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EDITORIALE

l'Editoriale

Il lavoro che c’è

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Enzo Baglieri

Associate Dean, SDA Bocconi School of Management enzo.baglieri@sdabocconi.it

Prendo a prestito per questo editoriale il titolo di un libro, curato da un amico ed ex collega, Luca Maniscalco, edito da Flaccovio, che raccoglie i contributi di professionisti, giornalisti e manager sulle nuove competenze richieste dal mercato del lavoro attuale. L’opera è uno spunto per inserirmi nell’attuale dibattito sul tema del lavoro, che ci sarebbe in abbondanza e che a quanto pare nessuno vuol fare, e sulle implicazioni del nuovo modo di lavorare o come lo definiamo erroneamente smart working. Come sempre accade, nel nostro

Paese il dibattito non può che finire per creare partiti a favore e a sfavore a prescindere, polarizzare e quindi confondere drammaticamente i fatti e le opinioni. Proviamo qui invece a trattare l’argomento per quello che deve essere, ossia affrontare in maniera civile il tema del lavoro in una Repubblica che, secondo la sua carta costituzionale, su quest’ultimo è fondata e in cui però il tasso di disoccupazione medio è dell’8,5 e del 24,2% nei giovani tra i 15 e i 24 anni, secondo i più recenti dati ISTAT.

Il primo luogo comune che si vuole accreditare in queste ultime settimane è che ci sia tantissimo lavoro e altrettanti fannulloni che

non hanno voglia di faticare, in particolare da quando è stato introdotto il reddito di cittadinanza. Questa misura, a onore del vero, ha semplicemente allineato l’Italia al resto d’Europa, poiché praticamente in tutti i paesi europei è stato introdotto da anni un reddito minimo garantito, in linea con il documento approvato dal Parlamento Europeo e dalla Commissione Europea dal titolo Pilastro europeo dei diritti sociali. Correttamente si sostiene che qualunque intervento di ammortizzazione sociale e sui salari, ha un impatto sul mercato del lavoro. Altrettanto appropriato è tuttavia osservare che anche il libero mercato non ha mai

determinato, in nessun Paese, la piena occupazione. E questo soprattutto perché l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non dipende solo dalla quantità di lavoro, ma soprattutto dalla qualità del lavoro, intesa come competenze e capacità di chi si propone sul mercato del lavoro, dalle condizioni del lavoro offerto (anche salariali) e dal contesto in cui il lavoro viene offerto. Il sussidio italiano presenta indubbiamente due punti deboli. Innanzitutto il livello di sussidio offerto è relativamente elevato: in

Italia si è scelto di allinearlo al valore della cosiddetta soglia di povertà, mentre nel resto d’Europa si colloca sempre decisamente al di sotto della soglia medesima. Quindi oggettivamente disincentiva da lavori la cui retribuzione non si discosti

decisamente dal sussidio. Tuttavia ciò significa anche che la narrazione attualmente ricorrente del ristoratore a corto di

personale dipende anche in gran parte dai salari offerti nel settore, a fronte peraltro spesso di condizioni di lavoro al limite del rispetto della dignità umana. In questo senso e specie per alcune categorie professionali, il cosiddetto salario minimo di cui sono dotati molti Paesi europei e che l’Italia dovrà recepire a breve, rappresenta una tutela probabilmente altrettanto necessaria, specie per le categorie per le quali non esistono dei contratti collettivi e in cui le capacità negoziali dei lavoratori sono molto

limitate. Tuttavia, il vero tema su cui dovremmo concentrarci è il salario medio, che in Italia, unico Paese europeo, tra il 1990 e il 2020 è addirittura decresciuto in termini reali. E questa è davvero un’anomalia importante del nostro sistema economico, perché non è chiaro, a fronte di questo calo dei salari medi, chi abbia incamerato la marginalità generata, se l’impresa, sotto forma di extra profitti, se lo Stato, sotto forma di imposizione fiscale e sistema contributivo o se, peggio, i dati su cui argomentiamo non siano attendibili, stante una porzione importante della nostra economia che sfugge alla lettura trasparente delle statistiche. La medesima narrazione da social network sottovaluta anche il

tema delle skill, perché o questi sedicenti masterchef ci confermano che per lavorare da loro basta essere l’equivalente del bracciante agricolo del secolo scorso oppure, come ritengo, pretendono giustamente per assumere un cameriere o un aiuto cuoco delle abilità e delle capacità non così comuni. E quindi, ancora una volta, il tema del lavoro e dell’occupazione non dipende solo dalle quantità, ma soprattutto dalle qualità di chi si offre sul mercato del lavoro. Qui entra in gioco anche la capacità del nostro sistema scolastico di indirizzare correttamente verso le

professioni che servono al sistema economico e di costruire una relazione con il mondo delle imprese molto più efficace e rapida. Purtroppo, anche in questo caso, ci dobbiamo confrontare con la realtà del sistema scolastico italiano, su cui si investe poco e male e che vede uno dei suoi principali punti di debolezza proprio nelle scuole a indirizzo tecnico e professionale.

In secondo luogo, il sussidio italiano presenta delle condizioni troppo morbide. Tutti i paesi europei richiedono ai percettori di redditi minimi garantiti di essere disposti a lavorare e nella gran parte questo comporta l’obbligo di adesione e partecipazione a un programma di integrazione sociale e formazione lavorativa, che, se disatteso, comporta la perdita del reddito minimo. Secondo uno studio dell’Osservatorio dei Conti Pubblici dell’Università

Cattolica, in dieci paesi europei è obbligatorio accettare qualsiasi offerta di lavoro pena la perdita del beneficio, in undici qualsiasi offerta appropriata, e in Francia si può rifiutare soltanto una offerta. Altri impongono l’obbligo di svolgere lavori socialmente utili nell’attesa di trovare un’occupazione (ad esempio Lussemburgo e Romania). Anche su questo punto, sarà quindi necessario intervenire nel nostro Paese, ma ciò non toglie che la misura in questione rimane, a mio giudizio, tutto sommato degna di una nazione che si dichiara civile.

Il vero tema che stiamo però sottovalutando è che, oltre alla natura del lavoro, le nuove generazioni si attendono anche una rivoluzione delle modalità di lavoro. In particolare, con la pandemia i numeri sul lavoro in remoto sono cresciuti all’improvviso ed esponenzialmente, attestandosi, secondo i dati Istat, su livelli molto superiori a quelli pre-pandemici (intorno al 30 per cento dei dipendenti). Questo ha creato le condizioni generali per una domanda di lavoro “smart”, socialmente più accettabile e desiderabile dai nativi digitali. E come sempre, c’è qualcuno che si crede più furbo e, immaginando di trasferire il lavoro nelle case così come è sempre stato negli uffici, progetta di ridurre i costi del lavoro e aumentare i propri margini di profitto. Questo è però un approccio pericoloso, perché senza l’opportuna progettazione dei sistemi di controllo, delle regole nuove di organizzazione dei flussi di lavoro, dei luoghi, delle gerarchie e soprattutto senza misure che restituiscano anche al lavoro “smart” quella dimensione di socialità e di relazione che rende bello il lavoro, rischiamo di ritrovarci con lavori e lavoratori più poveri, più isolati, più ripetitivi e, quindi, meno produttivi. Con il paradosso, come direbbe il mio amico Luca Maniscalco, che il lavoro c’è, ma facciamo fatica a trovare qualcuno disposto a farlo, non tanto perché conviene incassare un sussidio, ma perché quel lavoro, che prima era anche una proiezione nella società della propria personalità e delle proprie capacità, è stato ridotto a un cottimo a distanza, isolato dal mondo e privato di quella bellezza che induce, chi ha la fortuna di fare un lavoro che lo soddisfa, a faticare comunque ogni giorno, e chi non ama il proprio lavoro di ricercare un’opportunità di miglioramento sempre e comunque.

Il vero tema che stiamo però sottovalutando è che, oltre alla natura del lavoro, le nuove generazioni si attendono anche una rivoluzione delle modalità di lavoro

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