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RACCONTI
PREMIO SIMONE LAURENZI È IL VINCITORE DEL CONCORSO PER LA PROSA INEDITA
IN MAGAZINE
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DI CLARISSA COSTA FOTO BRUNO BRAVI
Sulle nostre pagine non è un nome né una penna nuova, quella di Simone Laurenzi. Il vincitore dell’edizione 2022 del Pre-
mio letterario nazionale ‘Città
di Forlì’, sezione IN Magazine, si era infatti classificato al primo posto già nel 2017 con il racconto 14 febbraio 2015, e al secondo nell’edizione del 2016. “Questo è il terzo premio ricevuto a Forlì,” racconta lo scrittore, “e per me rappresenta una conferma artistica e di valore, una crescita personale di consapevolezza. In un certo senso, la vittoria di quest’anno chiude un cerchio; mi piace considerarla una sorta di trilogia forlivese.” Originario di Sant’Arcangelo, Laurenzi ha vissuto a Bologna, a Torino, poi anche a Forlì per quattro anni, stabilendosi infine nel 2018 a Bologna. E in tutto questo suo ‘viaggiare’ la scrittura ha sempre avuto una parte preponderante. “Scrivo da sempre,” spiega, “ma fermarmi e ripartire più volte nella vita mi è servito
NEL RACCONTO LA SPAGNOLA, LAURENZI VEICOLA UN MESSAGGIO INTIMO E PERSONALE MA ALTRETTANTO UNIVERSALE, IN CUI L’APNEA SI TRASFORMA IN UN LUOGO E DIVENTA UNA POTENTE METAFORA DELLA VITA.
a mettermi in gioco, e ovviamente a poterne poi scrivere. In questo senso, anche la letteratura di genere al tempo è stata un passaggio molto importante, di maturazione: autori come Charles Bukowski, Knut Hamsun e Jhon Fante mi hanno insegnato qualcosa sulla scrittura ma anche sull’esistenza, che la vita è bella ma che è altrettanto bello scriverne, raccontando quello che ti accade in prima persona senza per forza delegare il pensiero. Così il racconto è diventato per
me una necessità di espressio-
ne.” La novità dell’edizione di quest’anno è stata l’introduzione di un tema, L’Acqua, per la prosa inedita, e con il racconto La spagnola di Simone Laurenzi è stata premiata la capacità dell’autore di riuscire a veicolare un messaggio intimo e al contempo altrettanto universale, in cui l’apnea diventa una potente metafora della vita e si trasforma in un luogo. “Non pensavo sinceramente di vincere perché è uno scritto molto personale, ed è stata una bellissima sorpresa. L’idea è arrivata in modo molto fulmineo, spontaneo: come succede a molti, ogni tanto ci si rende conto di trovarsi in apnea, per i più svariati motivi, e che prima di ritornare in superficie si preferisce starsene un po’ tranquilli, con le proprie ferite. Nel racconto ci sono alcuni elementi biografici, ma in realtà la sensazione di apnea che vive il protagonista, di attese ma anche di chiusure, è molto comune e condivisa. Dopo aver letto La spagnola, molti mi hanno confermato che hanno vissuto quelle stesse sensazioni, che si sono sentiti come il protagonista. E questo, della scrittura, trovo che sia la cosa più bella, il ‘perché dell’arte’ in sé, che mi ha dato più soddisfazione: scrivere qualcosa di non puramente autoreferenziale, che faccia sentire meno soli e che unisca, soprattutto in questo periodo storico in cui c’è molta solitudine.”
VIALE GUGLIELMO MARCONI, 7 - 47011 CASTROCARO TERME (FC) TEL +39 0543 767305 - INFO@GIOIELLERIACALONICI.IT
RACCONTO VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO NAZIONALE CITTÀ DI FORLÌ, SEZIONE PREMIO IN MAGAZINE PER LA PROSA INEDITA.
LA SPAGNOLA
DI SIMONE LAURENZI
Quanto si resiste in apnea? Credo di non essermi mai fatto questa domanda, ma la spagnola si sta facendo la doccia, ed io sono qui a domandarmelo per la prima volta. Mi guardo una mano e ancora me lo domando e subito ecco la risposta. Io sono quasi due anni che sono sott’acqua, in apnea. In una rubrica di curiosità, avevo letto che Frank Sinatra cantava mettendo la testa nella bagnarola di casa e lo faceva per rafforzare la voce. Io non ho la vasca ma ho capito di essere in apnea da un bel po’, forse perché voglio battere qualche stupido primato o forse perché fuori hanno urlato troppo. E l’ho capito mentre la spagnola sta facendo andare l’acqua calda. Non è la mia ragazza, è la giardiniera che viene due volte a settimana a mettere a posto il giardino. Alla fine, prima di andarsene, mi chiede sempre di lavarsi, perché voglio andare via pulita. Le prime volte mi ero chiesto se non fosse una forma di seduzione, e allora capii di essere sott’acqua a trattenere il fiato. Potrei sembrare un puro, ma non lo sono, solo sto trattenendo tutto e allora non mi accorgo di nulla, e ho desiderio per pochissime cose. Come il giardino, ad esempio. Me l’aveva fatto notare un pensionato affacciato al balcone mentre fumava. Che troiaio di giungla hai messo su? Risi, perché aveva ragione. Da due anni l’avevo lasciato incolto, e allora mi passò il numero di questa giardiniera spagnola. Era la prima ragazza che entrava in casa mia da tanto tempo, e s’interessò subito alla vasca di girini che tenevo davanti alla finestra. Le spiegai che da un po’ di tempo volevo costruire uno stagno artificiale con due, tre ranocchie, ma prima era tutto da sistemare, e ci avrebbe pensato lei. Quanto riesci a respirare sott’acqua? Vuoi dire stare in apnea? mi rispose la spagnola mentre potava il melograno. Siccome ero in apnea, a volte potevo sembrare goffo e le feci segno di sì con la testa. In apnea, giusto… Lei sorrise e sembrò un’altra persona, quasi carina, quasi la sentii. Non mi sono mai cronometrata… nemmeno io mi ero cronometrato, ma dovevo aver battuto qualche record. Ad Aprile sarebbero stati due anni, giorno più, giorno meno. Per questo rispondevo col fiato corto, che devo risparmiarlo, che chissà quanto fiato potrò ancora avere. Rispondere a qualsiasi cosa con non più di quattro parole, e poi metterci un sorriso o una risatina, tanto per far capire che non è colpa tua, è mia la colpa, sono io là sotto con le bollicine che escono dal naso. A occhi chiusi, a occhi aperti, spalancati per cercare di scoprire il fondo. Il fondo della bagnarola, il fondo che non c’è fondo, che non c’è nulla. E poi io nel fondo non ci vado. Potrei trovare un tesoro, un barracuda, un transatlantico inabissato cento anni fa, ed io non ho posto in casa né per un barracuda, né figuriamoci per un transatlantico. Quindi solo la testa resta sotto e posso anche cantare, anche se sono stonato. Camminavo per la casa, e guardavo la spagnola da un’altra finestra. Usava un piccolo rastrello e si aiutava con le mani nude, non metteva guanti. Mi aveva spiegato che le piaceva la terra, e non c’erano rovi e spine. Non le interessava se le unghie si sporcavano, tanto poi si faceva la doccia e rimaneva anche un’ora a far scorrere l’acqua. I patti erano i patti. Rifiutava tisane e caffè, ma voleva sempre andare via pulita. Quando mi fissavo troppo a guardarla e se lei se ne accorgeva, tornavo a controllare la vasca dei girini. Ne morivano a grappoli e magari nessuno sarebbe diventato ranocchia. Spesso cambiavo l’acqua e fu proprio la spagnola a consigliarmi di comprare una pompa per ossigenare l’acqua, sennò addio rane! Ossigenare l’acqua, che visione perfetta per rimanere in apnea, come uno dei miei girini, ed ero fermo nell’attesa della metamorfosi, o forse di un colpo in testa, di un raffreddore, di una bestemmia. E come quei bastardelli nero lucido, sott’acqua ci stavo bene, forse perché l’acqua era già ossigenata, forse perché là sotto nessuno avrebbe fatto una domanda in più, nessuno avrebbe giudicato. Chiedere e non chiedere a braccia conserte, bollicine che escono dal naso, e i soliti spaventi, l’egoismo e la paura dei commessi annoiati e delle cameriere stanche, e la voglia di uscire con la testa dalla bagnarola ricoperto da giovani ranocchie gracidanti, le stesse che presto, ti prego Signore delle Rane, avrebbero cantato per me nel mio giardino. La caldaia aveva smesso di lamentarsi, strano, di solito impiegava più tempo per lavarsi. Infatti, ecco di nuovo il ringhio metallico dell’acqua calda. Immagini del suo corpo di schiuma e poi immagini delle unghie sporche di terra e dello spazzolino passato per ripulirle. Aveva tutto il suo necessaire, tenuto in un astuccio viola, e dentro aveva anche uno spazzolino, le creme, delle salviette, boccette di shampoo. La terra che non si toglie, le unghie sporche, nulla di erotico, nessun desiderio e tutta la testa in apnea, con l’acqua che perde ossigeno e si fa fredda, da dare i brividi. Nessun brivido, i brividi in apnea non arrivano, non si sentono. Non caldo, non freddo. Allora meglio togliere la testa e mettere i piedi nell’acqua, le mani nell’acqua, i gomiti, il sedere. Un nuovo rombo della caldaia, sembra che tra poco esploda, e quanta acqua stava consumando, allora meglio mettere tutta la testa nella bagnarola e sedarsi nel silenzio colmo di rintocchi lontani. Un silenzio dove tornano i riverberi degli ultimi anni, dei seri problemi di comunicazione, dei sottili sadismi, dell’amore patetico, delle complicazioni, d’insulti e traumi, di cose che iniziano e poi non finiscono. Nel silenzio dell’apnea nemmeno il mio battito sento, si alza solo una melodia scritta apposta per commuoversi, qualcosa di nostalgico per ieri, per un mese fa, per il sorriso di una sconosciuta, per le schiene sudate delle liceali negli ultimi giorni di scuola a giugno, e sono tutte le bollicine che escono dal naso mentre apro e chiudo gli occhi. Rintocchi lontani, ovattati nella profondità degli oceani salati, del sale che poi intacca il rame delle campane e tutto diventa di un verde marino, con alghe e piccoli granchi che si rifugiano nelle crepe dei silenzi. Il nuovo ruggito della caldaia mi destò e pensai ancora all’acqua salata e a chi, negli anni, mi aveva parlato della pesca subacquea, e ci credevano tanto da elencarti tutti i pesci e da invidiarli per un minuto intero. Spiagge, scogli, e le tante ragazze che s’immaginavano felici solo nel fare un bagno al mare, in agosti di mille anni fa, e poi di bagni ne facevano uno solo e rimanevano desiderose di altro. La spagnola mi sembrava una di quelle. Di certo si stava facendo una doccia che le sarebbe bastata per una settimana. Era carina e mi piaceva guardarla muoversi tra le frasche del giardino, la guardavo e sentivo il fiato corto ed ecco che diventava la giardiniera delle mie miserie, del mio camposanto, delle piccole tombe dei girini che morivano e diventavano grigi. Ogni tanto si prendeva una pausa e si fumava una sigaretta parlandomi. Mi spiegava, mi mostrava foglie e parassiti, ed io ascoltavo cercando di non guardarla negli occhi. I suoi occhi erano belli e chissà se riusciva a tenerli aperti sott’acqua. Alla fine usciva vestita dal bagno e, prima di andarsene, controllava sempre la vasca dei girini. Sono la metà dell’ultima volta, commentava guardandomi. Anche io mi sentivo metà dell’ultima volta, e forse presto sarei scomparso del tutto e lei avrebbe continuato a fare i suoi lavori in giardino. Avrei potuto parlarle di tutto, di ogni cosa, delle rane, del perché era la prima ragazza che entrava in casa mia e la profumava di buono dopo tanto tempo, ma non ne vedevo il senso, e con la testa sott’acqua non mi avrebbe sentito. Sorridevo e rispondevo in quattro parole. Devi ossigenare l’acqua, sennò moriranno tutti, aggiunse allacciandosi le scarpe. Poi si legò i capelli con una fettuccia rossa, mise alcune cose nello zaino e mi guardò. Mi sentii inadeguato e presi un bel respiro per una nuova apnea. Venerdì non vengo, danno pioggia e un po’ d’acqua farà bene alle piante, ti confermo per lunedì. La caldaia si tacque e rimase solo il gocciolio della doccia, mi sedetti fuori, nel caldo di maggio, e aspettai venerdì, anzi no. Lunedì, in attesa di conferma.
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