Credo che i collezionisti abbiano dato un enorme contributo non solo al mercato ma agli stessi artisti‌ Queste persone che comprano, che stabiliscono i valori del mercato, fanno venire a tutti gli altri una gran voglia di emularli. Philip Johnson
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TÉCHNE L’ A RA Z Z O
SALVATORE FIUME
L’arazzo nel Novecento di Stefanella Sposito
A
fine Ottocento il profondo rinnovamento che investe
le arti applicate in Gran Bretagna, grazie all’opera di William Morris, ritenuto il padre del disegno industriale, abbraccia anche il settore dell’arazzo. Nelle principali manifatture europee del XIX secolo la produzione era orientata soprattutto verso la copia delle grandi tele a soggetto storico e celebrativo. I tessitori le riproducevano con grande virtuosismo tecnico, usando una grana molto sottile (pari a sedici fili di ordito al centimetro) e una gamma infinita di tinte, disponibili grazie ai coloranti chimici. L’imitazione della pittura privava l’arazziere della propria autonomia espressiva, in nome di una sudditanza assoluta alla fedeltà del modello. La reiterazione dei motivi naturali, l’abuso del chiaroscuro, delle mezze tinte e dei grandi impianti prospettici vengono criticati soprattutto dopo la grande Esposizione Universale di Londra (1851), dove la produzione eclettica vittoriana appare monotona e priva di vitalità. Accogliendo le suggestioni estetiche dell’arte giapponese(1), caratterizzata dal prevalere della linea e da una spiccata bidimensionalità, molti artisti europei tentano di esplorare nuovi territori, iniziando a disegnare motivi decorativi che possano essere usati come modelli, in modo da elevare il valore estetico della produzione industriale. Il movimento delle Arts & Crafts, fondato da Morris con Edward Burne-Jones e Dante Gabriel Rossetti, rivaluta i metodi tradizionali di produzione e l’approccio del “fatto a mano” in contrapposizione all’estetica poco curata dei nuovi oggetti d’uso, fabbricati meccanicamente. Ispirandosi alle botteghe delle corporazioni medioevali, Morris interpreta il lavoro artistico come risultato della fusione tra ideazione intellettuale e opera manuale, affidate a un unico ruolo professionale: il designer. Il suo interesse per le abilità manuali, la ricerca di tecniche e materiali particolari (che sperimenta personalmente nei laboratori attrezzati) si riflette in un’attenzione per il dettaglio e la resa delle superfici, caratteristiche che influenzeranno il mondo della tappezzeria di tutto il XX secolo. Sostituisce i colori chimici all’anilina, dalle gamme troppo accese, con sostanze naturali e procedimenti di tintura usati nei ricettari del XVI secolo. L’arte tessile conosce dunque una vera rinascita. Nel 1861 l’artista fonda la Morris & Co. con Rossetti, Burne-Jones, Ford Madox Brown e Philip Webb. La tessitura degli arazzi, con i tappeti annodati, viene intrapresa nel 1879 nella sua casa ad Hammersmith, poi negli opifici di Merton Abbey nel Surrey. I cartoni sono affidati all’artista William Holman Hunt(2), e nel 1885 si lavora anche con telai ad alto liccio. Per la tintura e la tessitura Morris è supportato da John Henry Dearle. Morris è attratto soprattutto dai lussureggianti esemplari rinascimentali, che rientrano nella tipologia degli arazzi “a verzure”. Ispirandosi direttamente alle piante degli erbari, tipiche delle manifatture di Bruxelles, egli coniuga
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Nella pagina accanto, William Morris, Il picchio, 1885, arazzo in lana e seta, manifattura Morris & Company, Londra, William Morris Gallery
Edward Burne-Jones e William Morris, Pomona, 1884-5, arazzo in lana e seta, manifattura Morris & Company, Manchester University, Whitworth Art Gallery
l’amore per il passato con la natura, in netta contrapposizione all’enfasi meccanicistica della seconda rivoluzione industriale. Amante della letteratura e della poesia, realizza composizioni con soggetti tratti da racconti e leggende, come The Arming and Departure of the Knights of the Round Table on the Quest for the Holy Grail, noto come ciclo del Santo Graal, tessuto nel 1895-6(3). Sempre d’ispirazione letteraria è The Woodpecker (il picchio), arazzo che illustra la storia di Re Picus, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. I manufatti tessili di Morris si riconoscono per gli sfondi vegetali ad andamento dinamico, con intrecci di fogliami variopinti, dai contorni netti che invadono tutta la superficie. Realizzati in collaborazione con Burne-Jones sono i progetti dedicati a due figure femminili mitiche: Flora (1885) ritratta in un letto di fiori come la Madre Terra, con un’iscrizione in caratteri gotici, e Pomona, dea dell’autunno, direttamente ispirata a un suo poema. Tali composizioni rimandano alle raffinate illustrazioni in stile Art Nouveau di Alfons Mucha. Un progetto d’opera collettiva a tre mani (Morris, Burne-Jones e Dearle) è anche The Forest, attualmente conservato al Victoria & Albert Museum di Londra. Alcuni progetti by Morris & Co., divenuti poi arazzi, sono disegni predestinati a tecniche espressive diverse, per esempio per vetrate o sculture in legno. Nel Medioevo infatti il disegnatore di arazzi era un miniaturista avvezzo a illustrare scene ricche di particolari, oppure progettava mosaici e vetri istoriati, le cui tecniche sono spesso associate a quelle dell’arazzo perché procedono per assemblaggio di campiture di colore piatto accostate fra loro. Le linee di contorno, che nel vetro sono affidate alla piombatura, nella tappezzeria sono rappresentate dallo stacco tra un colore e l’altro, che attraverso il moto di “va e vieni” della navetta provoca nella superficie delle fessure di profilo, cucite poi, ad opera compiuta, con un sottile filo di seta. Con l’affermarsi dell’Art Nouveau s’intensifica il dibattito sul valore espressivo della linea e i suoi rapporti con le zone piatte di colore, soprattutto grazie ai contributi di Walter Crane i cui scritti costituiscono ideali premesse per un’evoluzione del disegno in forme sempre più astratte(4). Negli anni 1888-93 egli s’interessa al design e ne studia gli aspetti compositivi e decorativi di superficie, riducendoli a contrapposizioni in bianco e nero e rinunciando così alle ombre. Nel 1893 Gottfried Semper espone le sue teorie sull’ornamento e richiama l’attenzione su due concetti riguardanti l’impianto compositivo dell’arazzo: il rivestimento piano delle superfici, che copre; le fasce che delimitano. Tali eventi spiegano l’attenzione spiccata verso un’arte “minore” da parte di artisti di grosso calibro. Si deve a William George Thomson, autore di un libro sulla storia dell’arazzo, il risveglio di quest’arte in Scozia. Egli coltiva pari interesse per la sperimentazione della tecnica, dirigendo dal 1912 il Dovecot Studios di Edimburgo, attivo ancor oggi nella produzione di arazzi per committenze private e collezioni pubbliche.
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Frida Hansen, Poppy, 1898, arazzo, manifattura norvegese
L’arte popolare in ambito europeo A cavallo tra i due secoli sorgono in tutta Europa scuole d’arti applicate che propongono una stretta collaborazione tra artisti e artigiani. I musei accolgono consistenti nuclei di manufatti e raccolte di oggetti d’artigianato occidentale ed extraeuropeo. Nei paesi scandinavi è vivo l’interesse per l’arte popolare e le tecniche artigianali di tessitura, con forme essenziali e motivi di gusto folklorico. Gerhard Munthe, illustratore di libri norvegese, sviluppa un’arte ispirata alla mitologia norrena, alle ballate e alle saghe medievali, ravvivata da una tavolozza brillante. L’influenza sul gusto dei contemporanei s’esprime attraverso le Fantasie sulla base di fiabe norvegesi, che sua moglie trasforma in arazzi. Frida Hansen, una delle prime artiste norvegesi, folgorata da vecchie tappezzerie occasionalmente giunte nel suo negozio di articoli da ricamo, lavora da autodidatta del telaio. Approda a un linguaggio prossimo all’Art Nouveau con opere come The Milky Way e Poppy (1898). Negli anni successivi brevetterà Transparente, una forma innovativa di tessitura cosiddetta a “ordito aperto” che consente in alcune zone il passaggio della luce, usata negli arazzi per i divisori tra le stanze. Tra i paesi dell’Est europeo ricordiamo una colonia di pittori che opera in stretto rapporto con la manifattura di arazzi a Godollo, vicino a Budapest. Intorno al 1910, per interessamento di Marie Hoppe-Teinitzerová, ˇ ˚ Hradec, in Cecoslovacchia. allieva di Morris, sorge una manifattura a Jindrichuv
La ricerca dell’opera d’arte totale Il movimento della Secessione viennese, a cui aderiscono Gustav Klimt, Egon Schiele, Koloman Moser, Joseph Maria Olbrich e Josef Hoffmann, domina il panorama austriaco. Protagonisti dello Jugendstil, professano l’idea dell’“opera d’arte totale”, estendendo la loro attività all’ambito delle arti applicate, alla moda e al design, con la prospettiva di una fusione completa degli ambiti artistici e progettuali. Fondendo istruzione e lavoro, secondo i principi enunciati nel 1905, Hoffmann si associa con Fritz Wärndorfer e Kolo Moser, creando nel 1903 la Wiener Werkstätte, ditta viennese per la produzione di manufatti artigianali, che collabora con la Kunstgewerbeschule di Vienna che già aveva un settore dedicato al disegno tessile. Di grande impatto visivo sono le vetrate e le tappezzerie di Moser, che progetta superfici composte da pattern, inventando disegni stupefacenti per giungere a composizioni di contrasti e incastri, tendenti all’astrazione. La moderna visione grafica riflette un rigoroso controllo della struttura geometrica, l’influsso giapponese e la psicologia della Gestalt, legata all’ambiguità nella percezione di forme identiche che si definiscono a vicenda, formando un motivo ripetibile all’infinito.
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Kolo (Koloman) Moser, progetto per arazzotappeto, inizio del XX secolo
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Nella pagina accanto, Fortunato Depero, Guerra-festa, 1925, tappezzeria in ritagli di panno di vari colori cuciti su juta, Roma, Galleria nazionale dʼarte moderna; in basso, artigiane al lavoro nel laboratorio degli arazzi della Casa dʼArte di Depero a Rovereto, 1921
Arazzi futuristi: Balla e Depero In Italia s’interessano all’arazzo Giacomo Balla e Fortunato Depero. Nel 1915 firmano il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, in cui si proclama l’intento di ri-costruire l’ambiente circostante, estendendo l’ambito d’interesse dalle arti canoniche alla moda, al cinema, al teatro, all’architettura e alla fotografia. Non esistono più confini nell’uso dei materiali, in una sorta di sperimentazione giocosa ed esuberante. Il folklore russo, i colori caldi e solari dell’isola di Capri, l’esoterismo alimentano la prolifica fantasia di Depero e forniscono spunti per illustrazioni con sagome di fiori e animali, ricavate da carte colorate, ritagliate e incollate, che segnano un ritorno alla figurazione con curiosi e ironici personaggi dai tratti “metafisici”. Egli fonda a Rovereto una Casa d’Arte, attiva fino agli anni Quaranta, ribattezzata da Marinetti la “casa magica di Depero”,
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Giacomo Balla, Lampada futurista, 1916, arazzo, Roma, Fondazione Biagiotti Cigna
dove su suo progetto si eseguono oggetti d’arte applicata tra cui arazzi. Si tratta però di una definizione impropria, perché la tecnica impiegata è quella delle tarsie di stoffa colorata, assemblate con ago e filo, con la collaborazione della moglie e di un gruppo di cucitrici. Di questa nuova attività Depero scrive: «Scopo di questa mia industria d’arte, che si limita per ora alla produzione di arazzi e cuscini, è in primo luogo quello di sostituire con intenzioni ultramoderne ogni tipo di arazzo-gobelin, tappeti persiani, turchi, arabi, indiani, che oggi invadono qualsiasi distinto ambiente; e in secondo luogo, e di conseguenza al primo, è di iniziare una necessaria e urgente creazione di un ambiente interno, sia salotto, sia salone teatrale o d’hotel, sia il palazzo aristocratico, adatto a ricevere tutta l’arte d’avanguardia che oggi è nel suo pieno sviluppo». Egli espone opere di grosso formato e piccoli pannelli a Roma nel 1919, partecipa alla Prima Biennale di Monza nel 1923 e ottiene grande successo a Parigi all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs nel 1925. Giacomo Balla apprezza l’immediatezza delle forme astratte capaci di rendere, attraverso il dinamismo, il fervore e la tensione degli stati d’animo dell’artista. Disegna tappeti, lampade, ceramiche, mobili, tessuti, vestiti, cravatte e scialli. Nei primi anni Venti si dedica a pannelli decorativi assimilabili agli arazzi e dipinge a pennello colorate composizioni futuriste su grosse tele da arazzeria. Anche in questo caso la tecnica d’esecuzione simula il paziente lavoro della spola, sfruttando un supporto di base già armaturato, dove il colore definisce le campiture per sovrapposizione di piani. Nel 1918 Balla progetta un pannello per tappezzeria (arazzo/tappeto) intitolato Fiori+spazio, mentre nel 1920 realizza Specchio d’acqua, in cui riproduce uno studio sulla rifrazione e scomposizione della luce. Si avvale del supporto delle figlie per la tessitura di Lampada futurista (1916), Futurcipressi (1925) e altri modelli da lui disegnati. Successivamente i progetti degli anni Venti dei Futuristi, relegati a latere del dibattito estetico per lungo tempo, diventano oggetto di particolare interesse per la tessitura di arazzi. Nel 1968 il gallerista milanese Elio
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Giacomo Balla, Figura + ambiente, arazzo tessuto negli anni ʻ60 del XX secolo su disegno del maestro, manifattura Arazzeria Pennese, Penne (Pescara), Cooperativa Cogecstre
Palmisano, prendendo spunto dalle inclinazioni tessili di Balla, si prefigge di realizzare arazzi e tappeti in un numero limitato di esemplari, traducendo nel “linguaggio soffice” progetti di artisti e designer di fama internazionale(5). Maturando una vasta esperienza nel campo,
Palmisano
recupera
disegni
preparatori e schizzi, in qualche caso anche i cartoni originali, creando una vasta collezione, tra cui figurano opere di Depero, Gino Severini, Piero Dorazio, Ettore Sottsass, ma anche di Wassilj Kandinskij, Oskar Kokoschka, Kazimir Malević, per citare solo i più noti. Così si esprime a tal proposito il noto critico d’arte Gillo Dorfles: «L’iniziativa di Elio Palmisano di attingere alla grande stagione dell’arte astratta della prima metà del secolo […] mi sembra non solo lodevole, ma significativa d’una precisa situazione in cui si è venuta a trovare la nostra sensibilità estetica, proprio agli albori del terzo millennio. […] Questa serie di tappeti, in definitiva, si aggiunge alla già ricca operazione tessile realizzata da Palmisano a partire dalle avanguardie storiche (cubismo, futurismo) fino alle più recenti invenzioni figurative (Nespolo, Dorazio, Caspani, Sowden, Du Pasquier, Caturegli), e sta a dimostrare come l’artigianato del tappeto, dell’arazzo, possa costituire oggi un ottimo mezzo di divulgazione – e, in un certo senso di rivisitazione – di opere del recente passato e di opere dell’immediato presente; purchè questo artigianato rispetti non solo le caratteristiche cromatiche e disegnative degli originali prodotti dagli artisti, ma altresì quelli che sono i precisi requisiti dell’“oggetto-tappeto”, della sua raffinata tecnica manuale e della sua utilizzabilità ambientale». La cultura del progetto e il design d’interni in Italia Marcello Nizzoli è etichettato come fautore di un design di derivazione artigianale in quanto nel 1914 a Milano si fa notare in una mostra del gruppo “Nuove Tendenze” con una serie di stoffe ricamate, intitolate Note di colore. Questi lavori, gremite aggregazioni astratte in lana e seta, mettono in risalto un forte cromatismo
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materico, evidenziato da linee e forme libere, secondo gli assunti della poetica futurista. Nel 1922 abbraccia le idee innovatrici di Vincenzo Costantini che rifugge dal puro decorativismo dell’oggetto e sostiene un’arte alla portata di tutti, in grado d’esprimere, attraverso le produzioni in serie, i suoi caratteri più democratici: utilità, praticità e modernità. Realizza così una serie di arazzi, esposti alla Galleria Vinciana di Milano, apprezzati dall’industriale Carlo Piatti di Como che lo chiamerà a collaborare nella sua azienda. Le opere sono esposte alla Mostra Internazionale delle Arti Decorative e Industriali Moderne di Monza nel 1923. Tra gli anni Venti e Trenta la cultura del progetto conosce un incremento eccezionale grazie anche a riviste di architettura e arredamento, come “Domus”, fondata da Giò Ponti nel 1928(6). In parallelo si sviluppa l’attività divulgativa della Triennale di Milano, la più importante occasione espositiva di mobili e ambienti, con prototipi di oggetti industriali e artigianali, nata per stimolare l’effettiva domanda del pubblico(7). La V edizione della rassegna mette in rilievo i manufatti della tessitura a mano finlandese che si rifacevano ai motivi geometrici popolari(8). Questo genere di opere viene molto apprezzato sulle riviste italiane, anche grazie all’opera della designer di origine svedese Anna Balsamo Stella e di Giulia Vimercati, moglie di Giò Ponti, che ritiene la superficie irregolare della tessitura fatta a mano particolarmente adatta ai complementi dell’arredo moderno. Gegia Bronzini (Teresa Broggi) è l’artista italiana che negli anni Trenta, accanto alla pittrice veneziana Bice Lazzari, meglio esprime l’impegno nella tessitura artigianale. Esordisce nel 1932 a Marocco di Mestre (Venezia) dove fonda un proprio laboratorio, e nella villa Papadopoli dove tiene corsi su telai manuali rivolti alle donne contadine. S’indirizza al recupero delle attività rurali legate a coltivazione e filatura delle fibre naturali, cotone, lino e seta, ampiamente sperimentate nei propri lavori. L’artista si colloca come figura di spicco alle mostre della Triennale. Realizza arazzi con canapa e ginestra, ortica e mais, fibre che si prestano a ottenere effetti di grana evidente, la cui produzione conosce un rilancio durante l’autarchia. È del 1938 un pannello d’arredo di grande formato intitolato Tessuto 26, realizzato su telaio a due licci con effetti di righe orizzontali(9). Usa le naturali tonalità degli ecru, dei biondi dorati, del nero. Effetti striati ricorrono in alcuni suoi lavori in seta ritorta a mano e cotone makò. In altri progetti l’artista introduce ritagli di cellophan colorati. La Bronzini vanta anche importanti collaborazioni con pittori e architetti: dall’opera realizzata con Giò Ponti ai lavori svolti per il Teatro Verdi a Padova, alle creazioni destinate a prestigiosi ristoranti di New York. Insieme alla figlia Marisa, che pure diverrà un’affermata artista tessile, si dedicheranno per molti anni alla progettazione e commercializzazione di arazzi, rivestimenti e tessuti per arredo, tendaggi e accessori con materiali unici, come il rame, la pelle e la carta.
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Giò Ponti, Cavallini maremmani (part.), 1933, lampasso in tutta seta, manifattura Vittorio Ferrari di Milano, Venezia, Palazzo Mocenigo, Museo del tessuto e del costume
Padroneggiando la tessitura a telaio, anche la pittrice Bice Lazzari si dedica a progetti per arredo d’interni, collaborando con importanti architetti. Si legge in uno scritto autobiografico dell’artista: «Nel 1928 affrontai con maggiore decisione la vita sul piano pratico e, piuttosto che girare con il quadro sotto braccio, presi un telaio e mi misi a fare arte applicata (stoffe, sciarpe, borse, cinture, tappeti annodati a mano, ecc.) per vivere nel clima tanto adorato, cioè la libertà. Conobbi tutte le esperienze artigianali, partecipando alle Triennali di Monza e Milano, vincendo le solite medaglie d’oro sulla carta. Nel 1932 su commissione della Società di Nei Pasinetti feci tutte le stoffe d’arredamento per la casa dei Longo al Lido di Venezia, non essendoci, in quel
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Nella pagina accanto, la stanza del direttore del Bauhaus di Weimar, 1923: i mobili furono progettati da Walter Gropius e i tessuti disegnati e realizzati nei laboratori della scuola
tempo, stoffe moderne sul mercato; più avanti [nel 1935] lo stesso Nei Pasinetti mi propose un lavoro a Roma che accettai con entusiasmo, principalmente per trovare in quella città delle maggiori possibilità e un più ampio spazio»(10). Nell’ambiente romano la Lazzari espone pitture murali e pannelli decorativi in occasione di grandi mostre, collaborando anche con l’architetto Ernesto Lapadula. Negli anni Cinquanta la sperimentazione e l’introduzione di materiali alternativi nell’arredo si incrocerà con il gusto lineare e funzionale del design nordico. L’arazzo nell’esperienza del Bauhaus La Germania risente dell’influenza anglofona di William Morris e della fascinazione per il gusto nipponico. Nel 1896 in un villaggio dello Schleswig si apre una scuola di tessitura che produce arazzi dallo stile sobrio, disegnati da Otto Eckmann, Hans Christiansen, Alfred Mohrbutter, Otto Ubbelohde. Alcuni pezzi provenienti da questa manifattura, attiva fino al 1903, partecipano all’Esposizione di Torino del 1902. Ernest Ludwig Kirchner, esponente del movimento espressionista e appassionato di arte primitiva, scultura africana e polinesiana, produce più di cinquanta disegni per arazzi, tappeti e rivestimenti per mobili, in cui sono riconoscibili i toni cromatici intensi, i tratti spigolosi e le linee spezzate, che ben caratterizzano le sue tele. Egli si limita alla fase progettuale dell’arazzo: le opere vengono realizzate dalla tessitrice Beatrice Guyer, negli anni Venti. La scuola del Bauhaus, che opera dal 1919 al 1933, diretta da Walter Gropius, alimenta in modo proficuo e costruttivo il dibattito del “movimento moderno” sul rapporto tra tecnologia e cultura(11). L’esperienza didattica include un laboratorio-scuola di tessitura, vissuto come una comunità di lavoro, che collabora con quello di falegnameria occupandosi dei rivestimenti del mobile. Con la produzione di tappeti e arazzi il laboratorio partecipa attivamente alla prima esposizione del Bauhaus (1923) con l’allestimento degli arredi della Haus am Horn, la casa-modello progettata dall’architetto Georg Muche. La partecipazione maschile al laboratorio di tessitura è un caso sporadico; in maggioranza vi accedono donne. L’insegnamento pratico, affidato inizialmente alla maestra artigiana Helene Börner, prevede l’apprendimento di intreccio, tessitura, ricamo a mano e a macchina, uncinetto e macramè. La produzione è di notevole qualità, caratterizzata da una tecnica esecutiva quasi arcaica, mentre la ricerca formale riflette un’attenzione ai motivi del folklore popolare. Con il tempo si afferma lo stile astratto, tornato in auge con la diffusione dello Jugendstil. La formazione teorica ha lo scopo di liberare tutte le potenzialità ideative individuali ed è affidata ai “maestri di forma”, Johannes Itten, Paul Klee, Kandinskij e László Moholy-Nagy.
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Gunta Stölzl, arazzo a motivi geometrici con ordito di lino e trama di cotone, 1927-28, manifattura Bauhaus di Weimar; nella pagina accanto, Anni Albers, bozzetto per arazzo, 1926, acquerello e matita su carta, New York, Museum of Modern Art
Tra i docenti si distingue Gunta Stölzl, insegnante tecnica di tessitura dal 1925 al 1931, che si avvale del tessitore Kurt Wanke(12). Ella crede fermamente nelle infinite possibilità creative del telaio manuale, sebbene la sperimentazione sia condotta con estrema povertà di mezzi, perché le costanti difficoltà finanziarie e politiche della scuola limitano notevolmente l’acquisto dei materiali. La ricerca mette in campo abilità specifiche nella tessitura, attraverso particolari effetti di trama e d’ordito, che si equivalgono nel determinare strutture rigorose, composizioni a fasce o motivi geometrici. È applicata a creazioni individuali e uniche, simili a grandi tappeti da parete. Il lavoro svolto dalla Stölzl l’ha resa consapevole dell’importanza della costruzione tattile del tessuto e delle relazioni forma-colore-materiale-funzione e ha favorito il passaggio dalla manifattura di pezzi unici alla produzione su scala industriale. Uno degli esempi più significativi di questa strategia, che apporta importanti innovazioni tecniche alla produzione degli arazzi, è rappresentato da 5 Chore, un raffinato pannello murale in seta, cotone e lana, dalle tinte accese e dagli accostamenti cromatici solari. È realizzato nel 1928 su telaio Jacquard con forme astratte particolarmente elaborate, che traducono in maniera assai efficace lo stile essenzialmente razionalista. Nel 1931 la Stölzl apre a Zurigo con alcuni colleghi la tessitura a mano S-P-H-Stoffe e collabora con studi di architettura per confezionare tappeti, arazzi e rivestimenti. Dal 1967 lascia la tessitura per dedicarsi liberamente alla creazione di arazzi sperimentali, ispirata dal policromismo di Itten e Klee. L’universo tessile ha suscitato grande interesse in Anni e Josef Albers, attivi al Bauhaus, che si trasferiscono in North Carolina nel 1933. Fino al 1949 entrambi sono docenti al Black Mountain College, crocevia delle avanguardie europee e americane(13). Negli anni Trenta approfondiscono la tessitura come pratica primaria, sintesi di un’attenta ricerca sulla complessità costruttiva e sul disegno dell’intreccio. Anni realizza progetti di teli da parete e arazzi, crea piani flessibili a trama grossa, con filati irregolari di differenti spessori impreziositi da sinuose broccature. Tra i suoi interessi ritroviamo il lavoro sul concetto dell’errore “controllato” e il rapporto dell’arazzo con l’architettura. Si dedica alla stesura di articoli e libri sul design tessile, mentre il marito tiene seminari e conferenze. Nel 1949 viene inaugurata la prima personale di Anni Albers al Museum of Modern Art di New York.
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Raoul Dufy, La Torre Eiffel, 1929-30, gouache su carta, progetto di tappezzeria per la manifattura di Beauvais, Londra, collezione privata
Jean Lurçat e la nascita della Fiber art Una personalità di spicco nel campo dell’arazzo del Novecento, che aprirà la strada allo sviluppo della cosiddetta Fiber art (letteralmente “arte delle fibre”), è Jean Lurçat, produttore di cartoni d’arazzo noto per essere il rinnovatore dell’arazzeria moderna. In Francia la produzione di arazzi godeva di una consolidata tradizione che le affermate Manifatture dei Gobelins, di Beauvais e di Aubusson(14) avevano saputo conservare. L’arte arazziera ha saputo rigenerarsi anche attraverso un’intensa e proficua attività didattica, che tramandando i segreti delle antiche metodologie d’alto e basso liccio, ha creato un solido supporto per i linguaggi figurativi di esponenti di spicco delle avanguardie. Paul Cézanne, pur non avendo nozioni tessili, realizza i cartoni di piccoli pannelli a soggetto floreale per i Gobelins; Aristide Maillol e Pierre Bonnard progettano cartoni per paraventi. Negli anni Venti Charles Dufresne progetta composizioni dai raffinati toni pastello per le manifatture di Beauvais, con cui collabora anche Raoul Dufy, il creatore della rosa cubista. Nelle manifatture di Aubusson, per iniziativa della collezionista madame Paul Cuttoli, dal 1933 vengono prodotti ed esposti, a Parigi e Londra, arazzi in seta e lana, su disegno di affermati artisti contemporanei, quali Georges Braque, Dufy, Fernand Léger, Henri Matisse, Picasso, Georges Rouault, André Derain, Joan Miró, Maurice Utrillo. Scrive Édouard Herriot sul catalogo dell’esposizione delle tappezzerie che nel 1936 Madame Cuttoli desiderava presentare negli Stati Uniti: «Lurçat è l’iniziatore di una serie di esperimenti che si rivelano in questa esposizione; di giorno in giorno la sua marcata individualità diviene sempre più manifesta. Questi cartoni sono stati eseguiti in basso-liccio in point de Beauvais. Potrà sembrare erroneo che un “vecchio classico” come chi traccia queste righe e che fu molte volte responsabile per la salvaguardia della collezione della Repubblica Francese sostenga con il suo nome questi audaci esperimenti. Ma è bene che, di tanto in tanto, la tradizione riceva un buon colpo e, in questa direzione, il suo spirito possa essere ringiovanito e rinnovato. Anche in arte, sono i rivoluzionari di ieri che diverranno i “classici” di domani». Il rinnovamento, ormai indispensabile per incrociare criteri estetici nuovi, riscuote forti consensi di pubblico e permette di raccogliere molte ordinazioni di arazzi. Questo evento rimane però un “mutamento di superficie” dei modelli, in quanto la traduzione tessile dei disegni rimarrà nell’ambito di una «pedantesca copia della tavolozza»(15). I ruoli dell’arazziere e dell’artista, pur concorrendo alla stessa opera, rimangono scissi. Lurçat, unico tra gli artisti insieme a Miró ad aver fornito cartoni veri e propri, partecipa all’esposizione con L’orage (1931, tessuto nel 1935 nella manifattura di Aubusson). L’artista si interessa agli arazzi fin dal 1915 e
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Jean Lurçat, Apocalisse, 1947-48, arazzo, manifattura Tabard di Aubusson, Plateau dʼAssy, chiesa di Nostra Signora delle Grazie; in basso, Jean Lurçat, La grande Menace, 1957, arazzo monumentale dal ciclo Le Chant du Monde, Angers, Musée Jean Lurçat
comprende da subito che la tessitura deve essere eseguita in tempi più rapidi e con mezzi meno costosi. I suoi primi cartoni, Filles vertes e Soirées dans Grenade, sono eseguiti a ricamo, nel 1917, da sua madre. Nel 1936 crea Les illusions d’Icare, prima tappezzeria eseguita alle Manifatture Gobelins di Parigi. Nel 1937, studiando l’Apocalisse di Angers (XIV secolo), ritenuto il massimo esemplare dell’arazzeria nazionale, Lurçat elabora nuove regole. Sotto il profilo tecnico ritorna a una tessitura robusta, al punto grosso e alla grana visibile, all’uso degli stacchi, a una palette limitata e alle tinture naturali. Sotto il profilo artistico sceglie un tipo d’impianto ancora narrativo. Nei bozzetti abbandona il lavoro a olio in favore della gouache. Dal 1939 sostiene il rilancio degli ateliers di Aubusson con la tessitura di una ventina di opere, cui collaborano il tessitore François Tabard e i pittori Derain e Dufy. Innova totalmente il linguaggio, predisponendo in modo puntuale i colori attraverso un sistema cifrato, disegnato in bianco e nero, riportante numeri corrispondenti alle tinte dell’arazzo. Un progetto di questo tipo elimina la facoltà interpretativa dell’arazziere. Nel 1942 ad Aubusson sono tessute
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Nella pagina accanto, Sheila Hicks, La sposa preferita occupa le sue notti, 1972, manufatto in nylon, seta, oro e lino, collezione dellʼartista
le tappezzerie Liberté dal poema di Paul Eluard e Es La Verdad da quello di Guillaume Apollinaire, riprendendo la consuetudine medievale delle fonti letterarie. Nel 1945 Lurçat acquista il castello di Tours de Saint-Laurent, che oggi ospita un museo, e v’installa il suo atelier. Iniziano così le composizioni di dimensioni monumentali e l’istituzione di una Fondazione dell’Associazione di pittori-cartonisti. Nel 1947 compone l’arazzo L’Apocalypse per la chiesa di Assy e pubblica tre opere sulla tappezzeria. Nel 1954 compone Hommage aux Morts de la Résistance et de la Déportation per il Musée National d’Art Moderne de Paris e Le Chant général su un poema di Neruda. Il ciclo Le Chant du Monde, intrapreso negli anni 1956-57, che offre un eco contemporaneo all’Apocalisse di Angers e si compone di dieci arazzi, è la più grande opera di arazzeria contemporanea, la cui lavorazione è interrotta, nel 1966, dalla morte dell’artista. Si tratta di una serie di tappezzerie, tessute ad Aubusson, che misurano complessivamente 500 metri quadrati di superficie, 79 metri di lunghezza per 4,4 di altezza. Lurçat, infine, fonderà a Losanna il Centro internazionale della tappezzeria antica e moderna e promuoverà nel 1962 una Biennale dedicata all’arazzo. Attraverso una continua sperimentazione del medium tessile l’arazzo negli anni abbandona il piano bidimensionale e, in simbiosi con la scultura, acquista una forma plastica. Rompendo con la tradizione, dal supporto murario tende a dilatarsi nello spazio, fino a creare vere e proprie installazioni, all’interno delle quali il fruitore dell’opera si può muovere e interagire. L’opera, come parte integrante dell’universo circostante, si definisce attraverso un continuo dialogo con la materia, che diviene sempre più ruvida e abbraccia sisal, cocco, intricati nodi e corde. L’ideatore di questi strepitosi manufatti, spesso monocromi e di grandi dimensioni, esegue da solo la sua opera a telaio, quando non ricorre a tecniche alternative di intrecci off loom. Molti artisti contemporanei, unificando finalmente il momento ideativo e creativo, abbracceranno la Fiber art come loro unico strumento espressivo. L’Arazzeria Pennese la Manifattura degli Eroli Parallelamente alle evoluzioni della Fiber art, che prenderà una sua strada autonoma, la straordinaria esperienza dell’Arazzeria Pennese, sorta nel 1964 per iniziativa di Fernando Di Nicola e Nicola Tonelli, professori dell’Istituto d’arte Mario dei Fiori di Penne (Pescara), testimonia il perdurare degli stretti legami tra il medium tessile e la pittura contemporanea. Nei frenetici anni della rivoluzione culturale, l’anelito delle giovani generazioni verso gli ideali utopici di una controcultura alternativa portano in primo piano l’elemento della fantasia,
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Operai dellʼArazzeria Pennese al lavoro sulla Grande spirale di Enrico Accatino; nella pagina accanto, allestimento di alcune opere di Accatino per la mostra “Arazzi sulla Passione”, 1970, complesso del Santuario della Scala Santa, Roma
assunta come “motore essenziale di tutte le cose”. Il diffondersi di queste idee consente un ripensamento globale di tutte le attività manuali e artigianali, nonché il definitivo affermarsi dell’arte astratta. Recuperando l’esperienza e il patrimonio consolidato di conoscenze tecniche, maturate nella sezione di tessitura dell’Istituto, l’Arazzeria Pennese diventa un laboratorio di eccellenza, dove operavano stabilmente cinque tessitrici su telai a basso liccio. Il momento di massima espansione dell’attività, che si protrarrà fino al 1998, coincide con gli anni Settanta, nel corso dei quali furono prodotte opere di raffinata qualità progettate da personalità di grande
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talento. Tra gli arazzi più apprezzati i prestigiosi esemplari monumentali, due di Afro e uno di Capogrossi, destinati alla Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma, e i capolavori tessuti su modelli di Balla, Enrico Accatino, Afro, Marcello Avenali, Diana Baylon, Remo Brindisi, Michelangelo Conte, Antonio Paradiso e altri protagonisti del secolo XX, esposti in numerose mostre nazionali e internazionali. Tra gli opifici tessili specializzati nell’arazzo, operanti in Italia in questi anni, spicca per ineccepibile competenza anche la storica Manifattura degli Eroli a Roma. Di origine antica, viene fondata nel 1880 da Erulo
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Esposizione dellʼarazzo Senza titolo di Afro, destinato alla Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma, presso la manifattura dellʼArazzeria Pennese, Penne (Pescara), 1972
Afro, Senza titolo, 1970, arazzo, manifattura Arazzeria Pennese, Penne (Pescara), Cooperativa Cogecstre
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Giuseppe Capogrossi nella manifattura dellʼArazzeria Pennese durante la lavorazione dellʼarazzo Senza titolo, 1972, destinato alla Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma
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Arazzo allegorico della serie dei Trionfi di Roma, 1902-26, Manifattura Eroli, esposto in Campidoglio durante un discorso di Benito Mussolini
Nella pagina accanto, a sinistra, il salone di prima classe della turbonave “Leonardo da Vinci”, con gli arazzi di Cagli e di Capogrossi; a destra, Corrado Cagli, Chimera, 1959, arazzo ad alto liccio in lana, manifattura Arazzeria Scassa, Berlino, Consolato generale dʼItalia; sotto, Giuseppe Capogrossi, Astratto 59, 1959, arazzo ad alto liccio in lana, manifattura Italia disegno, Roma, Galleria nazionale dʼarte moderna
Eroli(16), capostipite di una famiglia di pittori e arazzieri che si specializza nelle produzioni di tipo tradizionale, eseguite da manodopera femminile, su cartoni d’arazzo funzionali, riproducenti temi storico-militari e religiosi. Nel 1887 Eroli riceve una medaglia d’argento, conferita dal Museo Artistico Industriale di Roma, per esemplari che impiegavano tinte ottenute dalla bollitura di vegetali (succhi d’erba, da cui la parola “sughi” usata per denominare i suoi arazzi). Tra le opere più importanti si ricordano i venticinque arazzi allegorici dei Trionfi di Roma classica, rinascimentale e barocca, delle armi con le aquile romane, delle arti, delle lettere, delle scienze e degli stemmi dei Rioni, conservati al Museo di Palazzo Braschi, commissionati dal Comune di Roma per le feste solenni nella piazza del Campidoglio e realizzati tra il 1902 e il 1926. Dopo la sua morte l’attività della manifattura fu ereditata dai figli Pio e Silvio, cui si devono gli arazzi delle Corporazioni con cartoni di Ferruccio Ferrazzi. Nel 1940 gli Eroli partecipano alla Triennale con Le portatrici di doni, un arazzo su cartone di Giulio Rosso, di cui però realizzano solo un dettaglio ingrandito.
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L’Arazzeria Scassa e le grandi turbonavi degli anni Sessanta L’Arazzeria Scassa nasce per iniziativa di Ugo Scassa nel 1957, come laboratorio per la produzione di tappeti annodati a mano. Dal 1960 si dedica alla tessitura di arazzi con telai ad alto liccio, nell’intento di armonizzare la passione per l’arte figurativa moderna con la sopravvivenza di una pratica tessile secolare, gelosamente custodita(17). Il lavoro si svolge nel monastero della Certosa di Valmanera (Asti), dove sorge anche un laboratorio di restauro di arazzi antichi e un museo. La fortuna dell’azienda è legata agli allestimenti degli interni delle grandi turbonavi che la Società di Navigazione Italia stava lanciando sul mercato, avvalendosi del design di affermati architetti. La progettazione dei saloni della nave Leonardo Da Vinci, condotta sotto la supervisione del critico d’arte Giulio Carlo Argan(18), diventa l’occasione propizia per una sensibilizzazione del gusto verso l’astrattismo, che faticava ad affermarsi presso il vasto pubblico d’estrazione borghese ben rappresentato dai passeggeri delle navi. Oltre alle opere di Lele Luzzati e Lojze Spacal, nel Salone delle Feste di prima classe,
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Il Salone di prima classe della turbonave “Michelangelo” con lʼarazzo di Capogrossi, fotografie di David Lees per la rivista “Life international”, maggio 1965; in basso, Giuseppe Capogrossi, Astratto,1964, arazzo, manifattura Arazzeria Scassa, oggi conservato a Roma, Galleria nazionale di arte moderna
ideato dagli architetti Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, viene inserito il progetto di sedici arazzi evocanti il tema del viaggio e dell’avventura per mare, tessuti secondo i bozzetti di pittori contemporanei appartenenti alla corrente dell’arte informale. La stampa dell’epoca riserva particolare rilievo a questo evento(19). L’esecuzione è affidata al laboratorio di Ugo Scassa, che intraprende così una proficua collaborazione con artisti provenienti da differenti ambiti culturali. «Mi è sempre stata lasciata da tutti gli artisti con cui ho collaborato la massima libertà interpretativa», afferma Scassa. «Il cartone viene normalmente scelto di comune accordo tra l’autore e me, cercando di conciliare le scelte stilistiche del pittore con le esigenze tecniche della tessitura. Scelta l’opera, che mi viene affida per tutta la durata della tessitura e che io utilizzo direttamente come “gran patron”, senza il passaggio intermedio dell’ingrandimento del bozzetto nelle misure dell’arazzo, si provvede inizialmente alla tintura delle lane che viene effettuata, di volta in volta per ogni arazzo, secondo la gamma cromatica suggerita dal cartone. Nel mio laboratorio, infatti, non esiste alcun campionario di lane colorate. […] Sulle catene d’ordito, tese verticalmente tra i due rulli del telaio, si provvede a tracciare con inchiostro indelebile i contorni del disegno riportato direttamente sull’ordito, mediante l’impiego di un proiettore. Quest’altra innovazione mi ha consentito di evitare l’ingrandimento in grandezza naturale del bozzetto nel cartone, permettendomi così di raggiungere una maggiore fedeltà grafica nella trasposizione del disegno direttamente dal bozzetto all’arazzo».
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Il Salone della turbonave “Raffaello”; sotto, Carla Accardi, Astratto, 1964, e Bice Lazzari, Astratto, 1964, arazzi ad alto liccio in lana tessuti dallʼArazzeria Scassa, oggi conservati a Roma, Galleria nazionale dʼarte moderna
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Scassa realizza a telaio sei opere di Cagli, riferibili ancora a essenziali tratti figurativi: Figure, Chimera, Vele, Viaggi, Donna dei Pescatori, Pescatori(20); e un grande arazzo di Capogrossi, di oltre 6 metri di lunghezza, riconoscibile dal tipico modulo che si replica sull’intera superficie, intitolato Astratto 59. Si tessono inoltre esemplari tratti da una serie di tre composizioni astratte di Antonio Corpora, due opere di Giulio Turcato e tre progetti di Giuseppe Santomaso, aderenti al Gruppo degli Otto. L’idea d’includere gli arazzi tra gli allestimenti d’interni di alta gamma delle navi viene estesa ad altri due transatlantici che dal 1965 percorrono la rotta Genova-New York: le turbonavi gemelle Raffaello e Michelangelo, vere città galleggianti(21). I dodici arazzi della Michelangelo, tessuti tra il 1964 e il 1965, comprendevano Astratto, opera come tutte le altre in lana, su cartone di Capogrossi, collocata nel salone di soggiorno di prima classe; cinque grandi opere di 7 metri di lunghezza, tra cui Verdure 1965, su cartoni dello Studio Zoncada; sei lavori tra cui Composizione 1964, su cartoni di Roberto Aloi. Per la Raffaello vengono realizzati ben ventiquattro arazzi, affidati ai maggiori rappresentanti dell’astrattismo italiano. Si tratta per la maggior parte di pannelli verticali di formato rettangolare, alti oltre due metri, collocati nella grande sala bar “Atlantico”, opera di Achille Perilli, Carla Accardi, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato aderenti al gruppo di Forma 1, ma anche di Antonio Scordia, Antonino Virduzzo, Luigi Montanarini, Michelangelo Conte, Antonio Paradiso, Federico Spoltore, Giuseppe Picone, Roberto Ercolini, Achille Pace, Luigi Piciotti, Edoardo Giordano, Giuseppe Vittorio Parisi, Costantino Guenzi, Gastone Novelli, Bice Lazzari, Mimmo Rotella, Piero Sadun e Sandro Trotti. Due grandi opere orizzontali, dove predominano toni contrastanti in bianco e nero, appartenenti a Emilio Vedova, esponente dell’espressionismo astratto, sono dislocate nella veranda-bar “Bermuda”. Oggi molti di questi arazzi appartengono alla prestigiosa collezione della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. La manifattura Scassa produrrà dalla sua nascita più di 220 cartoni diversi per arazzi, tessendo le lodi e i meriti artistici di gran parte dell’arte contemporanea italiana. Così tra la fine degli anni Cinquanta e i successivi anni Sessanta e Settanta(22), una molteplicità di esperienze estetiche, culturali e ideologiche s’intrecciano tra loro e confluiscono nell’interpretazione pittorica e coloristica della tecnica arazziera, rimasta viva e pulsante grazie a fresche pennellate di fantastica genialità creativa e alle sapienti e amorevoli dita che si muovono sicure e si tingono di passione, nel dare corpo e forma alla tensione astratta della mente.
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NOTE 1) La fascinazione per l’essenzialità dell’arte giapponese, iniziata verso la metà dell’Ottocento, si diffonde in tutta Europa anche grazie al contributo di Chistopher Dresser, designer inglese che teorizza l’ornamentazione come una forma “d’immaginazione simbolizzata”.
posizione, a quello che fino ad ora era l’artigianato», scrive Gillo Dorfles nel saggio Il disegno industriale e la sua estetica (1963). 8) Fanelli 1986b, p. 238. 9) Davanzo Poli 2007, p. 226.
2) «Non più arazzi eseguiti su cartoni, elementi decorativi a sé stanti, per lo più riferiti ai capolavori del passato o loro pedissequi rifacimenti, bensì manufatti nuovi riferiti al gusto e allo stile contemporaneo, inseriti in ambienti dello stesso tipo, in uno spirito che rispecchiasse la realtà del momento storico vissuto e le sue necessità pratiche» (Giordano 2012, p. 28). 3) Gli originali si trovano conservati nel Museo di Birmingham. 4) The bases of design, London 1898; Line and form, London 1900. 5) Palmisano 2006. Il catalogo, in due volumi, riproduce fedelmente una parte dei 320 arazzi e tappeti d’autore realizzati da Palmisano dal 1968 al 2005 su telai manuali con multiformi e antichi metodi di lavorazione artigianale. 6) «Perché dovremmo adattarci a una casa generica? È la casa che deve seguire la nostra espressione individuale di vita e di cultura negli interni della sua moderna architettura. Questo non vuol dire che si debba rinunciare alle risorse dell’industria e della produzione di serie, ma con una tecnica più umana che permetta al nostro designer di ispirarsi ai valori dell’esistenza quotidiana», afferma Ponti in un’intervista. 7) «Con l’avvento del vero e proprio design abbiamo l’iterazione assoluta dell’esemplare, del prototipo, che crea una serie di oggetti tutti uguali tra di loro […] sempre di più il problema dell’artigianato venne sostituito da quello del disegno industriale. Per cui si ebbero, già nelle prime edizioni della grande rassegna, degli importanti episodi, come il convegno sul disegno industriale, appunto, il convegno sul numero d’oro, che in un certo senso sancirono la nascita ufficiale del design, messo a confronto, in un certo senso in op-
10) Dattiloscritto dall’Archivio Bice Lazzari, Roma. Di notevole interesse storico, quest’archivio, in cui sono conservati una parte importante delle opere, gli scritti, le poesie e il catalogo di tutta la sua attività, è stato sottoposto a vincolo di tutela da parte della Soprintendenza Archivistica per il Lazio nel 1999. 11) Nel manifesto del Bauhaus del 1919 Gropius afferma: «Non v’è alcuna differenza qualitativa tra artista e artigiano […]. L’artista è solo un artigiano potenziato. […] Sono solo rari istanti di illuminazione, o per volontà o per grazia del cielo, in cui l’opera delle sue mani diviene arte [...]. Ma la piena padronanza di un mestiere è indispensabile a un vero artista […]. È questa la vera fonte dell’immaginazione creatrice […]. Formiamo una nuova corporazione di artefici senza la distinzione di classe che alza un’arrogante barriera tra artigiano e artista».
15) Gatti Gazzini 1968, p. 164. 16) Ibidem, p. 175. Erulo Eroli è un valente acquerellista che raccoglie l’eredità della manifattura arazziera statale pontificia di San Michele a Ripa, sorta nel 1710, dove lui stesso si era formato. Qui si riproducevano fedelmente, contrassegnati con la marca di un arcangelo, pezzi di grande virtuosismo, tratti da famosi dipinti. Si trattava di opere tessili commissionate dai pontefici per abbellire le sale del Vaticano o le numerose chiese di Roma. 17) Nonsenzo 2010. 18) Argan 1958. 19) A. Dragone, Artisti al lavoro per la “Leonardo da Vinci”, in “La Stampa Sera”, 16 febbraio 1958 e G. Ballo, La “Leonardo da Vinci” porta sul mare la fantasia italiana, in “Le Ore”, 17 maggio 1960. 20) Giacomazzi 1965. 21) Queste navi disponevano di 732 cabine e 26 appartamenti dotati di ogni confort e potevano ospitare fino a 1775 passeggeri. Per approfondimenti si veda Bet-Bonfiglioli-Roncagliolo 1969. 22) Gicobone-Giani 1970.
12) Wortmann-Weltge 1993, pp. 46-49. 13) Ibidem, p. 104. 14) La Manifattura dei Gobelins di Parigi viene creata nel 1601 per volontà di Enrico IV. Nel 1667 con la direzione del pittore Charles Le Brun e la supervisione di Jean-Baptiste Colbert diventa la sede della Manifacture Royale des Meubles de la Couronne che produce oggetti e arredi di lusso per la nobiltà. La Manifattura della città di Beauvais, nata nel 1664, un’impresa privata anche se posta sotto la protezione reale (sempre con la direzione di Colbert), si specializza nella tessitura di arazzi con telai a basso liccio. La Manifattura di Aubusson è celebre per la decorazione di mobili e seggiole, e per la fabbricazione di arazzi murali con scene di caccia. La tecnica di Aubusson è più grossolana rispetto a quella dei Gobelins, a punti meno fini e con molti più nodi sul rovescio.
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L’Arte incontra l’Arte di Stefanella Sposito
Il microarazzo Le tre Grazie firmato da Salvatore Fiume è un’opera tessile di squisita fattura, realizzata interamente in seta nella Seteria Bianchi, una fra le più antiche aziende comasche, specializzata nella fabbricazione di sete tinte in filo e operate, settore che costituisce uno dei fiori all’occhiello del made in Italy in tutto il mondo. L’opera è realizzata su macchina Jacquard(1), un tipo particolare di telaio che consente il comando indipendente di ogni singolo filo per l’esecuzione dei più disparati intrecci, oggi completamente automatizzato grazie al sussidio di sofisticati congegni elettronici collegati ai computer. Il grande successo della produzione industriale dei tessuti italiani si fonda sul sodalizio tra tecnica e arte, sulla costante collaborazione tra specialisti della tessitura e artisti, architetti d’interni e stilisti di moda, capaci di coniugare alla perfezione gli impulsi del genio creativo con gli stili di vita contemporanei e il progresso scientifico e tecnologico in continuo divenire. Il progetto della produzione dei microarazzi della Seteria Bianchi s’inserisce in un contesto di lunga tradizione artigianale del territorio lariano, che ha coltivato nel tempo una spiccata sensibilità per l’armonia, per il gusto delle cose belle e ben fatte. Il piacere tattile di accarezzare una materia nobile, liscia e lucente, o quello di appagare l’occhio attraverso la visione energetica del colore e il ritmo delle forme che si susseguono, si trasformano in uno “speciale nutrimento dell’anima” che concorre, in tutti noi, a creare una sensazione di benessere diffuso. La preziosità di queste opere deriva senz’altro dalla natura pregiata del filo, ma anche dalla scelta dei soggetti rappresentati, dalla possanza per così dire “mediatica” delle immagini e dal ventaglio di sensazioni che riescono a evocare con la loro presenza. L’intervento dell’artista è di fondamentale importanza. Attraverso l’arazzo egli compone il suo racconto, affidando ai guizzanti fili di seta e ai loro percorsi sinuosi il compito di comunicarci una personale idea del mondo, una visione delle cose, elaborata e a lungo meditata. L’opera tessile, con il suo linguaggio soffice, caldo, accogliente, si trasforma in un messaggio silenzioso ma indelebile, ricco di saggezza, di perizia e di pazienza, che si distingue anche proprio nel suo approccio verso di noi, in un tempo così rumoroso e caotico come quello contemporaneo, sempre troppo freddo, troppo distante, frettoloso, radente. Osservare un microarazzo, appeso lungo la parete in un museo, una galleria d’arte o nel comfort del proprio appartamento, è un po’ come catturare per brevi istanti (o per un tempo più lungo) piccole perle di sapere, che solo l’allure magica dell’arte riesce a infondere e diffondere. L’artista fornisce un bozzetto cartaceo a grandezza naturale, ne studia dettagli e particolari, ne definisce con matita e pennello misure e proporzioni, ne calibra l’impatto visivo, scenico, cerebrale ed emozionale, affidando alla tessitura armaturata del pannello la trasposizione materica, tattile e tangibile d’idee e sentimenti
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Nella pagina dʼapertura, uno dei moderni telai elettronici della Seteria Bianchi, Como; in basso, alcuni dei 16 colori selezionati per la trasposizione serica del dipinto Le tre Grazie di Salvatore Fiume
particolari e peculiari, che divengono in tal modo condivisibili e universali. «La sua presenza è una fonte inesauribile di stimoli, di input che infondono la giusta carica emotiva, che sospingono alla continua ricerca di soluzioni tecniche e formali, traducendosi in preziosa linfa creativa per il nostro lavoro» racconta in una breve intervista Anna Bianchi(2), titolare insieme al fratello Giuseppe della storica manifattura tessile. Il passaggio dalla carta alla stoffa è un processo laborioso che richiede massima attenzione nel coordinamento delle fasi di lavoro e una competenza più che consolidata nel trattamento dei materiali, sensibili al variare delle temperature e dell’umidità prima di essere stabilizzati con un trattamento di vaporissaggio a lavoro ultimato. Talvolta la trasposizione tessile avviene partendo direttamente dall’opera originale, analizzata, “ricostruita” nelle sue componenti grafiche essenziali, e re-interpretata, per potersi adeguare al linguaggio espressivo della tessitura. Il passaggio successivo è la realizzazione della “messincarta”, uno schema tecnico dettagliatissimo che ri-
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Disposizione sul telaio dei fili bianchi di ordito. Per il microarazzo Le tre Grazie ne occorrono circa 11.520
produce per intero su carta quadrettata il disegno dell’opera, nei colori e negli intrecci che il telaio dovrà poi eseguire. «Tutti i nostri sforzi sono tesi allo studio accurato delle textures che comporranno il progetto, perché la struttura dei moderni telai ci permette un’infinita gamma di variabili che devono però essere vagliate da un occhio esperto e adeguate all’effetto finale desiderato». Gli incroci dei fili consentono di alternare zone lucide o opache, che rifrangono in modo differente la luce, conferendo alle singole cromie ulteriori viraggi di tono, che vanno a potenziare la brillantezza naturale della seta. Anche le dimensioni del microarazzo sono valutate attentamente fin dall’inizio, attraverso uno studio calibrato delle proporzioni degli elementi pensati dall’artista e adeguate alla portata del telaio che ha misure specifiche dalle quali l’esecuzione non può prescindere. Il maestro vi appone infine la sua firma, intessuta anch’essa nei fili, come sigillo di un patto d’amore che lega ogni esemplare, realizzato in tiratura limitata, al destinatario del messaggio.
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Salvatore Fiume, Le tre Grazie, 1984, olio su masonite, cm 170x230, Milano, Regione Lombardia; in basso, arazzo da Salvatore Fiume, Le tre Grazie, 2013, realizzato dalla Seteria Bianchi per Editalia in collaborazione con la Fondazione Fiume, cm 114x140
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Qui e nella pagina accanto, sistemazione preliminare di alcuni dei rocchetti di seta sul telaio per la lavorazione dellʼarazzo
Arte e tecnica, un connubio che s’intreccia con la natura della fibra e la cultura del lavoro, appartiene al dna della Seteria Bianchi fin dagli anni Trenta del Novecento, quando l’azienda produce per l’architetto Giò Ponti, nell’ambito del progetto di ricostruzione della nuova Stazione Centrale di Milano, ultimata nel 1931, un tessuto d’arredo di gusto modernista destinato ai rivestimenti di un salottino da bridge di sosta per i viaggiatori dell’Orient Express, ubicato all’interno della poderosa costruzione. Si tratta di un pesante raso di seta multicolore, con motivo a scacchi “arlecchino” dai toni molto accesi, in cui compaiono fili di 64 tinte diverse. «Ho ereditato questo imprinting dal continuo confronto con mio padre, Ettore Bianchi(3), un ingegnere meccanico molto attento alle innovazioni tecniche della tessitura, ma allo stesso tempo appassionato per la ricerca e la documentazione delle fonti storiche, caratteristiche che, insieme all’amore per l’arte, divennero patrimonio comune nella nostra azienda – specifica ancora Anna Bianchi. Questa impostazione ha favorito la conservazione dello spirito artigianale originario, consentendoci di mantenere alti gli standard qualitativi. Per il nostro impegno siamo stati privilegiati nell’interloquire con clienti prestigiosi come lo Stato vaticano, la Repubblica italiana e la Casa Bianca di Washington». La sperimentazione sui microarazzi in seta, multipli d’autore numerati e muniti di proprio certificato di autenticità, prende avvio negli anni ’80 del Novecento. La tecnica si ricollega a un’antica tradizione peculiare del territorio del lago di Como, quella delle riproduzioni seriche, realizzate in bianco e nero, su telai a mano o
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Qui e nella pagina accanto, alcuni momenti della lavorazione del microarazzo presso la Seteria Bianchi
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meccanici, fin dal 1899(4). I primi microarazzi prodotti dalla Seteria Bianchi in collaborazione diretta con gli artisti risalgono al 1992, con il contributo di Luigi Veronesi, strenuo sostenitore dell’astrattismo geometrico. Sono esemplari di piccolo formato (mm 285x203), interpretazioni in tessuto delle opere La strada (1932), Costruzione (1976), Costruzione (1981) e Composizione (1984), effettuando diverse prove di composizione cromatica, in modo da poter presentare ciascuna opera in più varianti di colore, proprio come avviene nelle prove d’artista delle acqueforti e delle serigrafie, ma anche nella consuetudine dell’universo della moda, con la presentazione sul mercato delle collezioni stagionali di tessuti per arredo, abbigliamento e accessori. Nel 1993 l’incontro con la vibrante pittura di Aligi Sassu permette la nascita de I cavalli di Helios, un arazzo tratto da un acquerello dell’artista. Il tema celebra il mito antico del Sole, fiero auriga che solca i cieli su un carro trainato da splendidi cavalli, animali ricorrenti in tutta la produzione del maestro. Sassu, che al tempo aveva 82 anni ed era un artista affermato, segue personalmente le diverse fasi del progetto dalla realizzazione della messincarta alla trasposizione su telaio, e supervisiona le prove colore e gli effetti d’intreccio più adeguati alla resa tessile delle sue pennellate. Una particolare cura viene accordata nel riprodurre, in quest’arazzo, un’armatura di fondo in grado di avvicinarsi il più possibile al supporto cartaceo dell’acquerello. È proprio l’autore a suggerire che la preziosa cornice dell’opera tessile sia congegnata in modo da lasciare in evidenza anche il retro del tessuto, per poter meglio osservare l’andamento dei fili. La tiratura dell’opera è fissata a complessivi 1.000 esemplari. Un formato più ampio, rettangolare, sarà scelto da Sassu per realizzare Ofelia (1999), un arazzo a due orditi, dai tratti nervosi, che ricorda solo vagamente lo stesso soggetto allegorico ritratto dal pittore inglese John Everett Millais (1829-1896), appartenente alla Confraternita dei Preraffaelliti. La tavolozza pittorica diventa terreno di sperimentazione cromatica sulla superficie tessile, dove le singole tinte dei fili s’intrecciano e si fondono in sfumature brillanti, che suggeriscono all’osservatore la sensazione di percepire al tatto l’ondeggiare della vegetazione sulla riva o il tiepido fragore delle acque, dove annegherà la malinconica follia d’amore di Ofelia. La collaborazione con il maestro Salvatore Fiume inizia nel 1997 con un progetto appositamente concepito dall’artista, poco prima della sua morte, per essere trasformato in microarazzo. L’opera tessuta interamente in seta s’intitola Una donna di Bali, misura cm 74x64 ed evoca tutto l’incanto di un paradiso tropicale perduto, popolato dall’archetipo di una femminilità sensuale e libera. Fiume ammanta le donne protagoniste delle sue tele di una seduzione spontanea e istintiva, che ai nostri occhi si trasforma nella reminiscenza, ormai svanita,
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Nella pagina accanto, la firma di Salvatore Fiume, il titolo e la data del dipinto Le tre Grazie intessuti sul microarazzo; nelle pagine successive, intero e particolare dellʼarazzo Pianeti che attendono (tratto dallʼomonimo dipinto di Fiume), realizzato dalla Seteria Bianchi per Editalia in collaborazione con la Fondazione Fiume, 2005, cm 70x140 circa
della grazia originaria, del sorriso e dell’amore puro, anziché in languido peccato. La materia serica, con i suoi bagliori luminescenti, esalta l’emozione di questa immagine, la cui visione occupa, per intero, tutto il campo dell’arazzo. La seta tratteggia una leggera ombreggiatura dell’incarnato e definisce il busto nudo, attraversato solo da esili fili di collane, con un braccio posato a cingere la testa, che va a toccare un fiore, rosso e carnoso, tra i capelli. Seguirà nel 2005 un’altra composizione tessile, di taglio rettangolare (cm 70x140), estrapolata dalla fantasia pittorica di Fiume, intitolata Pianeti che attendono. In un surreale e caldo scorcio mediterraneo, dove il cielo azzurro e terso si tinge di una lieve luce rosata, l’artista colloca sulla destra due massicce figure scultoree, stilizzate e immobili, che s’integrano con il paesaggio circostante. Sono simili a monoliti: una bianca, in primo piano, con attributi femminili, l’altra nera, a rappresentare, all’opposto, il maschile. Altre figure simili, una rossa e l’altra arancio, s’individuano in prospettiva. Con la loro presenza imponente, le due statue di pietra monopolizzano tutta l’attenzione e ispirano grande soggezione a un folto gruppo di persone che dal basso le osservano. Il microarazzo riprende un tema caro a Salvatore Fiume – quello dei «Giganti buoni amici dei piccoli terrestri i quali si provano a convivere e, dopo i primi approcci, non soltanto accettano la radicale modificazione dell’ambiente urbano e naturale, ma pigliano confidenza e piacere finendo per andare ad abitare nei meandri delle gigantesche statue emerse»(5) – che egli rappresenta in alcune delle sue prime opere pittoriche, come Città di statue e il trittico Isola di statue, presente alla Biennale di Venezia nel 1950 e conservato oggi ai Musei Vaticani. Gli esemplari dei microarazzi prodotti fino ad oggi dalla Seteria Bianchi sono attualmente conservati al Museo didattico della Seta di Como. L’opera che presentiamo oggi è tratta da un altro dipinto di Fiume, appartenente al ciclo delle Ipotesi, nel quale l’artista inserisce citazioni da artisti antichi e moderni, come Botticelli, Rubens, De Chirico, ambientandole nelle sue ben note Isole di statue. Fiume realizza quest’opera, con tecnica a olio su masonite, compiendo una sorta di collage metafisico, dove trovano posto tre immagini riconducibili alla grazia e all’armonia delle forme, ma anche all’interiorità dell’anima e alla ragione. La trasposizione serica – curata da sua figlia Laura Fiume con particolare competenza in quanto è anche lei pittrice – ha una superficie di cm 140x114, ottenuta intrecciando fili di ordito bianchi e trame di sedici colori: bianco, due toni di panna, di giallo, di arancio, rosso, marrone, viola, due toni di lilla, grigio, nero, blu, azzurro che, intrecciati tra loro, permettono di ottenere sessanta sfumature. Il lavoro preliminare ha richiesto numerose prove tecniche di tessitura per la messa a punto specifica di ben cento combinazioni colore/armatura, accostate tra loro. La prima figura, sulla sinistra, è ispirata
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evidentemente a una delle picassiane Demoiselles d’Avignon, un personaggio dalla testa piccola come una maschera primitiva. È ritratta in posa dinamica, con il corpo nudo e volumetrico, le forme accentuate da forti stacchi di colore, tra una zona e l’altra del busto, delle braccia, dei seni e delle cosce. La donna sulla destra ha le sembianze di un manichino da disegno: è un personaggio enigmatico, sospeso nel tempo, che ricorda le Muse inquietanti e la figura femminile degli Addii di Ettore e Andromaca di Giorgio De Chirico. La testa dall’ovale perfetto è incorniciata da un sottilissimo nastro annodato sulla fronte, come l’acconciatura di una dama rinascimentale. L’abito è una tunica azzurra, aderente al corpo, su cui si spiegano bianchi panneggi alla maniera greca. Nelle pieghe del grembo sono custodite due piccole squadre, che richiamano l’esattezza delle misure e il ricorso alla ratio matematica. La figura centrale è quella che incarna la personalità poliedrica di Fiume, una gigantessa opulenta, dalle sembianze sferiche (incontrata già nel microarazzo precedente), una dea madre primordiale, che riemerge dalla terra, per rammentarci origini antiche e comuni matrici classiche. Il manto bianco è una grande cupola che tutto sovrasta, come il peso di un patrimonio artistico imponente e ingombrante. Il tronco cavo di pietra è simile a un Colosseo illuminato dal sole, che pur nella sua maestosità, in virtù dei fori delle finestre, diviene una struttura leggera, praticabile, percorribile. Attraverso una visione così teatrale e metaforica Fiume sembra indicarci una prospettiva, uno spiraglio nel cammino che l’arte contemporanea italiana potrebbe intraprendere. È l’invito a una maggiore apertura attraverso spazi che consentano il fluire libero dell’invenzione e della creatività, pur mantenendo ferma la consapevolezza del proprio passato. Tutto questo ci racconta il microarazzo Le tre Grazie del maestro Salvatore Fiume che, filo dopo filo, trama dietro trama, tesse la sua incantevole ragnatela, scandita dal battito del telaio che lentamente si manifesta e si svolge: con pazienza, perizia, fatica… ma anche con gioia, speranza e un pizzico d’ironia. NOTE (1) Si tratta di una macchina per tessitura inventata in Francia all’inizio dell’Ottocento da Joseph Marie Jacquard per realizzare elaborati disegni a più colori, dotata di un dispositivo a cartoni forati per la lettura cifrata del disegno collegato al movimento dei fili d’ordito, in modo da facilitare il complesso lavoro del tessitore. (2) Anna Bianchi entra nello staff dell’azienda di famiglia nel 1983, dopo una formazione di taglio artistico presso l’Accademia di Brera e vari stage
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internazionali. Da quel momento affiancherà suo padre nell’ampliare l’attività stilistico-creativa e il settore commerciale. (3) Autore del Dizionario internazionale dei Tessuti, edito nel 1997, un’importante pubblicazione contenente termini e idiomi dialettali, italiani ed esteri, relativi a tutti i settori della produzione tessile. (4) Roncoroni 1992. In Francia questo genere era denominato portrait tissé e in seguito tableau tissé,
quando al repertorio dei ritratti si aggiunsero temi mitologici, avvenimenti storici, vedute paesaggistiche, e via dicendo. I primi esemplari in seta furono realizzati nella città di Como in occasione dell’Esposizione Voltiana del 1899. In seguito gli stabilimenti comaschi si specializzarono anche in piccoli quadri tessuti riproducenti le vedute del lago, denominati recentemente da Roncoroni «silk promotion». (5) Micacchi 1992.
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SALVATORE FIUME miti, ipotesi, metafore di Luciano Caprile*
«È notorio che il tempo corra in avanti e che l’umanità è costretta a corrergli appresso. L’artista invece vi può correre al contrario: correre sulla scia del tempo che è passato perché proprio in quello soltanto esistono le opere e i fatti che non (si) potrebbero trovare nel tempo avvenire perché non è ancora avvenuto». Questo concetto labirintico di Salvatore Fiume riflette il suo sguardo nei confronti dell’arte che per essere tale deve porsi in un territorio di atemporalità, come la bellezza in generale e la bellezza femminile in particolare, così ossessivamente amata e glorificata dal maestro siciliano. Ecco perché i “miti” e le “ipotesi” che, con le “metafore”, fungono da chiave di volta della presente esposizione sono componenti essenziali e “naturali” della poetica fiumana. Senza tali ingredienti non esisterebbero Fiume e la sua perspicace ricerca della seduzione, una seduzione fatta di tonalità calde, di ammiccamenti e di promesse, oppure di situazioni edeniche, sognate, riposate in quel territorio del “mito” (ecco che ritorna una parola chiave) collocato al di fuori di ogni luogo e ogni tempo. L’omaggio che Canzo dedica al suo illustre cittadino si apre a Villa Rizzoli con una sequenza di dipinti di grandi dimensioni dedicata all’universo muliebre ricco di echi pittorici e formali, di confronti e di trasparenti dichiarazioni elettive. A tal proposito emerge in modo esplicito la cultura artistica di un personaggio che reperisce nella grande tradizione, le cui radici affondano in espressioni arcaiche di straordinaria immediatezza narrativa e di perentoria semplicità esecutiva, quell’idea o quell’impulso da trasmettere alla contemporaneità. Più volte e da più parti si è sottolineata l’importanza della “memoria” quale forza propulsiva dell’oggi verso il futuro, ad annullare o per lo meno a limitare lo sterile sperimentalismo che pretende di cancellare la storia e con essa la parte essenziale della nostra ragione di essere. Con Fiume non si corre un simile rischio perché alla freschezza e alla immediatezza di una pennellata all’inseguimento di felici sensazioni si accompagna un’ostinata, ricorrente, metodica, avvolgente ricerca del piacere visivo che gratifica l’osservatore invitandolo a un inatteso trionfo percettivo. Si instaura un rapporto di complicità contemplative e tattili tra chi imbandisce un simile componimento di gradevolezza e chi lo consuma con gli occhi. Come si è detto, Salvatore Fiume non teme di confrontarsi con il passato e di dichiarare i suoi referenti privilegiati: in mostra vengono proposte alcune di quelle “ipotesi” che lo pongono in sintonia con i protagonisti di sempre. Le rivisitazioni e le contaminazioni entrano nella storia dell’arte di tutti i tempi. Per Fiume questi dichiarati “inquinamenti” sono qualcosa di più, sono “ipotesi” di lettura per capire e per capirsi, sono dichiarazioni di appartenenza. Ha scritto in proposito Franco Solmi nel 1987: «Non è un ritorno al classico, ma è invece un
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andare verso una nuova, inquinata, riverente irriverente classicità: la sola che può essere ‘immaginata’ dall’uomo d’oggi che vive in un mare d’oggetti fra cui galleggiano, irriducibili, i relitti delle antiche metafisiche. La poesia, la pittura, son fra le testimonianze classiche della resistenza dell’uomo di fronte all’aggressione della macchina e alla lebbra insidiosa dell’informatica». Ne La ballata delle ipotesi, un grande olio su tela del 1987, si dispiega un racconto da un lato di «irriverente classicità» e da un altro di intrigante straniamento narrativo. Grazie a un ipotetico collage (di tipologia di immagini, ben inteso) si incontrano sulla stessa scena una sensuale fanciulla spagnoleggiante contro un fondale di “isole di statue”, il Conte Duca De Olivares a cavallo di Velázquez e una copia quasi perfetta della Susanna del Tintoretto seguita da un quadro di spirito picassiano. È un convivio di enigmi, a volerne leggere i rapporti dialettici o a volerne sondare i significati. Ancora una volta è lo stesso Fiume a fornirci la chiave di lettura: «Ho dipinto le ipotesi della contemporaneità di opere di epoche e autori differenti, mettendoci in mezzo immagini ricorrenti nella mia pittura, quasi fosse arrivata anche per essi l’occasione di ipotizzarsi senza datazione, proiettati nel tempo». Quindi una proposta di confronto sul medesimo terreno che non tiene conto delle classifiche di merito ma dell’idea comune che ha guidato la mano. Ed è un concetto che torna alla ribalta ai nostri giorni, in un momento abbandonato da linee guida. Che cosa rimane all’artista, soprattutto al giovane che si guarda smarrito intorno, se non pescare nella personale cultura e affidarsi all’antica regola del fare, del tentare il mistero della creazione affrontando la prova terribile della tela bianca? Nulla è cambiato sotto questo profilo dal tempo del giovane di bottega di Rubens e dal tempo del ragazzo di Comiso innamorato di Piero della Francesca e di Paolo Uccello. Nulla è cambiato ai nostri giorni. Se è vero che l’arte è tèchne, per dirla con i greci, occorre aggiungere all’estro una buona dose di tecnica e la conoscenza delle radici. Il discorso non muta per La lezione di anatomia di Rembrandt tenuta su un cadavere picassiano (un ritratto di Dora Maar?) sorvegliato da una sua figura femminile ripescata dalle origini delle “isole di statue”. Il titolo d’insieme è per l’appunto Lezione di anatomia. Incontriamo invece Il sogno di un cavaliere di Raffaello in compagnia di un ricorrente Picasso volante e di un de Chirico metafisico nel dipinto denominato Se il cavaliere di Raffaello si svegliasse. Le citazioni e le autocitazioni convivono dunque su un palcoscenico che le rappresenta come un raduno di assonanze ideali, di convivenze spontanee, quali si riscontrano nei convegni di persone accomunate dallo stesso linguaggio culturale che cancella distanze spaziali e temporali. L’ipotesi di simili incontri artistici provocatoriamente disposti da Fiume conduce a riflessioni e a interrogativi sul futuro dell’arte. Ma è un problema che non affronteremo in
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Nella pagina accanto, Città di statue, 1948, olio su tela, cm 76x208
Incontro al vertice, 1948, olio su masonite, cm 106x160; in basso, La ballata delle ipotesi, 1987, olio su tela, cm 200x300
tale sede. Invece è interessante verificare la freschezza pittorica e la riuscita combinatoria di tali opere non facili da risolvere per il rischio, brillantemente superato, di una possibile dissonanza. Fiume rischia e risorge offrendo agli osservatori una lezione di arte comparata e la possibilità di ogni congettura interpretativa seguendo il filo surreale degli accostamenti. Un’altra “ipotesi” chiama in causa un Filippo IV di Velázquez che scende da cavallo per giocare a carte con una “bellezza” picassiana sotto lo sguardo di un angioletto raffaellesco preso pari pari dalla base della Madonna Sistina. E poi troviamo ancora, negli altri dipinti della serie, Botticelli, de Chirico e il Picasso cubista come elemento turbatore. Se vogliamo recuperare un’armonia tonale
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Nella pagina accanto, in alto, Lezione di anatomia, 1989, olio su masonite, cm 108x65; in basso, Se il cavaliere di Raffaello si svegliasse, 1983, olio su masonite, cm 120x145
Poema giapponese n° 4, 1989, olio su masonite, cm 120x145; in basso, Autoritratto nellʼatelier, 1967, olio su tela, cm 545x252
e compositivamente persuasiva ci dobbiamo rivolgere ai “poemi giapponesi” del 1990 che riservano una felice sorpresa. Fiume infatti interpreta rigorosamente gli amplessi dei due amanti secondo la collaudata iconografia nipponica di qualche secolo fa rimanendo se stesso, aggiungendo al classico disegno il colore e una carnalità mediterranea che acuisce la tensione erotica. È una dimostrazione di straordinaria sensibilità pittorica e di formidabile capacità di colmare lo iato di una diversa narrazione nel nome sacro dell’arte. Un altro aggancio con il passato a lui caro proviene dal “ciclo spagnolo” dove spicca un organico e sentito omaggio all’amato Goya: il ritratto della Maja vestita spicca nella sala che accoglie in regale posa metà della famiglia di Carlo IV. È un Fiume che si veste da Goya senza tradirsi e assorbe quel tanto di spirito dolente e malinconico che accende altresì una Signora con ventaglio del 1973 che già gli appartiene proponendosi come prototipo di tutte le fanciulle in mantiglia di là da venire. Le stesse figure femminili si ritrovano nelle “modelle”, un connubio di sensualità e di esotismo, di colori caldi e persuasivi (dove il rosso e il nero evidenziano il fuoco dei contrasti) e di atmosfere tramandate dai racconti degli harem. Le “metafore”, il terzo tema proposto dall’esposizione, si riflettono nelle “isole di statue”, in una sezione introdotta dal sontuoso Autoritratto nell’atelier del 1967, dove egli rappresenta se stesso nello studio con il
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Signora con ventaglio, 1973, olio su masonite, cm 200x90
confronto di due imponenti quadri sullo sfondo e di una modella mollemente distesa sul canapè. Qui si dispiega tutto il mondo di Fiume: il silente passato da cui ha preso avvio la personale poetica e il presente che tale poetica rinnova e rivisita. È un quadro di memorie e di radici: Paolo Uccello e Piero della Francesca si propongono sempre come punto di riferimento giovanile insieme a certe strutture arcaiche per scandire architetture antropomorfe e zoomorfe debitrici dei silenzi metafisici di de Chirico. Il tempo è immobile nella contemplazione di un Olimpo pietrificato. «Io sogno ormai insistentemente il mondo con le statue», aveva dichiarato il nostro artista nel 1953 e questo mondo è il frutto di una decantazione del pensiero da recepirsi nell’essenzialità che evoca i misteri dell’esistenza. Ricordano certe isole della Sicilia assediate dal sole e calcinate dal sale, cadenzate nei colori ferrosi che si dispiegano nelle tonalità del rosso-bruno. Si percepisce già il vento arido dell’Africa. Il silenzio si traduce in miraggio e in sogno al cospetto di figure tagliate nel post-cubismo picassiano e memori di quella ricerca dell’“antigrazioso” suscitato dalla contemplazione delle sculture africane e primordiali. Da un simile nucleo si dipartono forme possenti e allegorie che ci introducono nella mitologia classica: in Toro e donna il pensiero corre a Zeus, al rapporto tra la donna e
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Ritratto di Aliza, 1987, olio su masonite, cm 170x120
la divinità sotto le spoglie animali – l’unico occhio femmineo non tradisce le emozioni dietro la massa imponente della bestia dallo sguardo impassibile. Invece il corpo allungato e sensualmente compiaciuto della fanciulla si concede allo sguardo del possente pennuto in Gallo e donna in riva al mare. Il rito della leggenda si è compiuto in una staticità che profuma di eterno e di intangibile come il pensiero che ha collocato simili eventi alle radici della nostra storia. Fiume ci fa capire anche con tali dichiarazioni visive la seducente grandezza della mitologia
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Salvatore Fiume con la sua scultura Licisca in una fotografia del 1976
e tutte le possibili letture allegoriche che ne derivano e che ancora oggi arricchiscono l’immaginario di chi le sa interpretare. Sotto questo aspetto Il raduno delle statue si dispiega come una nostalgica sinfonia che chiama in rassegna i miti da cui dipartono, per rimanere nel Novecento, il panorama metafisico di de Chirico (lo sfondo delle “isole di statue”), l’essenzialità formale picassiana (la donna sdraiata in primo piano) e la sintesi scultorea di un Marini o di un Martini con il tramite degli etruschi e del Paolo Uccello della Battaglia di San Romano. Da quest’ultima riflessione discendono i due personaggi a cavallo sulla destra dell’opera. Quale ulteriore rimando e promemoria ritroviamo lo stesso soggetto fuso in un piccolo bronzo nel 1986. Il nostro autore, a parte qualche timida prova negli anni Cinquanta, solo a partire dal 1970 si è accostato alla scultura in maniera costante spinto da un intento “narrativo”: «…ho sentito il piacere di modellare, non per soddisfare il tatto, ma per raccontare delle storie». Aveva un certo ritegno e un profondo rispetto per «il magico mutismo che i grandi scultori infondono alle loro statue». Eppure proprio in certe sculture egli riesce a essere compiutamente coerente con se stesso (con quel clima derivante dalle “isole di statue”, come abbiamo visto) e con la nobile tradizione scultorea che dagli antichi proviene fino a noi con il tramite di un Rodin o di un Arturo Martini. In Licisca (una donna memore delle dee della fertilità e delle “pomone”), per esempio, o come nel Vecchio centauro e donna (emerso da un blocco severo e arcaico), egli è scultore di collaudata sensibilità e capacità evocativa, proprio perché la natura di simili prove discende da una ricerca ampiamente collaudata. Lo stesso dicasi dei “galli”. Le “immagini africane” sono un’ulteriore elaborazione di quel serbatoio primitivo dove in tanti, a cominciare da Picasso, hanno intinto la loro ispirazione. Un altro discorso va riservato alle “modelle” di cui viene presentato un esemplare in vorticoso movimento ascensionale: «Recentemente mi sono dedicato alla rappresentazione plastica delle donne indossatrici di moda», aveva confessato trasferendo in tale esercizio non “quel” proposito di fare scultura ma un “racconto” di seduzione e di grazia più prossimo alla cronaca. Non che questo non generi un risultato di qualità: genera solo una qualità diversa da quella espressa dai discendenti delle “isole di statue”. I “progetti per sculture” eseguiti a olio su masonite riguardano invece in prevalenza quella produzione della prima parte degli anni Novanta che va sotto il titolo di “casualità archeologiche” e di “ricostruzioni museali”. Confessava in proposito Fiume: «…Ho voluto ricreare, con le mie sculture, ciò che avviene quando gli scavi finiscono nei musei. Ho visto che gli storici, ricostruendo le statue delle quali hanno pochi pezzi, tentano di mostrare come probabilmente furono quelle sculture quando erano tutte intere. Questi drammatici spettacoli mi hanno ispirato per comporre delle sculture con frammenti staccati gli uni dagli altri,
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A sinistra, dall始alto in basso: Gallerone, 1970, bronzo policromo, altezza cm 52; Gallo e donna in riva al mare, 1958, olio su masonite, cm 74x102; Donna e toro, 1958, olio su masonite, cm 73x101,5; sotto, Vecchio centauro e la sua donna, 1970, bronzo policromo, altezza cm 60
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Nella pagina accanto, in alto, bozzetto di scenografia per lʼopera Medea di Luigi Cherubini, rappresentata al Teatro alla Scala di Milano nel 1953; in basso, bozzetto di scenografia per lʼAida di Giuseppe Verdi, rappresentata al Covent Garden di Londra nel 1957
ma coordinati in modo da offrire al visitatore la traccia per completarle con la sua immaginazione». Così si propongono connubi che offrono letture trasversali che il Nostro ha già sperimentato in pittura nelle “ipotesi” appena considerate. Il piacere dello straniamento e della raffinata provocazione si evidenzia anche nel ciclo delle “ville romane” dove architetture immaginarie, fantasiosamente classicheggianti, sono arricchite e fronteggiate da sculture anche monumentali. Nella circostanza egli si è lasciato trascinare dalla sua straripante creatività per cercare un improbabile connubio tra il gusto palazzinaro di oggi e l’armonia scandita da colonne e dalle fioriture dei capitelli corinzi di un tempo. Sono dunque dipinti ironici e scenografici che chiudono il settore dedicato alla ricerca plastica e ci introducono nel terzo capitolo destinato ai bozzetti per il teatro che trovano la loro logica sede espositiva proprio al teatro di Canzo. L’esordio di Fiume in tale ambito è avvenuto dalla porta principale, da culmine di ogni desiderio di chiunque intenda cimentarsi con il palcoscenico. Annotava Franco Solmi: «Era stato Alberto Savinio a presentare il giovane siciliano ai dirigenti della Scala, consigliando di valersi di lui in sostituzione di Dalì per la creazione delle scene e dei costumi dell’opera di Manuel de Falla La vita breve, rappresentata il 16 febbraio 1952 e replicata una decina di volte». A impressionare favorevolmente Savinio erano state le “città di statue”: aveva apprezzato quel silenzio metafisico che egli conosceva così bene. Fiume aveva creato per l’occasione «scene e costumi adatti sia a cogliere gli aspetti del grottesco che son propri del folklore, sia a scandire con la necessaria gravità gli echi delle note fatalistiche…», per dirla ancora con Solmi. In mostra compare un bozzetto di questo suo primo impegno. Il 10 dicembre 1953 va in scena alla Scala la Medea di Cherubini per la direzione di Leonard Bernstein. Medea è Maria Callas, i costumi e le scene sono di Salvatore Fiume. Il suo è un ritorno in crescendo nel tempio della lirica: finalmente può inserire lo spirito più profondo, più arcaico delle “città di statue” nelle immagini che accompagnano la tragica vicenda. Dino Buzzati prenderà come spunto le suggestioni suscitate dalle pitture per annotare: «Ciclopi che scaraventavano blocchi di montagne per affondare navicelle in fuga. […] Vertiginosi idoli e picchi a forma di minotauro emergenti dai fiabeschi oceani per lo più in una atmosfera di Grecia arcaica, ereditata forse con lo stesso sangue, perché Fiume è siciliano. […] Surrealismo? Paesaggi metafisici? Fantasia magica?». Il personale mondo immaginario ha dunque ritrovato il luogo di una soddisfacente manifestazione. E il bozzetto di Medea in mostra, una imbarcazione proiettata contro gli atemporali interpreti di un paesaggio di pietra, ne è un prezioso esempio. L’Aida, messa in scena nel 1957 al Covent Garden di
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Salvatore Fiume al lavoro sui bozzetti de La vita breve di Manuel De Falla, rappresentata a Milano nel 1952; sotto, fotografia di scena dall始opera, atto II
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Il Maestro con la sua tavolozza, anni ʼ70 del XX secolo
Londra, ha come emblema quella sfinge che compare nel progetto presentato in rassegna. Anche questa figura di per sé enigmatica assume nella trasformazione dell’artista il valore dell’angoscia o della minaccia sigillata dall’eternità. L’invenzione e la capacità di adeguare i gesti alle esigenze della rappresentazione emergono negli studi per la Carmen di Bizet del 1959. La figura del toro, sempre in agguato tra l’ironico e l’inquietante, incombe sulle piazze e sull’arena come un incubo. È davvero un peccato che simili prove non siano sfociate nella realizzazione scenografica. Qui c’è tutto il Fiume e tutto il Bizet in una stupefacente armonia. L’intero popolo teatrale e pittorico evocato dal maestro siciliano è quindi riassunto e dispiegato su una imponente tela, un vero e proprio sipario che anticipa il Fiume autore e scenografo di se stesso. Infatti egli si è cimentato nel 1982 in una commedia, Il tesoro dei Palagonia, ambientata in una Sicilia di fantasia di cui vengono proposte trentasette piccole tavole caratterizzate dall’immediatezza e dalla freschezza esecutiva. Dai personaggi di Concetta, del compare Cincarama, del marchese Firrera sprizza tutta l’ironia e la vena salace di Fiume corroborata dalla presenza corrosiva di alcune fanciulle discinte “invitate alla festa”, sotto la beneaugurante egida dei “ferri di cavallo di Giulio Cesare della Collezione Conti di Palagonia”. Nelle parole e nelle immagini si percepisce ancora il profumo della nostalgia. Dopo tutto Il tesoro dei Palagonia viene suscitato da quella stessa magia delle apparizioni che lo sollecitava all’arte: «Tra le cose che compaiono e dispaiono ci sono anch’io, mutevole come il capriccio che regola quelle apparizioni». Un colpo di teatro, quell’apparire e scomparire tra i variegati sipari del suo mondo: questa messa in scena di oggi sarebbe sicuramente piaciuta al Salvatore Fiume che ci guarda dalle opere. *Il testo è tratto dal volume Salvatore Fiume. Miti, ipotesi, metafore, catalogo della mostra (Canzo, Villa Rizzoli-Villa Meda-Teatro Comunale, 3 giugno/1° luglio 2001), Téchne Editore, Milano 2001.
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Salvatore Fiume e il suo lavoro per lʼopera Norma di Vincenzo Bellini, rappresentata al Teatro alla Scala di Milano nel 1955
SALVATORE FIUME, nato a Comiso, in Sicilia, il 23 ottobre 1915, fu pittore, scultore, architetto, scrittore e scenografo. A sedici anni vinse una borsa di studio per il Regio Istituto d’Arte del Libro di Urbino dove acquisì una profonda conoscenza delle tecniche della stampa: litografia, serigrafia, acquaforte e xilografia. Nel 1936, terminati gli studi, si recò a Milano dove conobbe artisti e intellettuali, fra cui Salvatore Quasimodo e Dino Buzzati. Nel 1938 si trasferì a Ivrea, presso la Olivetti, come art director della rivista culturale Tecnica e Organizzazione, alla quale collaboravano intellettuali di prestigio come Franco Fortini e Leonardo Sinisgalli. Ottenne il suo primo successo come scrittore con il romanzo Viva Gioconda!, pubblicato nel 1943 dall’editore BianchiGiovini di Milano. Nel 1946, per potersi dedicare completamente alla pittura, lasciò la Olivetti e si stabilì a Canzo (Como) dove adattò a studio una filanda dell’Ottocento che in seguito divenne la sua residenza definitiva. Nel 1948 espose con successo alla galleria Gussoni di Milano una serie di dipinti ispirati alla tradizione e al folklore spagnoli, firmandoli Francisco Queyo, un pittore gitano di fantasia di cui inventò la storia di perseguitato politico esule a Parigi. Il 1949 fu l’anno della prima mostra ufficiale a Milano alla Galleria Borromini, dove le Isole di Statue e Città di Statue suscitarono molto interesse presso la critica. Durante la mostra il direttore del Museo d’Arte Moderna di New York, Alfred H. Barr Jr., acquistò un’opera; anche la collezione Jucker di Milano acquisì un’opera in quella occasione. Nel 1950 Alberto Savinio promosse la sua partecipazione alla Biennale di Venezia dove Fiume espose il trittico Isola di Statue (ora nei Musei Vaticani), che gli valse un’intera pagina della rivista americana Life. Al 1952 risale, sempre su suggerimento di Savinio, la prima esperienza nella scenografia: eseguì per il Teatro alla Scala i bozzetti per le scene e i costumi per La vida breve di Manuel De Falla e per Le creature di Prometeo di Beethoven. Successivamente realizzò scene e costumi per Medea di Cherubini (1953), La fiamma di Respighi (1954), Norma di Bellini (1956) e il Nabucco di Verdi (1958). Inoltre collaborò con altri teatri come il Covent Garden di Londra, il Teatro dell’Opera di Roma, il Massimo di Palermo e l’Opera di Montecarlo. Nel 1952 Giò Ponti gli commissionò un enorme dipinto (m 48x3) per il salone di prima classe del transatlantico “Andrea Doria” nel quale Fiume rappresentò una immaginaria città italiana ricca di capolavori d’arte di varie epoche storiche: purtroppo nel 1956 la tela affondò con la nave al largo di Nantucket, Massachusetts. Nel 1953 le riviste Life e Time gli commissionarono, per le loro sedi di New York, una serie di opere raffiguranti una storia immaginaria di Manhattan e della Baia di New York. Fra il 1949 e il 1952, su invito dell’industriale Bruno Buitoni Sr., Fiume completò un ciclo di dieci grandi dipinti sul tema delle “Avventure, sventure e glorie dell’antica Perugia”, nei quali è evidente la lezione di Piero della Francesca e Paolo Uccello: i dipinti, donati dalla famiglia Buitoni alla Regione Umbria nel 1998, sono conservati a Perugia nella Sala Fiume di Palazzo Donini. Nel 1962 una mostra itinerante portò cento quadri di Fiume in diversi musei tedeschi toccando, fra le altre città, Colonia e Ratisbona. Nel 1967 eseguì il bozzetto per il grande mosaico della Basilica dell’Annunciazione a Nazareth. Nel 1973, accompagnato dal fotografo Walter Mori, si recò in Etiopia, nella valle di Babile, dove dipinse le sue Isole su un gruppo di rocce utilizzando vernici marine: per la grande mostra antologica del 1974 al Palazzo Reale di Milano l’artista realizzò una riproduzione in polistirolo, a grandezza naturale, di una parte di queste rocce, occupando quasi interamente l’enorme Sala delle Cariatidi. Nella stessa occasione presentò la Gioconda Africana, ora custodita nei Musei Vaticani. Nel 1975 la cittadina calabrese di Fiumefreddo Bruzio accolse con entusiasmo la proposta di Fiume di rivitalizzarne gratuitamente il centro storico con alcune sue opere: nel 1975-76
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dipinse alcune pareti interne ed esterne dell’antico castello e, nel ’76, la cupola della Cappella di San Rocco. Nel 1978 donò 33 opere ai Musei Vaticani. Nel 1985 tenne una grande mostra a Castel Sant’Angelo a Roma. Del 1987 è l’esposizione De Architectura Pingendi allo Sporting d’Hiver di Montecarlo, inaugurata dal principe Ranieri di Monaco. Negli anni ’90 collocò una scultura di bronzo in ciascuna delle due piazze di Fiumefreddo. Nel 1991 espose i suoi progetti architettonici alla Mostra Internazionale di Architettura a Milano e al Palazzo della Triennale; nel 1992 espose i suoi dipinti a Villa Medici a Roma. Nel 1993 Fiume visitò i luoghi di Gauguin in Polinesia e, in omaggio al maestro francese, donò un dipinto al Museo Gauguin di Tahiti. Pur avendo eseguito alcuni bassorilievi già nel primo dopoguerra, come scultore debuttò ufficialmente solo nel 1994 con una mostra alla Galleria Artesanterasmo di Milano. La sua produzione comprende anche opere di grandi dimensioni, come la statua di bronzo al Parlamento Europeo di Strasburgo, le sculture degli ospedali San Raffaele di Milano e di Roma e il gruppo bronzeo per la Fontana del Vino a Marsala. Nel 1995 il Centro Allende di La Spezia ospitò una mostra all’aperto delle sue sculture. Oltre al romanzo Viva Gioconda!, Fiume pubblicò numerosi racconti, nove commedie, una tragedia e due raccolte di poesie. Il suo libro Pagine Libere (1994) è una raccolta di osservazioni personali sulla vita e sull’arte. Nel 1988 l’Università di Palermo gli conferì la laurea ad honorem in Lettere moderne. Sue opere si trovano nei più importanti musei del mondo quali i Musei Vaticani, l’Ermitage di San Pietroburgo, il MoMA di New York, il Museo Puškin di Mosca e la Galleria d’Arte Moderna di Milano. Salvatore Fiume è morto a Milano il 3 giugno 1997. L’attività espositiva successiva alla scomparsa di Salvatore Fiume è stata molto intensa fin dal 1997, anno in cui si tennero la prima antologica nel Castello Malatestiano di Montefiore Conca (Rimini) e la mostra alla Galleria Artesanterasmo di Milano, intitolata Le alleanze pittoriche, con dipinti eseguiti a più mani da Fiume insieme a otto artisti più giovani. Seguirono: l’antologica di Palazzo Bentivoglio a Gualtieri (Reggio Emilia) nel 1998; la mostra di ritratti intitolata Il corpo e l’anima (1999), presso l’Artesanterasmo di Milano; la mostra di disegni giovanili al Museo Parisi-Valle di Maccagno (Varese) nel 2000-2001; quella a Finale Emilia (Modena), del 2001, intitolata Affreschi, graffiti, specchi. Nel 2001 il Comune di Canzo gli dedicò una mostra di pittura, scultura e scenografia, intitolata Miti ipotesi metafore. Nel 2002 fu presentato il I volume del Catalogo generale delle opere. Nel 2004 il Museo nazionale degli strumenti musicali a Roma aprì i suoi spazi alla mostra Fiume Metafisico. Al 2006 risalgono la mostra al Palazzo Tentorio, sede del Comune di Canzo, in occasione dell’apertura al pubblico della ex-filanda, e l’esposizione a Palazzo Montevergini di Siracusa. Dello stesso anno sono le esposizioni a Vilnius e a Varsavia presso i rispettivi Istituti italiani di Cultura, e le mostre a Spello (Perugia) nel Palazzo del Comune e a Bànari (Sassari) alla Fondazione Logudoru Meilogu. Per il decennale della sua scomparsa fu organizzata una grande retrospettiva alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Arezzo. Nel 2008 furono allestite la mostra sul tema delle Ipotesi al Palazzo Felici di Cagli (Urbino), e l’esposizione Mito e classicità alle soglie della metafisica presso l’Auditorium-Parco della Musica di Roma. Nel 2010-11 lo Spazio Oberdan di Milano ospita Salvatore Fiume: un anticonformista del Novecento. La mostra più recente (ottobre 2012-gennaio 2013) è quella al Palazzo Pirelli di Milano intitolata Le identità di Salvatore Fiume. Il 23 ottobre 2012, giorno in cui l’artista avrebbe compiuto 97 anni, è stato inaugurato lo Spazio Fiume nel nuovo Palazzo della Regione Lombardia (nel foyer della Sala Marco Biagi, ex Sala dei 500) con 13 le opere donate alla Regione dai figli Laura e Luciano. Nel febbraio 2013 nella Piazza del Tribunale di Varese è stata posizionata la scultura in bronzo L’Antropotauro e la sua donna e nell’ottobre 2013 in Piazza Piemonte a Milano il gruppo bronzeo Le tre Grazie.
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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
L’ARAZZO NEL NOVECENTO
SALVATORE FIUME
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Le identità di Salvatore Fiume. 50 opere anni ’40-’90, catalogo della mostra (Milano) a cura di A. Jones, E. Pontiggia, La. Fiume, Lu. Fiume, Milano 2012
INDICE
L’arazzo nel Novecento di Stefanella Sposito
5
L’Arte incontra l’Arte di Stefanella Sposito
35
Salvatore Fiume Miti, ipotesi, metafore di Luciano Caprile
49
Biografia di Salvatore Fiume
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Bibliografia essenziale
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Coordinamento editoriale Cecilia Sica Progetto grafico e impaginazione Daniela Tiburtini Redazione Laura Orbicciani Grafico Valentina Longhi Referenze fotografiche Fondazione Fiume, Canzo (Como); Seteria Bianchi, Como; Cooperativa Cogecstre, Penne (Pescara); Arazzeria Scassa, Asti; Bridgeman Art Library, Londra; Corbis Italia srl, Milano; Scala, Firenze; Marco Aprile
Stampa e Allestimento Marchesi Grafiche Editoriali SpA, Roma