Il mondo dopo il Pil

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IL MONDO DOPO IL PIL

economia e politica nell’era della post-crescita



Lorenzo Fioramonti

IL MONDO DOPO IL PIL Economia e politica nell’era della post-crescita


Lorenzo Fioramonti il mondo dopo il pil economia e politica nell’era della post-crescita realizzazione editoriale

Edizioni Ambiente Srl

© 2019 Lorenzo Fioramonti Tradotto da Lorenzo Fioramonti, The World After GDP (1st Edition) Questa edizione è pubblicata in accordo con Polity Press Ltd., Cambridge traduzione:  Arianna Campanile, Marco Moro, Diego Tavazzi coordinamento redazionale:  Diego Tavazzi cover:  Mauro Panzeri impaginazione:  Roberto Gurdo in copertina:  fotografia di Joshua Woroniecki/Pixabay CC0

© 2019, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore ISBN 978-88-6627-270-0 Finito di stampare nel mese di ottobre 2019 presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato in Italia – Printed in Italy i siti di edizioni ambiente

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sommario

ringraziamenti

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introduzione

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1. la costruzione di un mondo post-pil

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2. l’ascesa e il declino dell’ideologia del pil

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3. l’economia post-pil

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4. la politica dopo il pil

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5. il mondo dopo il pil

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conclusione: dati delle persone, per le persone e dalle persone

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note

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bibliografia

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A Damiano e Lukas, augurandogli di crescere in un mondo post-Pil



ringraziamenti

La maggior parte dei libri sono, direttamente o indirettamente, il risultato di sforzi collettivi che prendono le forme più diverse. Anche questo libro non fa eccezione. La mia formazione teorica intreccia diversi filoni delle scienze naturali e sociali, dall’istituzionalismo all’economia ecologica a quella evoluzionistica fino alla scienza della complessità e alla sociobiologia. Mi sono occupato anche di governance, innovazione e progresso tecnologico. Un approccio così eclettico è il risultato di molte collaborazioni, discussioni e dibattiti che ho avuto con una lunga lista di colleghi e amici. Sono troppi per essere menzionati qui. Quindi chiedo a tutti di accettare le mie scuse se, per ragioni di brevità, il loro nome non dovesse comparire nella lista a seguire. Vorrei iniziare ringraziando i miei “complici” dell’Alliance for Sustainability and Prosperity (www.asap4all.org), in particolare Robert Costanza, Ida Kubiszewski, Enrico Giovannini, Dirk Philipsen, Kate Pickett, Kristín Vala Ragnarsdóttir, Lars Fogh Mortensen, Roberto De Vogli e Richard Wilkinson. Le mie idee sul cambiamento sistemico e l’azione collettiva hanno beneficiato delle conversazioni con colleghi come Mark Swilling, che co-dirige il Center for Complex Systems in Transition presso l’Università di Stellenbosch, John Boik, del MD Anderson Cancer Center presso l’Università del Texas, Patrick Bond, della School of Governance dell’Università di Witwatersrand, e Dirk Helbing, professore di Computational Social Science al Politecnico di Zurigo. Durante la stesura di questo libro, ho incontrato rappresentanti di governi, organizzazioni, aziende e gruppi di cittadini che credono fortemen-


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te – come me – nella necessità di una transizione repentina a un sistema di contabilità post-Pil. In questo percorso di ricerca sono stato accompagnato da molti colleghi che condividono le mie stesse preoccupazioni per questo “numero” e per il potere che ha acquisito nelle società contemporanee. Queste persone sono Katherine Trebeck, Martin Whitlock, Alfred Tolle, Yannick Beaudoin, Otto Scharmer, Julia Kim, Lew Daly e Cylvia Hayes, oltre a tutti i partecipanti al Global Wellbeing Lab. Il mio ruolo nella task force coordinata dall’Initiative for Policy Dialogue alla Columbia University è stato essenziale anche per introdurre alcuni dei concetti di questo libro nel dibattito politico. Quindi vorrei ringraziare Joseph Stiglitz, Akbar Noman e Ravi Kanbur per avermi invitato a partecipare alla loro iniziativa. Vorrei ringraziare anche alcuni colleghi della mia università. In particolare, il mio team del centro studi sull’innovazione nella governance, che è stato pronto ad assumere ruoli più manageriali mentre il loro direttore passava le giornate chiuso nel suo ufficio a scrivere, il mio co-direttore Ward Anseeuw, che è a capo di alcuni dei nostri progetti più innovativi sulla generazione distribuita dei dati, e Bernard Slippers, professore di genetica, con cui sto collaborando per promuovere la ricerca transdisciplinare e la leadership scientifica collettiva attraverso un nuovo campus chiamato “Future Africa”. Infine, voglio ringraziare mia moglie Janine, che condivide le mie critiche al Pil. Lei e io lavoriamo con tutte le nostre forze per trasformare la nostra casa, la nostra famiglia e le nostre comunità nel nucleo dinamico di un nuovo sistema economico e politico.


introduzione

Nauru, una minuscola isola della Micronesia, è la più piccola nazione del Pacifico. Con una superficie di 21 chilometri quadrati è il terzo stato più piccolo al mondo, subito dopo il Vaticano e Monaco. È circondata da barriere coralline che emergono dall’oceano in ripide scogliere, alte più di 70 metri rispetto al livello del mare. A causa della vicinanza all’equatore, il clima è umido e caldo. Il suo nome deriva dalla parola anáoero, che in nauruano significa “andiamo in spiaggia”.1 John Fearn, il capitano della baleniera britannica Hunter che nel 1798 segnalò per primo la posizione di Nauru al mondo esterno, rimase così colpito dalla bellezza del luogo che lo chiamò “Pleasant Island” (isola gradevole, ndT). Fino alla metà del XX secolo, Nauru era un remoto avamposto coloniale, prima dell’impero tedesco e poi di quello britannico. Durante la Seconda guerra mondiale per un breve periodo passò sotto il controllo giapponese, e in seguito divenne un protettorato di Australia e Nuova Zelanda. Se fino a quel momento Nauru era pressoché sconosciuta, di lì a poco sarebbe stata catapultata sulla scena globale dalla sua ineguagliata traiettoria di sviluppo: tra gli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, Nauru vantava il Prodotto interno pro capite più alto al mondo, superiore a quello di paradisi finanziari come Lussemburgo, Liechtenstein e petrolstati arabi.2 Questo “boom” economico si basava sullo sfruttamento di una delle riserve più pure e abbondanti al mondo di fosfati, un ingrediente chia-


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ve per la produzione industriale di fertilizzanti. Quando il paese ottenne l’indipendenza nel 1968, la New Nauru Phosphate Corporation cominciò a intensificare le operazioni di estrazione e, con il supporto di esperti stranieri, introdusse diversi trattamenti chimici innovativi. Grazie a un livello di purezza del 91%, senza paragoni, i fosfati di Nauru vennero esportati in Australia e Nuova Zelanda e raggiunsero anche diversi mercati asiatici, come Indonesia, Giappone, Filippine, Corea del Sud e Taiwan. All’inizio degli anni Ottanta si arrivò al picco nell’estrazione, circa 2 milioni di tonnellate all’anno con un prezzo di circa 60 dollari statunitensi a tonnellata. Non potendo costruire un porto con un pescaggio abbastanza profondo a causa della barriera corallina, il governo fabbricò dei giganteschi cantilever dotati di nastri lunghi centinaia di metri che, partendo dalle miniere, trasportavano la polvere marrone di fosfati fino alle navi ormeggiate lontane dalla costa. Dei ricavi complessivi, meno di 3 dollari a tonnellata andavano al fondo dei proprietari dei terreni, e altri 12 dollari erano destinati agli investimenti a lungo termine, tra cui l’acquisto di una flotta di Boeing e di alcune navi da trasporto, di una catena di hotel internazionali e di un grattacielo da 52 piani nel centro di Melbourne (era l’edificio più alto della città). Dopo alcune spese per i programmi sociali, i profitti rimasti andavano al consiglio del governo locale, che controllava l’industria dei fosfati. Ai proprietari dei terreni arrivavano circa 1,4 milioni di dollari ogni tre mesi, e le somme versate a un singolo proprietario potevano sfiorare i 360.000 dollari. Era un reddito incredibilmente alto per gli standard degli atolli del Pacifico, “dove la maggior parte delle persone vive di agricoltura di sussistenza e pesca, e di rado guadagna più di qualche centinaio di dollari all’anno”.3 Poi, le cose cominciarono a crollare. Nella sua corsa allo “sviluppo” il governo di Nauru aveva sfruttato eccessivamente le miniere di fosfati, distruggendo gli habitat che ospitavano la flora e la fauna indigene. Alla fine degli anni Ottanta, la maggior parte delle miniere si erano esaurite: i guadagni crollarono e il governo iniziò a ricorrere a prestiti inter-


introduzione

nazionali.4 Nel tentativo di ottenere qualche ricavo, negli anni Novanta Nauru si trasformò in un paradiso fiscale, e venne inclusa nell’elenco delle nazioni “non cooperanti” dalla task force internazionale contro il riciclaggio del denaro (Financial Action Task Force on Money Laundering). Per diverso tempo, il governo dell’isola portò avanti una serie di politiche discutibili, tra cui il rilascio di passaporti a cittadini stranieri in cambio di una tassa. Senza altre terre disponibili e senza altre fonti di reddito, Nauru alla fine accettò aiuti dall’Australia nel 2001 in cambio dell’insediamento del Nauru Regional Processing Centre, di fatto un campo di detenzione per i richiedenti asilo che è stato aspramente criticato per i maltrattamenti a cui vengono sottoposti i migranti.5 Come dichiarato da Hammer DeRoburt, l’ex presidente di Nauru, la strategia di indebitarsi per finanziare l’infrastruttura estrattiva era stata “suggerita dagli economisti”, nonostante qualcuno avesse sollevato delle obiezioni su spese così esagerate.6 Negli anni Ottanta DeRoburt si era rivolto alla Asian Development Bank per ottenere finanziamenti per il suo progetto di sviluppo. La sua richiesta era stata però respinta, “dato che l’elevato reddito pro capite di Nauru rendeva il governo inidoneo ad accedere all’assistenza”: cioè, il paese risultava troppo ricco per ottenere aiuti internazionali.7 In un rapporto alle Nazioni Unite, i leader di Nauru ammisero che l’estrazione dei fosfati aveva provocato un “drastico degrado dei suoli”, oltre che la “distruzione della vegetazione naturale” e “la trasformazione quasi completa del paesaggio” dell’isola. Il rapporto si concludeva con queste parole: “Questo è di gran lunga il problema ambientale più diffuso e visibile nel paese – negli ultimi 90 anni si è verificata una trasformazione che ha avuto un’influenza diretta e/o indiretta su tutti gli altri fattori ambientali e culturali”.8 Anche gli schemi meteorologici sono stati stravolti. Il calore che sale dall’altopiano dove sono state scavate le miniere allontana le nuvole: l’isola viene costantemente bruciata dal sole ed è oggi affetta da una siccità costante. L’acqua è così scarsa che Nauru è asciutta per gran parte del tempo, e gli isolani dipendono da un impianto di desalinizzazione per

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soddisfare i loro bisogni. Alla fine degli anni Ottanta, il governo vinse una causa dinanzi alla Corte internazionale di giustizia contro le operazioni minerarie australiane, e investì i 75 milioni di dollari di risarcimento per ripristinare alcuni degli ecosistemi perduti “nella speranza di far ricrescere i pandano, i mango e gli alberi del pane”.9 Ma senza successo. Privi di opportunità economiche, con infrastrutture a pezzi, vittime del caos ecologico e con un sistema scolastico allo sbando, per gli abitanti di Nauru l’unica opzione a lungo termine è oggi quella di emigrare in Nuova Zelanda e Australia. La cultura tradizionale, basata sulla pesca e sulla coltivazione di piccoli orti, è stata rimpiazzata dalle importazioni di prodotti alimentari industriali. Come conseguenza, il profilo alimentare degli abitanti di Nauru è peggiorato a livelli che non hanno eguali nel mondo, portando a una grave crisi sanitaria. Secondo le statistiche sull’indice di massa corporea pubblicate dall’Organizzazione mondiale della sanità, dal 2000 i Nauruani sono le persone più in sovrappeso nel mondo, con il 97% degli uomini e il 93% delle donne considerati eccessivamente obesi.10 Da “Pleasant Island” Nauru è diventata una delle capitali mondiali per le malattie cardiovascolari, l’insufficienza renale e il diabete di tipo 2, una malattia cronica legata all’alimentazione che, dagli anni Novanta, colpisce il 40% degli abitanti ed è costata la vita anche all’ex presidente DeRoburt. In un reportage sull’isola, pubblicato nel 1995 sul New York Times, già si poteva leggere: “Anche se i Nauruani possono essere tra le persone più ricche del mondo, sono anche tra le più malate, tormentati dal diabete, dall’alta pressione sanguigna e dall’obesità, tutti provocati dall’importazione di cibi grassi. Pochi Nauruani vivono oltre i 60 anni”.12 Probabilmente, la vicenda di Nauru è un caso estremo, eppure è coerente con le regole alla base degli approcci contemporanei alla prosperità economica come funzione del Prodotto interno lordo (Pil). Nel capitolo 2, fornirò una spiegazione più approfondita di “cosa c’è di sbagliato” nel Pil, ma già qui posso dare alcune indicazioni. Innanzitutto, il Pil misura solo la produzione materiale, senza considerare il valore degli in-


introduzione

put naturali e umani che vengono “degradati” nel processo industriale. Definisce il progresso come un insieme – continuamente crescente – di transazioni di mercato, indipendentemente dal fatto che siano vantaggiose per la società o meno. Malattie, ingorghi stradali, disastri, inquinamento e criminalità innescano comunque delle transazioni economiche, per esempio perché più persone vengono ricoverate in ospedale, perché servono più dispositivi anti-inquinamento, o perché i costi assicurativi diventano più alti e le carceri vanno ampliate. Fanno quindi crescere il Pil, ma di sicuro non sono indicatori di prosperità. Da molti punti di vista, lo sfruttamento massiccio dei fosfati a Nauru è stato coerente con l’andamento del Pil dell’isola, dato che i consulenti economici e i funzionari governativi, per non parlare degli investitori stranieri, non erano per niente interessati ai costi per l’ambiente e la società. Un paese che esaurisce le proprie fonti di energia e distrugge l’ambiente per sostenere la produzione industriale è comunque considerato produttivo sotto il profilo del Pil. Al contrario, un paese che tutela la natura frenando lo sfruttamento e il consumo può benissimo essere classificato come “sottosviluppato”, e venir così considerato bisognoso di riforme drastiche. Inoltre, nel Pil rientrano solo le transazioni che avvengono all’interno dell’economia formale, e vengono quindi trascurate tutte le attività economiche informali, di natura volontaria, che vengono svolte in ambito familiare. In questo modo, le società sono spinte a commercializzare la vita sociale, comprimendo gli svaghi e il tempo libero e sostenendo l’industrializzazione guidata dalle grandi aziende. Come specificato sul sito web dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Ocse), “se c’è un’icona controversa nel mondo della statistica, questa è il Pil. Misura i redditi, ma non l’uguaglianza, misura la crescita, ma non la distruzione, e ignora valori come la coesione sociale e l’ambiente. Eppure, i governi, le imprese e probabilmente la maggior parte della gente gli hanno giurato fedeltà”.13 Pur essendo un’entità geospaziale limitata, senza alcuna capacità di danneggiare il resto del mondo, la parabola di Nauru è comunque una ver-

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Il Pil è molto più di una semplice statistica. In tutto il mondo è l’indicatore del successo delle nazioni, ed è il vero principio ordinatore dell’economia globale. Tuttavia, l’aggravarsi delle crisi economiche, sociali e ambientali ha messo a nudo i limiti di un sistema che considera il Pil l’unica misura credibile della prosperità e del benessere. Il mondo dopo il Pil racconta quello che il sistema internazionale potrebbe diventare adottando dei sistemi di misurazione del progresso e dello sviluppo diversi dal Pil, e descrive una combinazione tra riforme dall’alto e pressioni dal basso che, grazie alle possibilità offerte dall’innovazione tecnologica, può aiutarci a costruire società più eque, sostenibili e felici.

“Quello che i governi non misurano è spesso più importante di quello che viene misurato, perché le cose che misuriamo cambiano il modo in cui pensiamo e ci comportiamo. E se vogliamo un sistema economico sostenibile, dobbiamo cambiare modo di pensare. Questo libro, affascinante e ben scritto, vi farà cambiare il modo in cui pensate.” Graeme Maxton, ex segretario generale del Club di Roma “Un’analisi convincente e acuta per cambiare il mondo superando i limiti ristretti del Pil.” Herman Daly, fondatore di Ecological Economics

20,00 euro ISBN 978-88-6627-270-0


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