verdenero 18
noir di ecomafia
Alfredo Colitto Il candidato
© 2009, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 © 2009, Alfredo Colitto Immagine di copertina: © Microzoa/Getty Images Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono su carta riciclata 100% Finito di stampare nel mese di settembre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)
Gli autori devolvono una parte delle proprie royalties al progetto SalvaItalia di Legambiente. VerdeNero è una campagna di mobilitazione contro l’ecomafia e il silenzio che l’avvolge, un’occasione concreta per affermare nel paese una nuova cultura della legalità a difesa dell’ambiente. Per saperne di più: www.verdenero.it; blog.verdenero.it
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
alfredo colitto
il candidato
Per Ana Luz, movimento puro‌
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Camminava su un tappeto di sangue scuro. Un passo alla volta. Il peso su un piede, poi l’altro, prima il tacco, poi la punta. Faceva un suono appiccicoso. Il piede in avanti appoggiava sul sangue, lo sentiva cedere, elastico, poi la suola toccava la strada. Erano al massimo una decina di metri, ma dieci metri di sangue sono una distanza infinita. Federico Molinari non piangeva quasi mai. Il blocco risaliva all’infanzia, era qualcosa che aveva a che fare con l’uomo duro e coraggioso che voleva diventare. Ora però sentiva le lacrime scendere libere sulle guance.
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Oreste era restato sulla Mercedes a giocare con il suo iPhone. Non sono mica esseri umani, aveva detto. Federico notò gli uomini della scorta che scendevano dalla macchina dietro la sua. In testa aveva un rumore come di inferno in tempesta. Un passo dopo l’altro, il sangue sotto le suole. Era contento di essere in giacca e cravatta, di avere le scarpe nere con i lacci. Per lui era come un’armatura, una protezione che gli consentiva di guadare quel lago rosso senza svenire, senza vomitare. Superò i cadaveri di una dozzina di vacche, trascinate dalla polizia nella corsia delimitata dalle transenne. Erano state uccise dall’urto e proiettate sull’asfalto dall’apertura dei portelloni del camion. Alcune avevano le corna piantate nello stomaco di altre, due o tre erano state sventrate da pezzi di lamiera appuntiti. Più avanti c’era il camion con rimorchio, rovesciato su un lato. Alla fine arrivò davanti al poliziotto sull’altra riva della statale. Un uomo sui cinquanta, i capelli brizzolati sotto il berretto della divisa, che lo riconobbe e lo salutò con un cenno del capo. «Che è successo?» chiese Federico. 8
L’altro non parlò subito. «I documenti di viaggio dicono che questo camion trasportava lavatrici», sbottò, in tono ostile. «Se non fosse uscito di strada non avremmo mai saputo che era pieno di vacche.» «L’autista che dice?» «È morto. Ora per favore, dottor Molinari, risalga in macchina. Sta bloccando la fila.» Il traffico era stato deviato su una corsia unica. Solo ora Federico si rese conto che il rumore infernale che gli rombava nelle orecchie era un concerto di clacson scoppiato alle sue spalle. Tornò verso la Mercedes, senza guardare cosa facevano quelli della scorta. Le lacrime si erano seccate sul viso. Si mise al volante e ripartì. Finalmente i clacson smisero di assordarlo. «Nel mio programma si deve parlare anche di queste cose» disse, secco. «Me ne frego se non porta voti.» Non si voltò a guardare Oreste. Non gli interessava sapere quello che pensava. Non stavolta. Meno di cento metri dopo passarono davanti a una fila di manifesti elettorali, con le facce sorridenti dei candidati, il simbolo della lista e un motto. C’era anche la sua. Capelli neri un po’ trop9
po lunghi per un politico, occhi verdi, sguardo intenso, camicia e cravatta, ma niente giacca. Il motto della sua campagna era: “Possiamo e dobbiamo”. Guardandolo, Federico scosse la testa in modo quasi impercettibile. Più andava avanti, più gli sembrava una lotta contro i mulini a vento. L’incidente che aveva appena visto l’aveva scosso. Sentì di nuovo le lacrime pungergli gli occhi, e le scacciò voltandosi dall’altra parte della strada. Ma fu quasi peggio. Da quella parte c’era una strada sterrata che si inoltrava tra i campi, e un cartello di metallo che qualcuno aveva piegato. Il nome del paese quasi non si leggeva, ma Federico lo ricordava benissimo. «San Sebastiano Trafitto» disse a mezza voce. Oreste si passò una mano tra i capelli rossi. «Ecco, ci mancava solo San Sebastiano.» Federico prima scosse la testa, poi ci ripensò. «Perché no? Quel posto da solo è un manifesto.» «Un manifesto.» «Già. Che denuncia l’incuria e il lassismo di questa regione. Finché continueremo a permettere cose del genere, non riusciremo a fare un solo passo avanti.» 10
«Ma tu cosa avresti fatto?» scattò Oreste. «Quei poveretti erano rimasti senza niente, persino senz’acqua, Cristo. Dovevamo dirgli: “Cazzi vostri, restate nella vostra regione”?» Federico sorrise appena. Nei rari momenti in cui si scaldava, Oreste tornava a essere l’amico che aveva conosciuto all’università, quello che aveva dei sentimenti e non ragionava solo in base ai sondaggi e alla cura dell’immagine. «Non è questo il punto, lo sai bene» disse. «Ovvio che dovevamo fare qualcosa. Io parlo di quello che è successo dopo.» Oreste annuì. «Hai ragione, è uno scandalo.» Federico si voltò a fissarlo, sorpreso. Oreste aveva solo pochi anni più di lui, ma non li portava bene. Capelli rossi radi, cicatrici di acne sul viso, e un’espressione sempre un po’ a disagio che i completi Armani o Pal Zileri non bastavano a nascondere. «Però ci sono problemi più urgenti» continuò Oreste. «Non puoi mettere tutto nel programma, se no diventa un calderone.» Federico annuì, controvoglia. Purtroppo era vero. Ma c’erano cose a cui non era disposto a rinunciare. Finalmente il traffico riprese a scorrere su due 11
corsie, ma l’atmosfera in macchina non si alleggerì. Il sole cominciò a diventare sempre più rosso a mano a mano che scendeva verso le colline. Il mare dall’altra parte non si vedeva, perché nel tratto tra Termoli e Foggia la statale Adriatica abbandona la costa e si inoltra nell’interno. Federico allungò un dito sul cruscotto e spense l’aria condizionata. Oreste, senza alzare lo sguardo dal touch screen dell’iPhone, la riaccese. Federico decise che era arrivato il momento di riprendere il discorso interrotto prima dell’incidente. «Traffico di rifiuti» disse, senza togliere gli occhi dalla strada. «Riciclaggio di fanghi tossici. Abusivismo edilizio. Combattimenti di cani. Corse di cavalli clandestine. Dimentico qualcosa?» «L’archeomafia» disse Oreste, sarcastico. «Il furto organizzato di opere d’arte e reperti archeologici da rivendere a collezionisti senza scrupoli. Ci vuoi anche questo, nella lista?» «E mettiamocelo. Perché no?» Oreste sfiorò l’iPhone e al posto del file che stava visualizzando apparvero una serie di icone colorate. Poi lo infilò nella custodia come fosse una reliquia. «Federico, per favore. Lo vuoi capire o no che di 12
queste cose non gliene frega niente a nessuno? Se metti nel tuo programma l’elenco che hai appena fatto, prendi solo i voti degli idealisti. E gli idealisti sono pochi. Questa è la realtà.» «La realtà è che l’Italia sta affondando» ribatté Federico, voltandosi a guardarlo negli occhi. «E siccome è uno stivale, il piede è quello che affonda per primo. Nel piede dell’Italia ci siamo noi: la Puglia.» «Bella questa, me la segno.» Oreste riprese l’iPhone e cliccò su un’icona. «La mettiamo nel prossimo discorso.» Federico scosse la testa, senza dire nulla. Era stato Oreste a chiedergli di entrare in politica, per combattere i problemi della Puglia. I problemi della Puglia erano legati in gran parte alla criminalità organizzata, quindi Federico aveva deciso di fare un elenco di tutti i traffici controllati dai vari clan e di metterli nel suo programma elettorale. Poi, se fosse diventato presidente della Regione, avrebbe fatto in modo di combatterli e di tenere aggiornati gli elettori sui risultati. Punto per punto, traffico per traffico. Ma nel suo staff nessuno lo appoggiava. Va bene combattere la mafia, dicevano, ma senza esagerare. 13
«A proposito, nell’elenco ci voglio anche il furto di bestiame e la macellazione clandestina.» Oreste fece una faccia come se gli avessero pestato un piede. «Federico, io sono il tuo spin doctor», disse, spazientito. «Il mio compito è dirti cosa fare per migliorare la tua immagine, ma poi tu devi farlo, se no è inutile.» Federico continuò a guardare la strada, senza dire nulla. Oreste fece un sospiro esagerato, abbassò la testa e tornò a navigare in internet con il telefonino. Intorno non c’erano altro che campi. Il sole calante adesso era alla loro destra, e inondava la macchina di raggi rossastri. Migliorare l’immagine. Spin doctor. Stronzate americane, le avrebbe definite suo padre. Se fosse stato vivo. Federico si chiese, non per la prima volta da quando aveva accettato la proposta di Oreste, cosa avrebbe pensato il padre della sua decisione. La mente gli si riempì di immagini di vent’anni prima. Manifesti a lutto con la scritta “La moglie e i figli affranti annunciano la scomparsa di Ugo Molinari”. La bara in chiesa, il cranio ricostruito per nascondere i buchi dei proiettili. Il tanfo di fiori e 14
candele e di un’altra cosa che a lui, dodicenne, aveva dato il voltastomaco. «Attento!» gridò Oreste. Federico inchiodò per evitare di tamponare un SUV rientrato troppo presto dopo un sorpasso. Anche l’auto della scorta, dietro di loro, fu costretta a una brusca frenata. Il conducente del SUV alzò una mano per scusarsi, poi accelerò, continuando a parlare al cellulare. «Idiota» disse Federico, piano. Oreste riaggiustò la cintura di sicurezza, che gli era finita sulla gola, e riprese in mano l’iPhone. Federico guardò l’orologio. «Stasera non vengo alla festa di Maria.» «Perché? La conferenza stampa finisce alle otto e mezza. Hai tutto il tempo…» Lui lo interruppe con un gesto. «Non sono in vena. Farei venire il cattivo umore a tutti.» «Carlo si offenderà. Per non parlare di Maria. Lei ci resterà malissimo, se non vieni.» «Oreste, lascia perdere» disse Federico. «A te forse quella strage di vacche non ha fatto nessun effetto. Io non riesco neppure a pensare di poter andare a una festa.» 15
Rallentò per affrontare una curva, si trovò in faccia il rosso del tramonto e risentì con un brivido il rumore che facevano le gomme sul sangue in mezzo alla strada. In quel momento seppe la risposta alla sua domanda. Suo padre non credeva nella possibilità di cambiare la situazione stando con il culo attaccato a una poltrona. Ma se cominciava una cosa, la portava a termine.
A San Sebastiano Trafitto, Claudia Randi si alzò dalla poltroncina girevole davanti al computer e andò a sedersi sul divano. Aveva fatto un bel po’ di lavoro, quel pomeriggio. Alzò entrambe le braccia, si stirò e sbadigliò. Fuori dalla finestra lo spettacolo del crepuscolo, strisce di un rosso violento in un mare di grigio, le sembrava molto meno poetico visto attraverso le sbarre della finestra. Tutte le finestre, a San Sebastiano, avevano le sbarre. Forse era una questione strutturale, per dar loro maggiore solidità, o forse era per la sicurezza. L’effetto comunque era quello di vedere il cielo a strisce. 16
«Mamma, ho fame!» gridò una voce sottile dalla camera da letto, l’unica altra stanza di quel prefabbricato in lamiera. Claudia si rese conto che era quasi ora di cena. «Chi è che ha fame?» chiese con un sorriso, alzandosi dal divano e affacciandosi in camera da letto. «Io!» rispose Simone. «Gioca ancora un po’. Adesso la mamma prepara la pappa.» Restò a guardarlo dalla soglia. Tre anni e mezzo, capelli biondi e occhi scuri, proprio come lei. Naso e mento invece li aveva presi dal padre. Claudia pensò a com’era strano che in Simone quel naso e quel mento gli sembrassero bellissimi, mentre Sandro, il suo ex marito, non era certo un campione di bellezza. Non era un campione di niente, in realtà. Ancora si chiedeva come mai l’avesse sposato. Si voltò e andò ad aprire il frigo, due passi più in là, nel minuscolo angolo cottura ricavato tra la scrivania Ikea e la porta del bagno. Una cosa positiva in quella casa era che tutto si trovava a portata di mano, pensò con ironia. Solo che bisognava stare attenti a dove mettere i piedi. Si era riempita di livi17
di, andando a sbattere contro gli spigoli. Tirò fuori dal frigo pomodori freschi, cipolla e una scatola di tonno, per cucinare la pasta col tonno, il piatto preferito di Simone. Pelò la cipolla e la tagliò a strisce sottili, lacrimando e strizzando gli occhi. Tutti i trucchi casalinghi per evitare quello spiacevole effetto con lei non funzionavano. Bagnare il coltello sotto l’acqua corrente, mettere le cipolle a mollo in acqua e aceto, tagliarle tenendo un pezzo di pane in bocca… aveva provato di tutto, ma non c’era verso. In quel momento il suo cellulare si mise a squillare. Era la suoneria destinata ai numeri non in rubrica. Claudia girò intorno al divanetto, ancora mezzo accecata dalle lacrime, e batté un ginocchio contro un cavalletto della scrivania addossata alla parete. Non aveva mai imparato a muoversi bene in quella casa da bambole. Tutto era troppo stretto, ogni oggetto, fosse pure un bicchiere, sembrava occupare troppo spazio. La scrivania poi era una giungla. Monitor, stampante, penne, matite, una bottiglia d’acqua e una quantità di carte. Guidata dalla suoneria, rintracciò il cellulare sotto il fascicolo delle norme regionali per la macellazione. Il 18
display indicava “numero privato”. Con diffidenza schiacciò il tasto verde. «La dottoressa Randi?» chiese una voce garbata. «Mi spiace, ha sbagliato numero» rispose Claudia. «Non credo proprio» disse l’uomo. «So chi è, cosa fa e soprattutto dove vive: in quel paese ridicolo fatto di baracche.» Claudia sentì il cuore accelerare in modo disordinato. Riattaccò e spense il telefonino. Qualcuno l’aveva trovata. Era stato tutto inutile. Troppo agitata per cucinare, afferrò sigarette e accendino sul tavolo, attraversò la sala con attenzione, aprì la porta d’ingresso e si sedette sul gradino. Guardando le file di baracche intorno alla sua, a destra, a sinistra, davanti, separate da stradine ghiaiate, si sentì prigioniera in un assurdo gioco di costruzioni. Il nome tecnico di quelle case era “prefabbricati monoblocco”. Parallelepipedi in lamiera d’acciaio zincata, tutti bianchi, con un telaio portante in colori diversi lungo gli angoli. Rosso, giallo, marrone, azzurro, verde. Forse il tentativo dei disegnatori che li avevano progettati era quello di dare un po’ di allegria, ma l’effetto era inquietante. Claudia accese la Camel e aspirò con più forza 19
del necessario. Il fumo caldo nei polmoni le fece bene. All’anima, più che alla salute. Il borbottio del gruppo elettrogeno faceva da sottofondo al crepuscolo. L’avevano installato in una grotta che si apriva sulla collinetta appena fuori dal paese, ma il rumore arrivava fin lì. I primi giorni ne era tanto infastidita da non riuscire a dormire. Ora non lo sentiva quasi più. Alzò gli occhi a guardare la grotta. Una spaccatura verticale nella roccia calcarea, larga appena un paio di metri, su una piccola spianata un po’ più in alto del villaggio. La strada sterrata che scendeva dalla statale arrivava al paese, lo attraversava come una coltellata, risaliva e andava a morire lì, contro quella spaccatura nella collina. L’ingresso non lasciava intuire lo spazio che era stato ricavato all’interno. Claudia soffiò una boccata di fumo, scuotendo la cenere sulla ghiaia con uno scatto del polso. Cercava di non pensare a ciò che stava facendo a San Sebastiano. A come era cambiata la sua vita negli ultimi mesi. Ai rischi. Aveva un solo obiettivo: una vita migliore per lei e Simone. La grotta non conteneva solo il generatore di cor20
rente, ma anche il segreto di San Sebastiano, il motivo per cui in quel paese di poveracci, che avevano perso tutto e si erano ridotti ad abitare in una specie di villaggio della Lego a misura d’uomo, era rifiorito il benessere. Tanto da poter accogliere anche lei, e pagarla bene. All’inizio Claudia doveva andare alla grotta una volta ogni otto o dieci giorni. Ora anche due o tre volte alla settimana. Sempre di notte, ovviamente. La vera vita di San Sebastiano si svolgeva di notte. Aveva fatto fatica ad abituarsi, ma ormai era diventata una di loro. Tanto che nelle notti libere si svegliava lo stesso, e si metteva a lavorare al computer. Mancavano solo pochi mesi alla scadenza dell’accordo, poi sarebbe scomparsa di nuovo, con documenti falsi per lei e Simone, e abbastanza soldi da ricostruirsi una vita. Invece qualcuno l’aveva trovata, e ora sarebbe finito tutto. Da dietro l’angolo oltre la fila di baracche sbucò una Punto blu, che si avviò lentamente lungo la stradina, per non sollevare polvere. Passando davanti a lei, la donna al volante si fermò e la salutò dal finestrino aperto. 21
«Hai bisogno per stasera?» chiese. «Anteo mi ha detto che c’è del lavoro in arrivo.» Claudia non ne sapeva niente. Anteo avrebbe dovuto dirlo anche a lei, invece si limitava a riferire al comitato che in paese prendeva tutte le decisioni. E ormai le sue parole somigliavano sempre più a degli ordini. Così le aveva detto zio Gianni, una volta che era in vena di confidenze. Fece il possibile per mettere insieme un sorriso. «Allora sì, grazie, Elisabetta. Sai che Simone ti adora.» Lei fece una faccia felice, che per un attimo solo fu attraversata da un’ombra. «Vengo verso le dieci e ci penso io a metterlo a letto, non preoccuparti.» «Ti aspetto», disse Claudia, e la donna ripartì. Elisabetta le faceva da babysitter e non voleva sentir parlare di compenso. Tre anni prima aveva perso i figli piccoli, come tutti gli altri genitori del paese, ed era felice di potersi occupare di un bambino. I pezzi del grande Lego che era diventato San Sebastiano Trafitto dopo il disastro cominciavano ad animarsi. Quelli che facevano un lavoro normale tornavano a casa, dai campi o dalla città. Gli altri si sedevano a tavola, preparandosi a uscire dopo 22
cena per un lavoro meno normale. Claudia, nata e cresciuta al Nord, faceva fatica a capire la mentalità dei paesani. Tutti sapevano e nessuno parlava. E non solo perché in ogni famiglia c’era almeno una persona implicata. No, era perché consideravano un loro diritto fare quello che volevano in casa propria. Lei sapeva di commettere un reato. Loro sapevano che ciò che facevano era considerato un reato dalla legge, ma lo Stato, come le aveva detto Anteo Serra, il giovane responsabile del benessere ritrovato di San Sebastiano, era “il primo delinquente”, perciò non poteva fare la morale a nessuno. Claudia aspirò altre due boccate, una dietro l’altra, tenne il fumo dentro e quando esalò scoprì di aver ritrovato la calma. Non doveva cedere al panico. Non era abituata ad arrendersi e non lo avrebbe fatto neppure questa volta. Spegnere il cellulare era stato un gesto istintivo, dettato dalla paura. Un gesto sbagliato. Ma di certo l’uomo avrebbe richiamato. E stavolta lei non avrebbe riattaccato. Doveva scoprire chi era e cosa voleva. Solo così avrebbe potuto difendersi. Schiacciò la sigaretta sulla ghiaia della strada, si 23
alzò in piedi e tornò in casa, dove Simone reclamava la sua pasta col tonno.
Nel piazzale buio, contornato da alberi e siepi e illuminato solo dai lampioncini sistemati tra le piante e lungo il vialetto, scesero prima gli uomini della scorta. Federico li vide parlare con quelli della sicurezza della villa, poi lo vennero a prendere. Tutta quella prudenza era necessaria, lo sapeva. Però il giorno che lo avessero voluto uccidere, la scorta non sarebbe servita a niente. Scese dalla Mercedes e si avviò verso l’ingresso della villa. Sulla destra, il giardino e la piscina erano illuminati in modo discreto. Alla porta non c’era nessuno ad accoglierlo, ma in corridoio gli arrivò addosso Umberto Mancini, il capolista degli avversari, che stava uscendo in quel momento da un bagno. Era un cinquantenne paffuto e con il riportino. Quando lo vide, si aggiustò il cavallo dei pantaloni e corse a stringergli la mano. Barcollava e puzzava di vino. «Federico, ben arrivato! Oreste aveva detto che non venivi, ma sapevo che ci avresti ripensato.» 24
«Io invece non lo sapevo. È stata una decisione dell’ultimo minuto.» Dopo la conferenza stampa Federico era tornato a casa, si era tolto le scarpe, aveva fatto un giro in cucina, aveva tirato fuori le cose dal frigo e poi le aveva rimesse dentro. Quando finalmente aveva smesso di resistere aveva chiamato il capo della scorta. Voleva vedere Maria. «Sì, sì, raccontala a un altro» disse Mancini. «Qua per te è una riserva di caccia! Le ragazze aspettano solo te.» Quella familiarità eccessiva gli dava fastidio, ma Federico si costrinse a sorridere. L’altro lo prese sottobraccio, accompagnandolo verso il salone. Dal colletto della giacca emanava un tanfo sottile di alcol e sudore. «Il fatto è che tu sei bello» disse Mancini, come continuando ad alta voce un suo pensiero. Aveva lo sguardo alterato. «Piaci. Per questo sali nei sondaggi.» Gli strinse il braccio come se lo stesse palpeggiando, e Federico si sottrasse alla stretta. «Che c’entra?» rispose, seccato. «Il mio programma…» «Il tuo programma la gente lo sta a sentire, 25
soprattutto le donne, perché hai i capelli folti e gli occhi verdi. Sei alto, magro, giovane. Invece io…» «Tu sei ubriaco», lo interruppe Federico. «Piantala.» Sbucarono nel salone, che in realtà era una successione di tre sale collegate tra loro da grandi archi senza porte. Mancini si fermò all’ingresso, battendo le mani e urlò, per farsi sentire al di sopra del brusio: «Signori, attenzione! È arrivato il mio avversario!». Ci fu un breve applauso. Molti invitati si voltarono, qualcuno applaudì, altri sorrisero, altri ancora sollevarono i bicchieri. Federico ricambiò saluti e sorrisi, cercando con gli occhi una via di fuga. Finalmente il padrone di casa si alzò da una poltrona con un movimento agile, nonostante i capelli bianchi e la faccia sofferente, e gli venne incontro. Mancini, imperterrito, si mise a gridare: «Un brindisi per il padre della festeggiata, il generale Carlo Ottolini!». Si scatenò un applauso, durante il quale il generale riuscì a sottrarre Federico dalle grinfie di Mancini, pilotandolo verso il divano in pelle color crema dove era seduto Oreste, con i capelli rossi splenden26
ti di gel e le cicatrici dell’acne abilmente nascoste dal fard. Era attorniato da tre belle ragazze in abito lungo. Anche lui sembrava ubriaco, ma a differenza di Mancini aveva la sbronza cattiva, gli si vedeva in faccia. «Hai combinato proprio un bel casino», disse subito, in tono polemico. «Sarai contento, immagino.» Si riferiva alla conferenza stampa. Le ragazze si scambiarono un’occhiata e un attimo dopo erano già lontane. Federico si lasciò cadere sul divano accanto a lui. Il generale stava per lasciarli soli, ma Oreste lo trattenne per un braccio. «Carlo, ti prego, diglielo anche tu che così non va bene. Di te ha stima, forse lo convinci.» Federico ormai aveva capito di aver fatto male a venire. Cercò Maria con gli occhi ma non la vide. Il generale si sedette su una poltroncina di fronte a lui. «Oreste ha ragione, Federico» disse piano. «Stai correndo rischi inutili.» «Un brindisi per quel cornutazzo là!» gridò ancora Mancini, stavolta indicando Oreste. «Il ciclone 27
Federico Molinari è in gran parte merito suo. Oreste, come hai detto che ti si deve chiamare?» «Spin doctor!» gridò di rimando Oreste, abbandonando per un attimo la faccia scura e alzando il bicchiere. «Ma il merito è di Federico. Non finge mai di essere diverso da quello che è, e la gente lo adora.» «Comunque nei sondaggi sono ancora in testa io!» urlò Mancini. Due suoi compagni di partito lo presero sottobraccio, convincendolo a seguirli in giardino. Federico dopo la conferenza stampa si era infilato subito in macchina, circondato dalla scorta che teneva a distanza i giornalisti, proprio per non discutere con Oreste. Ma ormai era lì, e tanto valeva lasciarlo sfogare. Agguantò al volo un bicchiere di bianco da un vassoio e si preparò alla predica. Più che una predica fu un attacco. «Se non ti vado bene», disse Oreste, con rabbia e senza preamboli, «lascio il posto e tanti saluti». «Che c’entra?» Federico smise un attimo di guardarsi intorno e lo fissò negli occhi. «Chi ha detto che non mi vai bene?» «L’hai detto tu, con le tue azioni. Se cambi il 28
discorso che abbiamo concordato senza dirmelo, vuol dire che non ti fidi di me.» «Non ho cambiato quasi nulla», ribatté Federico. «Ho solo…» «Aggiunto i nomi» concluse Oreste. «E la storia dei manifesti. Ti pare poco?» Federico aveva mosso accuse circostanziate ad alcuni esponenti della Nuova Sacra Corona Unita, l’organizzazione di stampo mafioso che si stava ricostruendo in Puglia, facendo nomi e cognomi e chiedendosi come mai in un territorio in fondo piuttosto piccolo non si riuscisse mai ad arrestare nessun latitante. Inoltre, aveva annunciato di voler stampare una serie di manifesti con le facce dei latitanti ricercati, da esporre in tutte le città e paesi della Puglia, in modo che la gente non potesse più trincerarsi dietro i “non sapevo”. «La storia dei manifesti non l’avevo preparata, mi è venuta sul momento», disse. «In quanto ai nomi, non è nel mio stile fare accuse generiche. Lo sai, no?» «Se vuoi vincere, alle elezioni ci devi arrivare vivo, lo vuoi capire?» Intorno a loro tutti parlavano a voce alta, ridendo forte. Dalle casse dello stereo su un lato della 29
sala usciva un flusso di acid jazz a basso volume. Una ragazza con le caviglie grosse e i tacchi altissimi, si avvicinò e chiese: «Che vuol dire spin doctor?». «Ma niente, Rina», rispose Oreste, seccato. «Stronzate americane, come dice Federico. In pratica è quello che si fa il culo per far vincere il candidato e alla fine nessuno lo ringrazia.» La ragazza si allontanò perplessa, con un passo da equilibrista sulla corda. Finalmente Federico scorse Maria, attorniata da ragazzi e ragazze della sua età. Quel giorno compiva diciannove anni. Si voltò verso il generale, che era rimasto seduto in poltrona. Ma quando vide lo sguardo nei suoi occhi grigi preferì non dire nulla. Maria si girò dalla sua parte e appena lo vide venne dritta verso di lui, senza neppure scusarsi con quelli che le stavano intorno. Federico la osservò avvicinarsi con un misto di desiderio e apprensione. Maria aveva diciannove anni, lui trentatré. Da bambina la teneva sulle ginocchia: ora pensava che suo padre avrebbe fatto bene a cacciarlo di casa, per come la guardava. «Sei arrivato», disse lei, appena gli fu davanti. «Non ci speravo.» 30
Si scambiarono due baci leggeri sulle guance. Lei lo strinse appena un po’ più forte del dovuto, lui aspirò il profumo dei suoi capelli morbidi. «Vieni, ti faccio conoscere i miei amici», disse Maria, prendendolo per mano. Federico si accorse di non aver finito il discorso con Oreste solo quando erano già lontani. Si voltò verso il divano, e lo vide ingrugnito che fissava il bicchiere. Gli amici di Maria in quella festa erano al massimo una decina. Tutti gli altri erano amici del padre, o gente che non si poteva non invitare. Al suo posto Federico si sarebbe sentito defraudato, Maria no. Prendeva la vita come veniva, la spremeva come un’arancia e non sputava neppure i semi. I suoi amici invece sembravano giovani normali. Comunque erano cordiali, allegri, anche intelligenti. Gli fecero domande sulla politica. Sulla sua lotta contro la mafia, su com’era non poter andare da nessuna parte senza la scorta. Uno voleva sapere se era davvero possibile cambiare qualcosa in Italia, visto che la mafia era infiltrata dappertutto, nelle amministrazioni, in Parlamento, tra le forze dell’ordine. «Non so se è possibile cambiare», rispose Federico. «So solo che vale la pena provarci.» 31
Quella frase, che sarebbe andata benissimo in un programma televisivo, davanti a quei ragazzi gli apparve nuda nella sua idiozia, come tutte le frasi fatte. Bevve un sorso di bianco per darsi un contegno. Un biondino firmato dalla testa ai piedi, scarpe Clarks, maglietta Lacoste, occhiali Prada, lo guardava con un misto di odio e invidia. All’inizio Federico pensò che fosse il figlio di uno dei suoi avversari politici, poi notò come guardava Maria attaccata al suo braccio e capì che era geloso. Questo lo fece sentire bene. «Tra un po’ c’è una sorpresa», gli sussurrò Maria all’orecchio. «Vuoi…» Due ragazze arrivarono come uccelli da preda e la portarono via, verso la portafinestra che dava sul giardino. Lei le seguì contenta, senza finire la frase, senza neppure voltarsi indietro. Appena fuori si tolse le scarpe, avanzando a piedi nudi sull’erba. A un tratto si voltò a guardarlo e gridò: «Sai ballare la pizzica?». Poi, senza aspettare una risposta scomparve nel buio. Nella sala si abbassarono le luci, il flusso del jazz si interruppe di colpo. Dall’uliveto oltre il giardino 32
il suono di un flauto e una voce femminile modulata si insinuarono nel salone. Tutti cominciarono a migrare dall’altra parte della portafinestra. Quando l’esodo fu quasi completo, in giardino esplosero suoni di tamburi e chitarre, nel ritmo indiavolato della pizzica salentina. Da dietro gli alberi uscirono danzatori e suonatori, con tamburelli, organetti, violini e flauti. Le donne giravano su se stesse, gli uomini giravano intorno alle donne. Il pubblico gridò e applaudì. Oreste fu tra gli ultimi a uscire dal salone. Quando passò accanto a Federico gli strinse una spalla: «Rischio anch’io come te», disse, serio. «Ma io non ho la scorta. O accetti di concordare con me tutto quello che dici e fai o mi licenzi.» Poi si allontanò in fretta per raggiungere il gruppo. Federico arrivò fino alla portafinestra, si voltò e tornò dentro. Era l’unico rimasto nel salone, anche i camerieri erano usciti e si stavano raggruppando intorno a un tavolo coperto da una tovaglia candida e pieno di bottiglie, bicchieri e secchielli del ghiaccio, vicino alla zona delle danze. Vide una luce filtrare da dietro la porta socchiusa della sala del biliardo. Entrò senza bussare e avan33
zò sul parquet. Da fuori arrivavano attutiti le voci e i suoni della taranta. Il generale era di spalle, seduto in poltrona davanti alla vetrata chiusa e sorseggiava un whisky. Senza voltarsi indicò la bottiglia di Lagavulin sul panno verde del biliardo, alla sua sinistra. «Lo sapevo che non saresti uscito», disse. «Prendi un bicchiere.» «Non mi piace ballare, Carlo», rispose Federico. Poi si avvicinò al tavolo e si versò un whisky. «Maria se ne va», disse il generale, con un tono incolore. «Questa è la sua festa di addio.» «E dove va?» «All’università. In America. Non te l’ha detto?» «No.» Federico si sentì come derubato di qualcosa. Il whisky gli scese in gola senza più sapore. «So che non ami le prediche», disse Carlo Ottolini, «ma c’è una cosa che devo dirti.» «Perché?» «Per avere l’illusione di aver fatto quello che potevo per te.» Federico strinse le labbra. Contro i consigli non richiesti non c’era niente da fare. La cosa migliore 34
era ascoltarli e dimenticarli. «Immagino di che si tratta», disse. «È sbagliato fare nomi. Posso parlare della mafia ma non dei mafiosi. Era questo?» Carlo Ottolini scosse la testa. «No. Oreste ha ragione in quanto ai nomi, ma se non vuoi ascoltarlo sono affari tuoi. Quello che voglio dirti io è diverso: fai pure i nomi, se vuoi, ma le indagini lasciale fare alla polizia.» Federico non disse nulla. I suoni della pizzica penetravano nella stanza nonostante i vetri chiusi. Il generale riprese: «Non si tratta di avere o non avere paura. Si tratta della tua vita. Se vai in giro a mettere in dubbio quello che fanno le forze dell’ordine, ti giochi la simpatia degli unici che possono proteggerti». «Non metto in dubbio niente, Carlo. Mi sono trovato a passare sul luogo di un incidente, ho visto un camion che doveva trasportare lavatrici e invece era pieno di vacche rubate, e qualche giorno dopo sono andato a chiedere se avevano scoperto qualcosa di utile.» «Tu sei un politico. Quando vuoi sapere qualcosa, chiedila ad altri politici. Resta nel tuo orto, te lo dico per il tuo bene. Tu non sai com’è.» 35
Il generale aveva ragione, Federico lo sapeva. Lui era così, non faceva altro che sconfinare. Dappertutto. Vuotò il bicchiere e lo posò sul tavolino. Andò a mettersi accanto al suo ospite, senza coprirgli la visuale del giardino. Maria ballava scatenata in mezzo ai suonatori, i capelli sciolti, la gonna che sembrava viva. Il ritmo profondo della musica prendeva allo stomaco. «Invece lo so com’è, Carlo. Noi che ci consideriamo la parte sana del paese, abbiamo anche noi i nostri clan, siamo gelosi di quel po’ di potere che siamo riusciti a conquistarci, e non perdoniamo mai un’offesa. Non siamo poi molto diversi da quelli che vogliamo combattere.» «Possiamo e dobbiamo» disse il generale. «Così finivano sempre gli articoli di tuo padre. E ora è diventato il motto della tua campagna.» Si interruppe, ed entrambi guardarono fuori per un lungo momento. «Sai cosa mi disse Ugo, una volta? Eravamo proprio qui. Con lui a biliardo perdevo sempre. “Spero che mio figlio non entri mai in politica”, disse proprio così. Pochi giorni dopo gli spararono.» Federico non se l’aspettava. Quella confessione 36
fu come un pugno al plesso solare. Scopriva continuamente cose di suo padre che non sapeva. «Perché mi dici questo proprio adesso?» Il generale sospirò, scosse la testa. «Mi addolora che Maria se ne vada, ma è la cosa migliore per lei», disse. «In questa terra non c’è futuro per gente come voi due.» Si alzò dalla poltrona e uscì, senza aggiungere altro. Federico si avvicinò alla finestra, aprì i vetri. La risata di Maria, inconfondibile e piena di vita, riempì la stanza.
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