Rifiuti n. 204 marzo 2013

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RIFIUTI

marzo 2013 mensile

n. 204 (03/13) Euro 14,00

Registrazione Tribunale di Milano n. 451 del 22 agosto 1994. Poste italiane spa – Spedizione in abbonamento postale – Dl 353/2003 (conv. in legge 46/2004) articolo 1, comma 1, DCB Milano

bollettino di informazione normativa

L’intervento Bonifiche siti contaminati, la Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta

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di Lavinia Basso

Cer: ai fuochi d’artificio esplosi va attribuito quello degli imballaggi

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di Salvo Renato Cerruto

Analisi dei rifiuti: più certezze dal dialogo tra il giurista ed i tecnici

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di Pasquale Fimiani

Gli ostacoli al riutilizzo dei materiali da scavo dopo l’entrata in vigore del Dm 161/2012: la parola al giudice amministrativo

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di Fabio Todarello e Alice Colleoni

Legislazione norme nazionali È Sottile il Commissario per la ‘criticità’ rifiuti urbani nella Provincia di Roma

Decreto 3 gennaio 2013

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Giurisprudenza Regione Lazio: condanna Ue per non aver indicato luoghi e impianti per la gestione dei rifiuti pericolosi

Corte di Giustizia delle Comunità europee – Sentenza 14 giugno 2007, C‑82/06

Auto d’epoca e ricambi: sono le modalità di reimpiego e conservazione che tracciano il confine rifiuto/non rifiuto

Corte di Cassazione, Sezione III penale – Sentenza 7 gennaio 2013, n. 194

Acque di molitura delle olive: lo spandimento agronomico deve rispettare il codice ambientale

Corte di Cassazione, Sezione III penale – Sentenza 8 gennaio 2013, n. 512 Rifiuti compressi: se collocati in discarica violano (anche) il principio di precauzione

Tar Lazio (Roma), Sezione I‑ter – Sentenza 9 gennaio 2013, n. 121 il commento di Luisa Capicotto

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Rubriche Quesiti a cura di Paola Ficco Focus 231 Ambiente a cura di Pasquale Fimiani Focus Rifiuti e sanzioni amministrative a cura di Italia Pepe Osservatorio Raee a cura di Maria Letizia Nepi Tribuna Albo gestori a cura di Eugenio Onori Focus giurisprudenza a cura di Maurizio De Paolis

Edizioni Ambiente

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F ideiussioni.

Una parola resa ancora più sgradevole dalla difformità di comportamento sul territorio nazionale delle Regioni/Province italiane nei confronti delle imprese certificate/registrate Iso/Emas. Uno dei tanti casi di disparità di trattamento che, in materia di ambiente in genere e di rifiuti in particolare, le imprese subiscono in ragione della diversità di vedute da parte della P.a. locale. Sul punto, il Dlgs 205/2010 ha soppresso per intero l’articolo 210, Dlgs 152/2006. L’opera soppressiva ha travolto anche il comma 3, lettera h) di tale articolo, il quale prevedeva la riduzione delle garanzie finanziarie del 50% per le imprese registrate Emas e del 40% per le imprese certificate Iso. Sicché dalla data di entrata in vigore del Dlgs 205/2010 (25 dicembre 2010) questo potente regime agevolativo è venuto meno. Il fatto che questo sia accaduto più che probabilmente per distrazione compilatoria (taglia/incolla usati a caso) nulla toglie alla effettività (e alla gravità) dell’abrogazione. Successivamente, l’articolo 3, comma 2-bis, Dl 26 novembre 2010, n. 196 (convertito con modificazioni nella legge 1/2011) reintroduceva l’agevolazione. Allora dov’è il problema? Nella rubrica (titolo) del Dl 196/2010: “Disposizioni relative al subentro delle amministrazioni territoriali della regione Campania nelle attività di gestione del ciclo integrato dei rifiuti”. Dinanzi a tale titolo (rubrica), molte Province italiane (e Regioni) hanno ritenuto che il rinnovato regime agevolativo si applicasse solo alle imprese campane. Altre, invece, per fortuna, hanno ritenuto che si applicasse a tutto il territorio nazionale, anche perché né nell’articolo né nella sua rubrica si faceva mai riferimento alla Campania. Sicché, grazie alla corretta applicazione del principio “Rubrica legis non est lex” gli impianti certificati/registrati Iso/Emas e ubicati in alcune Province si sono visti riconoscere lo sconto sulle fideiussioni. Dove, invece, il famoso brocardo non era conosciuto (o, se conosciuto, restava ignorato), analoghi impianti si sentiti dire un “no” tondo. Perché? È vero che il centrali-

smo statale ha fatto la sua epoca e che, specie in materia ambientale, il potere è stato devoluto alle Autorità periferiche dello Stato; però ci si aspetterebbe una condotta uniforme che non induca fattori di concorrenza sleale sul territorio nazionale. Lo sconto sulle fideiussioni per gli impianti certificati/registrati è uno dei moltissimi (troppi) casi che si registrano in Italia, dove ognuno va per la sua strada e detta legge nella sua giurisdizione, come se l’Italia e la competitività delle nostre (ormai poche) imprese fosse un problema di altri. Se le Province non riescono a coordinarsi in un unico organismo che ne compendi volontà, intenzioni e letture uniformi è necessario che, almeno in materia ambientale, facciano un passo indietro. Con il dovuto rispetto per l’autarchia della Provincia, è però necessario esigere rispetto per lo sforzo produttivo delle imprese nazionali in un momento tra i più bui della storia recente. Il “secondo noi” deve prendere il posto del “secondo me”. La disparità di trattamento rievoca assetti statuali “pre garibaldini” ed evidenzia che del decentramento si sono avuti solo gli svantaggi. È necessario che tutte le Province italiane si comportino nello stesso modo perché se prima era non sopportabile la disparità di condotta oggi è totalmente inaccettabile. Dinanzi alla recessione che galoppa, alla disoccupazione che fa sempre più male, al denaro che si svuota di potere d’acquisto niente e nessuno è legittimato ad alterare la concorrenza in nome di prese di posizione (troppo spesso) destituite di fondamento. La conseguente disparità di trattamento a parità di condizioni oggettive, dove quel che cambia è solo il lembo di patrio suolo che si calpesta (magari nell’ambito della stessa Regione), diventa quasi criminale perché uccide la dignità e la speranza. Semplificazioni e liberalizzazioni sono il traguardo della politica economica, ma anche per fare questo c’è necessità di un nuovo rapporto fra pubblico e privato, che finalmente dimentichi la sudditanza borbonica e faccia suo lo scambio tra uguali. Paola Ficco


Premessa

L’intervento

RIFIUTI bollettino di informazione normativa n. 204 (03/13)

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Bonifiche siti contaminati, la Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta di Lavinia Basso Redazione Retambiente

Link di approfondimento In Osservatorio di normativa ambientale “Bonifica siti, Albo gestori revisiona i requisiti per l’iscrizione” (di Alessandro Geremei)

57 siti di interesse nazionale (Sin) istituiti ad oggi, pari a circa il 3% dell’intero territorio nazionale ai quali vanno aggiunti i siti potenzialmente contaminati ma ad oggi non ancora censiti a causa della mancata istituzione, in numerose Regioni, delle anagrafi dei siti medesimi: è questo il dato più sconcertante che emerge dalla Relazione sulle bonifiche dei siti contaminati in Italia: i ritardi nell’attuazione degli interventi e i profili di illegalità della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, approvata lo scorso 12 dicembre 2012. All’interno dei 57 siti ricadono le più importanti aree industriali del Paese: Porto Marghera, Brindisi, Taranto, Priolo, Gela nonchè le aree urbano-industriali di Napoli, Trieste, Piombino, La Spezia, Brescia e Mantova. Il secondo dato di una certa rilevanza che emerge dalla Relazione è la situazione di stallo in cui si trovano moltissimi (la maggioranza) dei Sin: alcuni perimetrati dieci o più anni fa senza che alla perimetrazione sia seguito alcun atto, altri caratterizzati da perimetrazioni che, a titolo precauzionale, sono state estremamente ampie ed estese. In tutti i casi, comunque, si riscontra un sostanziale congelamento di ampie porzioni del territorio, sottratte così allo sfruttamento economico e/o industriale, del tutto ingiustificato.

Le perimetrazioni

Secondo la Relazione parlamentare è proprio quello delle perimetrazioni il primo e più urgente problema da affrontare. Ricordiamo che la perimetrazione viene effettuata dal MinAmbiente sentiti tutti gli enti locali interessati (Comuni, Province, Regioni, eccetera) secondo i criteri generali fissati nell’articolo 252, comma 2, Dlgs 152/2006 e cioè: “a) gli interventi di bonifica devono riguardare aree e territori, compresi i corpi idrici, di particolare pregio ambientale; b) la bonifica deve riguardare aree e territori tutelati ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42; c) il rischio sanitario ed ambientale che deriva dal rilevato superamento delle concentrazioni soglia di rischio deve risultare particolarmente elevato in ragione della densità della popolazione o dell’estensione dell’area interessata; d) l’impatto socio economico causato dall’inquinamento dell’area deve essere rilevante; e) la contaminazione deve costituire un rischio per i beni di interesse storico e culturale di rilevanza nazionale; f) gli interventi da attuare devono riguardare siti compresi nel territorio di più Regioni. f-bis) l’insistenza, attualmente o in passato, di attività di raffinerie, di impianti chimici integrati o di acciaierie.” Alla perimetrazione dovrebbe seguire tempestivamente, secondo quanto previsto dalla norma medesima, la caratterizzazione del sito e la successiva ridefinizione dell’estensione del sito seguita dalla predisposizione ed esecuzione del progetto di bonifica. Ma ciò che in realtà è accaduto è che, effettuata la perimetrazione, sempre piuttosto estesa in ossequio al principio di precauzione, non si è poi proceduto oltre. Proprio il problema della perimetrazione dei siti è stato oggetto di un recente intervento legislativo; con il Dl 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134 è stata introdotta una modifica all’articolo 252, Dlgs 152/2006 con la quale si è tentato di ovviare al problema della eccessiva estensione delle perimetrazioni dei siti introducendo criteri più restrittivi per le medesime ai fini della inclusione dei siti tra i Sin. La stessa Relazione della Commissione parlamentare sottolinea la necessità di procedrre alla riperimetrazione delle aree effettivamen-


La Commissione rileva poi che la grave situazione di stallo in cui si trovano i Sin molto spesso viene “smossa” non tanto dagli organi a ciò deputati, ossia dalle Pa coinvolte, ma dalle indagini della magistratura; le Pa, ed in particolare i Presidenti di Regione, si limitano a richiedere la rimozione dei vincoli derivanti dalla dichiarazione di Sito di interesse nazionale che arreca al territorio interessato solo disagi poiche, di fatto, essa rallenta o addirittura blocca le bonifiche e conseguentemente il riutilizzo delle aree. La riperimetrazione secondo le regole dettate dall’articolo 36-bis citato dovrebbe quindi permettere, circoscrivendo meglio l’area interessata dalla bonifica, di superare anche le difficoltà degli operatori privati nel sostenere i costi, spesso esorbitanti, delle bonifiche me-

I progetti di bonifica

Un altro aspetto problematico messo in luce dalla Relazione è quello della adeguatezza dei progetti di bonifica agli obiettivi prefissati. Sarebbe infatti opportuno, e più realistico, secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta, individuare un obbiettivo di bonifica specifico per ogni sito, posto che taluni siti non potranno più ritornare all’uso che di essi si faceva prima degli episodi di inquinamento, e ciò in ragione della grave compromissione del territorio, e più in generale dell’ambiente, causata dai fenomeni di inquinamento che ivi si sono verificati; si tratta infatti di territori che sarebbero recuperabili solo a costi elevatissimi e, pertanto, insostenibili da chiunque (soggetto privato o pubblico). Siti come quello di Bagnoli, ad esempio, non potranno che essere destinati ad usi industriali; in nessun modo, dato il grave inquinamento presente, potranno essere destinati a verde pubblico, o per attività ludico-sportive, nè tantomeno come parco naturale. L’ambiente originario, quindi, in alcuni casi risulta a tal punto compromesso da dover essere considerato perso per sempre, quantomeno nella sua originaria e più naturale destinazione. Avere un approccio realistico di questo genere è ciò che viene auspicato dalla Commissione, che lo ritiene assolutamente necessario (pur dovendosi sempre tener conto della necessità di tutelare la salute umana e l’ambiente) onde evitare nuovamente di elaborare progetti di bonifica del tutto inattuabili perchè eccessivamente onerosi e che porterebbero, come già avvenuto in passato, solo a lunghi contenziosi amministrativi e giudiziari, senza alcun beneficio (ma anzi con sicuro danno) per i territori interessati. Secondo la Commissione, quindi, i progetti di bonifica dovrebbero essere funzionali alla “concreta attuazione della stessa”, ossia: • “avere ben chiaro quale sia la destinazione ultima delle aree; • dimensionare la bonifica in relazione al tale imprescindibile dato; • effettuare elaborati progettuali realistici, che non vivano solo nel mondo delle idee, ma che possano tradursi in realtà, ben mirati rispetto all’obbiettivo ed economicamente sostenibili.”.

Le attività illecite legate alle bonifiche

La scarsa trasparenza riscontrata dalla Commissione nelle procedure riguardanti i Sin sono la causa principale, secondo la Commissione medesima, della diffusa illegalità che circonda queste attività. Il fenomeno riguarda tutte le Regioni, sia quelle con tassi elevati di presenza della criminalità organizzata sia laddove tale fenomeno è meno evidente. Questa situazione viene poi amplificata nei casi in cui vi sia una dichiarazione di stato di emergenza e l’intervendo di strutture commissariali.

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La Commissione d’inchiesta, pur riconoscendo i passi in avanti effettuati con l’introduzione di questa norma, ha tuttavia rilevato come la problematica delle perimetrazioni eccessivamente estese non sia stata con questa norma del tutto risolta e ciò in quanto: “– la riperimetrazione deve essere richiesta dalla Regione, – non è chiaro come debba effettivamente svolgersi l’attività di consultazione dei diversi soggetti” indicati dalla norma: enti locali, Apat, Arpa regionali, Iss; non è è stato infatti chiaramente esplicitato se tali soggetti debbano emettere pareri motivati oppure no, e con quale livello di approfondimento, si rischia così, a parere della Commissione, di ricadere nei medesimi errori del passato e di avere procedimenti amministrativi dalla durata incontrollata e incontrollabile. La norma, infine, lascia aperta ogni strada sul dopo perimetrazione: non chiarisce infatti come si intenda intervenire nella fase successiva per accelerare, una volta ridefiniti i siti, le procedure attualmente in corso.

desime, costi che sono nella maggior parte dei casi superiori al valore delle aree interessate.

L’intervento Relazione Bonifiche

te contaminate in modo da escludere quelle che non necessitano di bonifica e restituirle agli usi legittimi. L’articolo 36-bis, legge 7 agosto 2012, n. 134 prevede infatti: “Razionalizzazione dei criteri di individuazione di siti di interesse nazionale 1. All’articolo 252 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 2, dopo la lettera f) è aggiunta la seguente: “f-bis) l’insistenza, attualmente o in passato, di attività di raffinerie, di impianti chimici integrati o di acciaierie”; b) dopo il comma 2 è inserito il seguente: “2-bis. Sono in ogni caso individuati quali siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, i siti interessati da attività produttive ed estrattive di amianto”. 2. Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sentite le Regioni interessate, è effettuata la ricognizione dei siti attualmente classificati di interesse nazionale che non soddisfano i requisiti di cui all’articolo 252, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come modificato dal comma 1 del presente articolo. 3. Su richiesta della Regione interessata, con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti gli Enti locali interessati, può essere ridefinito il perimetro dei siti di interesse nazionale, fermo restando che rimangono di competenza regionale le necessarie operazioni di verifica ed eventuale bonifica della porzione di siti che, all’esito di tale ridefinizione, esuli dal sito di interesse nazionale. 4. All’attuazione delle disposizioni del presente articolo si provvede con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.”.

La conseguente “farraginosità delle procedure, la moltiplicazione delle competenze e la sovrapposizione di ruoli facilita la possibilità di sfuggire ai controlli e di operare nell’illecito. Sembra quasi che il tutto sia finalizzato ad addensare quella fitta nebbia procedimentale prodromica alla consumazione di illeciti”. Le audizioni dei magistrati non hanno fatto altro che confermarlo: esse hanno messo in luce la grave inadeguatezza della normativa sanzionatoria penale (ma anche civile e amministrativa) in campo ambientale, eccessivamente blanda e del tutto priva della funzione preventiva generale propria della pena, e ciò soprattutto nella misu-

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Premessa

L’intervento

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Analisi dei rifiuti: più certezze dal dialogo tra il giurista ed i tecnici Pasquale Fimiani Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione

La Direzione della Rivista mi ha chiesto di assistere ad alcuni incontri di approfondimento sul tema delle analisi di rifiuti, al fine di individuare, assistendo al confronto tra gli operatori ed i relatori, gli spunti problematici e le questioni che nella prassi si presentano di più difficile soluzione. Questo intervento vuole essere allora un riepilogo ragionato di quanto emerso da tale confronto, nella prospettiva del giurista. Rinviando, quanto al rapporto tra produttore del rifiuto e laboratorio di analisi, al Focus 231 Ambiente di questo stesso numero (nel quale tale rapporto viene esaminato all’interno del modello organizzativo), le questioni che maggiormente evidenziano esigenze di certezza sembrano essere le seguenti: 1. la classificazione e la caratterizzazione dei rifiuti ed i relativi oneri probatori; 2. la distinzione tra certificati di analisi e rapporti di prova; 3. le ricadute delle modifiche normative sulla classificazione dei rifiuti; 4. i criteri di ricerca delle sostanze pericolose; 5. le cautele che incombono sul produttore in sede di campionamento dei rifiuti.

1. Classificazione, caratterizzazione ed oneri probatori

È stata ribadita, nel corso del dibattito, la distinzione tra classificazione del rifiuto, consistente nella attribuzione del codice Cer, e caratterizzazione di base del rifiuto, che “determina le caratteristiche dei rifiuti attraverso la raccolta di tutte le informazioni necessarie per lo smaltimento finale in condizioni di sicurezza”. A tale definizione, contenuta nei decreti ministeriali sui criteri di ammissibilità in discarica dei rifiuti (articolo 2 del Dm 3 agosto 2005 e, successivamente, articolo 2 del Dm 27 settembre 2010), può attribuirsi una valenza generale, al pari di quella contenuta nell’articolo 7 del Dlgs 11 maggio 2005, n. 133 (attuazione della direttiva 2000/76/Ce, in materia di incenerimento dei rifiuti), che, pur non usando espressamente il termine “caratterizzazione”, fa riferimento alla acquisizione (da parte del gestore dell’impianto previa, evidentemente, fornitura da parte del produttore) “di informazioni sui rifiuti che comprendano almeno i seguenti elementi: a) lo stato fisico e, ove possibile, la composizione chimica dei rifiuti, il relativo codice dell’Elenco europeo dei rifiuti e tutte le informazioni necessarie per valutare l’idoneità del previsto processo di incenerimento o di coincenerimento dei rifiuti; b) le caratteristiche di pericolosità dei rifiuti, le sostanze con le quali non possono essere mescolati e le precauzioni da adottare nella manipolazione dei rifiuti”. La caratterizzazione, così intesa, anche se obbligatoria nei soli casi espressamente previsti (come in materia di discariche), costituisce in ogni caso un onere per il produttore che intenda procedere alla corretta gestione del rifiuto e precostituirsi la prova di tale correttezza. Al suo interno si colloca l’analisi del rifiuto, che si integra con le altre informazioni di cui il produttore deve farsi carico. Va precisato che, a prescindere dalle ipotesi in cui è lo stesso Legislatore ad imporre le analisi (nei casi, di seguito indicati, di conferimento a: discariche, inceneritori od impianti di recupero rifiuti operanti in regime semplificato), ovvero è l’impianto di destinazione a richiederne la effettuazione per ragioni di cautela, le stesse sono comunque opportune (1), a meno che ne sia espressamente esclusa la necessità (es. All. 1, punto 4, Dm 27 settembre 2010 in

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(1) Si pensi alle terre da scavo: solo una puntuale analisi e certificazione può

rappresentare il presupposto dell’esclusione della normativa in materia di ri-


Al fine di operare la classificazione del rifiuto occorre tenere ben presente la distinzione tra la certificazione in senso stretto, da infiuti. Analogamente dicasi nell’ipotesi di trattamento di rifiuti presso impianti di trattamento delle acque reflue urbane, in cui il soggetto che chiede di poter accedere al depuratore per smaltire i rifiuti liquidi ha l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni previste dalla norma per compiere tale operazione in deroga al divieto di carattere generale, onere che può dirsi soddisfatto solo da una adeguata certificazione.

(2) La norma prevede che “Il campionamento e le analisi sono effettuate a cura del titolare dell’impianto ove i rifiuti sono prodotti almeno in occasione del primo conferimento all’impianto di recupero e, successivamente, ogni 24 mesi e, comunque, ogni volta che intervengano modifiche sostanziali nel processo di produzione”. (3) La norma prevede che “Il campio-

I suindicati requisiti, per contro, non concorrono alla identificazione del rapporto di prova, il quale consiste esclusivamente, e semplicemente, nell’analisi del campione (il cui prelievo non avviene sotto il controllo dell’operatore), effettuata applicando un metodo unificato, e nell’attestazione del risultato raggiunto (ovvero, del quantum in cui l’elemento o la qualità ricercata siano presenti nel campione analizzato)”. La distinzione tra certificato di analisi in senso stretto e rapporto di prova, non incide ai fini penalistici, in quanto il legislatore, a scanso di equivoci, ha introdotto una fattispecie autonoma di reato, speciale rispetto a quelle prevista dal codice penale all’articolo 481 C.p., riferita alla certificazione in senso lato, cioè a qualsiasi atto od attestazione contenente notizie non veritiere circa la natura, la composizione e le caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti. namento e le analisi di cui ai commi 1 e 2 devono essere effettuate a cura del titolare dell’impianto ove i rifiuti sono prodotti almeno in occasione del primo conferimento all’impianto di recupero e, successivamente, ogni dodici mesi e, comunque, ogni volta che intervengano delle modifiche sostanziali nel processo di produzione”. (4) Cass. pen., Sez. III, n. 32143/2002.

(5) Come precisato da Cass. pen., Sez. III, n. 31160/2008, secondo cui è evidente che, a seguito della esposizione ad agenti fortemente inquinanti protrattasi per un sufficiente periodo di tempo (nel caso in esame per vari decenni), il rifiuto perde le caratteristiche originarie, dovendo essere qualificato, quale materiale destinato ad essere bonificato, in quanto proveniente da sito inquinato da sottoporre a bonifica.

RIFIUTI bollettino di informazione normativa n. 204 (03/13)

2. Le due vie per la classificazione: rapporti di prova e certificati di analisi

tendersi quale il risultato finale di un’attività conoscitiva piena del ciclo di produzione del rifiuto, comprensiva di tutte le fasi di analisi e campionamento, svolte da un professionista a ciò abilitato, ed i c.d. rapporti di prova, cioè le attestazioni, di varia provenienza, limitate alla qualifica del campione oggetto di analisi così come conferito dal produttore all’analista. Al riguardo si è più volte richiamata la nota del Consiglio nazionale dei Chimici del 27 gennaio 2012, prot. 057/12/cnc/fta, che ha escluso l’automatica equivalenza tra il rapporto di prova ed il certificato di analisi sulla scorta delle sostanziali differenze rilevabili tra gli stessi in termini di procedimento formativo, contenuto, funzione e, quindi, di responsabilità assunta da chi li sottoscrive, in quanto “premessa l’esclusiva competenza del Chimico laureato iscritto all’albo, in ordine alla elaborazione e formazione del certificato analitico, come chiarito anche dal Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati nella propria nota del 18 novembre 2011, prot. 6520/AP/vc del 18 novembre 2011 (…) la certificazione analitica richiede che il responsabile della stessa: • assuma la responsabilità del campionamento e della preparazione del campione, • identifichi ed indichi i metodi da applicare al fine di potere rispondere compiutamente al quesito posto; • solo sotto la sua responsabilità, deleghi, a terzi (ivi inclusi i laboratori accreditati), l’esecuzione delle prove che ritiene necessarie alla risposta del quesito; • interpreti criticamente i risultati di tale attività, anche scartando risultati chimicamente e/o scientificamente contrastanti, sempre che se ne fornisca la motivazione; • proceda all’eventuale ripetizione di prove o all’integrazione delle stesse; • verifichi, alla luce dei risultati ottenuti, che il set di parametri inizialmente scelti sia effettivamente sufficiente a rispondere al quesito posto; • “certifichi”, in ultimo, un risultato non ambiguo al quesito posto.

L’intervento Analisi sui rifiuti

materia di discariche); anche se si ponga un problema di non rappresentatività del campione, le analisi non possono essere ritenute superflue, essendo, comunque, un utile elemento di valutazione. La legge non disciplina le cautele da osservare per arrivare ad una corretta e credibile qualifica del rifiuto, ma impone un obbligo di risultato, consistente nella rispondenza al vero della classificazione, come si evince dalla esistenza del reato di falso nella certificazione analitica e da una serie di previsioni normative che attribuiscono al produttore dei rifiuti la responsabilità di garantire che le informazioni fornite per la caratterizzazione siano corrette. Tali norme, peraltro, non sono accompagnate dall’indicazione di specifiche modalità con cui va svolta la caratterizzazione, ma si limitano a prevedere il momento in cui va fatta per la prima volta (in corrispondenza del primo conferimento) e la periodicità (variabile a seconda dei casi e, di regola, un anno). Impostazione, questa, che caratterizza tanto il versante del recupero dei rifiuti soggetto a procedure semplificate – sia non pericolosi (articolo 8, comma 4, del Dm 5 febbraio 1998 (2)), che pericolosi (articolo 7, comma 3, del Dm 12 giugno 2002, n. 161 (3)) – quanto quello dello smaltimento. Ed infatti, in materia di discariche, l’articolo 2 del Dm 3 agosto 2005, poi confermato dall’omologa norma del Dm 27 settembre 2010, in attuazione dell’articolo 11, commi 1 e 2, del Dlgs 36/2003 – per il quale il detentore, ai fini della collocazione dei rifiuti, ha l’obbligo di fornire precise indicazioni sulla composizione, sulla capacità di produrre percolato, sul comportamento a lungo termine e sulle caratteristiche generali, e di presentare la certificazione analitica attestante che il rifiuto è conforme ai criteri di ammissibilità previsti per la specifica categoria di discarica – impone al produttore dei rifiuti l’obbligo di operare la caratterizzazione di base di ciascuna tipologia di rifiuti conferiti in discarica, prevedendo (comma 3) che la stessa “è effettuata in corrispondenza del primo conferimento e ripetuta ad ogni variazione significativa del processo che origina i rifiuti e, comunque, almeno una volta l’anno”. La classificazione del rifiuto fa fede fino a quando non esista la prova od anche il dubbio di una diversa provenienza o natura dei rifiuti stessi, in virtù di indizi gravi, precisi e concordanti (4), in quanto la natura, in base alla quale è stata effettuata una classificazione con assegnazione di un determinato codice Cer, non può essere considerata un dato di fatto destinato a permanere indefinitamente nel tempo, dovendo il produttore farsi carico della possibilità che la stessa muti e, pertanto, che i rifiuti vadano nuovamente sottoposti ad analisi (5), anche a prescindere dalle specifiche previsioni di legge che fissano cadenze temporali per la loro ripetizione, avendo tali previsioni il solo scopo di individuare i termini scaduti i quali le analisi vanno, in ogni caso, ripetute, cioè delle regole minime di prudenza che non escludono gli oneri di verifica e diligenza nella fase precedente.

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Premessa

L’intervento

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Gli ostacoli al riutilizzo dei materiali da scavo dopo l’entrata in vigore del Dm 161/2012: la parola al giudice amministrativo Fabio Todarello Alice Colleoni Avvocati in Milano Studio Legale Todarello & Partners Milano

Link di approfondimento In Osservatorio di normativa ambientale, “Terre, rocce e “materiali” da scavo, proviamo (nuovamente) a fare il punto” (di Alessandro Geremei)

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Il giudizio espresso da più parti sul tanto atteso regolamento sui materiali da scavo sembra essere unanime: si tratta di un’occasione persa. Prima del 6 ottobre 2012, data di entrata in vigore del Dm 161/2012, in tema di gestione delle terre e rocce da scavo, la norma di riferimento era l’articolo 186 del Dlgs 152/2006, come modificato dal Dlgs 4/2008, il quale, da un lato, per la prima volta, aveva qualificato le terre e rocce da scavo come sottoprodotto e, dall’altro lato, aveva escluso la possibilità di inviare a riutilizzo i materiali che, benché conformi alle condizioni previste dal comma 1 dell’articolo stesso, provenivano da aree contaminate o in corso di bonifica, indipendentemente dalla loro qualità. Tale norma ha da sempre dato origine a problematiche di carattere interpretativo oltre che operativo, stante la mancata regolamentazione dei criteri tecnici necessari al fine di dimostrare la sussistenza delle condizioni per il riutilizzo delle stesse come sottoprodotti. Gli operatori del settore delle costruzioni si trovavano, dunque, a confrontarsi con le differenti prassi adottate dagli Enti locali, che disciplinavano la gestione delle terre e rocce da scavo nell’ambito dei procedimenti edilizi per l’approvazione dei progetti ove erano previsti scavi (1). Di qui la necessità di una regolamentazione tecnica che fino ad allora era mancata in tema di gestione delle terre e rocce da scavo. L’articolo 49 del Dl 1/2012, c.d. “decreto liberalizzazioni”, convertito in legge 27/2012, ha previsto infatti l’adozione di un decreto che stabilisse le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti, ai sensi dell’articolo 184-bis del Dlgs 152/2006, decretando la contestuale abrogazione dell’articolo 186 del Dlgs 152/2006. Nell’ambito del medesimo decreto è stata poi inserita la disciplina tecnica dei materiali di riporto, che il Governo ha ritenuto di dover definire attraverso il ricorso alla decretazione d’urgenza in materia ambientale, con l’articolo 3 comma 2 del Dl 2/2012, convertito in legge 28/2012. Nonostante le elevate attese sul nuovo regolamento sui materiali da scavo, le aspettative di quanti speravano in una semplificazione delle procedure per il riutilizzo dei materiali provenienti da scavo sono state deluse. Se è pur vero, infatti, che con il Dm 161/2012 è stato definito un unico procedimento di approvazione del cd. Piano di utilizzo (ex articolo 5 e Allegato 5 del regolamento), che ha sostituito le precedenti incerte prassi relative ai “piano scavi” ex articolo 186, ed è stata addirittura prevista l’ipotesi eccezionale del riutilizzo dei materiali provenienti da siti sottoposti a bonifica (articolo 5, comma 5 e Allegato 5 al regolamento), è altrettanto innegabile che il Dm 161/2012 ha reso ancora più complessi, onerosi e spesso inapplicabili i relativi adempimenti. Basti pensare alla documentazione richiesta ai fini della presenta(1) Sul punto è sufficiente richiamare il caso milanese, ove nel 2009 è stato siglato, tra ARPA Lombardia e Comune di Milano, un accordo di collaborazione tecnica per la sperimentazione di una procedura di gestione dei piani scavo ex articolo 186 del Dlgs 152/2006 ed ex articolo 95 del Regolamento edilizio di Milano. Aderendo volontariamente al protocollo, gli operatori che proponevano un intervento edilizio, potevano richiedere ad Arpa un parere preventivo sul “piano degli

scavi edili”, il quale poteva essere allegato alla richiesta di titolo edilizio. Il parere preventivo di Arpa era ritenuto dal Comune di Milano requisito valido ai fini dell’adempimento dell’obbligo di verifica del contenuto del piano stesso, e procedeva con l’iter urbanistico-edilizio senza ulteriori valutazioni. Allo stesso modo, ad esempio, nelle province di Bergamo e di Brescia le procedure per la gestione delle terre e rocce da scavo sono state oggetto di accordi tra gli Enti.


Il ricorso presentato al Tar Lazio dalle associazioni di categoria del settore delle costruzioni e delle estrazioni

(2) Ai sensi dell’Allegato 5 del Dm 161/2012, infatti, il proponente è tenuto a fornire i seguenti dati e documenti: “1. ubicazione dei siti di produzione dei materiali da scavo con l’indicazione dei relativi volumi in banco suddivisi nelle diverse litologie; 2. ubicazione dei siti di utilizzo e individuazione dei processi industriali di impiego dei materiali da scavo con l’indicazione dei relativi volumi di utilizzo suddivisi nelle diverse tipologie e sulla base della provenienza dai vari siti di produzione. I siti e i processi industriali di impiego possono essere alternativi tra loro; 3. operazioni di normale pratica industriale finalizzate a migliorare le caratteristiche merceologiche, tecniche e prestazionali dei materiali da scavo per il loro utilizzo, con riferimento a quanto indicato all’allegato 3; 4. modalità di esecuzione e risultanze della caratterizzazione ambientale dei materiali da scavo eseguita in fase progettuale, indicando in particolare: – i risultati dell’indagine conoscitiva dell’area di intervento (fonti bibliografiche, studi pregressi, fonti cartografiche, ecc) con particolare attenzione alle attività antropiche svolte nel sito o di caratteristiche naturali dei siti che possono comportare la presenza di materiali con sostanze specifiche;

– le modalità di campionamento, preparazione dei campioni ed analisi con indicazione del set dei parametri analitici considerati che tenga conto della composizione naturale dei materiali da scavo, delle attività antropiche pregresse svolte nel sito di produzione e delle tecniche di scavo che si prevede di adottare e che comunque espliciti quanto indicato agli Allegati 2 e 4 del presente Regolamento; – indicazione della necessità o meno di ulteriori approfondimenti in corso d’opera e dei relativi criteri generali da eseguirsi secondo quanto indicato nell’allegato 8, parte a); 5. ubicazione delle eventuali siti di deposito intermedio in attesa di utilizzo, anche alternative tra loro con l’indicazione dei tempi di deposito; 6. individuazione dei percorsi previsti per il trasporto materiale da scavo tra le diverse aree impiegate nel processo di gestione (siti di produzione, aree di caratterizzazione, aree di deposito in attesa di utilizzo, siti di utilizzo e processi industriali di impiego) ed indicazione delle modalità di trasporto previste (a mezzo strada, ferrovia, slurrydotto, nastro trasportatore, ecc.). Al fine di esplicitare quanto richiesto il Piano di Utilizzo deve avere, anche in riferimento alla caratterizzazione dei materiali da scavo, i seguenti elementi per tutte i

Le questioni sottoposte al sindacato del giudice amministrativo

Il Dm 161/2012 è stato sottoposto al vaglio del giudice amministrativo relativamente a quelle specifiche disposizioni regolamentari siti interessati dalla produzione alla destinazione, ivi comprese aree temporanee, viabilità, ecc: 1. inquadramento territoriale a) denominazione dei siti, desunta dalla toponomastica del luogo; b) ubicazione dei siti (comune, via, numero civico se presente); c) estremi cartografici da Carta Tecnica Regionale (CTR); d) corografia (preferibilmente scala 1:5.000); e) planimetrie con impianti, sottoservizi sia presenti che smantellati e da realizzare (preferibilmente scala 1:5.000); 2. inquadramento urbanistico: 2.1 Individuazione della destinazione d’uso urbanistica attuale e futura, con allegata cartografia da strumento urbanistico vigente; 3. Inquadramento geologico ed idrogeologico: 3.1 descrizione del contesto geologico della zona, anche mediante l’utilizzo di informazioni derivanti da pregresse relazioni geologiche e geotecniche; 3.2 ricostruzione stratigrafica del suolo/sottosuolo, mediante l’utilizzo dei risultati di eventuali indagini geognostiche e geofisiche già attuate. I riporti se presenti dovranno essere evidenziati nella ricostruzione stratigrafica del suolo/sottosuolo; 3.3 descrizione del contesto idrogeologi-

co della zona (presenza o meno di acquiferi e loro tipologia) anche mediante indagini pregresse; 3.4 livelli piezometrici degli acquiferi principali, direzione di flusso, con eventuale ubicazione dei pozzi e piezometri se presenti (cartografia preferibilmente a scala 1:5.000); 4. descrizione delle attività svolte sul sito: 4.1 uso pregresso del sito e cronistoria delle attività antropiche svolte sul sito; 4.2 definizione delle aree a maggiore possibilità di inquinamento e dei possibili percorsi di migrazione; 4.3 identificazione delle possibili sostanze presenti; 4.4 risultati di eventuali pregresse indagini ambientali e relative analisi chimiche fisiche; 5. piano di campionamento e analisi; 5.1 descrizione delle indagini svolte e delle modalità di esecuzione; 5.2 localizzazione dei punti mediante planimetrie”. (3) Il ricorso davanti al Tar Lazio, sede di Roma, iscritto al Reg. 9769/2012, è stato presentato, oltre che da Ance, anche dai seguenti organismi di rappresentanza regionale: Ance Lombardia, Ance Veneto, Ance Piemonte-Valle D’aosta, Ance - Friuli Venezia Giulia e ee Associazioni territoriali Ance Trento e Assimpredil – Ance.

RIFIUTI bollettino di informazione normativa n. 204 (03/13)

Con l’intenzione di arginare la situazione di stallo dilagante venutasi a creare nel settore delle costruzioni a seguito dell’entrata in vigore del Dm 161/2012, sono scese in campo le associazioni di categoria, che lo scorso 20 novembre 2012 hanno presentato ricorso davanti al Tar Lazio.

La richiesta di annullamento del Dm 161/2012 rivolta al giudice amministrativo ha visto la mobilitazione, accanto a primarie imprese operanti in ambito lombardo nel settore delle costruzioni e dell’estrazione/trattamento inerti, anche dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance), che rappresenta l’industria italiana delle costruzioni a livello nazionale, nonché delle articolazioni regionali e provinciali di gran parte del Nord Italia, aderenti, in sede nazionale, ad Ance (3). Alla presentazione del predetto ricorso ha, poi, aderito anche l’Associazione nazionale estrattori produttori lapidei e affini (Anepla), che rappresenta un settore contiguo a quello delle costruzioni, e cioè quello dell’estrazione e lavorazione del materiale inerte. Il Dm 161/2012 è stato censurato dalle predette associazioni in quanto l’Amministrazione ha evidentemente superato i limiti della delega ricevuta dall’articolo 49 del “Decreto Liberalizzazioni”, introducendo una regolamentazione che si pone, per molti aspetti, in contrasto con le norme interne e comunitarie non solo in materia ambientale, ma anche edilizia, di trasporti e di semplificazione amministrativa. Sotto tale profilo il decreto potrebbe addirittura essere dichiarato nullo in alcune sue parti, per incompetenza assoluta dei Ministeri a derogare alla legge, fonte giuridica sovraordinata al regolamento. È, inoltre, evidente come non sia stata condotta da parte ministeriale un’adeguata attività istruttoria in merito alle fattispecie legate al riutilizzo dei materiali da scavo, ciò che avrebbe consentito di regolamentare il loro riutilizzo tenendo conto delle situazioni che si verificano in concreto nei cantieri. In merito alla legittimità del Dm 161/2012 la parola passa, dunque, al giudice amministrativo.

L’intervento Terre e rocce

zione del Piano di utilizzo di cui all’Allegato 5 al Dm 161/2012 (2) che obbliga il soggetto proponente il progetto a produrre una serie di dati, quali quelli relativi all’inquadramento urbanistico del sito di produzione e del sito di destinazione, la cui richiesta, oltre a risultare eccessivamente gravosa, si rivela in ogni caso non motivata, soprattutto in quanto già in possesso della Pa. A ciò si aggiunga che, a fronte dei nuovi adempimenti procedurali è stato, inoltre, delineato dagli stessi Ministeri un regime di responsabilità per il mancato rispetto degli stessi, che prevede, quale sanzione, la decadenza dalla qualifica di sottoprodotto e la gestione del materiale da scavo come rifiuto. L’effetto della nuova regolamentazione è stato, dunque, quello di ostacolare, in concreto, l’effettivo riutilizzo delle terre e rocce da scavo, sconvolgendo profondamente l’attività di costruzione attraverso nuovi, complessi, onerosi e spesso inapplicabili adempimenti ai fini del riutilizzo. Molti operatori si vedono così costretti a gestire i materiali provenienti dallo scavo nei propri cantieri come rifiuti, rinunciando al riutilizzo degli stessi come sottoprodotti, proprio al fine di evitare gli imprevisti e le tempistiche indeterminabili dell’iter del Piano di utilizzo. E ciò con le conseguenze che è facile immaginare in termini di responsabilità per la gestione di rifiuti, di costi, ma anche di grave impatto sull’ambiente, stante l’aumento della produzione e della movimentazione dei rifiuti.

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