stimolate, soprattutto se molto
giovani. Devono essere libere di sbagliare, perché così cresce il senso di responsabilità. È questo il rapporto orizzontale. Le cucine di una volta e soprattutto quelle francesi hanno un’impronta militaresca in cui io non mi ritrovo. Oggi più che mai ci si integra culturalmente e caratterialmente: l’intelligenza di chi guida sta nel valorizzare le attitudini personali. Come vi trasformerete dopo aver attraversato la situazione attuale? Nell’immediato il cambiamento è stato obbligato: il delivery, la videoricetta sui social. Il nostro augurio è quello di tornare a pranzare e cenare al ristorante. Questo lavoro è completo solo con l’esperienza seduti al tavolo. Forse la situazione ha generato proprio questa consapevolezza: tante persone hanno capito che il ristorante non è solo un posto dove si va a mangiare.
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EDILPIÙ | Navigare innovando
«Famiglia e lavoro sono così lontani ma così vicini. Ecco quindi la nostra soglia in azienda: il bene primario è l’azienda stessa, i suoi collaboratori, i suoi clienti e le sue relazioni, che vanno messe al primo posto escludendo qualsivoglia personalismo per il bene comune»
Navigare innovando Edilpiù e il suo viaggio
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EDILPIÙ | Navigare innovando
Equilibrati innovatori
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40 anni sul mercato, ma soprattutto 40 anni in un mondo che è andato sempre più verso una prospettiva “sartoriale”, su misura per ogni richiesta. Ce li raccontano Gian Paolo, Marcello e Antonio Bacchini, due generazioni che non smettono di darsi nuovi obiettivi. Cosa significa per voi fare impresa, soprattutto in un periodo storico come questo? GP: L’impresa crea ricchezza per tutti, occupazione, servizi e rende migliore la vita della comunità a cui appartieni. A un certo punto della tua vita ti trovi a un bivio e ti chiedi: «Qual è il sentiero che voglio percorrere? Quello che fino a oggi hanno esplorato tutti? Oppure quello che nessuno ancora ha affrontato? Ce la farò?» E se la tua risposta è «sì», allora devi farlo, proprio perché puoi. Fare impresa è un dovere sociale, che nasce dalla consapevolezza di saper realizzare un progetto.
M & A: Fare impresa oggi lo possiamo riassumere in due parole: responsabilità e coraggio. La responsabilità di fare scelte ponderate in linea con i propri valori e principi, con la propria vision aziendale, aggiungendo quel coraggio che fa alzare l’asticella. Questo permette di fare scelte a volte controcorrente, per compiere quel passo in più in totale incertezza. Così nascono nuovi stimoli e nuove opportunità che occorre saper intercettare. Essere famiglia ed essere impresa: qual è la vostra soglia in questa relazione? GP: In famiglia si condividono gli affetti, nell’impresa si condividono gli interessi. Per una gestione corretta, è necessario che i figli siano capaci di ragionare sulla base dell’interesse reciproco e non con i sentimenti. È molto bello sapere che i miei due figli, così diversi fra di loro, sono complementari: questo li mette nella condizione di avvalersi del sostegno dell’altro senza
La sede di Edilpiù a Lugo (RA).
essere in competizione. Una vera ricchezza per Edilpiù e per tutti i collaboratori. M & A: L’essere famiglia è un legame indissolubile che tramanda valori non finalizzati unicamente al profitto, ma regolati da un’etica e una visione più ampia del progetto azienda. Però occorre porre molta attenzione agli equilibri. Famiglia e lavoro sono così lontani ma così vicini: le famiglie diventano due, occorre gestire al meglio le relazioni all’interno di ogni ambiente e permettere solo il travaso di flussi positivi dall’uno all’altro contesto. Ecco quindi la nostra soglia in azienda: il bene primario è l’azienda stessa, i suoi collaboratori, i suoi clienti e le sue relazioni, che vanno messe al primo posto escludendo qualsivoglia personalismo per il bene comune. A proposito di relazioni, come hanno cambiato la storia dell’azienda nel corso degli anni? GP: Proprio le mie buone relazioni con i progettisti
hanno permesso a Edilpiù di svilupparsi in modo veloce e concreto fin dalla sua fondazione e sono state alla base della sua affermazione. L’impresa è stata in grado di inventare un nuovo modo di relazionarsi con i professionisti e di interpretare il cambiamento di un’epoca. M & A: Le relazioni sono alla base dei rapporti umani. Dietro a ogni ruolo e responsabilità ci sono delle persone, con cui è possibile decidere che tipo di relazione costruire. Questo vale per i collaboratori come per i clienti, per i partner e per tutti coloro che ruotano intorno al nostro mondo. Coltivare buone relazioni significa porre le basi per rapporti solidi e duraturi fatti di fiducia, rispetto e stimoli. Negli anni abbiamo lavorato molto per creare relazioni di valore sul territorio e fuori dai nostri confini regionali. La risultante di tutto questo è la reputazione che l’azienda si costruisce nel tempo.
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EDILPIÙ | Navigare innovando
In che modo avete familiarizzato con quelli che 40 anni fa erano i “nuovi materiali”? GP: 40 anni fa, il sottoscritto andò a suonare i campanelli dei geometri liberi professionisti con un campioncino di finestra in legno. Dissi loro: «Signori, da oggi vendo porte e finestre: vi interessa?». E fin da subito raccolsi davvero un grande interesse: innanzitutto per la mia figura, che non era più quella di un classico falegname, ma di un giovane professionista che parlava un’altra lingua, che proponeva soluzioni tecniche fino ad allora sconosciute. Proponevo il legno mogano, il legno lamellare, l’apertura ad anta
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ribalta. Forte dell’entusiasmo ricevuto, pensai bene di fare un ulteriore passo avanti: nell’aprile del 1981, in un fabbricato di 6 appartamenti a Lugo, installai per la prima volta le finestre in PVC di Finstral. Alle precedenti novità aggiunsi un’argomentazione vincente: la “plastica”, come allora veniva volgarmente definita, non necessitava di verniciatura e rimaneva inalterata nel tempo. M & A: Siamo stati fra i primi a voler percorrere nuove strade, a imboccare quelle meno battute. Servono coraggio e caparbietà per farlo, ma il tempo ci ha dato ragione: quelli che ieri erano materiali innovativi oggi
sono di uso comune e la lunga esperienza fatta sul campo ci ha permesso di conoscerne i diversi aspetti, capirne i pregi e i limiti, lavorare per ridurne i limiti ed esaltarne i pregi. I materiali innovativi sono diventati una componente del nostro successo e la scelta di partner affidabili e professionali completa questo processo. Abbiamo standard di selezione molto elevati nella scelta dei fornitori: dato che lavoriamo su misura, la capacità di saper gestire questi aspetti è una sfida sempre più complessa. C’è un momento preciso in cui vi rendete conto che siete riusciti a realizzare il sogno del vostro cliente? GP: Forse non c’è un solo momento. Ma sicuramente uno dei più belli è ricevere una telefonata, una lettera oppure una mail, con cui il cliente esprime liberamente il suo apprezzamento per l’azienda e i collaboratori.
A volte capita anche una piacevole e inattesa sorpresa. Sono più di 100.000 le persone che visitano la Biennale di Lugo, a cui Edilpiù partecipa da tempo. Un giorno, mentre eravamo fra gli espositori della fiera, si è avvicinato un uomo: mi sembrava di conoscerlo, ma non ricordavo esattamente chi fosse. Forse l’avevo visto l’ultima volta 10/20 anni prima, al termine di un lavoro per la sua casa. Mi ha detto: «Sono venuto appositamente per dirle che aveva ragione lei, perché a distanza di così tanto tempo sono ancora entusiasta del suo lavoro». Il tempo passa, ma il sogno realizzato per il cliente resta. M & A: Edilpiù gestisce oltre 800 clienti all’anno: sono 800 sogni diversi l’uno dall’altro, che si portano dietro aspettative differenti e modi diversi di percepire lo stesso risultato. I clienti possono manifestare
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EDILPIÙ | Navigare innovando 48
soddisfazione in tanti modi. Chi con il totale silenzio, chi scrive apprezzamenti diretti o tramite piattaforme digitali, chi lo dice di persona, chi ti manda altri clienti… Non c’è uno standard nemmeno in questo “magic moment” e forse è proprio questo il fascino del nostro lavoro: niente è uguale a ciò che è precedente e tu devi impegnarti ogni giorno. Non importa quanti cantieri hai fatto bene prima, conta quello che deve ancora venire. È una grande spinta a eccellere. Per questo manteniamo con il cliente un rapporto costante anche dopo il termine dei lavori: vogliamo sapere cos’abbiamo fatto bene e dove possiamo migliorare. Quando pensate a questi 40 anni di percorso, c’è una parola o un’espressione che vi viene in mente per identificarli?
GP: Il sogno di un giovane professionista che si è realizzato attraverso un progetto, da cui è nata una realtà nota e riconosciuta sul mercato, sempre in linea con l’evolversi dei tempi e con un futuro luminoso che i figli sapranno certamente scrivere. M & A: Equilibrati innovatori. Guidare un’azienda per 40 anni richiede passione, entusiasmo e voglia di mettersi sempre in discussione, energie sempre fresche per superare i momenti difficili, saper navigare in mare in tutte le condizioni. L’equilibrio richiede consapevolezza, pazienza e calma. Ma non è sufficiente senza il coraggio di innovare. I mercati sono spesso tumultuosi, bisogna restare concentrati sul proprio obiettivo e prendere decisioni ponderate per raggiungerlo, anche correggendo la rotta. Devi sapere chi sei per capire dove andare.
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INTERVISTA | Una sfida interessante
Una sfida interessante Sulla soglia di Finstral
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Luis Oberrauch è Vicepresidente di Finstral, fondata nel 1969 per progettare e produrre serramenti di qualità.
Tendere all’eccellenza Lo sappiamo: una finestra è molto più che una semplice apertura. E l’impresa che ne ha fatto una filosofia? Ne abbiamo parlato con Luis Oberrauch, Vicepresidente di Finstral. «Solo chi concepisce un prodotto dall’inizio fino alla fine del processo realizzativo può svilupparlo in modo davvero completo»: è questa la soglia di Finstral? Chi vuole creare qualcosa di unico non deve limitarsi a mettere insieme componenti già sviluppate e a disposizione di tutti. Bisogna avere la volontà e la disponibilità di andare oltre l’ultima fase di un ciclo produttivo. Noi partiamo dalla mescola delle materie prime e produciamo semilavorati unicamente su nostro disegno. Siamo diventati vetrai, esperti di legno, verniciatori: solo alla fine del processo siamo serramentisti e assemblatori. In più, vogliamo essere certi che la qualità di posa sia di alto livello. Con il tempo, quella che era necessità di risolvere problemi è diventata un modo di pensare, sempre più stimolante. Qual è nella sua esperienza il confine tra “fare bene” e “fare meglio”? Fare bene significa fare le cose rispettando normative, leggi, regole di mercato. Fare meglio per me significa non accontentarsi, cercare di sorprendere, uscire dai
limiti. Il traguardo del fare meglio in realtà non è mai raggiungibile: più lo si avvicina, più si sposta in avanti. Si può arrivare a essere i più grandi, ma non a essere eccellenti. È questa la motivazione per continuare a migliorare. In quale modo il lavoro di squadra rinnova ogni giorno la sua realtà? Da noi si dice: “il successo ha tanti padri”. La discussione aperta e lo scambio di opinioni fanno nascere idee migliori di quelle che potrebbe avere una singola persona. Questo vale anche per il dialogo con i nostri clienti e partner. Può trattarsi anche di discussioni spontanee, in cui si deve essere disposti a riconoscere la validità delle idee altrui. Ecco perché il confronto quotidiano con la squadra è fondamentale e non va mai perduto. E quando si giunge insieme all’idea migliore, la riflessione deve portare a un’azione concreta. Teniamo molto alla nostra concretezza. Nella sua professione si intersecano discipline apparentemente diverse? Chi guida un’azienda deve vedere sempre l’insieme delle cose, i grandi temi come quelli apparentemente piccoli. Chi non si preoccupa dei temi operativi non avrà soldi in cassa. Chi non lavora sull’ottimizzazione continua
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INTERVISTA | Una sfida interessante
non farà più utili. Chi non si occupa di innovazione, cambiamenti e sviluppi importanti, fra non molto non sarà più sul mercato. Non è facile, si deve stare in equilibrio costante fra dovere e potere. L’imprenditore deve relazionarsi con i collaboratori e con i clienti: proprio questo ci manca ora, la relazione. Ogni volta che incontro un cliente, la mia ultima domanda è: lei di cosa non è contento? Solo così sappiamo come migliorare. A cosa associa il concetto di “soglia” e cosa significa per lei attraversarla? Per me significa lasciare ciò che si conosce. Avere il coraggio di mettere piede su nuovi campi o strade.
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Le prime soglie sono quelle mentali, perché uscire vuole anche dire allontanarsi dal luogo sicuro. Secondo la mia esperienza, attraversare certe soglie provoca paura e perciò richiede coraggio. Ma farlo è essenziale: altrimenti, si rimane bloccati e non si riesce a fare davvero la differenza. Le esperienze indimenticabili sono quelle che fai dall’altra parte della tua paura e ti permettono di conoscere nuove culture. Data l’origine del nome dell’azienda, che contiene un riferimento ai raggi del sole, qual è il valore che date alla luce? Se pensiamo alle finestre, credo che ricavare le prime
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INTERVISTA | Una sfida interessante 54
aperture nelle grotte avesse come scopo proprio portare dentro la luce del sole, fonte di vita. La finestra vera e propria sarebbe poi nata per permettere alla luce di entrare e allo stesso tempo proteggere contro intemperie, caldo, freddo, animali selvatici, ecc. Ma all’origine resta la luce: per questo in architettura è ancora così importante. Ed è per questo che da sempre lavoriamo con sistemi come profili sottili, vetri extrachiari, ecc. Quali frontiere d’innovazione immaginate nella vostra professione? Finché sulla terra ci saranno esseri umani, ci sarà bisogno di finestre e non vedo limiti nello sviluppo. Forse si creeranno sistemi più efficaci e con più funzioni. Si darà sempre più rilievo al valore estetico della finestra all’interno dell’architettura. Si lavorerà sul vetro, che
è la parte più evidente. Si approfondirà l’autoregolazione, per avere un consumo energetico costante durante tutto l’arco dell’anno. È importante essere aperti a cose oggi ancora inimmaginabili, soprattutto in un ambito in cui si intrecciano scienza, chimica, tecnica. Penso che in azienda lavoreremo per rendere più snelli i processi e utilizzare in modo intelligente la digitalizzazione senza semplificare quello che è il prodotto stesso. Può identificare Finstral con una parola o un’espressione? Oltre a “concretezza”, direi anche “sfida interessante”, che è quella di accettare ogni giorno il bello e il difficile. Forse anche “positività”, perché è alla base di questa sfida, in cui siamo presenti, sempre disponibili al confronto. E infine “rispetto”, nei confronti di tutti: clienti, colleghi, fornitori.
Dimensione naturale
Corte San Ruffillo Country Resort Progetto di Ellevuelle Architetti Dovadola 2020.
PROGETTI | Dimensione naturale
L’armonia essenziale
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Immerso nelle morbide colline di Dovadola, questo agriturismo dalle origini antichissime e debitamente restaurato porta avanti un concetto molto preciso di accoglienza, offrendo agli ospiti un approccio biologico, nel senso più ampio e rispettoso del termine. Un’amorevole cura per la natura circostante e per il benessere della persona che si riflette nel progetto di ampliamento dei suoi spazi ricettivi. Lo studio ha previsto la definizione di un’estensione che crei una vera e propria dimensione in più, un elemento di congiunzione armonica fra l’esterno e l’interno. Il dehor risulta permeabile alla vista e conserva quella semplice, naturale eleganza che è caratteristica distintiva del complesso. Posizionato in aderenza alla struttura già presente e sul prospetto sud, ovvero il fronte di accesso principale, il dehor è stato progettato e realizzato con un linguaggio di composizione
PROGETTI | Dimensione naturale
ben preciso, che gli consente di unirsi alle bellezze del resort senza imitazioni stilistiche forzate. Cercare una mimesi precisa sarebbe stata infatti un’operazione rischiosa, che avrebbe potuto concretizzarsi in una riproduzione poco meritevole dello stile originale. Il progetto ha quindi attinto a forme classiche, proponendo un linguaggio sobrio nella volumetria, con un valore aggiunto: il gusto contemporaneo nella scelta dei materiali. L’area originale a cui il dehor aderisce resta visibile e percepibile grazie a una sequenza ritmica di esili elementi metallici tubolari, verniciati a polvere bianca, e grandi tamponature in vetro stratificato, realizzate con telai sottili. La struttura si presenta geometricamente come un parallelepipedo a cui si addossa un “cuscinetto”, che ha il prezioso ruolo di mediare fra il corpo di fabbrica originale e il dehor.
All’interno, si crea un effetto a cassettone all’intradosso, che si sposa perfettamente con il gusto misurato e sofisticato del resort. Qui la distinzione fra complesso originario e dehor risulta volutamente impercettibile: è infatti osservabile solo nel salto di quota esterno della copertura, più bassa in corrispondenza della giunzione. L’intero progetto, frutto di un rigoroso lavoro di squadra, ha voluto conservare in ogni minimo dettaglio quei caratteri di semplicità che si confanno a un luogo così particolare e a chi l’ha fortemente voluto. L’essenziale si esprime nella leggerezza di ogni elemento e trova infine la massima manifestazione in una nuova dimensione, a disposizione di tutti coloro che vogliono assaporare appieno la serenità di un territorio ancora intatto e concedersi un po’ di tempo per vivere al ritmo della natura.
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RICERCHE | Costruire la cultura
«E allora i giovani non è male che si allontanino, non fosse altro che prendendo le distanze e guardando lontano capiscono che essere nati in Italia è una grande fortuna»
Costruire la cultura Il Renzo Piano World Tour
Il costruire è fra le più nobili arti mai portate avanti dall’essere umano, in ogni cultura e nazione. Una sensibilità molto cara a Renzo Piano, che ha saputo fare proprie ed elaborare le esperienze e la saggezza millenaria di popoli assai distanti fra loro. Da qui l’idea: farsi guidare dalle architetture di Piano (e non solo) in un viaggio intorno al mondo.
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Nella pagina a fianco, un ritratto di Renzo Piano. In alto, il MoMa Garden, NY.
«Il viaggio è un po’ come andare in una grande biblioteca a cercare un libro: è vero che cerchi quel libro, ma cercando quel libro ne trovi molti altri»: parola di Renzo Piano. Dal 2017 l’associazione culturale HABITAT2020 e ProViaggiArchitettura collaborano con la Fondazione Renzo Piano all’istituzione di un premio per la miglior tesi di laurea nella progettazione relativa alla rigenerazione di aree periferiche italiane. Un progetto che si è evoluto ed espanso, fino a comprendere la pubblicazione di un catalogo per ciascuna edizione, a cura dei partecipanti. La prima edizione ha visto vincere Silvia Pellizzari, studentessa di Ingegneria Edile-Architettura dell’Università di Padova, che ha potuto beneficiare di un premio unico nel suo genere: quaranta giorni di viaggio per scoprire le architetture di Renzo Piano in giro per il mondo. Così nasce ufficialmente il Renzo Piano World Tour. A cadenza annuale, il premio prevede un diverso numero di vincitori e differenti tappe per ogni edizione, dando così la possibilità di conoscere non solo le opere di Renzo Piano e del Renzo Piano Building Workshop, ma anche dei grandi maestri dell’architettura. Parlano chiaro i numeri della seconda edizione: 3 architetti, 3 continenti, 10 fusi orari, 18 città e 40 giorni all’insegna dell’avventura, in ogni accezione del termine. Alla fine del viaggio, il giorno speciale in cui Ricardo Fernández González, Ioanna Mitropoulou e Thomas Pepino hanno incontrato Piano presso l’ufficio RPBW di Genova. Dall’Acropoli di Atene al Centro Botín di Santander, dal Centre Culturel Tjibaou in Nuova Caledonia al museo d’arte di Harvard a Boston, fino all’Opera House di Sydney: un viaggio che ha dato ai tre architetti, finalmente cittadini del mondo, uno sguardo sensibile
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RICERCHE | Costruire la cultura
Nella pagina a fianco, Fundación Botín, Santander (RPBW). A lato, in alto, Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre, Nuova Caledonia (Studio Piano). Nella pagina seguente un interno della Fondazione Renzo Piano.
alle potenziali meraviglie di ogni cosa. La necessità del viaggio è non a caso uno dei principi esplicitati fin dalla nascita della Fondazione Renzo Piano: «Lo studente e il giovane architetto devono viaggiare per poter progettare. Chi non viaggia o non sa non sarà mai in grado di progettare, l’architetto deve essere in continua formazione. Deve saper valutare e criticare l’architettura costruita». Avvicinare in prima persona opere di cui si è semplicemente letto e studiato per anni è un privilegio e un arricchimento, ancora più intenso nel momento stesso dell’esperienza. Una memoria che resta profondamente, intimamente sensoriale: «Sulla pelle, dopo mesi dal ritorno, quando chiudo gli occhi sento ancora la musica delle cicale e il caldo umido del Texas. Khan riposa tra gli alberi, l’insegnamento è “respirate l’architettura”», racconta
Thomas Pepino, che avvicina l’opera all’emozione. «La matericità di Ando, la fisiologia architettonica di Rogers, la cultura Rossiana, Nouvel, Hadid, Big, Gropius, Le Corbusier, Mies, Wright, Foster, e moltissimi altri architetti incontrati durante il RPWT 2018, mi hanno fatto capire che città, architetture, luoghi e non luoghi, spazi e paesaggi mai visti dal vivo, stabiliscono un legame tra l’individuo e le sensazioni/ emozioni che essi provocano, dove la tensione sta nella logica del progetto, figlio di una ratio, in cui l’emozione prodotta non è contemplabile sulla carta ma percepibile solo nella realtà». Un approccio aperto e libero all’“altro da noi” che secondo Renzo Piano fa innegabilmente parte dell’identità del nostro paese. «La storia dell’Italia è di un Paese in mezzo al Mediterraneo che ha sempre accolto nel bene
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RICERCHE | Costruire la cultura
e nel male, un diverso modo di ragionare non ci appartiene. Quindi la bellezza dell’Italia non è solo ambientale, non è solo quella del paesaggio, ma è anche la bellezza più profonda, quella che non si vede, quella che viene in superficie solo ogni tanto. Tutto questo, però, se ci si abitua, non si capisce più. E allora i giovani non è male che si allontanino, non fosse altro che prendendo le distanze e guardando lontano capiscono che essere nati in Italia è una grande fortuna», dice Renzo Piano intervistato da Mariagrazia Barletta. È un «andarsene per tornare», un viaggio in cui anche gli imprevisti possono
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costituire preziosissime conquiste, per poi riportare al punto di partenza che si fa di nuovo traguardo. Non solo: è un’esperienza di squadra che aiuta ad avere più coraggio, «perché quando si lavora in gruppo c’è una rete di salvezza». Pensando ai giovani e ai loro talenti, l’architetto genovese formula un augurio che potrebbe essere universale: che possano proprio esprimersi con coraggio, ma anche ascoltare con umiltà. Perché l’architettura non è una professione “innocente”: «È pericoloso il nostro mestiere, è un’arte pubblica la nostra, quindi è un’arte in cui non si deve sbagliare, perché il tuo sbaglio va a pesare su tutti».
Luminoso rigore
Chiesa della Resurrezione di Nostro Signore – Progetto di TAMassociati Varignano, Viareggio 2019.
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Dalla memoria al futuro, nel segno della luce
PROGETTI | Luminoso rigore
La Chiesa del Varignano Come dare un potente senso di unione se non con linee semplici e rigorose? Così si concretizza il progetto per il complesso parrocchiale Resurrezione di Nostro Signore nel quartiere di Varignano a Viareggio. Il complesso è andato a sostituire integralmente il precedente edificio, la cui decadenza aveva reso impossibili interventi risolutivi. Il progetto si è quindi identificato con un vero e proprio percorso di sperimentazione, in cui la vita di una comunità che si rispecchia negli stessi valori ha potuto assumere una forma attuale. Tutto questo senza dimenticare la storia del quartiere e l’esperienza delle persone che vi vivono, che anzi ne sono le radici fondanti. È infatti la memoria la prima protagonista di questo complesso: memoria della semplicità nella forma architettonica, memoria dell’incontro fertile fra ruolo sociale e ruolo liturgico del complesso.
Concatenati l’uno all’altro, i volumi geometrici che lo compongono rispondono all’esigenza di sobrietà e forza che regola l’intero progetto: il primo è costituito dal grande blocco dell’aula liturgica, mentre il secondo volume retrostante – a due livelli, verso nord – è stato studiato per ospitare attività catechistiche, spazi d’incontro e casa canonica. Insieme, essi sono la rappresentazione perfetta dei due volti del complesso, quello liturgico e quello di servizio alla comunità, inscindibili anche dal punto di vista fisico: una relazione esplicitata nel piccolo patio intermedio che funge da cerniera fra i due spazi e che si riflette nelle ampie vetrate. L’aula liturgica di forma rettangolare si sviluppa a doppia altezza, mentre il prospetto principale della chiesa si coniuga in due elementi: sulla distesa fascia bianca orizzontale, emerge al centro il volume
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a parallelepipedo dello spazio liturgico, con finitura in intonaco rigato grigio. Lo spazio interno accoglie la comunità con un senso di unità, dilatandosi fra aula e navata laterale fin dall’ingresso laterale che lascia intravedere dall’esterno la navata a ovest, accompagnata da un lungo corridoio coperto. Separata dal portale a due grandi ante, all’estremità della navata laterale emerge la cappella feriale, mentre a fianco dell’ingresso principale spicca la zona battesimale: è infatti la luce zenitale che fluisce sulle pareti a sud a esaltare la presenza del fonte battesimale, il cui bacino in pietra chiara contrasta armoniosamente con il basamento scuro. È sempre la luce a dare una sensazione di partecipazione a ogni elemento dell’architettura, grazie alla copertura a shed. Simbolo del determinato slancio che vuole essere la
base della vita di comunità, la torre campanaria, a pianta quadrata e copertura piana, si erge verso l’alto distinta dal resto dell’edificio. La sua forma longilinea è data da un emblematico elemento di memoria: due setti in cemento armato recuperati dal precedente complesso, che fungono da sostegno alle otto campane disposte su tre linee. Nel progetto si uniscono quindi la volontà di elevare lo spirito di chi si riconosce in questa comunità e la razionalità posta nella costruzione, che ha previsto una particolare attenzione anche alle soluzioni in ambito ecologico: ne è un esempio il largo utilizzo di lamelle in X-lam per il rivestimento delle pareti. L’uso responsabile delle risorse è infatti ormai un tema irrinunciabile per chi vuole stare nel mondo con coscienza e consapevolezza, così come il comfort che chi frequenta il complesso può vivere in prima persona.
La semplicità delle forme si congiunge al ruolo sociale e liturgico del complesso.
ADVERTORIAL | Sunroom
«Darsi un obiettivo raggiungibile, non fine a sé stesso, sfidante e dedicarvi le proprie energie con passione: è questa la nostra soglia quotidiana. Ed è importante trovarne di nuove»
SPETTACOLARE SUNROOM Per noi “fare bene” è la prassi, il “fare meglio” si raggiunge solo con la passione ed è ciò che fa davvero la differenza. Già prima degli avvenimenti di questi ultimi mesi, questo era un tema degno di riflessione: la qualità vive della capacità di innovare e interpretare le richieste del mercato, o meglio ancora, i desideri delle persone. La possibilità di combinare questi due aspetti avviene grazie alla passione che permea il nostro lato creativo, con lo studio di nuovi prodotti, quello produttivo, con l’inserimento di macchinari all’avanguardia, e quello commerciale, che sfrutta anche le ultime tecnologie a disposizione. Per questo, il confronto con i collaboratori è quotidiano: ogni giorno ci arricchiamo di un qualcosa in più, professionalmente e umanamente. La nostra squadra è composta da persone che provengono da formazione ed esperienze spesso molto diverse tra loro e questo continuo interscambio di abilità e competenze può dare solo un contributo positivo sia nel raggiungimento degli obiettivi, sia nel clima di lavoro. Un approccio multidisciplinare in cui in ogni ambito si lavora per
migliorare insieme. La vita di tutti i giorni ci porta infatti a confrontarci con tanti avvenimenti diversi, che non sono necessariamente quelli su cui ci siamo formati, ma che dobbiamo avere il coraggio e la volontà di incontrare e conoscere. La nostra vita lavorativa non fa differenza. Quindi fa parte del nostro bagaglio quotidiano avere anche una conoscenza - seppure minima - di tante aree: dalla tecnica amministrativa alla tecnica dei prodotti, fino a quella commerciale. È altrettanto importante avvalersi di collaboratori preparati, che possano contribuire con le proprie conoscenze a far progredire l’azienda. Darsi un obiettivo raggiungibile, non fine a sé stesso, sfidante e dedicarvi le proprie energie con passione: è questa la nostra soglia quotidiana, che per noi è per l’appunto una sfida. E una volta superata quella soglia, è poi importante trovarne di nuove. L’insieme di tutti gli aspetti che creano la nostra professionalità, la possibilità di conoscere e relazionarsi con le persone, il lavoro di squadra, la capacità di darsi sempre nuovi obiettivi possono riassumersi in un termine: “spettacolare”.
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INTERVISTA | Lo spazio vivibile
RUBRICA | tema
Lo spazio vivibile
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«L’ombra permette di far risaltare tutto ciò che è interessante. Nello spazio in cui sono presenti, l’ombra rappresenta l’inattività, la luce l’attività, e non sono per forza statiche»
Soglie fra luce e ombra Per Quick Lighting lavorare sulla luce significa enfatizzare l’ombra. Paradossale? Forse no. Ne abbiamo parlato con la Vicepresidente Chiara Marzucco e con Alice Montanari, Communication Manager. Come lavorate sulla luce in qualità di soglia? Se pensata correttamente, la luce diventa concreta. Non puoi toccarla, ma può emozionare. Nel nostro lavoro la soglia è lo spazio che si frappone fra l’idea progettuale e la soluzione: siamo noi a mettere le idee del progettista a terra. Il cliente privato supera invece la soglia fra il pensare al proprio spazio illuminato e il godersi l’emozione di viverlo. Noi fungiamo da guida nelle scelte, creando una partnership e lavorando per il miglior risultato possibile: qui sta la nostra credibilità e per questo lavoriamo solo con aziende italiane. Qual è il punto di vista esterno sul valore della luce e qual è la sua funzione civica? Negli ultimi anni si è compreso che un’illuminazione corretta può cambiare uno spazio. L’esempio perfetto è l’illuminazione della facciata del Teatro Alighieri di Ravenna: ha assunto una forma totalmente diversa, che in realtà era già lì, ma non era mai stata enfatizzata e la città non aveva mai potuto apprezzare.
Anche se non si può toccare, la luce può dare emozioni.
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INTERVISTA | Lo spazio vivibile
Nella pagina a fianco, il Flagship store Veralab, Milano. A lato, dall’alto, la mostra Álvaro Siza. Viagem sem programa, Magazzini del Sale di Cervia, Ravenna. Sotto, Incorniciando il Paesaggio, Dorgali Sardegna. Nelle pagine seguenti, il Teatro Alighieri, Ravenna e un dettaglio di Aki Sushi Restaurant, Roma.
Anche l’illuminazione esterna del Museo Classis fuori Ravenna ha permesso una riqualificazione dell’area. Il Comune ha capito l’importanza della luce, del risparmio di risorse e della funzione green di un nuovo impianto a minor impatto possibile grazie all’utilizzo di luci a LED, così come gli studi d’architettura hanno compreso che l’illuminazione va studiata da progettisti illuminotecnici. È così che la città diventa vivibile in ogni ora del giorno: un concetto molto importante soprattutto oggi. Sull’onda di quanto stiamo vivendo, si sta poi sviluppando l’illuminazione outdoor. Dopo tanto tempo in casa, abbiamo voglia di vivere il giardino, che può diventare uno spazio personale, una vera dimensione in più. Dato che le origini di Quick sono nella nautica, usiamo materie prime d’eccellenza che si prestano perfettamente al mondo outdoor.
Dove c’è luce c’è anche ombra. Come definiscono una soglia? Sono estremamente legate. Noi enfatizziamo l’ombra e poniamo l’accento dove serve. L’ombra permette di far risaltare tutto ciò che è interessante. Nello spazio in cui sono presenti, l’ombra rappresenta l’inattività, la luce l’attività, e non sono per forza statiche. Ad esempio, in ambito museale, il binario che può spostare i corpi illuminanti permette di mettere in rilievo ciò che vuoi in base all’esposizione. Sembra un passaggio molto fluido, come quello fra musica e silenzio. A proposito di musica, il Ravenna Festival 2020 è stato una grande emozione proprio perché si veniva da mesi di silenzio. Lo stesso vale per un edificio che viene illuminato dopo che è stato sempre spento.
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INTERVISTA | Lo spazio vivibile
È un po’ come scolpire una scultura da un materiale grezzo, o cucire un abito sartoriale. Si tratta di un dialogo, di mettere insieme le idee per valutare le necessità effettive e le soluzioni più efficienti. Come avete lavorato sulla luce per la mostra Álvaro Siza. Viagem sem programa ai Magazzini del Sale di Cervia? Il museo è uno spazio meraviglioso per ristrutturazione e illuminazione. Noi abbiamo selezionato le nostre Ed Pole per porre l’accento dove serviva. Le piantane hanno un’unica sorgente, diretta verso l’opera. Possono scomparire nell’ambiente per dare il ruolo di protagonista all’arte. Ed essendo molto leggere,
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possono essere spostate dove necessario. Abbiamo fatto insieme ai curatori uno studio in loco della dimmerazione della potenza, in modo che al momento dell’accensione le luci fossero già settate per valorizzare al meglio le opere. Avete un metodo fluido anche nella diversità dei vostri progetti. Pensiamo di essere prima di tutto un’azienda di servizi, non di prodotti. L’unica cosa fondamentale per noi è soddisfare il cliente, anche quando significa creare nuovi prodotti e pensare soluzioni ad hoc. Più che la flessibilità, ci contraddistingue la presenza.
ADVERTORIAL | Flessya
FLESSYA: UN MONDO VIVO
Definire Flessya in una sola parola è un’impresa impossibile: è una realtà ricchissima, in continuo mutamento. Nasce per volontà di artigiani del legno specializzati in porte per interni, che hanno saputo appassionarsi all’innovazione e si riconoscono in una frase: «Un mondo vivo, dove c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire».
IL NOSTRO SEGRETO? CONFRONTO CONTINUO E CURIOSITÀ.
Fare meglio va oltre lo svolgere bene il proprio lavoro: significa pensare al di là del progetto specifico. Ogni nuova idea e richiesta di personalizzazione, anche di piccola entità, è l’occasione per arricchire la nostra offerta. Studiamo la soluzione, cerchiamo di farla completamente nostra e infine la rendiamo riproponibile anche in altri contesti. Per fare questo, il nostro metodo di lavoro si basa sul confronto continuo: quello interno, tra colleghi, ma soprattutto quello con la rete vendita e i clienti. Le esigenze diverse che ci troviamo di fronte ogni giorno ci stimolano ad affrontare situazioni sempre nuove, cui dobbiamo per forza di cose trovare una soluzione efficace. Un vero percorso di crescita, che non conosce sosta e che da sempre ha una natura interdisciplinare. Alla base della nostra attività c’è senza dubbio la falegnameria, cui si affianca la padronanza degli strumenti commerciali, amministrativi e imprenditoriali. Ma la curiosità e la spinta all’innovazione non permettono di accontentarci: per questo entrano in campo anche la grafica, l’ingegneria, la psicologia e molto altro. Per noi la soglia simboleggia un limite imposto dal quieto vivere, dalla posizione in cui si è già, è il confine della zona di comfort. Spingersi oltre, attraversarla vuol dire mettere in gioco lo spirito di iniziativa, l’intraprendenza e la capacità d’adattamento, per aprirsi al nuovo.
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LE PORTE PER GARAGE E LE PORTE D’INGRESSO DI PREGIO UNICHE AL MONDO Silvelox da 60 anni rappresenta l’eccellenza nella realizzazione delle porte per garage, porte d’ingresso blindate, portoni ad ante e sistemi d’architettura per rendere unica la vostra casa.
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