verdenero 1
storie di ecomafia
Sandrone Dazieri Bestie © 2007, Sandrone Dazieri, www.sandronedazieri.it © 2007, Edizioni Ambiente S.r.l., via Natale Battaglia 10, 20127 Milano www.edizioniambiente.it; tel. 02 45487277 Immagine di copertina: Gorilla © Charles & Josette Lenars/CORBIS Ufficio stampa: ufficiostampa@reteambiente.it; tel. 02 7490794 Distribuzione: PDE, commerciale@pde.it; tel. 055 301371
Tutte le edizioni e ristampe di questo libro sono stampate su carta riciclata 100%
Finito di stampare nel mese di aprile 2007 presso Arti Grafiche del Liri – Isola del Liri (Fr)
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
sandrone dazieri bestie
Max mi fissava con gli occhi spenti porgendomi il caffè sul bancone del bar. Era il primo giorno di primavera, faceva freddo e pioveva. L’albergo Capriolo sembrava ancora piÚ vecchio e triste nella sua solitudine da Provinciale della Val Brembana. Il punto esatto sulla carta era tra Isola di Fondra e Trabuchello, a settecento metri di altitudine e a quarantacinque chilometri da Bergamo. I turisti di passaggio erano una miseria, nonostante la vista del Monte Torcola e, con il bel tempo, della cima di Pietra Quadra. Si riempiva solo a Natale, quando le stazioni sciistiche intorno a Foppolo erano al completo. Per il resto 5
dell’anno dovevamo accontentarci delle coppiette clandestine e di qualche comitiva di tedeschi finita fuori strada. Oltre ai camionisti della San Pellegrino, che si fermavano a pranzo attratti dal menù casalingo a prezzo fisso. La scarsità di clienti faceva il paio con quella del personale. Eravamo in sei: io, Max che fungeva da barista e portiere, Ciccio, cameriere a tempo pieno, Giovanna, cameriera a mezzo servizio, Rosa, settantenne addetta ai piani, e Nano lo sguattero. Poi c’era la Direttora, nostra signora e padrona, da due giorni in città a litigare con banche e fornitori. Il padre si era indebitato sino al collo per ottenere la licenza di aprire una spa, e poi per costruirla nel prato sul retro. Era morto lo stesso giorno in cui gli avevano chiuso la linea di credito, volando fuori da un tornante con l’automobile. La spa, da allora, era rimasta come l’aveva lasciata, un parallelepipedo in pietra arenaria ecocompatibile, senza arredi, muri divisori o allacciamenti alla rete idrica. Sarebbe rimasta così, probabilmente, sino alla fine dei tempi. Max si grattò i baffi da pescegatto. «Ti ho sentito rientrare, stanotte. Che ore erano? Le quattro?» 6
«Sì mamma.» Max aveva la stanza proprio accanto alla mia. «Eri sbronzo.» «Che ne sai?» «Sbattevi contro i mobili.» Ecco perché avevo un livido sulla coscia sinistra. Rosa arrivò preceduta dal fischio lacerante dell’aspirapolvere e io mi rifugiai nel silenzio del mio regno oltre le porte basculanti della sala. Era una cucina piuttosto piccola anche per un albergo con solo trenta camere e cinquanta coperti: otto metri nel lato lungo, sei in quello corto, piastrellata come si conviene fin quasi al soffitto. Sul fondo si apriva la porta che dava al cortile, nella parete destra una finestrona con le sbarre e i vetri smerigliati. Al centro il motore di tutto, otto fuochi d’acciaio e la piastra quadrata di ghisa. Il mio unico contributo all’arredo, quando ero arrivato due anni e rotti prima, era stato uno scaffale di metallo vicino alla porta del cortile che si era riempito un po’ alla volta di libri di cucina e dei romanzi di fantascienza che leggevo tra un servizio e l’altro. Nano stava già pelando le patate e mi salutò 7
biascicando qualcosa con la bocca sdentata. Aveva una sessantina d’anni, ma ne dimostrava il doppio senza colpa: una vita in manicomio fa quell’effetto a tutti. Alcolizzato all’ultimo stadio, gli concedevo di bere moderatamente se lavorava bene, così evitavo che lo facesse di nascosto. Esaminai quello che rimaneva delle salse base (pomodoro, ragù, matriciana e besciamella) e della carne nel congelatore. Accesi mezza piastra e aspiratore. Funzionava bene con fumi e vapori, ma per il caldo non combinava molto. D’inverno, con tutti i fuochi impegnati, la temperatura superava agilmente i trentacinque gradi e non potevamo aprire la finestra senza rischiare il coccolone per le ventate gelide. D’estate era peggio e a ogni servizio sudavo almeno tre dei miei cento chili abbondanti. Peccato che tornassero subito. Chiesi a Nano di mettere a vapore un po’ di lastre di spinaci surgelati mentre legavo un paio di arrosti e un pezzo di controfiletto che avrei cucinato all’inglese, sepolto nel sale grosso. Mentre stavo tritando cipolla, sedano e carota per il soffritto del ragù, Rosa fece capolino. 8
«Ho un problema con un cliente» disse, stropicciandosi le mani imbarazzata. Svuotai il tagliere nella pentola d’acciaio e vi versai una dose generosa d’olio di semi. L’olio di oliva è meglio per i fritti, ma ero stufo di sentirmi dire dai clienti che è «troppo pesante». «Perché, ne abbiamo più di uno?» «Un ragazzo di Milano, è arrivato ieri sera. Voleva essere svegliato stamattina alle sette e mezza ma non risponde. Non risponde neanche al telefono. Proverei ad aprire, ma sta alla quindici.» La serratura era arrugginita e il passepartout si bloccava, soprattutto se c’era la chiave inserita dall’altra parte. Buttai la carne trita e la mossi con la spatola di legno. «Dico sempre di aggiustarla… Cosa faccio?» La Direttora non c’era, e quindi toccava a me. Mi asciugai le mani sul torcione. «Nano, stai attento al soffritto. Quando la carne è marrone butta cinque, ripeto, CINQUE» gli agitai sotto il naso la mano aperta «scatole di pelati. E passali bene, eh? Non come l’altra volta che ci ho trovato anche le foglie». 9
Nano annuì, pregustando un po’ di vino premio. La quindici era a piano terra, dal lato che dava sulla spa. Bussai alla porta, mentre Rosa mi guardava preoccupata, un po’ in disparte. Pensava che i clienti fossero sacri e provava per loro una sorta di venerazione. Dalla quattordici si affacciò un giovane con i capelli in piedi, disturbato nel pieno del sonno. Studente di botanica, era venuto a caccia di piante per la tesi, ma da una settimana stava per lo più in camera ad ascoltare musica mentre nuvole di hashish riempivano il corridoio. «Oh, che è sto casino?» gemette. Rosa gli si avvicinò deferente per spiegare, mentre io constatavo l’inutilità dei miei sforzi. O non c’era nessuno dentro, o il tizio stava davvero male. Mi frugai in tasca, recuperando uno di quei fili di ferro gommati che si usano per chiudere i sacchetti. Tolsi la copertura con l’unghia, lo arrotolai e lo infilai nella serratura. Era più sottile di una chiave e non ebbi problemi a far scattare il fermo. «Permesso?» Nessuna risposta. Buttai dentro la testa, pre10
parando qualcosa di intelligente da dire nel caso avessi trovato il tipo sul water, ma non ne ebbi bisogno. Il ragazzo era supino sul letto, senza vestiti e senza metà della faccia. Il sangue aveva formato sul tappetino una chiazza densa e scura che si stava sciogliendo nella pioggia che entrava dalla finestra spalancata. Mi girai in tempo per bloccare Rosa prima che sbirciasse. «Non toccare niente che c’è un morto» le dissi con voce quasi normale, spingendola fuori. Mi bruciavano le dita e pensavo alle impronte che dovevo aver lasciato sulla porta. «E chiama la polizia.» La spinsi di nuovo. «Dai, dai, muoviti.» Sbatté a vuoto un paio di volte la bocca, poi corse via facendo rimbombare gli zoccoli. Richiusi la porta e mi sedetti sulla moquette, la schiena contro il muro. Gettai il grembiule, poi mi accesi una sigaretta con le mani che tremavano. Fumai, tenendo la mente fissa sul sugo che si stava sicuramente attaccando. Riuscii quasi a non pensare agli sbirri che stavano arrivando e a quello che mi avrebbero fatto. 11
Fui fortunato, non esagerarono con i maltrattamenti. Mi portarono a Bergamo con le manette ai polsi, ma normalmente seduto sul sedile posteriore. Non mi fecero correre dietro alla macchina con una catena attaccata al paraurti. Domandarono, risposi, non ci credettero per un cazzo. La stub fu negativa, le impronte ovviamente no. Alle sei del mattino seguente si decisero a trasferirmi alla casa circondariale. Mi buttai sul puzzolente materasso di gommapiuma della cella d’isolamento e mi sembrò un letto di rose. In isolamento il tempo striscia tra battiture di sbarre e il rancio immondo di chi non può com13
prare niente dallo spesino. I vecchi meccanismi mentali si rimisero in moto, facendo scattare in me l’equivalente del letargo. Dormivo la maggior parte del tempo, mi muovevo solo per fare un po’ di flessioni e addominali. Niente pensieri troppo legati a quello che succedeva fuori, niente nostalgie. Non dovevo neppure temere la visita notturna di qualche squadretta di agenti di custodia, decisi a farmi sputare l’anima. Ero di transito, senza imputazioni specifiche, e quelli come me generalmente venivano lasciati in pace. Riposai, dunque. Di nascosto dai girachiavi, il secondo giorno lo scopino mi fece avere carta igienica monovelo e un pezzo di sapone. «Che dicono i giornali?» chiesi. «Di ogni. In bocca al lupo» concluse passandomi un pacchetto di Nazionali. Il magistrato mi interrogò tre giorni dopo, in presenza di un avvocato dai capelli bianchi che veniva a mangiare qualche volta da noi con la segretaria. Lo mandava la Direttora, avremmo scalato il suo onorario dal conto. Nel breve colloquio privato che seguì l’interrogatorio mi con14
fermò che non c’era niente contro di me, a parte che io ero io. Il ragazzo era stato accoppato mentre ero al bar a guardare il rugby su Sky con metà dei maschi di Foppolo. «Se la sua condizione fosse diversa, non l’avrebbero nemmeno trattenuta.» «Ma non è diversa.» «No e devo dirle che è stata una sorpresa anche per me.» Si sfilò gli occhialetti da Paperoga. «Ma il giudice non potrà fare altro che firmare la sua scarcerazione.» «Quando?» «Presto.» Intanto tornai in cella. Non più sottoposto a restrizioni, potei farmi l’ora e mezza di socialità pomeridiana, cioè conversare con gli altri galerani o andarli a trovare. Io la trascorsi nel braccio di quelli in attesa di processo, pieno da scoppiare nonostante l’indultino appena passato. L’ottanta per cento erano africani o rom. Vista la mia condizione provvisoria non avevo bisogno di presentarmi al più anziano del raggio come si usa nel galateo della casanza, ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Scoprii di 15
conoscerlo già. Si chiamava Augusto, un ladro di polli che aveva passato i sessanta. Eravamo stati vicini per un breve periodo a Trani. Ci scambiammo una sigaretta. «Come stai, Dottore?» «Non mi chiamano più così da un pezzo.» Gli risposi. «Te?» «Violazione dei domiciliari. Ho l’udienza tra una settimana, ma mi sa che mi si tengono. Se vuoi qualcosa di più forte di una Marlboro si può fare» mi disse. «Ho smesso.» «Beato te.» Aveva gli occhi a spillo. «Però se hai dei giornali recenti mi farebbero comodo.» «Non c’è problema. Poi falli pure girare.» Me ne ritornai a cuccia con un pacco di quotidiani unti e bisunti. Le notizie che mi interessavano stavano sotto una mia antica segnaletica di quando pesavo venti chili di meno e portavo i baffi a manubrio. Il ragazzo morto si chiamava Maurizio Ferri, di Milano, venticinque anni appena compiuti. Figlio di ottima famiglia, Ferri se n’era andato di casa ancora minorenne sce16
gliendo di vivere tra un centro sociale e l’altro. Si era preso un po’ di denunce per azioni animaliste, come liberare le cavie di un laboratorio o tirare uova sulle pellicce alla Prima della Scala, ma l’attività politica veniva considerata dagli sbirri una copertura. Nell’appartamento dove viveva, un buco occupato nel quartiere Calvairate, gli sbirri avevano trovato un etto di cocaina, un bilancino e un po’ di bustine pronte alla vendita. I suoi ultimi giorni di vita, secondo i giornali, erano un buco nero. Ferri si era allontanato da casa una settimana prima di arrivare al Capriolo, dove aveva soggiornato solo la notte in cui era stato ammazzato. In mezzo, chissà? La sera l’aveva trascorsa in un bar di Branzi leggendo un libro, da solo. Tutti i presenti erano stati torchiati, ma nessuno di loro aveva presumibilmente comprato o venduto coca. Li conoscevo quasi tutti e c’era da crederci. Secondo la Scientifica, l’assassino era entrato dalla finestra sul retro dell’hotel e aveva sparato a Maurizio due colpi, probabilmente con il silenziatore, intorno a mezzanotte. Tutti gli ospiti del Capriolo e il personale erano stati sottoposti alla 17
stub per la ricerca di tracce di polvere da sparo, ma tutti erano risultati negativi. Tra parentesi, a parte Ciccio e Nano, a quell’ora non c’era nessuno, perché Rosa e l’altra cameriera vivevano in paese. Anche le impronte sul prato erano ritenute poco significative, e la pioggia aveva lavato il terreno. Probabilmente l’assassino era arrivato con l’auto sino allo svincolo che portava al Capriolo, aveva spento il motore per non farsi sentire, aveva proseguito a piedi, era entrato dalla finestra della camera del ragazzo e un minuto dopo aveva rifatto la strada all’incontrario. Per sapere che soggiornava lì, l’assassino doveva avere un appuntamento con il ragazzo, oppure aveva tenuto d’occhio l’albergo. Ferri aveva preso la camera la sera stessa, e questo escludeva che l’assassino ci fosse arrivato battendo a caso la zona. Forse il ragazzo aveva scelto la tranquillità del Capriolo per incontrare un suo fornitore o un suo cliente, e gli era andata male. Durante la perquisizione all’albergo, di droga però non ne era saltata fuori. Fatta eccezione per dieci grammi di fumo in possesso del ragazzo della quattordici, rispedito ai genitori con una denuncia a piede 18
libero. Il Capriolo aveva perso gli unici due ospiti in una botta sola. Mi mollarono alle sette di sera. Incrociai lo scopino intento a tirare su del vomito nel corridoio, e ci abbracciammo, un po’ tristemente. Lui aveva il fine pena mai e ci vuole una bella pazienza. Fuori del portone la via era deserta. Mi aspettavo almeno qualche fotografo in attesa di immortalare il mostro, ma la mia ora di notorietà sembrava finita. Mentre attraversavo la strada, sentii un clacson dietro di me. Mi voltai. Era Max, al volante del furgone dell’albergo. «Ehi, killer!» Mi urlò. «Sbrigati che è quasi ora di cena.»
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