Precarietà a tempo indeterminato
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recarietà a tempo indeterminato», così ab- ascesa delle conquiste sociali – dagli anni biamo titolato il seminario che Communia 50 alla fine dei 70 – e il ripristino, nelle inNetwork ha tenuto a Roma il 20 e 21 giugno tenzioni del capitalismo, della normalità 2014. Un appuntamento che ha cercato in- storica: il lavoro come assoluta variabinanzitutto di costruire uno sguardo di insieme sull’attuale com- le dipendente del capitale, la precarietà posizione di classe, sulla precarizzazione del lavoro, sulle scelte come condizione strutturale del lavoro, che si impongono per ricostruire una soggettività di classe. Par- l’aggressione ai diritti minimi (vedi Statutendo dalle tendenze statistiche e dalle dinamiche del capitale, to dei lavoratori) come regola. la discussione è stata ampia eppure solo propedeutica. Il semi- Questa ricerca e riflessione descrive un nario è stato per noi solamente un inizio, nell’ottica di recupe- paradigma che deve servire a orientarsi rare un ritardo e di dotarsi di un minimo di progettualità per nel groviglio dei nuovi equilibri del capiintervenire nel mondo caotico e solitario segnato dall’iniziativa talismo globale e nella crisi strutturale di classe. Questo è stato lo spirito con cui sono state approntate di quello che è stato definito movimento le relazioni introduttive, che pubblichiamo come contributo a operaio. Una fase si è chiusa e una nuoriprendere i fili della discussione e della ricerca. va è ancora tutta da inventare. In questo Quale sia il ruolo sempre più rinunciatario e gestionale del sin- interstizio abbiamo cercato di ragionare dacalismo ufficiale è ormai evidente dal mutismo che accom- sul significato di un nuovo sindacalismo, di esperienze che abbiamo chiamato di pagna Cgil, Cisl e Uil anche di fronte agli schiaffi sempre più pronunciati che Mat- mutuo soccorso e di autorganizzazione e autogestione, con riteo Renzi assegna loro – e soprattutto a ferimento agli albori della lotta di classe, per intervenire con lavoratrici e lavoratori. E lo si vede nella nuove strutture, nuove modalità, nuovi intrecci tra le diverse gestione quotidiana delle mille vertenze componenti del lavoro salariato tendenzialmente unificate dalin cui, spesso, il sindacato – pure così la comune precarietà. Un seminario non solo di analisi, quindi, importante per la tutela di diritti mini- non solo di riflessione ma anche orientato all’azione. L’espemi – viene visto dai lavoratori come una rienza viva dei prossimi mesi, e anni, ci dirà quanto questa elaborazione sarà stata utile, in particolare nell’approntare strucontroparte. Il nostro seminario, però, non si è concen- menti e lotte di difesa effettiva e quotidiana del lavoro nel pieno trato sulle dinamiche sindacali né sui vari dei conflitti scatenati dal capitale. La particolare esperienza di progetti di intervento in questa o quella si- Eataly, di cui abbiamo dato ampia informazione su communiagla. Nemmeno si è proposto di ricostruire net.org, offre delle indicazioni così come le lotte dei lavoratori un, ormai, mitico sindacalismo di base o migranti – sia sul territorio che in particolari settori economici parti di esso. Abbiamo voluto, invece, co- – e di quelli pienamente inseriti nel cuore del processo produtgliere la novità allarmante della precarietà tivo industriale. Anche per queste sue potenzialità, il seminario che si stabilizza, della chiusura della lun- è stato un bel momento di politica “comune” e come tale ve ne ga parentesi rappresentata dagli anni di offriamo i materiali introduttivi e alcune riflessioni a margine. ◀
Questa ricerca e riflessione descrive un paradigma che deve servire a orientarsi nel groviglio dei nuovi equilibri del capitalismo globale e nella crisi strutturale di quello che è stato definito movimento operaio. Una fase si è chiusa e una nuova è ancora tutta da inventare
La classe che cresce a sua insaputa
La moderna composizione di classe, il conflitto tra precarizzazione e aumento della conoscenza, la necessaria ricostruzione di un’alfabetizzazione primaria per riconoscere il rapporto di sfruttamento
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arlare di composizione di classe può divenire un esercizio conoscitivo fine a sé stesso, utile ad alimentare l’abbondante ricerca sociologica senza offrire avanzamenti all’iniziativa politica. Lo scopo del presente contributo è invece definire uno sguardo d’insieme alle tendenze della composizione di classe e alle dinamiche del capitale, con un approccio che richiederà sempre un approfondimento costante. I numeri del lavoro La classificazione delle forze lavoro non è difficile da farsi. I dati Istat riferiti al 2012 indicano una forza lavoro complessiva di 22,899 milioni di individui di cui 17,214 milioni sono lavoratori dipendenti, comprensivi dei lavoratori pubblici: 5,1 milioni sono occupati nell’Industria, poco più di un milione nelle Costruzioni, 11,6 milioni nei Servizi. La classificazione, basata sulle qualifiche contrattuali, individua 7,9 milioni di dipendenti come operai e 7,5 come impiegati. Il resto sono quadri, funzionari e altre qualifiche. Gli operai, dunque, intesi come qualifica rappresentano il 34% della forza lavoro complessiva (erano intorno al 45% negli anni 70) ma raggiungono il 45% del lavoro dipendente in senso strettamente inteso. Da notare, però, che solo il 22% della forza lavoro e il 29% del lavoro dipendente è occupato nell’industria in senso stretto, a sua volta formata da una miriade di imprese piccole e piccolissime. Solo il 30% della manodopera, infatti, è impiegato nell’industria sopra i 50 dipendenti. Per quanto riguarda la definizione di precarietà, invece, il monitoraggio realizzato dall’Isfol nel 2011 descrive una com- La precarietà del posizione della forza lavoro divisa in una maggioranza di 65% di lavoro, quindi, è contratti a tempo indeterminato una “parentesi e il restante terzo diviso tra: che dura molto a - contratti a tempo determinato lungo”, anche oltre (5,9%) i 10-15 anni, visto che - apprendisti (1%) - contratti a termine (inserimen- per effetto della crisi to, interinale, job sharing 2,4%) ritorna anche nella - collaboratori (5,8% tra cui i Co.co. fase di uscita dal co, i Co.co.pro. gli occasionali) - un generico 3,3% tra cui tirocini, mondo del lavoro, sopra i 50 anni stage e alternanza studio-lavoro - un 17,2% di lavoratori autonomi tra cui partite-Iva, soci di cooperativa, coadiuvanti familiari e Dei 22,9 milioni di lavoratori ocimprenditori. cupati, 13,4 milioni sono uomini e 9,5 donne a cui aggiungere, a La precarietà stabilizzata fine 2012, 2,7 milioni di persone Riepilogando, in Italia ci sono formalmente in cerca di occucirca 15 milioni di lavoratori con pazione (1,4 milioni uomini e 1,3 contratti a tempo indeterminato donne). e circa 3,5 milioni di lavoratori La tendenza è chiaramente indicon contratti molto differenziati cata dall’indagine Isfol già citata: tra loro ma tutti abbastanza pre- “Un dato per tutti [è che] la difcari (anche se molti collaboratori fusione del contratto per antosono di alta fascia e quindi pro- nomasia, quello da dipendente a tetti). Poi ci sono circa 3,9 milio- tempo indeterminato, si è dimezni di lavoratori autonomi tra cui zata in 10 anni”. Nel frattempo esistono ulteriori forme di lavo- “l’occupazione si è progressivaro parasubordinato (partite Iva, mente parcellizzata in forme conetc.). Dato da non trascurare in trattuali meno stabili e tutelate nessun modo è quello dei lavora- nel tempo”. Questo significa che tori stranieri: 2,3 milioni secondo “i giovani sono sempre più atipici i dati di Bankitalia. e la loro precarietà si prolunga nel
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tempo”. Il fenomeno del lavoro “non standard”, cioè quello diverso dal contratto a tempo indeterminato, come fase iniziale e momentanea della carriera è, per un ingente numero di persone, una parentesi che dura molto a lungo, anche oltre il 10-15 anni. A questi numeri, però, occorre aggiungere quelli relativi alla forza lavoro espulsa dal sistema produttivo. Non solo 3 milioni, circa, di disoccupati ma anche 3,2 milioni di inattivi, persone che hanno smesso di cercare lavoro ma che vorrebbero lavorare. Sei milioni su 23 milioni è più del 20%, una fetta della “classe” quasi sempre assente dalle priorità politiche. Si chiude una parentesi La precarietà del lavoro, quindi, è una “parentesi che dura molto a lungo”, anche oltre i 10-15 anni, visto che per effetto della crisi ritorna anche nella fase di uscita dal mondo del lavoro, sopra i 50 anni e anche meno quando si verificano le crisi aziendali. In realtà, la parentesi effettiva è la stabilizzazione. Il mondo del lavoro, infatti, torna a prima della parentesi storica nella storia del capitalismo occidentale dei “trenta gloriosi” (la fase di crescita dal ‘45 al ‘‘74 - che hanno permesso l’avanzata operaia degli anni 60 e 70). I rapporti di classe tornano alla loro normalità storica, la precarietà diventa, tendenzialmente, la norma del rapporto di lavoro e la capacità di comando del capitale, grazie anche alla sua invisibilità globale, si fa estrema. Utilizza tutti gli strumenti a propria disposizione, gli stati o gli organismi sovranazionali, l’azienda globale e quella settoriale/locale, la propaganda e la formazione. L’esempio di questa tendenza è dato dal processo di precarizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro che data dal 1997, anno del Pacchetto Treu, e arriva al Decreto Renzi-Poletti. Quest’ultimo più che aggravare una situazione già grave sancisce l’inelut-
tabilità di una linea economica: il mercato del lavoro va de-strutturato e riadattato a una domanda di lavoro che si fa strutturalmente saltuaria e incostante. L’esempio macroscopico di questa ipotesi è dato dai “mini-jobs” tedeschi, contratti di lavoro progettati per costruire una massa di manovra super-flessibile e precaria che si pensa stabilmente così. Lavorare con i “mini-jobs” infatti, significa non pensare di poter accedere a un contratto di livello superiore ma impostare la propria vita sulla base di quella tipologia contrattuale, di quei livelli di reddito e di quei ritmi di vita (servono almeno due mini-jobs da 4-500 euro l’uno per avere un reddito di povertà).
Sia con il pacchetto Treu che con la legge Biagi il lavoro a tempo determinato era pensato come ipotesi che prima o poi si sarebbe interrotta per permettere l’accesso a un contratto a tempo indeterminato. Oggi il lavoro precario è organizzato come forma stabile della relazione di classe, i due comparti vengono sganciati l’uno dall’altro e si costruisce un serbatoio di serie B che sarà sempre più voluminoso e importante a scapito del lavoro garantito e sicuro. Non solo, l’esistenza del secondo contribuisce a rendere meno stabile e certo il primo generalizzando la precarietà a tutto il mondo del lavoro. Da questo punto di vista, anche ipotesi
Le pagine di questo numero di Communia sono illustrate con i seguenti murales p. 1 INTI (Istanbul - Turchia) pp. 2-3 Agostino Iacurci (Lugano - Svizzera) pp. 4-5 Agostino Iacurci (Roma - Italia) pp. 6-7 Agostino Iacurci (Atlanta - Usa) p. centrale Natalii Rak (Białymstoku - Poland) pp. 10-11 Case Maclaim & Pixel Pancho (New York - Usa) pp. 12-13 Etam Cru (Lodz - Poland) p. 15 sainer (etam cru) (Lodz - Poland) p. 16 LIQEM (Roma - Italia)
La finanziarizzazione del capitale A fronte del processo di precarizzazione abbiamo un capitale che, per effetto della crisi di sovra-produzione, ha dirottato le sue risorse verso la finanza. Se negli Usa il tasso medio della produzione si collocava negli anni 60 tra il 5 e il 6 per cento, nel 2010 era sceso al 2; nei paesi europei, invece, è passato dal 10% a zero. Dai tassi di crescita del 5-6 e anche 8 per cento degli anni 60 nei paesi occidentali si scende al 3% degli anni 70 e all’1,5% degli anni 2000. Contemporaneamente, negli Usa il tasso medio di profitto ha toccato il picco del 16% nel 1966 per scendere al 10% del 1975. Gli utili che scarseggiavano nell’economia produttiva sono stati ricercati nella finanza. Mentre nel 1980 gli attivi finanziari mondiali erano all’incirca pari al Pil mondiale, nel 2007, alla vigilia della crisi, lo superavano di quattro volte (circa 240 trilioni di dollari contro 60). I soggetti da cui si estorce plusvalore si estendono a figure professionali fino ad allora rimaste in disparte. Il mondo finanziario, quello dei servizi, l’immobiliare, tutto diventa un potente strumento di sostegno ai margini di profitto complessivi. Le filiere si allungano e si diversificano.
come il contratto unico a tutele crescente sarebbero progressive e migliorative della situazione attuale. Non è un caso se, anche se sbandierato, viene osteggiato dagli imprenditori e, di fatto, non sarà applicato mai. Lavoratori, conoscenza, coscienza La chiara tendenza alla precarizzazione del lavoro si coniuga con un altro elemento, meno quantificabile sociologicamente e più empirico (quindi, più discutibile): l’affermazione di uno strato di lavoratori della conoscenza. Su questo aspetto la letteratura è ormai sterminata ma soprattutto è importante l’identificazione po-
litica di alcune aree storiche della sinistra (ex autonomia). I fatti, finora, sembrano aver dimostrato che uno strato, politicamente sensibile, di lavoratori della conoscenza non si è affermato come avanguardia trainante di un moderno proletariato e che attorno a esso non si è verificata nessuna nuova lotta di classe né il capitalismo è riuscito ad affermare un nuovo modo di produzione (vedi Formenti, Utupie letali). Però questa realtà esiste e ha agito in due direzioni: ha alimentato la catena del valore garantendo consistenti aumenti di produttività e, quindi, di sfruttamento e ha generato una funzione di traino rispetto a tutto il mondo del lavo-
Centralità del debito Emblema del moderno giogo a cui il capitale sottopone una popolazione sempre più ampia è la questione del credito, e quindi del debito, ipotecario nei confronti delle banche. Se prima, per erogare un mutuo ipotecario, si cercava l’assoluta affidabilità degli individui e delle famiglie, a un certo punto le banche hanno interesse a erogare credito a chiunque, alimentando i flussi di cassa anche tramite strumenti collaterali (Cdo, Cds, e tutto quello che la finanza ha L a stabilizzazione saputo inventare). Sopra la testa dell a prec arietà di un semplice mutuo si formano entra in titoli derivati, certificati assicurativi, derivati con tutto il corollario di conflitto, commissioni che ne discende. Allo quindi, con stesso tempo, per alimentare quel’accresciuto sta attività forsennata, le banche grado di si indebitano a loro volta con altre banche in un crescendo di dimenconoscenza sioni epocali. Nel 2007 il valore dei lavoratori complessivo dei derivati a livello e l avoratrici di mondiale superava i 700 trilioni di questo secolo dollari mentre il valore di mercato delle attività da loro rappresentate non superava i 50 trilioni. ro. Non esiste, cioè, solo una componente che ha realizzato l’esplosione L’operazione ha un impatto indelle grandi, e piccole, compagnie del “capitalismo informazione” ma negabile sul fronte della lotta di una quantità di conoscenze, sempre più ampie, diffuse, sia pure confu- classe, sia pure al contrario. Tra samente, che rendono la moderna classe molto diversa dall’immagine il 1976 e il 2006 il rapporto tra saplastica che la tradizione comunista ne ha fatto. Una classe in cui, ad lari e Pil, in Italia, passa dal 68% esempio, si accorcia la distanza tra “operai” e “quadri” anche perché si al 53%. Una perdita di 15 punti che, a valori attuali, equivale a fa diffondendo lo schema di lavoro a “team” (vedi Fiat). Il moderno proletariato, quindi, ha flussi di coscienza molto più in- 240 miliardi di euro. Negli Stati trecciati e complessi: forma la consapevolezza di sé sul posto di lavo- Uniti i salari più bassi sono fermi ro, fuori, sulla “rete”, mentre consuma o si informa su cosa consuma, al 1973 in termini reali: nel 2006 etc. Se è vero che “la società della conoscenza” non ha innescato un erano intorno ai 30 mila dollari nuovo “modo di produzione capitalistico”, è vero però che il capita- l’anno, sotto il livello di trent’anlismo globale, le sue relazioni di classe, le sue contraddizioni sono ni prima mentre le famiglie fortemente permeati dall’era della conoscenza. La stabilizzazione dell’1% più ricco percepivano 1,2 della precarietà entra in conflitto, quindi, con l’accresciuto grado di milioni di dollari, cioè 40 volte il conoscenza dei lavoratori e lavoratrici di questo secolo. Le due ten- salario medio. Scendono i saladenze sono opposte e, ovviamente, generano una moltiplicazione di ri, aumenta il debito, i creditori contraddizioni (la conoscenza può svilirsi al crescere della precarietà) sono gli stessi padroni che prima ma consegnano una “classe” che appare più mutevole e dinamica di offrivano un lavoro e ora offrono, quando va bene, un mutuo. ▷ quanto possa sembrare in superficie.
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La classe che cresce a sua insaputa
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Un capitale gassoso ll capitale, dunque, almeno nell’occidente capitalistico, si ritira parzialmente dalla produzione per alimentare un circuito finanziario perverso che, al tempo stesso, alimenta l’accumulazione e la crescita dei profitti. Si globalizza senza sosta, è sempre più nelle mani di azionisti “invisibili” invece che in quelle delle grandi famiglie proprietarie. Si pensi al ruolo dei manager, azionisti o meno. Gli Stati sembrano avere un ruolo di secondo piano che fa sì, ad esempio, che si affermi il “corteggiamento” del capitale per attirarlo in un determinato paese tramite misure di riduzione fiscale – e quindi di aumento del debito – e il consolidamento dell’assioma per cui “occorre obbedire ai mercati” oppure “ce lo chiede l’Europa”. Anche quando ritorna nella produzione, manifatturiera o di servizi, il capitale lo fa nella forma più anonima possibile, estendendo il capitalismo manageriale e l’azionariato diffuso, riducendo la riconoscibilità dei borghesi in carne e ossa (Marchionne viene identificato con la Fiat più di quanto lo siano gli Agnelli). Il capitale si rende così sempre più inafferrabile, nascosto dietro il volto dei “manager azionisti”. La sua libertà di movimento alimenta questa condizione mentre gli Stati vengono oltremodo delegittimati. Al contempo, la “classe” è stabilmente precaria. L’impatto di questa tendenza è stato micidiale: alla gassosità del capitale è corrisposto a) il sezionamento costante delle categorie del lavoro classico; b) un’estensione delle figure sottoposte alla catena di valorizzazione del capitale; c) un’estensione della soggiacenza a quest’ultimo tramite i meccanismi finanziari.
senza però averlo mai affrontato realmente e ponendo così le basi della propria emarginazione.
Il modello dell’alveare La finanziarizzazione conduce a un processo di concentrazione progressiva del capitale, su scala nazionale e internazionale, che procede di pari passo con la segmentazione delle funzioni e la moltiplicazione dell’indotto. In Italia, ancora negli anni 80, si contavano almeno una ventina o trentina di grandi gruppi capitalistici, pubblici e privati, dai fatturati miliardari. Oggi si arriva a circa dieci. In parte è l’effetto di una “spoliazione” straniera ma La “classe” quindi, soprattutto dei processi di concentrazione a livello bancario, è spalmata nelle tante piccole industriale, finanziario. La concentrazione avviene, ov- imprese, spesso viamente, sul lato della proprietà delocalizzate in aree mentre su quello della filiera si può assistere, contemporaneamente, non molto distanti a una parcellizzazione produttiva (Balcani, nord Africa) che replica il modello dell’alveare: ma fortemente un nugolo di “api” operose lavounificata nella rano per la stessa “regina” e sono condannate ad aumentare a di- catena di produzione smisura i propri livelli di produt- del valore tività pena la sparizione. Il tessuto di piccola e media impresa che impera in Italia si presta perfetta- produttivo, con la loro espansione mente a questo schema che, lungi su aree sovranazionali ma regiodall’ipotizzare una nuova realtà a nalmente definite. La produzione capitalismo diffuso (il quarto ca- globale continua a concentrarsi pitalismo di cui parlava Aldo Bo- in tre grandi poli mondiali – l’est nomi) serve, invece, un apparato asiatico, l’europeo occidentale e fortemente centralizzato basato il nord-americano – con l’Italia su tanti sotto-insiemi locali, regio- cerniera tra la centralità tedesca nali, distrettuali. È sufficiente che e i flussi nord-africani e mediterchiudano colossi come Lucchini ranei. o Electrolux per mandare in tilt La “classe” quindi, è spalmata un’intera provincia italiana (nel nelle tante piccole imprese, spescaso, Livorno e Pordenone: ma so delocalizzate in aree non moll’esempio può continuare con An- to distanti (Balcani, nord Africa) cona, Merloni, Bari, Natuzzi, To- ma fortemente unificata nella rino, Fiat, etc.). L’ultimo rapporto catena di produzione del valore. del Centro studi Confindustria, Il sindacato tradizionale accen“Scenari industriali”, sottolinea na qui e là al problema – l’ipotesi l’allungamento delle linee di forni- di sindacato unico dell’industria, tura, a monte e a valle del sistema contrattazione di filiera, etc. –
Manifattura con servizi Il rapporto di Confindustria è utile anche per affrontare un dilemma storico e cogliere una novità rilevante ai fini del conflitto. Il dilemma riguarda il ruolo dell’industria manifatturiera, la sua centralità e il ruolo del terziario. Come abbiamo visto all’inizio, infatti, la quota di addetti del sistema dei servizi, circa 11 milioni, è più che doppia degli addetti all’industria in senso stretto. Da decenni, questo dato è visto come la prova del declino del settore industriale, almeno in Europa, soppiantato dalle nuove economie, del terziario o, più recentemente, della conoscenza. Secondo Confindustria, invece, “la manifattura emerge come centrale all’interno degli scambi tra i diversi comparti dell’economia” e dunque “costituisce il cuore delle interconnessione nel sistema degli scambi”. Per sostenere questa affermazione il Centro studi confindustriale evidenzia l’insieme delle relazioni reciproche tra i vari settori in cui la manifattura emerge nettamente come l’ambito primario. La seguono, per importanza, i servizi legati al Commercio, quelli legati al Business e, qui la novità, la Logistica. In questo schema i servizi rappresentano “una quota della produttività della manifattura”. Le imprese specializzate nel terziario, insomma, gravitano e vivono attorno all’industria tradizionale e, in gran parte, ne costituiscono una specializzazione o esternalizzazione di fasi produttive. La deindustrializzazione,
quindi, è solo “apparente” perché, in sostanza, esiste ancora, anzi cresce, una forte integrazione tra manifattura e servizi i quali, rileva Confindustria, non possono, da soli, sostenere totalmente un’economia nazionale come è stato sostenuto vigorosamente nel mondo accademico. Il testo si riferisce all’ipotesi secondo la quale le economie occidentali starebbero delocalizzando le produzioni industriali verso i paesi emergenti per fondare il proprio sviluppo solo sull’economia della conoscenza e dei servizi ad alto valore aggiunto. Solo che la “delocalizzazione fisica del processo produttivo” alla lunga si trascina dietro anche “parti di servizi a esse legate” perché, nonostante le nuove tecnologie, la “contiguità fisica” tra servizi e industria è ancora decisiva (da qui lo sviluppo di macro-aree regionali). La delocalizzazione, alla lunga - come avvenuto con l’emersione, nel sud-est asiatico, dell’industria delle batterie al litio - “tende a coinvolgere l’intera filiera, depauperando il bagaglio di know-how manifatturiero detenuto dal sistema ‘locale’ di produzione”. Da qui, l’esempio degli Stati Uniti che hanno ripreso a “reimportare” produzione industriale come dimostra, del resto, il caso Chrysler e General Motors. Classe, la crescita a sua insaputa Tutto questo ha un impatto evidente sulle dinamiche della classe, le sue relazioni interne e il suo peso specifico. La produzione si centralizza e si diffonde, le scelte vengono verticalizzate ma la produzione si allunga anche a livello sovranazionale – sia pure
con concentrazioni regionali e distrettuali – le fasi si diversificano tra la produzione in senso stretto e i servizi che le ruotano attorno. Servizi “a monte” – ricerca e sviluppo, design, consulenza – e “a valle” – distribuzione-logistica, commercializzazione-marketing. Servizi che sono realizzati direttamente dalle imprese manifatturiere – per il 6% del loro fatturato complessivo – oppure vengono poste fuori dal perimetro della fabbrica. L’impresa manifatturiera cresce ovunque nel mondo – tra il 2000 e il 2011 il tasso di crescita è stato del 36% – ma non in Italia che, nello stesso periodo, ha conosciuto un vero e proprio “declino” con una perdita del 25% del proprio potenziale produttivo lasciando a casa un milione di addetti. Torna dunque lo schema dell’alveare con una miriade di centri di produzione, collocati in settori diversi, che concorrono a formare la stessa catena del valore. Manifattura, logistica, servizi per il commercio, distribuzione e così via hanno tra loro una relazione intima ma sempre più sfuggente. La classe cresce a sua insaputa. Se prima, ad esempio, la rete della distribuzione commerciale si avvaleva del classico negozio sotto casa, con la formazione di una classe intermedia di piccoli commercianti, oggi quel servizio viene effettuato dal conducente del furgone di consegna merci la cui società ha come committente Amazon o Ikea, che lavora a ritmi crescenti, con retribuzione minima, spesso con contratti precari. Tra questa figura e la fabbrica-madre ci sono poi i magazzini della logistica che impiegano manodopera
straniera, ultra-precaria, etc. Le varie figure proletarie non si rapportano in nessun modo, spesso sono sindacalmente relazionate a categorie diverse mentre lavorano per l’unica catena. L’unità resta il problema di fondo della moderna lotta di classe. Ma l’unità non si fa per decreto. La politica del capitale ll fenomeno di finanziarizzazione del capitale e di sbriciolamento dell’identità della classe lavoratrice sembrano coincidere con una riduzione del controllo politico e quindi con l’inutilità dell’azione politica. Il problema si è posto già all’epoca del movimento antiglobalizzazione con l’ipotesi, rivelatasi poi inefficace, di una contestazione diretta agli organismi sovranazionali. L’esperienza ha dimostrato che il capitalismo globale non ha un centro mondiale di comando politico né, tantomeno, un fantomatico “Impero” che lo sovrasta. Allo stesso tempo gode di unità ideologica, un discorso unitario che regola i suoi diversi e molteplici centri di comando. Si presenta come una rete, con conflitti interni, statuali e inter-aziendali e con mille filamenti disorganici a cui sono collegate le forze sociali. Per agire in questo contesto non può essere minimizzata la dimensione politica del neoliberismo, cioè la formula ideologica con cui si è accompagnata la trasformazione finanziaria. Come scrivono Pierre Dardot e Christiane Laval, ne La nuova ragione del mondo, il liberismo non è semplicemente l’approdo inesorabile di un’evoluzione economica data ma una precisa scelta politica.
Quella che può essere definita “la grande svolta” di inizio anni 80, non è la “ritirata dello Stato” dall’economia e tanto meno un semplice “ritorno al mercato” ma un “nuovo impegno politico dello Stato”, un “disegno strategico” per ridurre le tasse – da qui l’esplosione del debito – ridurre la spesa pubblica, cedere ai privati le imprese pubbliche. Se nei “trenta gloriosi” si era determinato il “compromesso socialdemocratico”, il “compromesso neoliberista” ha fondato una strategia in grado di ripensare i rapporti sociali a cominciare dal ruolo “disciplinare” dell’apparato statale. La “svolta” non costituisce, spiegano ancora Dardot e Laval, un adattamento alle trasformazioni interne del sistema capitalista ma una “reazione-adattamento a una situazione di crisi”, quella degli anni 70, per rispondere al calo molto sensibile dei tassi di profitto. Mentre il capitale ha trasformato il terreno di formazione di margini di profitti adeguati alle proprie aspettative, sul piano politico si è determinato un intero apparato di “servizio” in grado di supportare questa esigenza. Con le scelte politiche, vedi Thatcher-Reagan, con l’ideologia – “il capitalismo come fine della storia” – con la lotta di classe al contrario, generando, cioè, delle sconfitte durissime contro le conquiste degli anni 60 e 70. In questo processo ha giocato un ruolo decisivo la vecchia socialdemocrazia diventata social-liberismo al servizio della modernizzazione (da Blair a Schroeder all’Ulivo italiano, compreso Renzi l’epigone).
L’unità è un progetto In questa situazione, la “ricomposizione dell’unità di classe” non può essere intesa come una giustapposizione di diverse identità, collocazioni, condizioni di lavoro come se si trattasse semplicemente di comporre un mosaico o un puzzle. Non si tratta di realizzare un’aritmetica della riunificazione. Così come occorre rifuggire dalla tentazione di scomporre e ri-definire costantemente le diverse figure sociali nello sforzo di individuare la soggettività centrale attorno a cui “ricomporre”. A questa tentazione è sembrato cedere anche Toni Negri quando ha ideato la categoria della moltitudine come furba definizione per rinominare la classe nella sua attuale conformazione. Il problema della moltitudine non Le varie figure stava nell’ipotesi di scavalcare il concetto di classe – per quanto proletarie non la sua definizione appaia una si rapportano sfera liscia rispetto alle incre- in nessun modo, spature della categoria di classe spesso sono – quanto la pretesa, rivelata in seguito, di incastonarvi dentro sindacalmente una nuova centralità, quella del relazionate “cognitariato”, incaricata di so- a categorie stituire la vecchia centralità opediverse mentre raia. Questa ipotesi si è rivelata fallimentare. Il cognitariato, pur l avorano per importante e vitale nei processi l’unic a c atena di accumulazione del capitale, non ha assunto una dimensione tale da far ruotare attorno a sé operaia”, pur in forte diminuziol’intera classe dei lavoratori. ne, sia oggi comunque la comIl problema potrebbe riproporsi ponente omogenea più rilevante, anche se, estendiamo la casi- non esiste una ipotesi praticabile stica dei soggetti antagonisti al di centralizzazione dell’intero moderno processo di accumu- proletariato attorno ai suoi molazione. La finanziarizzazione vimenti, ai suoi ritmi e alle sue si porta dietro, infatti, categorie irruzioni sulla scena della lotta come “l’uomo indebitato”, vitale di classe. Questo non vuol dire e significativa a cui si possono sottovalutarne le potenzialità e sommare ulteriori sezioni come la capacità di conflitto. In gran il “securizzato” o il “mediatizza- parte delle vertenze degli ultimi to” (ancora Negri). anni, sono stati proprio gli operai In realtà, non esiste più una com- a condurre le iniziative più dure – ponente “centrale” del proletaria- Alcoa, Electrolux, Lucchini, Ilva, to. La dinamica politica che si è Fiat, Indesit, l’elenco è davvero sviluppata nei punti alti della sto- lungo – ma spesso su lotte in diferia del movimento operaio non sa del proprio posto di lavoro con è riproducibile per inerzia o per scarsa capacità di espansione. ripetizione. Per quanto la “classe Questo non vuol dire, ovviamen-
te, che non bisogna analizzare a fondo le modificazioni strutturali dei processi di accumulazione alla ricerca di linee di fratture, di tendenze conflittuali, di settori aggregabili e coinvolgibili in un processo di lotta. Quanto fatto con il settore della Logistica è importante e va dato atto a chi ci ha puntato di aver colto una contraddizione esplosiva. Un settore sempre più decisivo, ad esempio, è quello dell’elettronica il cui peso nella produzione manifatturiera globale è passato in dieci anni dal 4 al 7,4% mettendosi direttamente alle spalle dei settori più rilevanti (Alimentazione, 12%, autoveicoli, 9%, metallurgia, 8%). Un settore complesso in cui la produzione è effettivamente delocalizzata (Apple), in cui il ruolo dei “cervelli” è decisivo e in cui la distribuzione avviene in forme differenziate (tramite Amazon, ad esempio, ma anche con il modello-Trony). Una moderna unità “proletaria”, in ogni caso, richiede oggi un processo politico analogo e speculare a quello di cui si è dotato il capitale agli inizi degli anni 80. Anche sul piano della coscienza “per sé” si tratta di operare una “grande svolta” di portata analoga a quella compiuta dal capitale con il “compromesso neoliberista” e individuare la rivendicazione politica “tout court” che possa attrarre, come una calamita sospesa nel cielo, tutte le variabili sociali. Questa tesi non presuppone, per citare le osservazioni di Bensaïd, che la classe sia “una persona” (Proudhon), cioè un soggetto indistinguibile da identificare nel Partito o, peggio, nello Stato. ▷
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La molteplicità di classe è un dato anagrafico inconfutabile ed è vero, come spiega ancora Bensaïd, che l’unità è figlia della lotta, è cioè un dato evenemenziale. Il collante di questa unità è però il senso politico, di sé e dei compiti. Non nel senso di una propaganda da portare nelle lotte con la pretesa di una incarnata visione globale. Da questa impostazione occorre uscire definitivamente. Quando affermiamo che il movimento operaio che abbiamo conosciuto storicamente non esiste più non diciamo che non esiste una classe e un movimento di questa che possa lottare per la propria emancipazione. Semplicemente, sosteniamo che occorre costruire un “nuovo movimento operaio” il quale, naturalmente, assumerà nomi, profili, forme oggi poco immaginabili. Il progetto politico di fondo è questo e le sue avvisaglie noi le rintracciamo, ad esempio, in quello che è avvenuto negli ultimi anni con il movimento degli Indignados in Spagna, nelle evocazioni suscitate da Occupy negli Stati Uniti, soprattutto dove ha avuto impatto sulle condizioni del moderno lavoro, così come le rintracciavamo nel movimento “no-global” all’inizio degli anni 2000. Il filo conduttore di questa ricerca resta lo stesso e l’impatto di Podemos in Spagna conferma la validità di una intuizione: solo da una nuova soggettività proletaria, inedita e capace di legare soggetti diversi, può germogliare un nuovo progetto politico. L’alfabetizzazione primaria Un tale progetto politico passa dunque per il riconoscimento che l’elemento “sindacale”, “economicista” di base è un passaggio ineliminabile di una identificazione del soggetto da parte del soggetto medesimo. Serve l’alfabetizzazione primaria per riconoscere il rapporto di sfruttamento tra salariato e capitale. Questo riconoscimento, per ripercorrere Il Capitale di Marx, come fa Bensaïd, passa per il rapporto con il singolo capitalista (il tempo di lavoro ne è un punto chiave), poi il rapporto con il capitale nel suo insieme e infine il rapporto di produzione. Se vuole giocare una partita efficace il moderno proletariato deve saper riconoscere il rapporto complessivo di produzione e quindi dotarsi di una “teoria complessiva”. Ma questo, al tempo della disfatta del movimento operaio, passa per il riconoscimento di tutti i gradi a cominciare dalla lotta contro il singolo capitalista. Non serve una teoria generale, insomma, per riconoscere nell’Ikea o nelle Coop o, ancora in Eataly, l’avversario di classe. La propaganda, per quanto intelligente e ben fatta, rischia di rimanere muta nel contesto attuale e la stessa rappresentanza politica si presenta come un diversivo. Quello che noi oggi facciamo, quindi, è ribadire l’esistenza di una classe proletaria che nello sviluppo capitalistico odierno si è ampliata fino a lambire figure che un tempo stavano “dall’altra parte” (falso lavoro autonomo, quadri, distribuzione). La sua possibilità di giocare una partita “antagonista” è data dalla sua capacità di darsi un “progetto”. Una volta era il comunismo, oggi è necessario ancora partire da una lettura analitica delle moderne trasformazioni del capitale e una ricerca sul soggetto medesimo in grado di fissarne la collocazione nello scontro di classe. I processi possono essere due: • innanzitutto lavorare per il riconoscimento della propria collocazione nel rapporto di classe. Alcune realtà lo hanno ancora chiaro e questo rappresenta oggi il motivo dell’anomalia e della specificità di realtà come non esiste più la Fiom o di quelle più vitali e combattive del sindacalismo di una componente base (logistica). L’obiettivo può “centrale” del essere sintetizzabile nella ri- proletariato. La cerca dell’esperienza esemplare dinamica politica in grado di rappresentare, con la lotta e la vertenza, i rapporti che si è sviluppata esistenti. Quanto fatto all’Ikea nei punti alti o sul terreno della Logistica, va della storia del in questa direzione. La vertenza movimento operaio esemplare va intesa in questo senso, come occasione per rive- non è riproducibile lare il rapporto di classe. In que- per inerzia sto senso, va riconosciuto che quella della Fiom contro la Fiat ha svolto una funzione decisiva e di ricostruire l’accumulazione al di là degli errori, della natura originaria delle forze di classe. del sindacato o dei risultati rag- • Il nostro secondo asse di lavoro, giunti. L’attacco di Marchionne che ha l’ambizione di collegare costituisce uno spartiacque per- l’alfabetizzazione classista con ché determina un arretramento la costruzione di un orizzonimportante dei diritti acquisiti te più ampio, è quanto è stato (contratto nazionale) e gli effet- sperimentato con Ri-Maflow. ti della sua mossa si stanno regi- L’occupazione della fabbrica di strano in molte altre categorie. Trezzano e l’avvio di un dibattiLo scontro che ha visto in cam- to, ampissimo, sull’autogestione po la Fiom è stato paradigmati- operaia è un patrimonio da cuco di una volontà di resistenza rare, coltivare ed estendere, non (e quindi di internità alla classe con l’illusione di trovare una via d’uscita alla crisi o una risposta in sé). • In una fase di risorse scarse, alla decomposizione del moviquesta strada appare quella più mento operaia ma di far germiutile all’accumulo di esperienza, nare un dibattito progettuale. Il alla possibilità di giocare un ruo- fatto di riprendere la tematica lo attivo nello scontro di classe comunista sul versante dell’au-
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togestione costituisce un terreno di lavoro, parziale ed embrionale, che permette però di toccare i temi dell’alternativa di società, dell’organizzazione della produzione, del rapporto tra lavoro e democrazia in termini nuovi per lo meno nel contesto italiano. Questo rappresenta allo stesso tempo un atout ideologico e il filo di una tela di ricostruzione sociale. La strada dell’alternativa oggi può passare per questi vicolo, sicuramente stretto ma creativo. Una strada densa di possibilità che vanno declinate in tutte le varie forme possibili. La Rete di mutuo soccorso “adotta una lotta” In questo senso acquista un valore politico generale il progetto del Mutuo soccorso. È questa infatti l’allusione alimentata da RiMaflow per costruire un campo della solidarietà “di classe”, del lavoro in cui ridefinire appartenenze e progetti in comune. Per questo il nostro progetto può essere quello di una vera e propria Rete di Mutuo soccorso al cui interno far vivere un embrione di attività sindacale strettamente connessa all’attività complessiva. Non dobbiamo far nascere l’ennesimo sindacatino di classe ma un progetto, uno spazio più largo fatto di esperienze autogestionali, progetti di solidarietà classista, mutuo soccorso. Quello che ci proponiamo, quindi, è di realizzare una ampia rete in cui far vivere esperienze di lavoro in comune, servizi di assistenza mutua (legale, migranti, sindacale, fiscale), scambio “equo e solidale” di prodotti (a partire dai cibi senza sfruttamento), attività di solidarietà primarie. Anello prezioso della Rete è un “sindacato di mutuo soccorso”. Non l’ennesima sigla da affiancare alle altre in azione ma nodo di una Rete più ampia – questa si inedita – in cui abbinare l’azione quotidiana e vertenziale sui luoghi di lavoro con la traduzione operativa del concetto di mutuo soccorso: adotta una lotta. Le lotte da adottare sono quelle “esemplari” che possono realizzarsi o scaturire da un’iniziativa soggettiva. Sostenere la sindacalizzazione dei lavoratori di Eataly o delle Coop, organizzare la vertenza dell’Istat, costruire una presenza presso grandi aziende dell’elettronica o dell’alimentazione, ripartendo dal lavoro di mutuo soccorso e di solidarietà. Al tempo della ‘precarietà stabilizzata’ la ricostruzione di un intervento organico nel mondo del lavoro passa per le dosi di “stabilità”, garanzia, supporto e assistenza che saremo in grado di dare. Sarebbe questa, del resto, la sfida anche per il movimento sindacale organizzato sempre più screditato e delegittimato nei luoghi di lavoro (come dimostra il recente congresso Cgil). La sua sordità assoluta a questa tematica ne conferma non solo la complicità con gli assetti dominanti ma anche la sua, ampia, irrecuperabilità a un progetto di ri-costruzione.
La classe che cresce a sua insaputa
Un programma politico sindacale Serve una visione delle cose e un’ipotesi progettuale che guardando agli obiettivi di fondo consideri con ponderazione gli attuali rapporti di forza e il dibattito attuali. Il nostro programma di lavoro può oscillare all’interno di coordinate date da alcune coppie: a) debito-finanza; b) profitti-salari; c) welfare-reddito; d) diritti-mutuo soccorso; e) genere e classe; f) migranti e classe; g) democrazia-rappresentanza. Debito e finanza. Si tratta di affrontare la finanziarizzazione dell’accumulazione colpendo l’anello debole. Il debito. Ma non va sottovalutata la proposta della patrimoniale mondiale alla Piketty. Profitti e salari. Il gigantesco ribaltamento dei rapporti di forza ha prodotto uno spostamento enorme di risorse. Il dato non può essere aggirato anche se la quota profitti da riconquistare non è sempre solo negli utili aziendali. La contrattazione aziendale è un passaggio importante ma la contrattazione nazionale, ed europea, va ripensata per riconquistare fette di salario, e di diritti, sul piano globale. In questa chiave la contrapposizione tra contratto e salario minimo legale è assurda: un salario minimo, di proporzioni significative (a Seattle, negli Usa, si propongono i 15 dollari l’ora), non può che innescare un circolo virtuoso anche a livello contrattuale. Precarietà-diritti. La stabilizzazione della precarietà è un progetto di fase. Occorre contrapporgli una risposta altrettanto netta: la stabilizzazione del contratto di lavoro. Il contratto unico a tutele crescente (quello vero, scimmiottato da Renzi che, non a caso, non lo realizza) in cambio del quale eliminare le differenti tipologie a tempo determinato, interinale, etc., va in questa direzione. Welfare-reddito. Il reddito sociale è ormai una necessità non rinviabile. Da retribuire con l’imposta patrimoniale. Un punto a parte meritano le pensioni viste come tematica relativa solo al “lavoro garantito”. Una battaglia contro la precarietà, invece, è anche quella che ripristina il principio di solidarietà di classe a partire dalla condivisione delle regole per il salario differito rappresentato dalla pensione e dall’aumento della massa dei saacquista un lariati per garantire le pensioni valore politico future. generale il Diritti-mutuo soccorso. La pratica di mutuo soccorso non è “susprogetto del sidiaria” all’erosione del welfare. Mutuo soccorso. Se così fosse sarebbe un autogol. È questa infatti Dobbiamo chiedere diritti sol’allusione ciali, garanzie fondamentali da estendere sia a livello nazionale alimentata da Rieuropeo. Il mutuo soccorso Maflow per costruire che è però una pratica “esemplare” e un campo della “organizzativa” per rivendicare solidarietà “di classe” quei diritti e un passaggio per ribadire i meccanismi fondamentali della “solidarietà di classe” come superiore all’idea dell’individualizzazione e della competizione senza freni. In tal senso va la rivendicazione di finanziamenti pubblici per progetti di auto-recupero, autogestione e riappropriazione produttiva (Rimaflow per tutti, tutti per Rimaflow). Genere e classe. La sproporzione in termini di occupazione e salari tra uomini e donne resta ancora un’ingiustizia evidente. La parità sul piano del lavoro è ancora una conquista da ottenere e il recupero del gap tra i due “generi” un obiettivo significativo. Migranti e classe. L’altro divario è in relazione al lavoro migrante. La richiesta del diritto di cittadinanza, contro l’imposizione della clandestinità serve a unificare il mondo del lavoro e a ripristinare una solidarietà di classe che non può che essere inter-nazionale Democrazia e rappresentanza. Le lotte più efficaci degli ultimi anni si sono fatte anche all’insegna della democrazia e del diritto di auto-rappresentarsi. Oppure, spezzando il monopolio confederale (vedi autotrasporto a Genova). Il Testo unico di Cgil, Cisl e Uil costituisce un passaggio all’altezza della crisi perché sequestra definitivamente la rappresentanza ed espelle dalla contrattazione le esperienze alternative. Legge sulla rappresentanza, autorganizzazione, autogestione e democrazia diretta divengono tasselli di un’unica strategia. ◀
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e crisi economiche degli anni 70, e l’obbiettivo di indebolire il movimento operaio dopo la stagione di lotte iniziata nel ’69, hanno imposto un cambiamento delle forme di produzione, con ristrutturazioni aziendali e scelte istituzionali volte ad un utilizzo più intenso di lavoro in forme intermittenti. Gli interventi legislativi susseguitisi hanno introdotto rapporti di lavoro “flessibili” prima nei settori di produzione più intellettualizzati, per poi affermarsi come condizione comune della forza lavoro. Eccone un breve elenco: 1. Nel 1977 arrivano i “Provvedimenti per l’occupazione giovanile” con la Legge 285: sono i primi progetti regionali di formazione professionale, con le immancabili facilitazioni e detrazioni per le aziende che assumono giovani. Con questo provvedimento fa il suo esordio il contratto formazione/ lavoro; 2. La Legge 196/1997, più nota come Pacchetto Treu, è il provvedimento emblematico. L’apprendistato viene portato a 24 anni (26 per il sud-Italia), si prosegue la regolazione del lavoro a tempo parziale e dei Cfl (in calo nella seconda metà degli anni 90) e si istituiscono il lavoro interinale e le tante forme di contratti a termine (co.co.co. poi co.co.pro.); 3. Il decreto Ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999, “Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei”, meglio noto come riforma Berlinguer-Zecchino del 3+2, fa diventare la formazione universitaria ufficialmente professionalizzante (con la triennale), i soggetti privati sono chiamati a contribuire alla definizione dell’offerta formativa (come già auspicato dalle riforme Ruberti) e il lavoro gratuito di stage e tirocini diventa parte integrante della formazione universitaria. L’Autonomia didattica e finanziaria degli Atenei, è vista come funzionale ad attivare contratti, convenzioni, consorzi o trovare semplici contributi privati. Attraverso il principio della concorrenza l’obbiettivo è quello di costruire luoghi di formazione di serie A e B in grado di selezionare gli studenti, avvicinando i percorsi formativi alle esigenze di mercato. Una università-fabbrica, dove la merce della fabbrica è lo studente, mentre le aziende diventano clienti, pronte ad acquistare tale merce “a prezzi vantaggiosi”; 4. La Legge 30/2003, nota come Legge Biagi, moltiplica le forme di contrattuali flessibili (diventano 45), istituisce il contratto d’inserimento e prevede l’apprendistato anche per i laureati; 5. Arrivano poi il testo unico sull’apprendistato del 2011 e la legge 92/2012, la cosiddetta Riforma Fornero, che obbliga la Conferenza Stato Regioni a dettare le linee guida in materia di tirocini. La novità più importante e
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lavorare gratis
il paradigma dell’“economia della sPeranza”, di cui le vittime sono i “giovani” e le armi gli stage e i tirocini
che genere di lavoro
classe, genere e razza si intrecciano nelle relazioni di potere del capitalismo, a cui va contrapposto un Progetto comPlessivo di liberazione
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in italia chi fa uno stage ha solo il 6% di Probabilità in Più di trovare lavoro rispetto a chi non lo fa
controversa riguarda l’indennità di partecipazione prevista per stagisti e tirocinanti (a carico delle regioni) che varia da regione a regione (da un minimo di 300 a un massimo di 600€ in Piemonte e Abruzzo). 6. Il Dl Poletti 34/2014, estende da 12 (legge Fornero) a 36 mesi la durata di un contratto a-causale, rinnovabile con un tetto di 5 proroghe. La ratio è la precarizzazione selvaggia dei contratti a termine. Completano questo quadro due recenti interventi dell’Unione Europea, che sanciscono la vittoria ideologica dell’idea di lavorare gratis e formarsi tutta la vita: una raccomandazione Ue del 10 marzo legittima la non retribuzione dei tirocini, superando la riforma Fornero che stabiliva un’indennità obbligatoria per quelli extracurriculari, ossia svolti oltre il periodo di studi universitari. La Youth Guarantee invece è il Piano Europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile (applicabile ai giovani tra i 15 e i 29 anni), previsto per i paesi con un tasso di disoccupazione giovanile al di sopra del 25% e finanziato dall’Ue con 567,51 milioni. Fulcro centrale per l’attuazione del piano è il potenziamento degli uffici per l’impiego per realizzare programmi di formazione e inserimento nelle aziende a cui saranno corrisposti incentivi. Una nota della Commissione europea del 13 giugno, esprime preoccupazione per la “mancanza di risorse sufficienti perché il servizio del collocamento pubblico, previsto come pilastro centrale della garanzia, possa offrire un servizio omogeneo nel paese”. Di fatto si profila l’ennesimo spreco di risorse, regalate alle aziende, con il rischio che la Garanzia rimanga inattuata. Gli ultimi dati Istat ci consegnano una disoccupazione giovanile al 46%, il tasso di disoccupazione fino a 29 anni per i giovani che hanno conseguito la laurea o un titolo di studio superiore dal 2011 ad oggi è salito dal 17.2% (11.5%) al 28,2% (18,5%). Studiare non rappresenta più una garanzia per l’ingresso nel mondo del lavoro. Basta vedere i dati Eurostat sul tasso di occupazione (da 1 a 3 anni dal conseguimento del titolo) dei giovani diplomati e laureati tra i 20 e i 34 anni: dal 2008 ad oggi è passato dal 65,2% al 48,3% (dal 71% al 56% per i laureati), con un crollo ben più pronunciato di quello medio dell’Unione Europea, passato dall’82% al 75,4%. Inoltre, nel 2010 chi ha conseguito la laurea ha più probabilità di trovare un posto di lavoro con contratto atipico (39,2%) rispetto a chi ha un diploma (34,3%). E il 47,1% dei giovani fino a 34 anni laureati e diplomati possiede un titolo di studio superiore a quello richiesto per svolgere la professione. Per il laureati questa percentuale sfiora il 51% nel caso dei contratti atipici. Insomma, se mi laureo ho il 56% di probabilità di trovare un lavoro, che ha il 39,2% di probabilità di essere atipico e il 51% di essere pure sottoinquadrato! Così, chi intraprende un percorso di studi finisce per diventare un giovane disposto ad accettare condizioni quasi servili con la speranza di galleggiare sulla soglia dell’ingresso nel mondo del lavoro. E stage e tirocini sono lo strumento principale dell’economia della speranza. Eppure i dati di Unioncamere dimostrano che in Italia la percentuale di assunzione media dopo lo stage è inferiore al 10%. Secondo il rapporto McKinsey Education to Employment 2013, in Italia chi fa uno stage ha solo il 6% di probabilità in più di trovare lavoro rispetto a chi non lo fa. Ma anche in Europa lavorare gratis o con rimborsi insufficienti è una condizione comune al 60% degli stageur. Insomma, la precarietà diventa forma di lavoro tipico, e la relazione tra mercato del lavoro e formazione è l’ingranaggio centrale per la realizzazione di queste forme di sfruttamento. Eppure stage e tirocini sono percepiti da giovani studenti e non come l’ultima occasione per “uscire” dal guado della disoccupazione. Non basta quindi attaccarli ideologicamente ma dobbiamo essere in grado di elaborare alternative concrete per sottrarsi a queste forme di ricatto. ◀
a le leggi economiche non sono PUre, non sono indipendenti dai meccanismi di dominio e oppressione
guardare i dati ufficiali, sembra quasi che la partecipazione delle donne al lavoro abbia conosciuto una crescita: nel primo semestre del 2013 gli uomini occupati sono diminuiti di 520.000 unità, mentre le donne occupate sono aumentate di 45.000. In realtà le donne risultano più occupate per motivi legati alla crisi: maggiore permanenza sul lavoro a seguito della riforma delle pensioni; necessità di integrare il reddito familiare; richiesta di lavori di cura e assistenza a fronte dei tagli allo Stato sociale. Rimane poi il primato negativo delle italiane rispetto alle europee, con un tasso di attività femminile del 53,5% contro il 65,8% nel resto del continente. E a parità di altre condizioni, in media la retribuzione oraria delle donne è inferiore dell’11,5% di quella degli uomini, e mentre gli uomini con un titolo di studio elevato guadagnano il 19,6% in più rispetto a chi ha il diploma, per le donne lo scarto tra i diversi livelli di istruzione si riduce al 14,9%. Insomma, in Italia la condizione femminile è legata al lavoro di riproduzione e poco interna alla sfera della produzione. Condizione aggravata dalla mancanza di servizi sociali e sanitari e da un divario retributivo di genere consistente. La sempre crescente difficoltà di vedere applicata la legge 194, la crescita dell’obiezione di coscienza e delle retoriche pro-vita, lo sbandieramento della famiglia tradizionale come unico modello riconoscibile, appaiono elementi ideologici necessari a un’economia che vuole tagliare i costi sociali e farli ricadere sulle famiglie. Ogni deviazione dalla norma è una minaccia, e il capitale ha un incessante bisogno di reprimere o normalizzare le istanze che via via gli vengono contrapposte. Istanze che possono mettere in crisi i modelli socialmente accettati, purché si sottraggano all’avviluppamento del sistema. Il matrimonio egualitario e l’omogenitorialità stanno rischiando di imporsi come nuovi e unici modelli alternativi di famiglie dello stesso sesso, a scapito di altre e diverse forme che necessitano di riconoscimento e tutela. È per questo che oggi più che mai, le lotte delle donne, delle lesbiche, dei gay, di trans e intersex non possono essere slegate dalle battaglie per un nuovo modello di welfare non più improntato su un’idea anacronistica di famiglia, e che deve opporsi allo smantellamento dei diritti del lavoro e alle politiche di Austerity. L’attacco ad un aborto gratuito e assistito e i tagli al sistema sanitario infatti acuiscono la subordinazione delle donne e dei soggetti lgbti, ponendo gravi limiti alla propria autodeterminazione. È necessario analizzare le intersezioni fra le oppressioni razziali e di genere con lo sfruttamento del lavoro. Cinzia Arruzza suggerisce un valido esempio: «per analizzare il rapporto fra mercificazione del lavoro di cura e la razzializzazione dello stesso, non si può prescindere dall’analisi delle politiche migratorie repressive, perché esse sono funzionali ad abbassare il costo del lavoro migrante e a forzarlo in direzione di condizioni semi-servili». L’utilizzo di soggetti oppressi in modo funzionale alla ricerca del profitto, è un’indicazione chiara della relazione tra oppressione e sfruttamento: le leggi economiche non sono pure, non sono indipendenti dai meccanismi di dominio e oppressione. Quando il capitalismo ha avuto la necessità di scaricare sulla famiglia il lavoro di riproduzione, la subordinazione delle donne ne ha garantito il risultato. La distinzione tra lavoratrice e casalinga è nata col boom economico degli anni Sessanta, quando anche in Italia la produzione si orientò verso i dettami fordisti. La retorica voleva che un operaio, con il suo stipendio, potesse mantenere da solo la famiglia, mentre la moglie si occupava della casa e dei figli. Il lavoro riproduttivo viene confinato nelle mura domestiche, ma non per questo si separa dalla produzione, garantendo al sistema un corretto funzionamento. Negli anni in cui il femminismo è stato più forte è iniziato un processo di femminilizzazione del lavoro, che ha un duplice significato: non solo le donne sono più partecipi al lavoro di produzione, ma l’impiego della forza femminile svolge un ruolo essenziale dal punto di vista del capitale, con la riduzione del lavoro nel suo complesso alle condizioni di precarietà e carenza di diritti che tradizionalmente ha caratterizzato quello femminile. Le donne insomma hanno continuato ad essere parte dell’esercito di riserva utile a tenere bassi i salari di tutta la classe lavoratrice. Le donne nel mondo del lavoro di fatto subiscono una segregazione di genere, che si articola in una segregazione orizzontale – la tendenza a occupare solo determinati settori a causa degli stereotipi sociali – una verticale – per la presenza ridotta delle donne ai vertici nonostante l’innalzamento del livello di qualificazione – e una contrattuale – con una diversa distribuzione di genere tra le varie tipologie di contratti esistenti, con le lavoratrici sempre più precarie e con meno diritti. Il tasso di inattività è un altro parametro indicativo: se tra gli uomini tra i 15 e i 64 anni è del 26,7%, quasi raddoppia per le donne arrivando al 46,1%. A fronte di 5 milioni di inattivi maschi, quasi 10 milioni di donne non sono impegnate in alcuna attività e hanno smesso di cercarla. Il problema della conciliazione dei tempi di vita è di assoluto rilievo: in Italia solo il 18% dei bambini trova posto negli asili nido pubblici e negli ultimi anni, a causa dei tagli, sta salendo la percentuale dei bambini non ammessi nelle graduatorie delle scuole pubbliche per l’infanzia. Un’altra importante asimmetria è relativa all’intreccio fra lavoro retribuito e lavoro non retribuito. Secondo un rapporto Ocse del novembre 2013, le donne impiegano in media 5 ore e 20 minuti al giorno nei lavori domestici e di cura della famiglia, mentre gli uomini solo 1 ora e 35. A fronte delle 6 ore lavorative retribuite, in media, degli uomini e le 4 ore e 28 minuti per le donne. Un’indagine Istat svolta su un campione di famiglie con un figlio tra i 12 e 18 mesi, mostra che il 58,8% delle madri lavorava all’inizio della gravidanza e che il 9,7% di esse è stata licenziata di cui il 20% per inconciliabilità del lavoro con gli impegni familiari. È anche a causa della precarietà lavorativa infatti che sempre più donne scelgono di non essere madri o rimandano questo momento in là con l’età. Secondo indagini Eurostat, meno del 40% delle lavoratrici afferma di poter gestire in modo soddisfacente il tempo libero. Paradossalmente la situazione peggiora per una madre lavoratrice part-time: meno lavoro e uno stipendio più basso, comportano maggiori oneri familiari. Per questo all’introduzione di contratti lavorativi che aumentano la flessibilità delle donne, contrapponiamo un’idea di Stato che si faccia carico del lavoro di cura. C’è bisogno di uno sforzo di indagine su come classe, genere e razza si intrecciano nelle relazioni di potere del capitalismo per contrapporre a questo potere un progetto complessivo di liberazione. Il mutuo soccorso deve essere non solo uno strumento pratico di supporto all’azione, ma un’esperienza viva di connessione fra le lotte, un patto di solidarietà e reciproca alleanza che non cada nella trappola di creare gerarchie fra le lotte stesse, ma un meccanismo di opposizione allo sfruttamento come parti di un ingranaggio collettivo. ◀
Quale sindacalismo conflittuale Nella crisi del sindacalismo, tanto confederale quanto di base, riscoprire uno strumento che faccia valere la forza collettiva del lavoro vivo in tutte le sue forme
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on il governo Renzi la crisi delle politiche concertative entra in una nuova fase, dagli esiti imprevedibili, ma nessuno positivo per il movimento dei lavoratori. La carta degli “80 euro” ha costruito consenso con le modalità bonapartiste di chi distribuisce briciole ad alcuni segmenti di lavoro dipendente scavalcando la mediazione dei “corpi intermedi”, leggi burocrazie sindacali. La stessa operazione viene tentata con Confindustria, facendo leva sull’interesse padronale all’elemento “velocità” di alcune iniziative finalizzate a comprimere la spesa pubblica e a sostenere l’industria italiana nella competizione con i suoi alleati-concorrenti. Il problema è comprendere quali sono i suoi margini di manovra. Apparentemente sono ridotti, perché la costrizione delle compatibilità europee si può allentare congiunturalmente ma non rimettere in discussione. Quali sono allora le conseguenze per il movimento sindacale nelle sue diverse articolazioni? La Cgil è il soggetto più in difficoltà. Scavalcata dal bonapartismo renziano, chiede la ripresa della concertazione sapendo benissimo che i margini per qualche contropartita sono limitati e che il suo stesso “potere di interdizione” è messo in discussione da Renzi. Cisl e Uil si rendono conto che la “complicità” gli permette di galleggiare, ma le nuove modalità di gestione renziana delle “relazioni sindacali” creano problemi anche a loro. Hanno però l’inserimento clientelare e lo “stomaco complice” per reggere meglio della Cgil. La Fiom è in grande difficoltà. Ha ritrovato un certo protagonismo congressuale differenziandosi in conclusione dalla gestione Camusso ma non ha molte prospettive. Vuole sfidare Renzi sul terreno della rappresentanza e “andando a vedere” su alcuni tavoli, ma rischia di non raccogliere nulla. La sua crisi di insediamento nell’industria è direttamente proporzionale all’impasse in cui sono finite tutte le più importanti vertenze aperte, Oggi convivono e chiuse senza alcun risultato significativo. La sinistra sindacale contraddittoriadi Cremaschi, pur avendo consomente la crisi della lidato alcune piccole strutture di militanti sindacali in opposizio- sindacalizzazione, ne alla Camusso e all’opportunismo della gestione Landini, vive nelle forme che ha anch’essa divisioni interne e non assunto fino ad fa intravedere prospettive con oggi, e la tendenza una valenza più generale. Il sindacalismo di base è avvitato ad una nuova sindentro la propria autoreferenzialità, nonostante le diverse resi- dacalizzazione stenze in atto, tra cui significativa è stata quella della logistica, andata al di là dei meriti acquisiti sul sione dall’avanzare delle politiche campo dalle sigle lì presenti (Si di spending review e attacco alla Cobas e AdL Cobas del triveneto). rappresentanza. E più in generale, Usb, Cub e Confederazione Cobas nel lavoro pubblico pesa in modo continuano a resistere nei propri determinante il “tappo” costituito “fortini” con l’Usb che si pone dal peso delle burocrazie sindaun po’ presuntuosamente come cali, poggiato sulla “stanchezza” l’alternativa esistente a Cgil Cisl e l’invecchiamento di una forza Uil, nascondendo in realtà una lavoro che teme la rimessa in dipropria crisi di insediamento con scussione delle garanzie residue, l’emorragia di strutture dopo l’ul- maledicendo e affidandosi contimo congresso – tra cui Il Sial Co- temporaneamente alla mediaziobas di Milano, l’Orma di Brescia, ne degli apparati confederali. l’Adl di Varese e altro – e un inde- Quando si ragiona dello stato del bolimento della stessa tenuta nel lavoro salariato nel suo rapporto lavoro pubblico, messa in discus- conflittuale con le classi domi-
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nanti, si pensa alle conseguenze della frammentarietà e dell’individualizzazione delle risposte determinata dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro e dagli effetti della crisi. Si dovrebbe però ragionare un po’ di più anche sull’accumulo di sconfitte e sul ruolo degli apparati nella loro funzione di “tappo” e mediazione perdente per i lavoratori. Il conflitto che porterà risultati sarà quello che permetterà di liberarsi dell’escrescenza parassitaria costituita dalle burocrazie sindacali confederali. Le resistenze che si producono in questo contesto sono contraddittorie. Alcune si scontrano anche con la presenza oppressiva delle burocrazie sindacali, altre sono da queste cavalcate perché veicolo di una possibile nuova sindacalizzazione. Tra queste segnaliamo la logistica – su cui occorre una riflessione ad hoc per la valenza politico-sindacale di un segmento di lavoro salariato composto prevalentemente da migranti; i trasporti, dove l’impatto conflittuale con le burocrazie sindacali è stato più forte; la sanità pubblica e privata
– che vede anche qui una composizione sociale segnata dal lavoro migrante, con alcune grandi vertenze capaci di costruire anche consenso popolare intorno a sé (il San Raffaele di Milano, ma non solo); agroindustria, con le fiammate di rivolta tra strati bracciantili nel Mezzogiorno, ecc. A partire da quest’ultima “categoria” le cose si fanno più mescolate. Tra i braccianti assistiamo ad esplosioni che scavalcano le sigle sindacali – tutte – ma contemporaneamente ad un rafforzamento del ruolo di “servizio” e supporto costituito in alcune aree dal sindacalismo confederale. Per arrivare alla nuova sindacalizzazione che passa anche attraverso i sindacati confederali in altre vicende importanti e significative: dalle mobilitazioni in alcune catene della grande distribuzione ai Call Center esistenti soprattutto al sud, ai fast food/ ristorazione collettiva veloce, ai lavoratori delle imprese di pulizia. Per arrivare all’universo delle cooperative sociali, dove c’è una presenza tradizionale del sindacalismo di base ed aggregazioni extrasindacali, come la Rete de-
gli operatori sociali sostenuta dai collettivi di San Precario, che si mescola ad una ripresa di attività del sindacalismo confederale che incontra l’esigenza dei lavoratori di disporre di uno strumento sindacale ma anche una logica di “affidamento clientelare” per l’asse Pd-Cgil nelle amministrazioni locali che sono il loro principale committente in epoca di privatizzazione del Welfare. In generale oggi convivono contraddittoriamente la crisi della sindacalizzazione, nelle forme che ha assunto fino ad oggi, e la tendenza ad una nuova sindacalizzazione, ad una riscoperta della necessità elementare di uno strumento che faccia valere la forza collettiva del lavoro vivo in tutte le sue forme. Peraltro non è uno scenario nuovo, né soltanto italiano od europeo. Anzi in paesi in cui i tassi di sindacalizzazione sono precipitati ai minimi storici, dentro la crisi cominciata nel 2007/2008 vediamo ricomparire la spinta all’azione difensiva/collettiva del lavoro salariato che, spesso, guarda con interesse a ciò che arriva dal nuovo ciclo dei movimenti sociali.
In questo quadro, non vi sono ricette miracolose. Si deve lavo- non siamo più rare su una impostazione “comnella fase del binata”: a) Utilizzo delle strutture sinda- perseguimento della cali che “qui e ora” permettono unità tra le sigle del di esprimere al meglio le esigen- sindacalismo di base ze di autorganizzazione/autodeterminazione di un segmento come elemento di lavoro salariato. In questo strategico di senso occorre tirare un bilancio ricomposizione/ del sindacalismo di base. È giuricostruzione sto valorizzarne il ruolo dove è capace di un’azione efficace, ma di un sindacalismo con la consapevolezza che non di classe siamo più nella fase del perseguimento della unità tra le sigle del sindacalismo di base come elemento strategico di ricomposizione/ ricostruzione di un sindacalismo di classe capace di scalzare l’egemonia dei grandi apparati sindacali. La strada della ricostruzione di uno strumento sindacale “generale” adeguato alle esigenze, sarà assai più complessa ed articolata; b) Costruzione di organismi ad hoc, dentro vertenze concrete, che permettano di aggirare la resistenza degli apparati ed insieme l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti dei sindacati di base esistenti; c) Approccio intersindacale, che possa mettere insieme lavoratori di diverse sigle non necessariamente in rottura con la propria organizzazione ma sufficientemente autonomi da rendersi disponibili ad iniziative concrete. Questo insieme di “criteri” può aiutare una azione sindacale che abbia l’obiettivo di portare a casa risultati e di far crescere una consapevolezza di sé fondamentale per ricostruire le condizioni elementari di qualunque futuro movimento dei lavoratori. È inoltre determinante coltivare
con cura il protagonismo diretto – e quindi della spinta all’autorganizzazione – di lavoratori e lavoratrici. L’autorganizzazione non germoglia su un “prato verde” che fiorisce ciclicamente e spontaneamente. Richiede una soggettività politica e sindacale che agisca in questa direzione e sia capace di utilizzare ogni occasione favorevole. La spinta all’autorganizzazione oggi convive con il sentimento della sconfitta, la disillusione, l’atteggiamento di delega, le difficoltà materiali determinate dalla crisi prolungata. Ma esiste, bisogna saperla vedere, coltivare, valorizzare. Per concludere, alcune ipotesi di lavoro possibili per il network Communia: 1) Adotta una lotta, ma quale lotta? La lotta dei precari dell’Istat di Roma, il coordinamento milanese di alcune esperienze di lavoro precario esistenti nel Comune di Milano, i lavoratori della scuola, gli operatori sociali, i lavoratori della Feltrinelli. Un’attenzione particolare merita la situazione dei lavoratori di Etaly, sia per i tentativi di sindacalizzazione avviati in alcuni negozi, sia per la possibilità di connettere questi tentativi al percorso di mobilitazione contro l’Expo 2015. 2) Sportelli precari/migranti/ lavoro nero/lavoratori domestici - attivando gli spazi occupati di Roma, Milano, Bari, Mantova, Viareggio. Sulla base delle esperienze in corso occorre pensare ad una forma di coordinamento degli sportelli esistenti. Uno strumento utile potrebbe essere costituito da uno “sportello virtuale” aperto su Communianet.org, per far circolare informazioni sulle sperimentazioni in corso, e per fornire indicazioni e conoscenze. 3) Mutuo soccorso sull’asse Rimaflow/Roma/Bari/Rosarno. 4) Sostegno all’esperienza dei lavoratori della “Ri-Maflow” di Trezzano (Milano) sia per il valore politico di questa lotta ed esperienza di autogestione, che propone di fatto un’alternativa al capitalismo, sia per la necessità di sostenerla materialmente nella fase i cui i lavoratori della cooperativa devono recuperare attività produttive che possano darle un futuro. ◀
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la classe probabile In un proletariato per nulla omogeneo, e nella confusione ormai insita nel concetto di classe, si tratta di ricominciare segnando prima di tutto un netto confine tra il “loro” e il “noi”
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arx e la dimensione attiva della classe
È inevitabile cominciare con alcune considerazioni a proposito degli interventi comparsi sul sito communianet.org. Un certo numero di essi allude a un’assenza: la classe perduta, la classe che non c’è, la classe di cui cercare le tracce... A mio avviso dire che si avverte drammaticamente l’assenza di una classe significa in primo luogo riprendere un filo rosso del pensiero di Marx, che più volte esprime la convinzione che una classe è classe, se è capace di pensare e di agire come tale: nell’Ideologia tedesca afferma che i diversi individui formano una classe, quando devono portare avanti una battaglia comune contro un’altra classe; in una lettera a Kugelmann parla del suo programma come un mezzo per agevolare la trasformazione degli operai in classe; nel 18 Brumaio, riferendosi ai contadini piccoli proprietari in Francia scrive che sono una classe ma non sono una classe. Formano infatti una classe perché vivono in condizioni economiche che distinguono i loro modi di vita, i loro interessi, la loro cultura da quelle di altre classi e si contrappongono a esse in modo ostile. Non formano invece una classe perché non costituiscono una comunità e non sono in grado di esprimere un’unione e un’organizzazione politica. Certo Marx dice anche altre cose: distingue per esempio “classe in sé” e “classe per sé”, concetti che però a un certo punto abbandona; usa il termine classe anche quando parla dell’operaio “bestia da soma” e “anima abbrutita”, prima che la “prassi sovvertitrice” lo riscatti. Questa utilizzazione anfibia di un concetto non cancella le numerose affermazioni in cui Marx pensa la classe come qualcosa di vivo e attivo, in sintonia del resto con la sua pratica militante. Egli infatti individua nella classe operaia industriale la protagonista del conflitto contro la divisione della società in classi perché, quando decide di unirsi a essa, gli operai già sostengono da decenni durissime lotte. È possibile una lotta di classe senza classe, senza una classe capace di costituire una comunità, un’unione e un’organizzazione politica, cioè senza una vera classe? Per Marx evidentemente sì, dato che considera la lotta di classe una costante della vicenda umana, anzi la forza dinamica stessa della storia. E d’altra parte pensa gli operai dell’industria come la prima classe della storia capace di agire come classe e quindi di essere compiutamente classe. Per questa discussione sono utili alcune distinzioni. Per esempio quella tra proletariato e classe o tra classe operaia e movimento operaio. La prova dell’utilità è nella confusione che generano talvolta le omonimie. Per esempio quando si risponde che la classe operaia e le sue lotte esistono ancora, la deindustrializzazione è un’interpretazione semplicistica della realtà e i dipendenti dei servizi sono spesso operai e operaie esternalizzati. Il problema è di tutt’altra natura: almeno a guardare all’esperienza del Novecento, la “classe in sé” ci dice ben poco della “classe per sé”, se proprio vogliamo continuare ad usare formule che a un certo punto Marx ha abbandonato e che per Bensaïd sono un’illusione idealistica. Insomma nessuna definizione strutturale della classe può risolvere il problema della sua formazione. Le modalità con cui le classi subalterne della storia contemporanea hanno partecipato al conflitto sociale sono state molteplici, diverse e fortemente condizionate dai contesti storici. I due modelli a cui la sinistra radicale si è tradizionalmente ispirata si sono rivelati la riduzione a paradigma di eventi storici irripetibili o che comunque non si sono ripetuti. Mi riferisco al modello dell’autoemancipazione di una classe secondo Marx e nell’esperienza della Prima Internazionale e al modello di una classe capace di produrre una forte autorganizzazione con cui guidare il partito e lasciarsi guidare dal partito nella circolarità virtuosa del 1917. Questi eventi sono stati ovviamente fondamentali perché hanno creato le condizioni degli eventi successivi, ma le modalità con cui il lavoro subalterno si è fatto classe sono state sempre diverse. Lo stesso proletariato di fabbrica avrà in contesti storici diversi comportamenti radicalmente diversi. Nel 1917 la profezia di Marx sembra avverarsi, ma nel contesto eccezionale di un proletariato forte e di una borghesia debole, che non ha ancora costruito le condizioni del proprio dominio. Negli Stati Uniti, dove vige la gerarchizzazione razzista del lavoro salariato, potrà nello stesso tempo sostenere straordinarie lotte sindacali e votare per la destra razzista del partito repubblicano. In Italia aprirà alla fine degli anni Sessanta una stagione riformista sotto l’occhio preoccupato e vigile degli apparati sindacali e del Pci. Non solo la stessa classe ha comportamenti diversi, ma la stessa classe può essere sostanzialmente diversa. Marx ne conosce non una ma due: la classe operaia di origine artigia-
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Le modalità con cui le classi subalterne della storia contemporanea hanno partecipato al conflitto sociale sono state molteplici, diverse e fortemente condizionate dai contesti storici
nale sussunta al capitale in Francia ancora solo formalmente e con maggiori capacità di autorganizzazione; la classe operaia oggetto di una sussunzione reale in Inghilterra che già aveva cominciato a produrre una robusta burocrazia sindacale. Inoltre il proletariato non ha abitato solo i luoghi della produzione industriale: tra gli eventi che hanno costruito il movimento operaio del Novecento ci sono state anche la rivoluzione cinese e cubana, in cui le classi protagoniste poco hanno a che fare con quelle che costruirono la Comune o presero il Palazzo d’Inverno. Già nel Novecento la formazione e i comportamenti della classe sono stati differenti e mutevoli, e ancora più lo saranno di fronte ai cambiamenti degli ultimi decenni. Tra questi la dissoluzione della costruzione storica che abbiamo chiamato “movimento operaio”. Spesso si intende la formula in analogia con altre dello stesso tipo. “Movimento studentesco” significa movimento di studenti e “movimento delle donne” significa appunto movimento di esseri umani di sesso femminile. Si è invece chiamato “movimento operaio” l’insieme sinergico che in Europa e nel mondo aveva costretto il capitale a cambiare per non morire e che aveva solo in parte a che fare con una classe. Certo la classe operaia, soprattutto quella dei grandi complessi industriali, era stato il nucleo intorno al quale si era poi aggregato, ma il prodotto finale era stata una costruzione storica, sociopolitica e culturale dai confini incerti, fortemente differenziata e conflittuale al proprio interno ma appunto sinergica, composta da una classe di notevole forza strutturale e capace di farsi centro del conflitto sociale; da strutture burocratiche e clientelari, che concedevano agi e poteri ai settori della piccola borghesia più ambiziosi e dinamici; da entità statali con il loro potere economico e militare; da movimenti di liberazione di paesi colonizzati, interessati a mettersi sotto l’ala protettrice dell’Unione Sovietica e che talvolta si avventuravano nella creazione di socialismi nazionali più o meno credibili; da socialdemocrazie che mantenevano aperti gli spazi in cui i rivoluzionari potevano continuare ad agire e da rivoluzionari che punzecchiavano ai fianchi le socialdemocrazie e gli apparati sindacali, costringendoli a scatti per recuperare i rapporti con la propria base sociale; da intellettuali creativi attratti dai miti progressivi costruiti sulle vicende rivoluzionarie del secolo; da mobilitazioni occasionali e da spessi sedimenti organizzativi, da elettorati fedeli, da compagni di strada e alleati…. Ora gran parte delle componenti di questo insieme o non esiste più o ha mantenuto nomi a cui non corrispondono le stesse realtà oppure ha subìto dinamiche di disaggregazione. Significa essere privi di qualsiasi criterio materialistico di giudizio credere che l’enorme distruzione di forze materiali prodotte dalla disgregazione del movimento operaio del Novecento abbia lasciato poi intatti paradigmi, immaginari, discorsi, simboli e aspettative. Il vasto territorio della classe del XXI secolo Se ci limitassimo a fare i conti solo con la storia e prendessimo soltanto atto della diversità dei modi in cui il proletariato ha manifestato la propria presenza, oggi non avremmo cioè alcuna immagine dell’identità della “classe probabile”, come la chiama Bourdieu. Non ci resterebbe che la pratica del tutto empirica di essere là dove siamo o dove c’è qualcosa già in movimento. Nella realtà la pratica empirica dovrebbe però essere accompagnata dalla consapevolezza che le lotte attuali e le loro logiche possono esaurirsi senza un seguito e che altri gruppi sociali, altre dinamiche di soggettivazione senza relazioni con le attuali possono entrare in gioco e con maggiore efficacia. Serve allora individuare Dove sono i nostri, come dal libro dei Clash City Workers. Ma chi è un proletario e che cosa è il proletariato oggi? Individuarlo non è un’operazione neutra perché la scelta dei criteri è necessariamente di parte. Esiste un criterio per pensare la classe, quando non è classe, non pensa e non agisce come classe? Se ancora una volta si guarda a Marx, si noterà che quando si riferisce a una concreta figura storica i proletari sono gli operai di fabbrica. Quando invece elabora concetti che possono avere la funzione di criteri, allora l’orizzonte si allarga fino al punto di rendere intellegibile l’ampiezza degli attuali processi di proletarizzazione. Il proletario infatti è un lavoratore libero ma costretto per sopravvivere a mettersi sul mercato come una merce qualsiasi e a vendere la propria forza lavoro, cioè l’insieme delle sue attitudini fisiche e intellettuali. Già ai tempi di Marx questa condizione non riguardava solo la classe operaia di fabbrica ma altri gruppi sociali, per esempio gli impiegati del settore privato che spesso, come si direbbe oggi, non arrivavano alla fine del mese. A conferma della natura politica della nozione di classe in Marx, a cui interessa la parte del lavoro subalterno più dinamica e attiva e che meno si identifica nei valori della borghesia. Nel corso del Novecento è poi cresciuto il numero degli impiegati di banca e di compagnie assicurative, di operatori di questo e quel settore che producono direttamente ricchezza. La produttività del lavoro non è il criterio per individuare “dove sono i nostri”, ma non è del tutto irrilevante nei processi di formazione che si realizzano prima di tutto attraverso il conflitto. ▷
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La classe probabile
I lavoratori dei settori produttivi hanno infatti avuto a disposizione nel Novecento l’arma dell’interruzione della produzione di plusvalore, che in alcuni momenti è apparsa al capitale particolarmente temibile. Le delocalizzazioni, la compressione dei diritti sindacali, il crumiraggio organizzato sotto l’egida del razzismo istituzionale, la precarietà ecc. devono servire anche a disinnescarla. Marx però dice anche di più e cioè che la valorizzazione del capitale non si realizza solo con il lavoro immediato, ma con la combinazione dell’attività sociale. Per comprendere gli attuali fenomeni di proletarizzazione si può utilizzare anche il concetto di sussunzione. La sussunzione reale o sostanziale o effettiva, o come si preferisce chiamarla, è il processo attraverso il quale il capitale non solo sfrutta, appropriandosi di parte del lavoro ma anche organizza, parcellizza, rende appendice della macchina, impone forme di cooperazione di cui mantiene i fili e che spesso non fanno parte dell’esperienza diretta di lavoratrici e lavoratori. Penetrando sempre in nuovi ambiti il capitale ha prodotto una proletarizzazione di vaste dimensioni con ragioni complementari e manifestazioni diverse. Si è sviluppata in Asia e in America Latina una forte classe operaia, che si è fatta di recente sentire nella zona meridionale della Cina, la cosiddetta Fabbrica del Mondo, con una delle numerose lotte su cui esiste una vera e propria congiura del silenzio. Fenomeni di altra natura sono visibili nei paesi a capitalismo tardivo, in cui per altro continua a esistere e spesso anche a lottare un gran numero di operai dell’industria. In questa parte del mondo la proletarizzazione si è realizzata con la riduzione alla condizione proletaria di compiti e funzioni che godevano in passato di una relativa indipendenza e che hanno acquisito le caratteristiche già imposte altrove al processo lavorativo, cioè parcellizzazione, cooperazione esterna all’esperienza dei cooperanti, rapporto subalterno con una macchina e con un sistema di macchine. Anche la crisi ha contribuito a estendere la proletarizzazione, mettendo in difficoltà l’ex-ceto medio, che spesso non solo vive e lavora in condizione proletaria ma si percepisce come proletario contrariamente al travet della prima parte del secolo scorso. Tutte e tutti proletari allora? Proprio tutti-tutti no, ma certo tantissimi, se per esigenze cognitive si accetta di distinguere tra proletariato e classe. Il problema per dirla con le/i compagne/i di Connessioni Precarie è che assistiamo a una paradossale sconnessione tra proletariato e classe e siamo di fronte a una realtà che impedisce di spazializzare la classe in un’immagine indicativa e identificativa. La decomposizione del movimento operaio del Novecento, la La femminilizzazione sparizione delle grandi concentrazioni operaie, la disarticolazione del processo produttivo, la nuo- del lavoro e va stratificazione di classe con il moltiplicarsi di l’immigrazione non inedite figure produttive, la precarizzazione del semplificano le cose lavoro rendono oggi assai difficile la ricostruzione perché rendono di identità collettive. La precarietà è figlia primogenita di questo stato di anche più complessi cose, l’effetto voluto e programmato degli esiti del i problemi di conflitto di classe del secolo scorso. connessione tra Il lavoro subalterno è stato sempre caratterizzato da le figure della un alto livello di precarietà; un vero e proprio diritto del lavoro e un welfare capace di garantire copertu- produzione re si sono affermati in Europa solo dopo la seconda sociale guerra mondiale. La stabilizzazione non è stata l’effetto di lotte contro la precarietà, le quali ovviamente ci sono già state ma in se stesse avrebbero ottenuto ben poco, se non avessero avuto alle spalle i rapporti di forza dei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Rapporti che non sono stati solo il prodotto della forza strutturale dei lavoratori della grande industria e del bisogno di forza lavoro del capitale, ma determinati da ragioni di carattere politico, culturale e perfino militare. La femminilizzazione del lavoro e l’immigrazione non semplificano le cose perché rendono anche più complessi i problemi di connessione tra le figure della produzione sociale, ma sarebbe davvero superficiale attribuire le divisioni ai pregiudizi razzisti dei lavoratori. E non perché non esistano, ma perché sessismo e razzismo in funzione del minor costo della forza lavoro hanno un’origine specifica. Essi vengono costruiti e riprodotti non solo dal complesso delle istituzioni proprie del capitale, ma anche dall’adattamento a uno stato di cose delle organizzazioni che dovrebbero difendere il lavoro salariato nel suo complesso. Le leggi che mettono gli immigrati nell’impossibilità di difendersi dallo sfruttamento inducono il lavoratore locale a intendere la presenza dell’immigrato, disposto a vendersi a un prezzo più basso, semplicemente come crumiraggio ma, se non si mette in moto una lotta comune, l’intervento di forze politiche trasforma poi le reazioni di ostilità in adesione a discorsi e pratiche autenticamente razziste e xenofobe. Per le donne l’inclusione subalterna e precaria nel mercato del lavoro fa leva su una naturalizzazione dell’attività di riproduzione (che non è solo e soprattutto riproduzione biologica) in un contesto in cui esisterebbero tutte le condizioni materiali e culturali
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della condivisione e della socializzazione. In una composizione del proletariato in cui immigrati e donne hanno una così consistente presenza, la lotta politica e culturale contro sessismo e razzismo è semplicemente lotta di classe. L’omofobia è meno direttamente legata all’appropriazione di plusvalore, ma questo non vuol dire che le sia estranea. L’interesse dei possessori di capitale a mantenere in vita istituzioni conservatrici (la famiglia, la Chiesa, la monarchia ecc.) in funzione di controllo politico ne consente la permanenza anche se ne differenzia lo spessore secondo le storie, le tradizioni, le influenze religiose, le egemonie politico-culturali. In questo stato di cose appare davvero problematico individuare le dinamiche capaci di trasformare questo proletariato in classe. Non è condivisibile l’obiezione secondo cui la disarticolazione del processo lavorativo renderebbe inattuale e inutile la ricerca di un centro e di una figura socialmente più matura. Certo non è nostro compito metterci sulle tracce del nucleo centrale della classe probabile e nulla può garantire che esso esista davvero. Tuttavia ci sono due buone ragioni per non escludere dall’indagine questa preoccupazione. La prima è che non tutte le schegge del conflitto sono uguali e hanno alla base lo stesso potenziale di mobilitazione e di resistenza. La concentrazione in un luogo di lavoro per esempio rappresenta ancora oggi un elemento non trascurabile di forza, anche se si tratta di una forza in gran parte solo potenziale. La seconda ragione è che appare improbabile che una serie di schegge inneschino contemporaneamente e spontaneamente una dinamica convergente. Il rimando alla questione dell’organizzazione politica sarebbe in questo caso improprio, salterebbe cioè un passaggio perché una forma di organizzazione con la forza necessaria a sostenere lo scontro con il capitale e con le sue istituzioni ha come condizione necessaria una classe capace di darsela e di riconoscerla. Le variegate e differenti dinamiche di soggettivazione Coloro che soffrono il dominio capitalistico non hanno in realtà mai smesso di lottare, ma non per questo oggi formano una classe. Non si tratta solo di una mancanza di connessioni, che è prima di tutto un sintomo. Quando un intero mondo si sgretola, le conquiste di civiltà di quel mondo vengono dimenticate e tra queste appunto l’esigenza di connettersi. Ricominciare dalle lotte è il modo più coerente per continuare a svolgere quel filo rosso della ricerca di Marx, con l’evidente difficoltà che in Italia le cose in movimento sono spesso reciprocamente invisibili. Alle lotte bisogna rivolgere le prime domande. Chi ne sono i protagonisti? Quali rapporti hanno con istituzioni e apparati sindacali? Quali e in quale misura tendono ad autorganizzarsi? Quale significato bisogna attribuire all’autorganizzazione: è un modo obbligato di reagire nel contesto di una complessiva regressione oppure è il segno di una composizione di classe più capace di autoemancipazione rispetto a quella che ha caratterizzato il movimento operaio del Novecento? O in misura diversa entrambe le cose? Nello sterminato territorio del proletariato del XXI secolo emergono figure socialmente più mature, a cui sarebbe giusto indirizzarsi come alla fine degli anni Sessanta agli operai della grande e media industria? Oppure la classe probabile si identifica semplicemente con la ripresa, lo sviluppo e la connessione dell’attività del lavoro salariato nei suoi luoghi di concentrazione maggiore? Dall’inizio del nuovo secolo il proletariato si è difeso in tutta o quasi la sua varietà delle sue membra, che di questo essere parti dello stesso corpo spesso non hanno affatto coscienza. C’è invece una posta politica importante nel riconoscersi o meno come proletarie e proletari. L’identificazione di gran parte del lavoro subalterno con un presunto ceto medio è tradizionalmente uno dei luoghi comuni dell’ideologia padronale. Noi abbiamo tutto l’interesse a rovesciare lo stereotipo in un’immagine più utile alla nostra parte e soprattutto assai più vicina al vero. Non si tratta di occultare o ignorare le differenze interne, invece numerose e problematiche poiché se c’è qualcosa che di questo proletariato non si può dire è che sia omogeneo. Si tratta di cominciare segnando prima di tutto un netto confine tra il loro e il noi. L’autorganizzazione è stata non di rado la forma in cui le lotte si sono manifestate negli ultimi anni per due principali ragioni: l’involuzione delle forme organizzative, sindacali e politiche, che nel secolo scorso avevano diretto le lotte, sia pure con limiti e contraddizioni, da una parte e dall’altra il fatto che questo proletariato in tutte o quasi le sue articolazioni ha una capacità di autorganizzazione maggiore di quella che ha caratterizzato il lavoro salariato del passato. E se il “cognitariato”, per dirla con Formenti è un’utopia letale, non lo è la constatazione di una crescita complessiva delle abilità e delle conoscenze delle classi subalterne. È vero che la grande quantità di sapere necessario oggi alla valorizzazione del capitale viene assorbito dalle macchine, di cui vecchie e nuove figure professionali restano appendici, condannate a compiti privi di autonomia e creatività. Ma è anche vero che la relazione con l’attuale sistema di macchine richiede oggi comunque livelli di cultura maggiori. Accade così che spesso vengano assimilati a una condizione proletaria uomini e donne
con capacità e aspettative che l’organizzazione del lavoro poi tradisce. Persone spesso più imbevute di stereotipi e di valori capitalistici, ma solo finché questi non entrano in palese contraddizione con una disperata condizione di esistenza. Allora possono mettersi in moto le stesse dinamiche che Marx descrive e per cui “l’anima abbrutita” e la “bestia da soma” si fa soggetto. Insomma l’autorganizzazione è l’espressione di una perdita, di un abbandono ma anche di una capacità acquisita dal proletariato nel suo complesso, compresa la classe operaia dell’industria. E forse a questa capacità si può affidare la speranza di un’autoemancipazione, che non esclude l’organizzazione politica ma la pone in termini e modalità diverse dal passato. Questo proletariato è precario anche nelle sue parti che usufruiscono di contratti a tempo indeterminato perché delocalizzazioni, crisi e debito creano uno stato di cose minaccioso e instabile. Ma si tratta di una precarietà al suo interno diversificata perché, se dal punto di vista della perdita di garanzie e di certezze il lavoro subalterno tende a livellarsi verso il basso, restano e si accentuano le diverse possibilità e le modalità di resistenza. Nei luoghi di lavoro l’esistenza di un’aggregazione e la presenza di lavoratrici e lavoratori con esperienze di lotta sindacale consente almeno di tentare lotte per la stabilizzazione o per la difesa del posto di lavoro. Dove invece l’aggregazione manca, la lotta alla precarietà appare quasi impossibile ma può diventare anche l’inizio di qualcosa di più interessante. Esistono cioè situazioni di lavoro precario che proprio la mancanza di una concreta possibilità di contrattazione sindacale spinge alla politicizzazione. L’indagine sugli artisti intermittenti in Italia ha mostrato che individui isolati, non occupati o che lavorano in frammenti diversi di occupazione possono mettersi insieme, coinvolgendo migliaia di persone e sviluppando un’azione efficace attraverso l’arma della politicizzazione. Si sono misurati con le istituzioni, la costituzione e le antiche leggi per rivendicare il diritto all’occupazione; hanno stabilito relazioni politiche con movimenti e sindacati conflittuali per evitare l’isolamento; hanno studiato forme di comunicazione con il territorio per coinvolgerlo nella difesa di un “bene comune”; hanno cercato di produrre reddito, discusso dei contenuti e dei committenti della produzione artistica ecc. Si può obiettare che il rischio di dispersione a cui restano comunque esposti rende di fatto queste figure marginali in un conflitto in cui contano gli spostamenti di grandi masse, possibile solo a partire dai luoghi in cui l’organizzazione stessa del processo lavorativo produce fenomeni di concentrazione come determinati luoghi di lavoro o le grandi sedi universitarie. L’osservazione in parte anche giusta rimuove però un piccolo particolare: le figure in questione sono in gran parte giovani, sia pure in un senso assai lato del termine, e giovani non di rado con alti livelli di abilità e conoscenze. Rappresentano quindi la parte di società più coinvolta nei movimenti e nei conflitti e in grado di indirizzarli verso orizzonti di liberazione, evitando che vengano scagliati contro capri espiatori o verso falsi bersagli. In casi come questo la lotta di persone in condizioni di esistenza precaria può anche essere considerata come una delle espressioni con cui si è manifestata la presenza dell’intellettuale marginale nei conflitti di classe. Queste persone ovviamente non risolvono il problema della classe perché ne rappresentano solo un frammento; sono avanguardie ma con un significato diverso da quello che si è cristallizzato nel Novecento. Ma qui siamo già in un’altra discussione, quella sulle forme di organizzazione, che affronteremo in un prossimo futuro. ◀
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z i le, o Ren n ua r e i s o v tità r e d o g l e d ili sm n tr i c er e u n’i d enta g o n i enti ut a v o n a p p o r li c e a um p i strcorsi di r n te i n t d m e i e n m s c o a r n r s a fa ln s a r e d i hci a r a r e u m o d otaurre pellettiva c i r o e a d i ret op i d i c à . D o b b di pro ione co A ll a p oss i a mnta rc i dt do diz er it n o ncco nte e d i a us o in graria con n é a p o liti c hso templa prop a lle lo stes one del e al prensi com
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istricarsi nella giungla del nuovo capitalismo globale e soprattutto nella riarticolazione che ha determinato nell’organizzazione della forza lavoro contemporanea non è impresa facile, tanto quanto non lo è riuscire a riprendere le fila di una nuova narrazione che possa essere all’altezza di quella compiuta dal Capitale negli ultimi trent’anni. Partire dal dato attuale significa anche assumere compiutamente le difficoltà di una classe che oggi resta “probabile”, senza un’identificazione convergente, e che quindi di conseguenza sul piano dell’azione si devono costruire anzitutto delle premesse, delle condizioni, affinché una nuova storia sia possibile. Per questo la discussione seguita ai contributi ha provato a concentrarsi proprio su questi aspetti. Come l’unità tra precari/e dell’Istat o di Eataly, student*, migranti piuttosto che portuali di Gioia Tauro può essere sperimentata senza farne un’inefficace operazione aritmetica o uno sterile elenco di sigle e collettivi diversi? Come questa sperimentazione si adatta all’attuale composizione di classe e ne comprende le caratteristiche e i bisogni, superando ad esempio gerarchie che vedono sessismo o razzismo come questioni subalterne? Quale percorso può sviluppare quel reciproco riconoscimento che ha in nuce le potenzialità di una vera e propria soggettivazione? L’idea di Mutuo Soccorso conflittuale uscita trasversalmente nelle varie discussioni e oggetto di un workshop specifico ha provato ad abbozzare alcune risposte in merito: unire pratiche di riappropriazione e autogestione, esperienze esemplari Mutualismo e di conflittualità nei luoghi di lavoautogestione ro e battaglie contro le oppressioni specifiche serve da una parte a assumono valenza rispondere ai bisogni economici ai fini della nostra dei soggetti concreti, dall’altra a discussione nella misura supportare lotte altrimenti framin cui permettono mentate tra loro. Vogliamo sviluppare un’idea e un di amplificare le modello di solidarietà reciproca lotte sociali in che valorizzi la scelta di porsi fuocorso, di promuovere ri mercato e che in questa scelta abbia un primo momento di riu- l’autorganizzazione dei soggetti sociali nificazione. Non solo senza padroni ma direttamente contro i padroni. La rete che ci apprestiamo a co- delineare nell’esperienza diretta stituire vuole essere una rete di un diverso modello di società. Un modello basato sull’uguaservizio, ma non solo. Non si tratta di sostituirsi ad un glianza, la democrazia, l’autogewelfare distrutto dalle politiche stione e l’ecosostenibilità. neoliberiste o di dar vita ad espe- Non si tratta di ricalcare esperienze che si chiudono in se stes- rienze cooperativistiche già viste, se, se non addirittura sussunte ma di inventare l’ignoto nella pradalle logiche del sistema capitali- tica diretta. sta o dalle burocrazie politiche e Così come non si può slegare il lavoro di rete da rivendicazioni sindacali. Mutualismo e autogestione assu- più ampie che siano puntelli conmono valenza ai fini della nostra divisi dai vari nodi, utili a porre il discussione nella misura in cui conflitto anche su un piano più permettono di amplificare le lot- generale. te sociali in corso, di promuovere In tempi come questi servirebbe l’autorganizzazione dei soggetti un reddito sociale per rompere sociali e possibili processi di mol- il ricatto perenne di un lavoro a tiplicazione e accumulazione at- condizioni sempre più misere, traverso la loro riproducibilità, di così come servirebbe un salario
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minimo intercategoriale legato all’inflazione per frenare la costante erosione della quota di ricchezza destinata al Lavoro a favore del Capitale. La scommessa è quella di produrre percorsi di comprensione della propria condizione collettiva, in cui a passività e delega si sostituiscano conflitto e partecipazione. Per questo abbiamo deciso di promuovere progetti come quello di Netzanet di Bari, le autoproduzioni della Ri-Maflow e di SOS-Rosarno, nell’ottica di sviluppare una rete di distribuzione alternativa di produzioni “a sfruttamento zero”. In quest’ottica ci proponiamo di sostenere le battaglie dei precari
dell’Istat, di Eataly, del Comune di Milano e di supportare la nascita di nuove reti sindacali volte al conflitto, così come le lotte degli studenti contro il lavoro non pagato nascosto dietro stage e “garanzie giovani” o ancora quelle che si articoleranno nel prossimo anno in vista di Expo 2015. Non riusciremo a realizzare immediatamente tutti gli spunti e le possibili iniziative che hanno attraversato le discussioni del Seminario. Ci mettiamo in cammino con la consapevolezza che la ricerca è aperta e non può che passare attraverso approssimazioni successive. Oggi alla retorica falsamente in-
novatrice del governo Renzi non possiamo pensare di contrapporre un’identità residuale, né accontentarci di dichiarare un semplice antagonismo alle politiche di austerità, intangibile anche a quei soggetti che provano oggi a resistere, unici in grado di rappresentare un’opposizione credibile. Ci dotiamo quindi di strumenti che possano essere utili a questi soggetti e che troveranno tempo e modo di specificarsi nel loro stesso dispiegamento, anche sulla base di chi parteciperà a questa rete. Una rete che nel suo concreto agire faccia dello slogan che abbiamo scelto una cosa viva e concreta, in cui ogni cosa è di tutti/e. ◀