Il paese di Saimir

Page 1



verdenero 15

noir di ecomafia


Valerio Varesi Il paese di Saimir

© 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2009, Valerio Varesi Immagine di copertina: © Lena Okuneva / Trevillion Images Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di marzo 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)

Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente. Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it

Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


VALERIO VARESI

il paese di saimir



1

Lei singhiozzava piano, rassegnata. Lui la sentiva muoversi accanto, tanti piccoli sussulti appena percettibili che si confondevano con quelli dell’asfalto percorso a gran velocità nel silenzio ovattato della Mercedes. Correre verso l’orizzonte nitido delle colline sulle strade deserte della domenica mattina gli era sempre piaciuto. Prolungava l’appagamento dopo l’amore con Micaela in un unico atto furibondo e feroce. Riviveva quei momenti eccitandosi di nuovo all’idea di come l’aveva rigirata nel letto. E in quella battaglia, col viso di lei sempre sospeso in una smorfia tra dolore e piacere, il suo pene duro gli sembrava una spada con cui infilzare un avversario domo, arreso e rassegnato al sacrificio, ma in 5


qualche modo mai sconfitto. Sentiva che penetrare una donna lo avvicinava pericolosamente al gusto di uccidere. Solo uccidere gli sembrava il modo per possedere definitivamente. Ma aveva sempre guardato a quel limite come a un confine pericoloso oltre il quale non avventurarsi. Forse per il timore di non poter più tornare indietro. Forse perché aveva troppo da perdere. Guidava provando una sensazione di invulnerabile, pacificante pienezza. Solo non capiva perché lei si ribellasse. Non aveva ancora compreso che era inutile? In un certo senso le era grato per le scenate, le grida e gli insulti perché in questo modo poteva riprendersi il suo ruolo. Quando poi lei si arrendeva ai primi schiaffi e cominciava a guardarlo con gli occhi imploranti e pieni di paura, erano momenti di torbido piacere pari a un orgasmo intimo, una carezza alle viscere. Dopo, a volte, la prendeva con furia come se volesse squartarla, gridandole oscenità, scivolando lungo il confine ambiguo del desiderio di annullarla. Si sentiva dominante, come un capobranco che non tollera insubordinazioni e tuttavia intuiva che lei si sottraeva, diventava fumo rifugiandosi nell’aria pensante dei loro ansimi. 6


Aveva bisogno di riaffermare il suo potere e ogni sfida lo rassicurava. Nel dominio s’illudeva di prendere possesso anche di quel mondo intimo che supponeva vasto in lei, ma ogni volta che era sul punto di invaderlo, gli occhi di Micaela lo respingevano lontano in una voragine d’indifferenza. La frustrazione che ne conseguiva ingigantiva il desiderio di possederla interamente scivolando lungo una catena di piccoli oltraggi. A volte arrivava a vagheggiare di costringerla a stare con un altro per umiliarla mentre lui la guardava, per poi riprenderla riaffermando il suo possesso con la cattiveria della vendetta. Allontanava queste idee dopo averle covate a lungo, per la paura di affondare in quel gorgo torbido che stava al centro della sua testa. Ci navigava ai bordi guardando con affascinato orrore il vuoto del suo centro. Micaela aveva smesso di singhiozzare. Osservava in silenzio sfilare ai lati case e alberi. Lui cominciò a parlarle. Sapeva che per un po’ non avrebbe risposto. Poi un lento disgelo di parole imbronciate via via fino alla prima risata trattenuta, senza però mai abbandonare quella sorta di deferente timore che era l’effetto di una sottomissione apparentemente 7


accettata. A lui piaceva plasmare le persone colpo su colpo come il ferro a caldo, incasellandole nel suo personale mosaico, ognuna nel proprio ruolo. Così come gli piaceva plasmare paesaggi urbani e rurali quando gli capitava sottomano una lottizzazione o sentiva l’odore di un affare. Stavano passando proprio dalle parti dove alcuni anni prima aveva costruito un campo da golf su un immenso podere appartenuto alla nobiltà napoleonica. Era stato difficile ma ce l’aveva fatta e ora quella fila di colline aveva cambiato faccia grazie a lui e avrebbe mantenuto quell’aspetto per tanti anni. Non c’era opera più duratura che far case. Gli uomini passano ma i muri restano. Certo, non avrebbe potuto costruire in quel modo, ma tutto il mondo è di chi osa con prepotenza. E lui di fronte a un sindaco riottoso si sentiva come a letto con le donne. Lo stesso bisogno feroce di sopraffare. «Gliel’ho messo nel culo!» aveva urlato quando era stato promulgato il condono edilizio e tutte le sue villette tirate su al posto di stalle, fienili, ricoveri di attrezzi, barchesse e persino pollai, gonfiando le cubature preesistenti, erano diventate di colpo inamovibili e perfettamente lega8


li. E adesso erano lì in mezzo al green, tra ettari a prato e alberature come in Irlanda, club house, foresteria-albergo, ristorante, parco giochi e un parcheggio da duecento posti macchina. Tutto come aveva voluto lui. Non era forse meglio adesso che con tutte quelle sudice cascine con tanto di vacche e merda alta mezza gamba? Certe nostalgie non le capiva. Forse perché non sapeva cosa fosse il rimpianto. Non rimpiangeva niente, lui. S’incazzava e basta se qualcosa non gli frullava per il verso giusto. Doveva funzionare tutto bene, com’era giusto che fosse. Come adesso che era domenica, Micaela aveva ripreso a sorridergli e avevano una giornata sgombra di fronte. Si erano fermati a osservare la valle dal passo. Lei aveva esclamato qualcosa meravigliata, mentre lui pensava a quei gruppi di case abbandonate sui versanti da trasformare in luoghi di vacanze. Bastava costruire una strada che tagliasse le montagne... Stettero uno di fianco all’altro a osservare con occhi differenti e, nel silenzio, il cellulare di Micaela cominciò a gracchiare nella borsetta. «Non puoi staccarlo?» ringhiò lui che non ammetteva intromissioni. Quindi rimase a guardarla 9


inquisitorio mentre lei balbettava dando l’idea di non capire granché. «Chi è?» tagliò corto, mentre Micaela gli porgeva l’apparecchio. «Inardo» gli annunciò. Era il capomastro, un fedelissimo che lavorava da una vita con lui. «Che c’è? E perché chiami a questo numero?» esordì sgarbato. «Ha tutt’e due i cellulari spenti.» «È domenica, ti sei scordato?» «Vabbè, ma è successa una cosa grave.» «Che cosa?» «Sa quel palazzo... Quello di quattro piani?» «Eh, e allora?» «C’è stato un incidente.» «Che incidente, cazzo!» «È venuto giù.» «Come è venuto giù?» sbraitò e la sua voce rimbombò tra gli spuntoni di roccia. «È crollato mezz’ora fa e la polvere ha coperto il quartiere attorno come la nebbia. Gli abitanti stanno tempestando i centralini di vigili, polizia, carabinieri e pompieri...» 10


Si immaginava tutto in un crescendo di rabbia. Quel palazzo era stato una rogna fin dall’inizio. Sfrattare gli inquilini anziani che ci abitavano da trent’anni era risultato estenuante. Quelle cisti non se ne volevano andare e avevano mobilitato il mondo. Poi l’iter per la concessione, il progetto... E quel menagramo cacasotto di ingegnere che continuava a dire che il palazzo è molto fragile, tirato su al risparmio... «Io non so cosa fare» riprese Inardo con voce implorante. «Cosa devo dire se mi cercano?» «Ti ricordi i nostri patti?» «Sì, me li ricordo dottor Rivalta, ma quelli riguardano la gestione dei cantieri, gli appalti della manodopera. Adesso qui è crollato tutto...» «Se è crollato tutto, la colpa di chi è? Non avevamo detto che avremmo risparmiato sul personale tanto tu avresti sorvegliato che non facessero cazzate? Quando ti ho proposto ventimila euro di premio non hai detto di no, ricordi?» Inardo mugugnò qualcosa tra i denti. «I patti erano chiari» riprese Rivalta. «E una volta stabiliti non si torna più indietro.» «Quindi?» chiese l’altro rassegnato. 11


«Quindi sono cazzi tuoi.» «No, dottore» riprese con tono di sfida Inardo «sono pure cazzi suoi, perché lì sotto è probabile che ci sia rimasto qualcuno». «Cosa stai dicendo? Oggi è domenica» alzò di nuovo la voce allarmato Rivalta. «E che novità sarebbe? Non sa che si lavora anche alla domenica? Quelli che scelgo io mica c’hanno il sindacato.» «Chi sarebbero?» «Se lo può immaginare: una squadra di albanesi.» «Clandestini?» «Costano meno e non chiedono niente.» «Sono rimasti tutti sotto?» domandò rassegnato Rivalta. «Non so, sono spariti. Alcuni erano al bar a fare colazione.» «E adesso dove sono?» «Chi lo sa! Questi scappano via. Hanno paura di essere espulsi.» «Bisogna assolutamente rintracciarli.» «E dove li trovo?» «Cazzi tuoi, Inardo!» ringhiò l’altro. «Tu li hai scelti e saprai dove ritrovarli no?» 12


«Io andavo solamente a prenderli col furgone. Mi aspettavano in un bar in periferia.» «Ecco, è da lì che devi cominciare.»

13



2

Mimma, la barista lì vicino, aveva avvertito il botto un attimo prima degli altri e la consistenza gelatinosa delle sue grandi tette si era mossa dentro la scollatura per lo spavento. Dopo era arrivata la polvere rotolando lungo le vie più rapida della nebbia. E approfittando di quella cortina, Altin, Mentor e Sabri se n’erano andati senza nemmeno pagare il panino. Solo quando furono lontani e già udivano le sirene, cercarono Saimir. Decisero di attenderlo al solito incrocio per tornare assieme, ma dopo mezz’ora non s’era ancora visto. Loro si sentivano miracolati. Forse era stata la Madonna a preservarli dal crollo o chissà che altro. Ma chi fosse stato non era un problema che li riguardasse più di tanto. Erano abi15


tuati a prendere quel che la vita dava senza chiedersi perché. Sapevano che non c’era risposta. Nemmeno si chiesero perché Saimir tardasse ad arrivare. Eppure erano sicuri di averlo visto uscire per fare colazione. Mentor diceva che si era incamminato, che era dietro di lui... D’altro canto era il più giovane, un ragazzo di diciassette anni, forse uno in meno o uno in più, chissà. Nemmeno loro sapevano quanti anni avesse. Saimir era l’ultimo di otto figli, aveva confidato, e i genitori l’avevano imbarcato su una nave con un permesso turistico. Via a cercar fortuna. Si era aggregato a vari gruppi di connazionali finché, all’ufficio stranieri della questura, aveva fatto amicizia con Mentor, Sabri e Altin condividendo con loro la ricerca di un lavoro, anche dopo la scadenza del permesso di soggiorno, quando aveva pensato di rientrare in Albania. L’avevano accettato purché fosse utile, ma ognuno doveva pensare per sé. E utile lo era stato quando avevano contrattato l’affitto in nero perché in quel modo potevano dividere le spese per quattro. Ma nessuno dei tre compagni di Saimir aveva la vocazione per fargli da padre. E se anche l’avessero avuta, la fame e la miseria l’avrebbero sopita. 16


Avevano fatto squadra. Mentor, il più anziano, sapeva manovrare cazzuola e badile quindi trattava lui coi capimastri. Del resto tutto era molto più semplice di come si potesse pensare. Bastava presentarsi in certi luoghi al mattino presto e c’era sempre qualcuno che offriva qualcosa. Nel giro di poco tempo possedevano perfettamente la geografia del lavoro in città. Una mattina Saimir aveva fatto notare che il loro modo di stare lì ad aspettare sul marciapiede o appollaiati sugli sgabelli di squallidi bar di periferia non era molto differente da quello dei loro coetanei che si vendevano sui viali agli omosessuali in cerca di carne fresca. Gli altri l’avevano guardato strani e lui non aveva capito se erano offesi per il paragone o perché l’avevano già fatto. Lì aveva compreso che la miseria mette tutto sullo stesso piano e la morale era un lusso che loro non si potevano permettere. Aveva anche capito che l’ansia di vita che li pervadeva e la lotta quotidiana per la sopravvivenza avrebbero cancellato ogni solidarietà. In quel bar di periferia avevano conosciuto Inardo. Non era il primo che si faceva avanti. Ce n’erano una mezza dozzina e tutti uguali nei loro modi sbrigativi, nell’arroganza del prendere o lasciare, se 17


vi va bene così sennò ciccia. Inardo non era nemmeno il peggiore. Certe volte, sul furgone col quale li portava in cantiere, raccontava un po’ dei fatti suoi, di come aveva cominciato lì al nord, lui emigrante dalla Sicilia con “le pezze al culo”, come diceva. Non che gli credessero, ma dava un po’ di speranza. Di cosa potevano vivere, se non di quello. Insomma, quelle volte lì, in cantiere ci andavano con più allegria pensando che forse poteva essere così anche per loro, che un giorno... Sognare non costa niente e tiene su. Per il resto, invece, era come gli altri o forse peggio. Non si accontentava di risparmiare sui contributi e tutto quello che i lavoratori normali avevano, ma pretendeva lo sconto anche sulla paga in nero che si praticava in giro. Allora iniziava una trattativa con Mentor, il più sgambato. Un duello, tira di qua, tira di là, ma impari. Si capiva che Inardo aveva sempre il coltello dalla parte del manico perché, alla peggio, buttava lì un “allora cercherò qualcun altro” che gelava tutti e prospettava settimane di stenti col padrone di casa che appena li vedeva aggirarsi in cortile senza far niente, piombava a chiedere conto di come avrebbero pagato l’affitto minacciando di cacciare tutti quanti in strada. 18


Così si finiva per combinare sulla parola a prezzi da strozzo, perché Inardo, di accordi scritti, proprio non ne voleva sapere. Da quel momento cominciava il capitolo delle condizioni: se vi fate male vi arrangiate e io non vi conosco né avete mai lavorato con me, se vi becca qualcuno dell’ispettorato dovete dire che eravate lì per chiedere lavoro, se lavorate anche i festivi vedrò di darvi qualcosa in più... E alla fine la raccomandazione capitale: la soluzione migliore è stare all’occhio e scappare quando si avvicina qualcuno di sospetto. Chissà se Saimir ce l’aveva fatta a scappare via prima del crollo, pensava Mentor mentre camminava con gli altri verso casa. Forse in mezzo a quel polverone aveva sentito arrivare gente e aveva applicato il consiglio di Inardo: scappare, scappare sempre da tutto. Forse, proprio per questo si era perso in una città che non conosceva e adesso girava a vuoto chiedendo col suo italiano di duecento parole impastato d’accenti e cadenze malassortite. Alla fine si sarebbe arrangiato. In fondo ciascuno di loro doveva badare a se stesso ed era libero di andare ovunque. A pensarci bene, questa era l’unica libertà che possedevano. 19


«Secondo te perché è venuto giù, di colpo?» domandò Altin a Mentor. «Non si è mai visto che un palazzo caschi così.» «Qui le case non sono di sassi come al villaggio. Lì crollano poco per volta, qui di botto. È questione di cemento. Di cemento armato» rispose l’altro. «Armato?» «Cazzo, Altin! Non hai visto come sono fatti i palazzi? Quando abbiamo lavorato negli altri cantieri non ricordi tutti quei ferri che spuntavano dai pilastri? Quello vuol dire. Per rendere elastico il cemento, ci mettono dentro dei tondini di ferro.» «Lì ne hanno messi un bel mucchio» intervenne Sabri. «Certo» ridacchiò Mentor «per i ricchi si fanno case robuste... Antisismiche». «Cosa vuol dire?» domandò ancora Altin, che appariva il più preoccupato. «Che resistono ai terremoti.» «Quel palazzo è venuto giù senza terremoto» constatò. «Infatti era una casa popolare. Ma forse abbiamo sbagliato anche noi...» mormorò Mentor. «Noi? E cosa?» indagò Sabri indispettito. 20


«Ci avevano detto di abbattere quel muro delle cantine... Tanto non era portante...» «Ce l’ha detto Inardo, mica abbiamo deciso noi» affermò il ragazzo con aria di sfida. «Sì, ma sai com’è Inardo... Viene, spiega, fa dei segni sui muri, poi se ne va... Quand’è che l’abbiamo buttato giù quel muro?» chiese infine Mentor. «Tre giorni fa, giovedì» precisò Altin. «Ecco, sì, giovedì» riprese pensieroso Mentor. «Io sono andato a tirare su le pareti al secondo piano e ho lasciato il martello pneumatico a Saimir giù nel seminterrato e quando sono tornato a vedere, il muro non c’era già più. Ma in quel casino che cazzo volete che mi ricordassi se il muro che aveva buttato giù era quello giusto!» «Ma sì che era quello giusto!» sbottò Sabri. «Saimir non è stupido. Semmai è quello stronzo di Inardo che ha segnato male.» «Quel palazzo era fatto da schifo, ecco cos’era» borbottò Altin con un filo di voce. «Non avete visto che si sbriciolava da solo?» «E chi lo sa cos’è successo» riprese Mentor. «E poi, in fondo, a noi che cazzo ce ne frega? Per quel che mi riguarda, ha ragione Altin: era un palazzo di 21


merda. Che se la prendano con chi l’ha fatto e ci ha mangiato sopra! Per il resto mi basta essere qui e averla scampata. È già molto essere vivi.» Per qualche istante rimasero in silenzio. «E Saimir?» chiese Altin pensieroso. «Saimir? Non può essere rimasto là sotto. S’era incamminato con noi. L’avete visto, no?» disse Mentor. Altin e Sabri si guardarono. «Ha posato la roba e sembrava stesse per uscire, ma poi non so se...» affermò quest’ultimo alzando le spalle. «Non sai se cosa?» «Se è davvero uscito o se è tornato dentro. Come faccio a saperlo? Mica sono suo fratello. Certo non era con noi al bar della tettona» disse Sabri. «Sì, ma qualche volta andava nell’altro posto, quel locale da ricchi che c’è uscendo dal palazzo a sinistra» fece presente Mentor. «Che sia andato lì?» ipotizzò Altin speranzoso. «Mah!» «State tranquilli. Vedrete che entro sera arriva a casa: basta aspettare» concluse Mentor.

22




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.