Apocalisse quotidiana

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APOCALISSE QUOTIDIANA sei argomenti per una giustizia globale



GEORGE MONBIOT APOCALISSE QUOTIDIANA

SEI ARGOMENTI PER UNA GIUSTI-

Edizioni Ambiente


George Monbiot APOCALISSE QUOTIDIANA sei argomenti per una giustizia globale realizzazione editoriale Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it titolo originale Bring on the Apocalypse – Six Arguments for Global Justice Copyright © 2008 George Monbiot Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria coordinamento redazionale Anna Satolli traduzione Elisabetta Luchetti progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Agenzia X Milano © copyright, 2009 Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-89014-12-7 Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (PG) Stampato in Italia – Printed in Italy

Questo libro è stampato su carta riciclata 100%


sommario

prefazione all’edizione italiana

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di Carlo Petrini introduzione

Qualche pasto mancato, ed è anarchia argomenti su dio

Apocalisse quotidiana I crociati della verginità Il Papa è gay? Una vita senza scopo La religione America argomenti sulla natura

Scienza spazzatura Sogni infranti Pronti al decollo Mistura letale Riscaldamento globale Al lupo al lupo? Voracità divoratrice L’estetica della natura Riportateli a casa Fra distrazione e distruzione argomenti sulla guerra

Azione di contrasto La legge è uguale per tutti, ma qualcuno è più uguale degli altri Sognatori e idioti Il mito della morale Le bugie della stampa Guerra senza regole Guerra e terrore Colpo di stato alla rovescia La pace è dei codardi Rivendichiamo il diritto di uccidere e mutilare i civili Dividendi di guerra Nell’angolo più buio della mente

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argomenti sul potere

Niente illusioni, è la Banca Mondiale Il viceré dei ricchi Sull’orlo della pazzia Dove vanno i nostri soldi Aureole dipinte I nuovi amici dell’Africa Fuga in India Gli olocausti dimenticati della Gran Bretagna Prepotenti in ermellino Lady Tonge: le mie scuse argomenti sul denaro

Paranoia da proprietà privata I più egoisti della Gran Bretagna La proprietà è il vero furto Imbrogli fiscali Dissanguati La sorpresa dell’uovo di Pasqua Un veicolo per l’uguaglianza Troppo morbidi con i criminali Il paese dei balocchi I censori della rete

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I bastardi antisociali che sono tra noi Fuori dal giardino dell’Eden Dinosauri immaginari La sindrome di Willy Loman Il nuovo sciovinismo

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note

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argomenti sulla cultura


prefazione all’edizione italiana di Carlo Petrini

George Monbiot sa leggere la realtà. Questa, cari lettori, è merce rara. Ci vogliono indipendenza, apertura mentale, curiosità: il coraggio e la sapienza per fare un passo nel territorio dove i paradigmi che dominano la Terra non valgono. In questo libro la bravura del divulgatore è unita alla professionalità del giornalista, e i temi sono quelli cardine in un mondo in crisi come il nostro. Già, la crisi: una parola che sta rimbalzando ovunque. È finanziaria, climatica, alimentare, economica, di valori. Si sente, ne abbiamo percezione nelle nostre vite ogni giorno, in quasi ogni azione che compiamo. Non riusciamo però a comprendere a fondo da dove proviene: la subiamo e basta. Tutto ciò genera incertezza, anche lei ultimamente grande protagonista delle cronache e dei commenti. A pensarci bene però, l’incertezza non dovrebbe farci così paura: il futuro è incerto per definizione, non abbiamo la sfera magica che lo prevede. Ciò che fa paura dev’essere dunque altro, è il senso di abbandono e di solitudine in cui ci troviamo, assaliti da merci d’ogni tipo, obnubilati dall’abbondanza, sempre pronti a sprecare per consumare di nuovo. La verità è che viviamo in un sistema che si nutre della nostra infelicità. La nostra insoddisfazione sistematica è il carburante di una macchina così complessa e nebulosa che ci pare ormai impossibile da capire e quindi anche da governare. Tendiamo a lasciar fare ad altri, perché crediamo di essere nell’impossibilità di riprenderci le nostre vite, quando neanche ne sentiamo il bisogno. Il cittadino o il contadino si sentono persi, credono di poter comprare e accumulare potenzialmente ogni cosa se faranno bene il loro dovere quotidiano, ma in realtà ciò che stanno facendo è vendersi. Non è vero che il sistema consumistico ci vende beni e oggetti: esso compra le nostre menti, compra le nostre vite, lasciandoci soli e impotenti. I nostri sensi si atrofizzano, la serialità e l’omologazione ci fanno perdere


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il gusto per le differenze, e con la perdita del gusto si perde la merce rara di Monbiot: la capacità di leggere la realtà. Non ho parlato a caso di gusto: è il mio campo, quello in cui lavoro. Slow Food inizia la sua storia con la “tutela e il diritto al piacere”.1 In questa missione si parte dalla tavola, dalla difesa del cibo e della cultura materiale dei popoli. Il primo moto è un’insurrezione contro l’omologazione di una fast life che ha finito con il renderci insensibili. Tutto ci passa vicino e ci sfiora, ma non lo cogliamo; tutto si consuma voracemente, e poi si butta via per consumare altro. Partire dalla tavola non è esercizio epicureo o, peggio, pantagruelico. Significa innanzitutto riappropriarsi dei nostri sensi, allenarli nuovamente a comprendere le differenze, e quindi la realtà. Se so gustare un cibo lo so capire, mi approprio di tutti i processi che l’hanno portato sulla mia tavola, ho il potere di orientarli. Ma imparo non soltanto a gustare nel modo più pieno possibile ciò che ho nel piatto: imparo a gustare e a comprendere anche tutto il resto che mi circonda. So leggere la realtà. Non è un caso che negli articoli qui raccolti Monbiot inizi spesso i suoi ragionamenti a partire dalla sua esperienza personale, dall’osservazione del paesaggio, da cose che gli capitano direttamente o in cui si imbatte. È lo stimolo primario, la scintilla che poi fa partire le indagini, che scopre gli altarini, che condanna inequivocabilmente i responsabili della nostra “apocalisse quotidiana”. Monbiot con la sua scrittura brillante e ironica ci insegna non soltanto ciò che racconta. Ci insegna che la realtà, ciò che succede al mondo, è anche nelle cose più semplici e banali ed è pienamente alla nostra portata. Se è vero, come leggerete nell’introduzione di Monbiot, che “ogni società è a quattro pasti mancati dall’anarchia”, il consiglio che mi permetto di dare io è: cominciamo a ragionare su quei pasti che abbiamo fortunatamente a disposizione. Non è necessario partire per forza dal cibo: quei quattro pasti sono la metafora di tutto ciò che abbiamo e che possiamo permetterci. Il potere delle nostre scelte è incredibile. Dunque impariamo a scegliere. Anche se riguarda i massimi sistemi, l’apocalisse quotidiana è molto personale, perché ci lascia vuoti, soli e infelici. La crescita di problemi psichici tra le giovani generazioni citata nel libro da questo punto di vista è esem-

1. Manifesto Slow Food, 1989, www.slowfood.it.


prefazione all’edizione italiana

plare. Ma giustamente non bisogna dimenticare che questo regno dell’infelicità è il principale responsabile dei danni e delle violenze che stiamo perpetrando alla Terra, ai suoi equilibri delicati, alla sua capacità di essere un luogo accogliente e felice. Dobbiamo urgentemente porci il problema di come salvare la Terra da questa deriva mortifera e mortificante. Monbiot ci fa capire attraverso la tessitura dei “sei argomenti” che non dobbiamo attendere la mano del politico fondamentalista cristiano, non possiamo aspettare che il Dio di qualcuno risolva la situazione, che è stupido illuderci che chi ha il denaro prima o poi troverà la soluzione. L’unica inevitabile conclusione dopo aver letto questo libro è che tocca a noi, soltanto a noi in quanto individui, famiglie, comunità. Non sono gli Stati più o meno democratici, non sono gli organismi sovranazionali o gli scienziati che ci salveranno, non sono i sistemi culturali dominanti: saremo noi i motori del necessario cambiamento, a partire dalle nostre case, dai nostri territori e dalle nostre piccole vite. La notizia più bella però è che questo non sarà un compito ingrato o immane. Sarà facile e anche molto piacevole. Se per uscire dal vortice del consumismo dovremo cambiare le nostre abitudini, siamo proprio sicuri che sarà una cosa disgustosa, vuota e che ci impoverirà? Sempre per deformazione professionale porto un esempio relativo al nostro cibo. “Mangiare è un atto agricolo” scriveva il poeta contadino Wendell Berry: scegliendo il nostro cibo scegliamo anche che tipo di agricoltura si praticherà. Se scelgo cibo locale, fresco, di stagione, acquistandolo direttamente dai produttori, magari biologico e sicuramente “Omg free”, faccio senz’altro bene alla Terra, ma secondo voi a livello personale mi sto facendo del male? No, quel cibo sarà sicuramente più buono e più gratificante. Se è locale è certamente rispettoso della biodiversità del mio territorio, meno impattante in termini di emissioni, ma anche meno costoso se me lo procuro direttamente dal contadino o dal produttore. Se saprò scegliere, imparerò a conoscere l’alimento che mi porto a casa e a rispettarne il vero valore: il suo prezzo diventerà un dettaglio tra gli altri, e non l’unico metro di giudizio. Come per il cibo si può fare così con tutte le altre scelte che ci permettono di risparmiare energia, di avere comportamenti sostenibili, di salvare un po’ di Terra per le generazioni future. Curiosamente, la sostenibilità ecologica va di pari passo con la sostenibilità esistenziale. Se esco dal circuito virale del consumismo, attuando for-

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me virtuose di economia locale, automaticamente mi reinserisco in una comunità, torno ad avere un contatto vero e gratificante con gli altri. L’economia locale, le microeconomie alternative che non coinvolgono le grandi multinazionali, i potentati sovranazionali e i malati di profitto su scala globale sono la più bella forma di democrazia partecipativa che possiamo rimettere in moto nei nostri luoghi. Smettendo di essere consumatori (che consumano ciò che comprano, ma che consumano anche il terreno, l’aria, l’acqua, le menti degli uomini) e iniziando a essere attivi, complici in processi virtuosi e sostenibili, non staremo facendo altro che riprenderci in mano le nostre vite, null’altro che un ottimo lavoro per garantirci cospicue dosi di felicità. Monbiot non ci dice direttamente come fare – e certamente neanch’io ho la presunzione di farlo in questa prefazione – ma ci dà un metodo, gli strumenti per imparare a leggere la realtà. Da quel punto in poi credo che ognuno sarà in grado di capire il suo ruolo, piccolo ma fondamentale. Perché non c’è una ricetta unica, ma si parte dal proprio contesto, liberamente, autonomamente e come meglio si crede, per tornare a essere indipendenti, aperti e curiosi. Per far sì che la merce rara di Monbiot diventi il vero surplus che sapremo produrre in futuro. Per riuscire, come diceva Roland Barthes, a vivere felici, con “nessun potere, un po’ di sapere, e quanto più sapore possibile”. Carlo Petrini Presidente di Slow Food


introduzione

qualche pasto mancato, ed è anarchia Sto scrivendo questo articolo su un treno che lentamente sferraglia giù per la valle del Dyfi. È aprile e le querce si contorcono in uno spasmo di nuova vita. Poco fa ho visto un agnello appena nato, la pecora trascinava ancora la placenta, come una sacchetta scarlatta. Il livello del Dyfi è più basso di quello che dovrebbe essere in questo periodo dell’anno, così emergono le sue pallide sponde. Lungo gli argini c’è quel che resta dei detriti dei temporali invernali: stecchi e foglie intrappolati dai rami dei salici e alberi come scheletri spezzati di balene arenate sull’erba. È difficile credere che il fiume possa aver scatenato tanta forza. Non c’è voluto molto per adattarmi alla mia nuova casa. Quando sono in viaggio verso Londra, mi riesce di pensare solo ai fiumi e alle colline. C’è una pace irreale qui, quasi che la crudeltà della natura fosse sospesa. Ma questo è vero, con modalità sempre diverse e originali, per ogni paesaggio che ho avuto modo di visitare. Le case allineate lungo il canyon della ferrovia, a nord di Euston, sembrano prigioni, ma non c’è nessuna sommossa. Nelle West Midlands la demolizione delle fabbriche prosegue ininterrotta, senza cerimonie né panico. Le gru accatastano e separano i calcinacci; i costruttori parcheggiano le loro Audi e vagano tra le macerie di quello che resta. Nessuna folla in tumulto, nessun incendio; solo ogni tanto l’esplosione di una bomba occasionale. Il paese sonnecchia in una pace profonda che passa inosservata. Per pace non intendo solo l’assenza della guerra. La pace è anche quando non c’è concorrenza per le risorse, quella lotta che si ritrova ovunque e sempre quando c’è penuria di cose indispensabili alla vita. Quando leggo del conflitto in Iraq o dei massacri in Congo e nel Darfur, o delle torture e della repressione in Birmania o nell’Uzbekistan, o ancora dell’assoluta e


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maledetta miseria della vita in Malawi o nello Zambia, penso che la nostra pace è un’anomalia storica e geografica. È, prima di tutto, il risultato di una sovrabbondanza energetica. Una profusione duratura di energia utile è praticamente sconosciuta agli ecologi. Gli alberi si innalzeranno al cielo fino a quando neanche un raggio di sole raggiungerà il sottobosco. I batteri si moltiplicheranno fino a quando non avranno completamente consumato il loro terreno di coltura. L’abbondanza di prede sarà sempre seguita dall’abbondanza di predatori, che prolifereranno fino a quando le prede non saranno esaurite. L’uomo invece finora è riuscito a crescere senza limiti. Con l’estrazione dei combustibili fossili possiamo sfruttare il prodotto dei cicli naturali di altre ere. Stiamo utilizzando, in un periodo concentrato di tempo, l’energia sequestrata nella quiete della sedimentazione – l’infinitesimale pioggia di plancton sul fondo dell’oceano, il morbido e lento assestamento degli alberi caduti nelle paludi anossiche – e compressa dal peso di depositi successivi. Ogni anno consumiamo i milioni di anni accumulati in altre epoche. Il dono delle ere geologiche ha evitato alle nazioni ricche di doversi impegnare in una lotta per le risorse. Siamo stati capaci di espanderci nel passato e i combustibili fossili ci hanno finora risparmiato da quella violenza che nasce dal bisogno. Eppure qualche eccezione c’è. Alcuni militari inviati all’estero per garantire e controllare le riserve energetiche dei paesi in cui sono in missione potrebbero venire uccisi. In altre parole, abbiamo appaltato gli assassinii. Altri si eliminano a vicenda per nostro conto; noi, semplicemente, paghiamo ai vincitori il bottino. Da quando il petrolio è diventato il carburante più usato per i trasporti, le guerre per l’oro nero si fanno all’estero. La columbotantalite, un minerale della cui esistenza pochi sono a conoscenza, ma dal quale dipende la maggior parte della nostra crescita postindustriale, è una delle ragioni principali del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo, che conta ormai circa quattro milioni di morti. Noi paghiamo per non combattere. Mi frulla in testa una frase, percepita nel ritmo del treno. “Ogni società è a quattro pasti mancati dall’anarchia”. L’ho sentita a un incontro, una quindicina di giorni fa.1 La nostra pace è transitoria e momentanea come il livello dell’acqua del Dyfi. Alcuni dei racconti sulle violenze di New Orleans seguite all’uragano Katrina sono esagerati, ma non tutti. Una minima interruzione nella catena di fornitura dei beni primari, insieme all’incapacità dello stato di eser-


introduzione

citare il proprio controllo sulla violenza, basta per indurre la gente a rapinare, minacciare, perfino uccidere. Una risposta violenta arriva anche da chi non corre certo il rischio di morire d’inedia. Pensate a ciò che succede il primo giorno dei saldi da Harrods. Gente ricca, consapevole che sono ben poche le occasioni di fare grandi affari, spinge, sgomita, si butta nella mischia, a volte perfino si picchia, nel tentativo di aggiudicarsi almeno uno di quei rarissimi servizi di posate o orologi da carrozza o altri simili simboli di raffinatezza. I modi civili, così faticosamente conservati grazie alle britanniche e severe maniere d’altri tempi, si disintegrano come le porcellane per le quali ci si azzuffa al primo accenno di competizione. Diamo la nostra pace per scontata solo perché non riusciamo a capire su che cosa si fonda. In circostanze come questa, l’ordine può essere rapidamente ripristinato grazie alla forza superiore delle armi. Ma in tempi di penuria, l’ordine non è lo stesso dei tempi di abbondanza. È più rigido e meno flessibile; l’esercizio del potere si percepisce più intensamente. Abbiamo avuto esempi di forze superiori che intervengono per garantire un’equa distribuzione delle risorse. È successo, ad esempio, nel Regno Unito durante la Seconda guerra mondiale. Più spesso, si interviene con la forza per proteggere chi ha ancora delle risorse da chi non le ha più. Non è sempre lo stato a ricoprire questo ruolo: i ricchi possono infatti provvedere alla propria sicurezza, pagando qualcun’altro che li difenda. Mi vengono in mente i quartieri e i condomini recintati di Johannesburg, Nairobi, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Mumbai e Giacarta. I ricchi si proteggono con fili spinati, vetri spezzati, cani e guardie armate. Ai miei occhi, è un’esistenza orribile. Ma in posti come questi solo una cosa è peggio del vivere dietro ai cancelli: non viverci. Se non hai le guardie, dormi con un orecchio costantemente teso a percepire il rumore di qualcuno che può entrarti in casa. Eppure anche in queste situazioni non c’è, quasi mai, una mancanza assoluta dei beni primari. In tutti questi posti puoi comprare quello che ti serve. Non manca il cibo, o il carburante o l’acqua pulita o qualsiasi altro bene, se hai i soldi. È il denaro il fattore chiave, e se non c’è, la gente ha fame. Le situazioni di cui voglio parlare, però, sono quelle in cui non manca il denaro, ma il limite è rappresentato dalle risorse. Esistono tre beni essenziali il cui approvvigionamento, nel corso della nostra vita, potrebbe andare soggetto a limitazioni assolute: i combustibili liquidi, l’acqua potabile e il cibo. Negli ultimi anni si è parlato del

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picco del petrolio, ovvero il momento in cui le scorte di greggio in tutto il mondo raggiungeranno il loro apice e inizierà il declino di questa materia prima. Ormai ritengo che alcune previsioni sul suo imminente raggiungimento siano esagerate, ma è evidente che prima o poi succederà, e che sarà entro i prossimi 30 anni. In un certo senso, la data esatta del picco è irrilevante. Una volta create le infrastrutture che dipendono dal petrolio, è fissata la richiesta di questa materia prima: se vivi in una periferia lontana, non puoi andare al lavoro o a fare la spesa se non hai carburante. Ciò significa che si potrà verificare un’insufficienza totale di petrolio anche prima del picco, quando la richiesta supererà l’offerta possibile. Nell’articolo Al lupo al lupo? prendo in esame alcune delle probabili conseguenze che possono derivare da questa situazione. Le nazioni ricche hanno un maggiore potere d’acquisto e per questo saranno le ultime a essere colpite dalla crisi delle risorse. Pagheranno molto di più il petrolio, ma potranno ancora acquistarlo. Nei paesi poveri, al contrario, diventerà un bene raro e prezioso, fonte di conflitti costanti. Le riserve di acqua potabile e di cibo sono invece minacciate dal cambiamento climatico. Gli scienziati del Centro meteorologico britannico ritengono che un aumento della temperatura di soli 2,1 ºC rispetto ai livelli preindustriali farà sì che tra i 2,3 e i 3 miliardi di persone saranno esposte al rischio di mancanza d’acqua.2 I ghiacciai e i manti nevosi che riforniscono molte città si stanno rapidamente sciogliendo. Il livello del mare in aumento minaccia le falde costiere. Quasi ovunque diminuiscono le precipitazioni. Una ricerca suggerisce che, se si mantiene la tendenza attuale, entro il 2090 le zone soggette a siccità estrema aumenteranno del trenta percento.3 Questo influirà anche sulle riserve di cibo. All’inizio, la produzione di alimenti diminuirà in molte nazioni calde dove le temperature cresceranno, e aumenterà nelle località più temperate. Si avrà senz’altro scarsità a livello regionale, ma l’approvvigionamento globale di cibo sarà comunque garantito. Però, superando un determinato livello di riscaldamento, stabilito sui 4 °C o giù di lì, c’è il pericolo di un declino globale della produzione, anche perché la popolazione umana continua a crescere. A quel punto, per dirla con il termine morbido che usano gli ecologi, si verificherà un “aggiustamento”. Significa che centinaia di milioni di persone moriranno per portare di nuovo la popolazione in equilibrio con il cibo disponibile. Nel mondo dei ricchi, dove abbiamo dimenticato cosa sia la sofferenza collettiva, alcuni sembrano perversamente determinati ad accelerare que-


introduzione

sti processi, e a mandare in frantumi quella pace di cui non ci accorgiamo più perché ne siamo troppo assuefatti. Gli esempi più lampanti sono i politici, rumorosamente assistiti dalla loro corte di giornalisti, che ci hanno spinto con forza alla guerra con l’Iraq. Era chiaro nel 2002 come lo è oggi che quella guerra era stata decisa ben prima di aver elaborato una giustificazione che la motivasse. Come ho scritto in due articoli di questa raccolta (Azione di contrasto e Sognatori e idioti), ogni opportunità di pace è stata deliberatamente rifiutata. Saddam Hussein si offriva per negoziare e loro schiaffeggiavano la mano tesa. È lo stesso approccio usato contro i talebani in Afghanistan (anche di questo scrivo in Sognatori e idioti). Una volta ottenuta la loro poltrona, anche spaventando a morte l’elettorato, i politici percepiscono l’esplosione della pace come una minaccia ai loro interessi. I giornalisti li sostengono, in parte perché celebrano sempre il potere, indipendentemente dalla sua complessità, e in parte perché i titoli sulla guerra vendono meglio di quelli sulla pace. Poi ci sono quelli che considerano la guerra in sé come un fine meritevole, a prescindere da qualsiasi vantaggio politico possa offrire. Di loro si legge nel primo articolo di questo libro, Apocalisse quotidiana. È una storia straordinaria e agghiacciante, sullo strano mondo che si può immaginare per se stessi quando la propria ricchezza e la forza delle armi del proprio governo ti isolano dalla realtà del resto del mondo. In qualche modo tuttavia sembriamo compiaciuti dall’eventualità di queste catastrofi. Alcuni esempi estremi vengono dagli Stati Uniti. C’è chi approda sulle spiagge della Florida con enormi camper dai quali scivolano fuori Suv per gareggiare sulla sabbia. Lo scrittore e ambientalista Clive Hamilton racconta che nelle case texane è di moda costruire caminetti per rendere gli ambienti più accoglienti. Per goderne al massimo, tuttavia, bisogna accendere l’aria condizionata.4 Questo non è altro che un’esagerazione del modo in cui tutti noi viviamo. Sembra che l’interesse principale della nostra esistenza sia la ricerca di nuovi modi di impiegare i carburanti fossili. Le automobili moderne, ad esempio, hanno un’efficienza migliorata, che però non fa nessuna differenza rispetto ai consumi: tutto quel che risparmiamo lo spendiamo per alimentare qualche altro inutile e bellissimo optional. Oggi il motore a combustione interna è molto più efficiente di quanto non fosse un secolo fa, quando la Ford Model T faceva 25 miglia con un gallone di petrolio.5 Oggi il consumo medio di carburante negli Stati Uniti è di 21 miglia a gallone (poco meno di nove chilometri al

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litro).6 La maggiore efficienza è reinvestita nel migliorare le prestazioni del motore, per trasportare più peso, per alimentare qualche gadget in più. Cambiamo tutte le lampadine a incandescenza con modelli meno energivori, poi compriamo una tv a schermo piatto grande quasi quanto la casa. L’attivista per l’ambiente George Marshall ha una bella definizione per questo comportamento: lo chiama “rifiuto reattivo”. È come se, incrementando il nostro consumo di energia, anche se siamo più consapevoli dei pericoli del cambiamento climatico e del picco del petrolio, ci persuadessimo che questi problemi non sono reali. Perché se lo fossero, sicuramente qualcuno ci fermerebbe. Vorrei che comprendessimo il valore della pace. Vorrei che fosse per noi una meraviglia quotidiana, come credo sia per coloro che hanno appena superato una guerra. Vorrei riuscire a far capire che senza la pace ogni nostro altro valore è a rischio. Vorrei che l’immaginazione ci aiutasse a comprendere davvero l’orrore della guerra. Ma poiché la pace è per noi un’assenza di eventi, non la percepiamo. La buttiamo via prima di averne colto appieno il valore. Spero davvero che qualcuno degli articoli di questo libro possa incoraggiarvi a considerare le possibili alternative.


argomenti su dio



apocalisse quotidiana Per capire quello che succede in Medio Oriente, bisogna prima di tutto comprendere ciò che accade in Texas. E per capire cosa succede lì, dovreste leggere le delibere approvate il mese scorso dalle assemblee del partito repubblicano di questo stato. Consideriamo ad esempio le decisioni prese nella contea di Harris, che copre la maggior parte dell’area di Houston. I delegati hanno iniziato i lavori esprimendo il loro accordo su qualche tema poco controverso: l’omosessualità è contraria alle verità decretate da Dio; “qualsiasi procedura volta a elaborare, autorizzare, memorizzare, registrare o controllare la proprietà delle armi” deve essere abrogata; le imposte sui redditi, sulle successioni, sulle plusvalenze e sulle società devono essere abolite; l’immigrazione deve essere dissuasa con recinzioni elettrificate.1 Confortati da queste decisioni, i partecipanti sono passati ad affrontare il vero problema: gli affari di un piccolo stato a più di 10.000 chilometri di distanza. È stato allora, racconta uno dei presenti, che hanno avuto inizio “le urla e quasi le scazzottate”. Non so cosa dicesse la mozione originale, ma pare che i contenuti siano stati “significativamente diluiti” come risultato della concitata discussione. La mozione poi approvata dichiara che Israele ha un diritto indivisibile su Gerusalemme e sulla Cisgiordania, che occorre fare pressione sugli stati arabi affinché accolgano i rifugiati dalla Palestina e che Israele deve poter fare ciò che ritiene necessario per cercare di sradicare il terrorismo.2 È bello vedere che malgrado tutto gli estremisti non hanno prevalso. Ma perché questo tema riesce a provocare un così impellente interesse nelle genti di uno stato che di rado viene ricordato per la sua attenzione alla politica estera? Piano piano la spiegazione diventa familiare, ma abbiamo ancora qualche difficoltà a prenderla sul serio. Negli Stati Uniti diversi milioni di persone sono soggiogate da un’idea


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delirante. Nel diciannovesimo secolo due predicatori immigrati hanno sistemato alla meglio una serie di passaggi della Bibbia non connessi tra loro, dando vita a quello che oggi appare un racconto coerente: Gesù tornerà sulla terra quando risulteranno soddisfatte una serie di condizioni prestabilite.3 La prima di queste è la costituzione dello Stato di Israele. Quella successiva implica l’occupazione, da parte di Israele, dei suoi altri territori biblici (la maggior parte del Medio Oriente) e la ricostruzione del Terzo Tempio nei luoghi oggi occupati dal Duomo della roccia e dalla moschea Al-Aqsa. A quel punto, le legioni dell’Anticristo verranno dispiegate contro Israele e la loro battaglia condurrà allo scontro finale nella valle dell’Armageddon. Gli ebrei bruceranno o si convertiranno al cristianesimo, e il Messia tornerà sulla terra. Quello che rende questa storia così entusiasmante per i fondamentalisti cristiani è il fatto che, prima dell’inizio della battaglia, tutti i “veri credenti” (ovvero quelli che credono in ciò a cui loro credono) saranno spogliati dei loro abiti e si libreranno verso il paradiso durante un evento chiamato Estasi. Nei sette anni della gran tribolazione che seguiranno, i giusti non solo siederanno alla destra del Padre ma potranno anche osservare, dai posti migliori, i loro oppositori politici e religiosi divorati da piaghe, ulcere, locuste e rane. I veri credenti sono all’opera affinché tutto questo diventi realtà. Per questo provocano scontri nei luoghi del Vecchio Tempio (nel 2000 tre cristiani statunitensi furono espulsi per aver cercato di far saltare in aria le moschee che vi si trovano),4 sostengono gli insediamenti ebraici nei territori occupati, esigono un appoggio sempre più ampio degli Usa a Israele, cercano di provocare la battaglia finale con il Mondo musulmano, l’Asse del male, le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Francia o chiunque di volta in volta interpreti il ruolo della legione dell’Anticristo. I credenti sono certi che la ricompensa per il loro impegno non sia lontana. A quanto sembra, l’Anticristo è già tra noi, nei panni di Kofi Annan, Javier Solana, Yasser Arafat o, più plausibilmente, Silvio Berlusconi.5 Anche il gruppo Wal-Mart è un candidato (valido dal mio punto di vista), perché intende mettere delle etichette radio sui suoi prodotti, esponendo così tutta l’umanità al Marchio della bestia.6 Visitando il sito www.raptureready.com potrete scoprire quanto siete vicini al giorno in cui leviterete, spogli dei vostri pigiami. Gli infedeli potranno prender nota del livello attuale dell’Indice di Estasi, che è 144, un solo punto al di sotto della soglia critica, oltre la quale il cielo si riempirà di nudisti fluttuan-


argomenti su dio

ti. Al Governo Bestia, al Maltempo e a Israele vengono assegnati i punteggi massimi (l’Unione Europea sta discutendo la sua Costituzione, si è verificato un terribile uragano nell’Atlantico del Sud, Hamas ha giurato vendetta per l’uccisione dei suoi leader), ma la Seconda venuta, al momento, sembra essere ritardata da un’imprevista diminuzione dell’abuso di droghe tra gli adolescenti e dalla debole presenza in scena dell’Anticristo, eventi che ottengono solo due punti ciascuno. Possiamo forse ridere di loro, ma non possiamo ignorarli. Il fatto che le loro credenze siano un po’ suonate non significa che queste persone abbiano un ruolo marginale. I sondaggi americani stimano che tra il 15% e il 18% dei votanti statunitensi appartenga a chiese o movimenti che sottoscrivono questi insegnamenti.7 Un’indagine del 1999 afferma che queste cifre includono il 33% dei repubblicani.8 I libri più venduti negli Stati Uniti sono i 12 volumi della serie Left Behind (“Gli esclusi”), che presentano quello che di solito viene descritto come un racconto romanzato dell’Estasi (questo evidentemente lo distingue dall’altro), impregnato di dettagli su ciò che succederà al resto di noi. Chi crede in tutto questo non ci crede solo un po’: è questione di vita eterna e di morte. Tra di loro ci sono alcuni degli uomini più influenti d’America. John Ashcroft, il procuratore generale, è un fervido credente, così come lo sono diversi senatori di primo piano e il capogruppo della maggioranza alla Camera, Tom DeLay. DeLay (che è anche coautore dell’emendamento dal meraviglioso nome DeLay-Doolittle,* che posticipa la riforma dei finanziamenti per le campagne elettorali) si è recato l’anno scorso in Israele per dichiarare al Knesset** che “non c’è via di mezzo, né posizione moderata che valga la pena di prendere”.9 Abbiamo perciò un elettorato politico d’importanza strategica, che rappresenta una grossa fetta del nucleo dei votanti del presidente Bush nella nazione più potente della terra, attivamente impegnato nel tentativo di provocare una nuova guerra mondiale. I suoi membri considerano l’invasione dell’Iraq alla stregua di un esercizio di riscaldamento, poiché nell’Apocalisse (9:14-15) è scritto che i quattro angeli “incatenati sul gran fiume Eufrate” verranno sciolti “per sterminare un terzo dell’umanità”. Sono capaci di sfondare a spallate le porte della Casa Bianca se vedono

* Letteralmente Rimanda-Faipoco [N.d.T.]. ** Parlamento israeliano [N.d.T.].

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vacillare il sostegno a Israele. Nel 2002, quando il presidente Bush ha chiesto ad Ariel Sharon di allontanare da Janin i suoi carri armati, ha ricevuto 100.000 email infuriate da altrettanti fondamentalisti cristiani, e non ha mai più accennato alla questione.10 I calcoli elettorali, per quanto folle possa sembrare, funzionano così. I governi restano in piedi o cadono sulle questioni interne. Per l’85% dell’elettorato Usa, quando entra in una cabina elettorale il Medio Oriente è una questione di politica estera e pertanto di interesse secondario. Per il restante 15% il Medio Oriente non è solo una questione nazionale, ma è personale: se il presidente non dà fuoco alla miccia laggiù, il nucleo fondante dei suoi elettori non riuscirà a sedersi alla destra del Padre. In altre parole, Bush perderebbe meno voti sostenendo l’aggressività di Israele di quelli che perderebbe limitandola. Sarebbe sciocco se desse ascolto a queste persone. Ma lo sarebbe anche se non lo facesse. 20 aprile 2004


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i crociati della verginità È probabile che tra qualche tempo spetterà a noi delinquenti senili mantenere viva la fiamma della liberazione sessuale. Un gruppo evangelico statunitense ha annunciato che il prossimo mese recluterà adolescenti inglesi per la sua campagna contro il sesso prima del matrimonio. Negli Stati Uniti oltre un milione di ragazzi ha già fatto questa promessa. “Il Regno Unito”, dichiara l’organizzatore, “è affascinato dall’idea dell’astinenza sessuale”.1 Ai miei tempi questo tipo sarebbe stato fustigato. Oggi i giovani gli si accalcano intorno. Ci sarà mai fine alla perversione della gioventù moderna? No, se il governo Usa continua a promuoverla. I sostenitori della campagna di astinenza che spera di corrompere i costumi di questa nostra nazione, una volta orgogliosa, – un gruppo chiamato Silver Ring Thing – hanno finora ricevuto da George Bush 700.000 dollari, come contributo a sostegno della sua iniziativa interessata a sostituire l’educazione sessuale con i valori dell’epoca vittoriana.2 Quest’anno i fondi federali destinati alla promozione della verginità sono raddoppiati, arrivando a 270 milioni di dollari.3 In termini di partecipazione il programma sta funzionando. Sotto ogni altro aspetto è una catastrofe. Nessuno può mettere in dubbio che migliaia di adolescenti nel Regno Unito e negli Stati Uniti soffrano le conseguenze del sesso prematrimoniale. Le gravidanze delle adolescenti si concentrano soprattutto nella parte inferiore della scala sociale; le figlie adolescenti di operai non specializzati hanno dieci volte più probabilità di rimanere incinte rispetto alle ragazze del ceto medio.4 Secondo l’Unicef, le donne nate in condizioni di povertà hanno il doppio delle possibilità di rimanere povere se diventano madri troppo presto. Con più probabilità resteranno disoccupate, soffriranno di depressione e diventeranno dipendenti da alcol e droghe.5 La frequenza di gravidanze e malattie veneree tra gli adolescenti nel Regno Unito e negli Stati Uniti viene genericamente attribuita a una morale lassista e alla permissività dello stato sociale. I disturbi che oggi colpiscono gli adolescenti, insistono i conservatori che dominano questo dibattito, sono la conseguenza della liberazione sessuale degli anni Sessanta e Settanta e della compiacenza dello stato nel sostenere le ragazze madri. Domenica scorsa Ann Widdecombe ha affermato che l’educazione sessuale ha “fallito”; coloro che l’hanno promossa dovrebbero ora “tacere” e lasciare che a occuparsi del benessere dei nostri adolescenti siano i soste-

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nitori della verginità.6 Denny Pattyn, fondatore di Silver Ring Thing, definisce questa una “generazione cloaca, che subisce gli effetti catastrofici della rivoluzione sessuale”.7 Queste persone devono darci qualche spiegazione. Se accettassimo la versione dei conservatori, dovremmo aspettarci che le nazioni nelle quali l’educazione sessuale e l’accesso alla contraccezione hanno maggiore diffusione siano anche quelle in cui sono più frequenti le gravidanze delle adolescenti e le malattie trasmesse per via sessuale. Accade invece esattamente il contrario. I due paesi occidentali in cima a questo disastroso campionato, gli Stati Uniti e il Regno Unito, sono quelli in cui le campagne conservatrici sono più forti e dove risultano più deboli l’educazione sessuale e l’accesso alla contraccezione. Gli Stati Uniti, secondo i dati dell’UN Population Fund, è l’unica nazione ricca che si colloca nel blocco dei paesi del Terzo mondo, con 53 nascite per 1.000 adolescenti – un record peggiore di quelli di India, Filippine e Ruanda.8 Poi segue il Regno Unito, con 20 nascite per 1.000. Le nazioni che secondo i conservatori dovrebbero essere in cima agli elenchi si trovano invece tutte insieme agli ultimi posti. In Germania e Norvegia nascono 11 bambini ogni 1.000 adolescenti, in Finlandia otto, in Svezia e Danimarca sette e in Olanda cinque.9 La spiegazione dell’Unicef non consente equivoci. Nel 1975, ad esempio, la Svezia ha adottato politiche sull’educazione sessuale radicalmente nuove. “Sono state abbandonate le raccomandazioni all’astinenza e al sesso solo nel matrimonio, è stata resa esplicita l’educazione alla contraccezione ed è stata creata una rete nazionale di consultori per giovani che aveva lo specifico scopo di offrire consigli sulla contraccezione in modo riservato e anticoncezionali gratuiti ai ragazzi... Nei due decenni successivi la Svezia ha visto scendere il tasso di natalità tra gli adolescenti dell’80%”.10 Negli anni Novanta le malattie trasmesse per via sessuale sono diminuite in Svezia del 40%, mentre nel Regno Unito e negli Stati Uniti l’indice è in aumento.11 “Le analisi dell’esperienza olandese”, si legge nel rapporto Unicef, “portano alla conclusione che la ragione su cui si fonda il successo è la combinazione di una società relativamente tollerante, con atteggiamenti più aperti verso il sesso, e di un’educazione sessuale che includa i metodi contraccettivi”. Nel paese la richiesta di anticoncezionali “non è associata a vergogna o colpa” e “i media sono ben disposti a convogliare messaggi espliciti” in proposito, “ideati per i giovani”.12 Questa cloaca pul-


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lulante ha il numero di aborti e di nascite da madri adolescenti più basso del pianeta. Gli Stati Uniti e il Regno Unito, al contrario, sono “società meno tolleranti”, dove “i consigli e i servizi volti alla contraccezione possono anche essere formalmente disponibili, ma in un’atmosfera chiusa di imbarazzo e segretezza”. Il Regno Unito ha un livello così alto di gravidanze minorili non perché si faccia più sesso o si pratichino più aborti, ma per i “livelli meno elevati di uso della contraccezione”.13 La catastrofe che affligge così tanti adolescenti in Inghilterra e in America, in altre parole, non è stata causata dagli insegnanti liberali, dai genitori liberati, dalle Marie Stopes International* e dal Guardian, ma da George Bush, Ann Widdecombe e dal Daily Mail. Le loro campagne contro un’educazione sessuale precoce scoraggiano l’accesso ai contraccettivi e mobilitano contro quella tolleranza sociale (eguaglianza economica e welfare state) che vuole offrire alle giovani donne prospettive migliori del diventare madri. Le campagne per l’astinenza come quelle di Silver Ring Thing ritardano l’inizio dell’attività sessuale, ma quando le vittime sono risucchiate dalla cloaca (alla fine succede quasi a tutti), meno di un terzo utilizza i contraccettivi (secondo uno studio dei ricercatori della Columbia University), perché non sono “preparati per un’esperienza alla quale hanno promesso di rinunciare”.14 Un documento pubblicato dal British Medical Journal mostra le conseguenze di tutto questo: i programmi di astinenza sono “associati all’aumento del numero delle gravidanze tra le partner dei giovani maschi partecipanti”.15 Avete letto bene: la promozione dell’astinenza fa aumentare l’indice di gravidanza in età adolescenziale. Se a questi dati venisse garantita una maggiore diffusione, i conservatori e gli evangelici non oserebbero fare le dichiarazioni che fanno. Devono perciò essere sicuri che non si sappia in giro. A gennaio il Sunday Telegraph affermava che gli europei “guardano con invidia” al record Usa delle gravidanze tra adolescenti.16 Per sostenere questa straordinaria dichiarazione falsificava deliberatamente i dati: presentava il tasso di nascita tra adolescenti per 1.000 adolescenti statunitensi, mentre per il Regno Unito utilizzava il tasso totale di nascita tra adolescenti, lasciando così i lettori senza possibilità di paragone. Per quanto stupefacente possa sembrare questo sotterfugio, non è grave

* Organizzazione che promuove la contraccezione e l’emancipazione femminile [N.d.T.].

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neanche la metà rispetto a quelli che è solito utilizzare Bush. Quando ha visto che i suoi adorati programmi di astinenza non riuscivano a ridurre il tasso di natalità tra le adolescenti, ha dato istruzioni all’US Centers for Disease Control di interrompere la raccolta dei dati.17 Li ha anche obbligati ad abbandonare il progetto d’identificazione dei programmi di educazione sessuale che funzionavano, dopo aver verificato che nessuno tra quelli riusciti prevedeva “la sola astinenza”.18 Bush deve anche sperare che non si esaminino troppo attentamente i documenti del periodo in cui era governatore del Texas, quando ha speso 10 milioni di dollari in campagne per l’astinenza con il risultato che quello stato ha il quarto tasso più elevato di infezione da Hiv dell’Unione, e la minore riduzione del tasso di gravidanze tra i giovani di 15-17 anni.19 Perciò, quando il prossimo mese questo manipolo di novellini stranieri arriverà qui con i loro modernissimi discorsi su verginità e astinenza, vi esorto a mettere sotto chiave le vostre figlie e a mandare questi missionari per la loro strada. Spetta alla vecchia generazione allontanare i nostri giovincelli presuntuosi dalla retta via. 11 maggio 2004


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il papa è gay? “Quello in cui un uomo crede, malgrado prove approssimative e insufficienti”, scrive Bertrand Russell, “è indice dei suoi desideri, dei quali egli stesso è spesso inconsapevole”.1 L’attuale ossessione del Vaticano per l’omosessualità fa pensare che stia accadendo qualcosa d’interessante. Forse qualcuno dei più potenti cardinali della chiesa si confronta con la propria sessualità? Forse è il Papa stesso a essere gay? Domenica il Santo Padre ha sferrato uno dei suoi più violenti attacchi agli omosessuali, affermando che la manifestazione del Gay Pride di Roma è stata “un’offesa ai valori cristiani” della città.2 L’omosessualità, ha aggiunto, è “oggettivamente disordinata” e “contraria alla legge naturale”. Lo scorso anno, la Congregazione per la dottrina della fede (Cdf ), il sinistro organismo che vigila sulla chiesa e a capo del quale c’è il cardinale Joseph Ratzinger, ha impedito a un prete e a una suora di officiare messa ai gay degli Stati Uniti. I due si erano rifiutati di sottoscrivere una dichiarazione secondo la quale gli “atti omosessuali sono sempre intrinsecamente malvagi”.3 Il Vaticano ritiene che i gay siano responsabili delle proprie disgrazie. “Quando viene introdotta una legislazione civile che legittima comportamenti ai quali nessuno ha alcun diritto plausibile”, asserisce la Cdf, “né la chiesa né la società nel suo complesso possono poi sorprendersi se... aumentano le reazioni violente”.4 I sostenitori dei diritti dei gay dichiarano che in Italia, ogni anno, vengono uccisi tra i 150 e i 200 omosessuali.5 Questa ragione potrebbe essere sufficiente, se non ce ne fossero anche altre, per valutare seriamente le dichiarazioni del Papa. Vediamo però meglio quali sono le due definizioni principali utilizzate negli editti del Vaticano: l’omosessualità, vi si afferma, è sia immorale sia contro natura. La moralità non ha certo alcun significato se non fa riferimento alle conseguenze che le nostre azioni possono avere sugli altri. È interessante notare come anche il Vaticano non sembri in grado di evidenziare un qualsiasi effetto deleterio del sesso sicuro tra adulti gay e consenzienti, riuscendo solo a suggerire che la sua accettazione potrebbe “pervertire” o “depravare” altri, ovvero che questi altri potrebbero essere sviati dagli insegnamenti della chiesa. L’eterosessualità è proprio un’altra cosa. La riproduzione tra esseri fertili ha un effetto dimostrabile sul benessere degli altri. Grazie allo sfruttamento delle risorse e agli effetti del cambiamento climatico, ogni bambino nato da una famiglia ricca toglie parte dei suoi

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mezzi di sopravvivenza ai bambini di qualche altra parte del mondo. In un pianeta dove le risorse sono in via d’esaurimento, potremmo quasi affermare che essere gay è più morale che essere eterosessuali. L’affermazione che l’omosessualità sia “innaturale” è ancora più interessante. Può significare una delle due: il Papa sta forse suggerendo che essa va oltre le finalità del “normale” comportamento umano? Se così fosse, avrebbe implicazioni scomode per un gruppo di uomini anziani che indossano abiti lunghi e sentono le voci. Oppure potrebbe suggerire che il comportamento omosessuale non è conforme con quello del mondo non umano. Anche in questo caso la chiesa si troverebbe di fronte a un problema. In Biological Exuberance lo scienziato Bruce Bagemihl documenta l’omosessualità in non meno di 470 specie animali:6 gruppi di lamantini che gozzovigliano in orgie tra individui dello stesso sesso, maschi di giraffa che iniziano a sbaciucchiarsi il collo e finiscono col fornicare, femmine di macaco del Giappone che formano coppie per settimane, coccolandosi a vicenda e facendo sesso. La rivista New Scientist riferisce che all’inizio dello scorso secolo gli imbarazzati custodi dello zoo di Edimburgo furono costretti a battezzare i pinguini più volte, dopo aver scoperto che le coppie di amanti che tenevano sotto osservazione non erano affatto quello che sembravano.7 Le sterne di mare del Dougal si accoppiano a volte tra femmine per tutta la vita, dando ad alcuni maschi il permesso di essere fecondate, ma nidificando e crescendo i pulcini da sole. Provo un certo imbarazzo a descrivere quel che riescono a fare gli scimpanzé pigmei, gli oranghi o i ricci dalle orecchie lunghe, anche su un quotidiano liberale. La vita selvaggia del mondo, in altre parole, è pervertita. Ma ho grandi difficoltà ad affermare che non sia naturale. Il celibato autoimposto, al contrario, è completamente sconosciuto alle altre specie animali. Se c’è un comportamento sessuale non previsto nel mondo della natura, è indubbiamente quello del clero. Io non credo che il Papa sia gay, ma penso che abbia trovato negli omosessuali un nemico necessario, una minaccia esterna che consente alla Santa Sede di giustificare il suo pugno di ferro sulla vita dei fedeli. Sebbene alcuni preti e vescovi coraggiosi abbiano cercato di resistere ai suoi eccessi, per secoli il Vaticano ha infierito sulle vittime di pregiudizi e persecuzioni. Bruciare gli eretici e mettere le streghe alla gogna non è più permesso, perciò oggi le sue prede sono gli omosessuali e le donne in gravi-


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danza: i gay vengono esposti ad abusi violenti e si cerca di impedire perfino alle vittime delle violenze sessuali nel Kosovo di prendere la pillola del giorno dopo. L’omosessualità è indubbiamente naturale e morale. Si può dire lo stesso del Papa? 13 luglio 2000

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una vita senza scopo Non tutto è perduto in America. Quando, un paio di settimane fa, George Bush si è dichiarato favorevole all’insegnamento del “progetto intelligente”, la nuova espressione del creazionismo, la stampa lo ha criticato aspramente. I talebani della cristianità non hanno ancora vinto. Ma stanno guadagnando terreno. Finora in 13 stati ci sono state proposte legislative per portare la controversa materia nei programmi scolastici.1 In Kansas, Texas e a Filadelfia è già stata introdotta. Ad aprile, in Arkansas è stato inaugurato un nuovo “museo di storia della terra”, nel quale si insegna ai visitatori che i “dinosauri e gli uomini hanno convissuto” e che alcuni giovani dinosauri, a cui però Dio si è dimenticato di accennare, hanno fatto un giro sull’Arca di Noè.2 Musei simili sono in via di realizzazione in Texas e nel Kentucky. Secondo un sondaggio Gallup dello scorso anno, il 45% degli americani crede che gli “esseri umani non si siano evoluti ma, al contrario, siano stati creati da Dio... sostanzialmente nella loro forma attuale, circa 10.000 anni fa”.3 Ciò non accade solo in America. Il mese scorso l’arcivescovo cattolico di Vienna, il cardinale Christoph Shönborn, ha affermato che “qualsiasi sistema di pensiero che neghi o cerchi di giustificare le prove imperscrutabili del disegno divino mediante la biologia è ideologia e non scienza”.4 Il Papa sembra approvare.5 La scorsa settimana il ministro dell’Istruzione australiano, Brendan Nelson, ha annunciato che “se le scuole desiderano presentare agli studenti anche materie relative al progetto intelligente, non avrò nessuna difficoltà a consentirlo”.6 Nel Regno Unito il preside di una delle nuove istituzioni accademiche sponsorizzate dal new business di Tony Blair dichiara che l’evoluzione è semplicemente una “posizione di fede”.7 La controversia mi affascina, in parte anche per le similitudini che mostra con la disputa sui mutamenti del clima. Alla stregua di chi nega il cambiamento climatico, chi sostiene il progetto intelligente seleziona accuratamente i dati che sembrano supportare le proprie teorie. Chiede le prove e le ignora quando gli vengono presentate. Denuncia una cospirazione per spiegare il consenso scientifico e non prova alcun imbarazzo per la propria ignoranza scientifica. In un articolo pubblicato sull’American Chronicle, il giornalista Thomas Dawson afferma che “tutti i vertebrati, dai pesci ai mammiferi [dei ritrovamenti fossili] sembrano essere nello stesso momento evolutivo” e che se invece l’evoluzione “fosse realtà, si sarebbero trovati


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reperti di animali senza vista e altri con gradi variabili di sviluppo degli occhi... Ma fossili così non esistono”.8 In realtà, il primo pesce e i primi mammiferi sono separati da circa 300 milioni di anni e i fossili rinvenuti hanno più occhi, in tutte le fasi della loro evoluzione, della Cia. Ma la controversia mi affascina anche perché la selezione naturale è per i fondamentalisti un campo molto arido da coltivare. Da un secolo e mezzo l’evoluzione darwiniana respinge attacchi di ogni tipo. A suo sostegno è stato accumulato un numero enorme di prove, dai rilievi fossili alla genetica, all’osservazione diretta. Se i cristiani conservatori si fossero concentrati sui dubbi che oggi attanagliano la teoria del Big bang,9 o sull’incapacità di conciliare la gravità con la fisica dei quanti, o sull’ostinato e inafferrabile bosone di Higgs, o ancora sul mistero persistente del fenomeno delle masse, sarebbero più difficili da attaccare. Perché allora scegliere Darwin? Di certo perché, qualora se ne considerino le implicazioni, si deve smettere di credere che la Vita abbia una finalità. Come ha ammesso G. Thomas Sharp, presidente della Creation Truth Foundation, al Chicago Tribune: “Se la Genesi non è più la spiegazione legittima, scientifica e storica dell’uomo, è la stessa cristianità a perdere ogni valore. Punto”.10 In realtà perdiamo molto di più di questo. L’evoluzione darwiniana ci dice che siamo concime allo stadio primordiale: un assemblaggio di molecole complesse che, senza altro scopo più elevato che assicurarsi continue fonti di energia ha sviluppato la capacità di ragionare. Dopo un certo numero di anni, le molecole si disgregano e tornano da dove sono venute. Punto. Come giardiniere ed ecologo, tutto questo stranamente mi dà conforto. Mi piace l’idea di una letterale reincarnazione: le molecole di cui io sono fatto, quando mi sarò decomposto, saranno incorporate in altri organismi. Piccole parti di me si faranno strada verso le fronde crescenti degli alberi, se ne impossesseranno diventando bruchi, andranno a caccia di quei bruchi diventando uccelli. Quando morirò, vorrei essere sepolto in un modo che garantisca che nessuna parte di me vada sprecata. Allora potrò affermare che dopo tutto sono stato utile a qualcosa. Non è meglio della terribile lotteria del giudizio finale? Un futuro che possiamo prevedere non è forse più rassicurante di uno legato ai capricci di un’autorità imperscrutabile? La morte eterna non dà forse più felicità della vita eterna? Gli atomi che mi compongono, un prestito temporaneo della biosfera, verranno riciclati fino a quando l’universo non collas-

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serà. È questa la nostra continuità, la nostra eternità. Perché dovremmo chiedere di più? Fino a qualche giorno fa avrei affermato che la richiesta di un Oltre fosse universale, ogni società ha o aveva una storia della creazione e che, come sostiene Joseph Campbell, “ritroveremo sempre quella storia, mutevole ma meravigliosamente uguale a se stessa”.11 Ieri però ho letto una ricerca dell’antropologo Daniel Everett sul linguaggio dei Piraha, una popolazione dell’Amazzonia brasiliana, pubblicata nell’ultimo numero di Current Anthropology.12 Le conclusioni a cui giunge sono insuperabilmente inquietanti, o profonde. I Piraha, rivela Everett, possiedono “la più complessa morfologia verbale di cui io sia a conoscenza [e] sono uno dei popoli più intelligenti, piacevoli e amanti del divertimento che io abbia mai incontrato”. Eppure non hanno numeri di alcun tipo, nessun termine per le quantità (ad esempio tutto, ognuno, ogni, la maggior parte e alcuni), nessuna parola per i colori e nessun tempo verbale perfetto. I pronomi, che fino a qualche tempo fa non usavano, sembra che li abbiano presi in prestito da un’altra lingua. Non hanno “memoria individuale o collettiva che vada oltre le due precedenti generazioni”, nessun disegno o altro tipo di espressione artistica, nessuna narrazione e “né storie né miti sulla creazione”. Everett ritiene che tutto questo possa essere motivato da una sola caratteristica: “La cultura dei Piraha limita la comunicazione ad argomenti non astratti che rientrano nell’immediata esperienza del [parlante]”. In altre parole, parlano solo di ciò che vedono. Quando un fatto non viene più percepito cessa di esistere, quanto meno in questo regno. Dopo aver affrontato le curiosità grammaticali, ha capito che i Piraha “hanno a che fare con la liminalità: situazioni in cui un elemento entra ed esce dai confini della loro esperienza. [Il loro] entusiasmo nel vedere una canoa che sparisce dietro l’ansa di un fiume è difficile da descrivere; per loro è come se entrasse in un’altra dimensione”. I Piraha, che ancora esistono, guardano il passero che entra ed esce dalla sala del banchetto.13 “Felice la lepre al mattino”, scrivono Auden e Isherwood, “perché non sa leggere/i pensieri del cacciatore al risveglio. Fortunata la foglia/incapace di prevedere la caduta... Ma cosa può fare l’uomo, che sa fischiare melodie a memoria/consapevole che la morte lo falcerà, come il grido della gazza?”.14 Eppure penso che quelli felici siamo noi: unici tra gli altri esseri, percepiamo l’eternità e sappiamo che il mondo andrà avanti anche senza di noi. 16 agosto 2005


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la religione america “La morte di Uday e Qusay”, ha annunciato mercoledì il comandante del corpo d’armata in Iraq ai giornalisti, “sarà senza dubbio un punto di svolta per la resistenza”.1 Così è stato, ma non nel senso che aveva immaginato. Lo stesso giorno dell’annuncio, i ribelli iracheni hanno ucciso un soldato statunitense e ne hanno feriti altri sei. Il giorno seguente ne hanno uccisi tre, e durante il fine settimana ne sono stati ammazzati cinque e feriti sette. Ieri ne hanno massacrato un altro e feriti tre. Per i soldati americani in Iraq è stato il peggior weekend da quando George Bush ha dichiarato che i principali attacchi nel paese stavano per volgere al termine. Sono pochi ormai a credere che la resistenza in Iraq sia organizzata da Saddam Hussein e dalla sua malefica famiglia, o che avrà fine quando questa verrà sterminata. Purtroppo, tra questi pochi c’è il comando militare e civile delle forze armate degli Stati Uniti d’America. Per l’ennesima volta da quando gli Usa hanno invaso l’Iraq, le previsioni fatte da coloro che hanno accesso ai servizi segreti si sono dimostrate meno affidabili di quelle tentate da chi ai servizi non può accedere. E per l’ennesima volta, la responsabilità delle inesattezze nelle previsioni ufficiali è stata attribuita agli errori dei servizi di intelligence. Le spiegazioni sono ormai un po’ consunte. Davvero dovremmo credere che i membri dei servizi di sicurezza americani sono gli unici a non capire che molti iracheni vogliono liberarsi dell’esercito Usa con lo stesso fervore con cui volevano liberarsi di Saddam Hussein? Quello che manca al Pentagono o alla Casa Bianca non è l’intelligenza (o almeno, non il tipo di “intelligence” che stiamo considerando qui), ma la capacità di recepire. Non si tratta di mancanza di informazioni, ma di incapacità ideologica. Per capire il perché di questa inettitudine, dobbiamo prima di tutto comprendere una realtà che di rado viene analizzata dalla stampa. Gli Stati Uniti non sono più soltanto una nazione: ormai sono una religione. L’esercito americano è in Iraq non solo per liberare il popolo dal dittatore, dal petrolio e dalla propria sovranità, ma anche dalle tenebre. Come ha detto George Bush alle sue truppe nel giorno in cui ha annunciato la vittoria: “Dovunque andiate, siete portatori di un messaggio di speranza, un messaggio antico e sempre nuovo. Con le parole del profeta Isaia dite: ‘Ai prigionieri, uscite, e a quelli nelle tenebre, venite fuori’”.2 I soldati americani non sono più semplici combattenti: sono diventati missionari. Non uccidono soltanto i nemici: stanno cacciando i demoni.

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Chi ha ricostruito i volti di Uday e Qusay Hussein ha sbadatamente dimenticato di rimettere a posto quel paio di piccole corna che i due avevano in fronte, ma il messaggio che fossero nemici appartenenti a un altro regno è stato comunque trasmesso. Come per chiunque invii i propri missionari all’estero, anche per gli alti prelati americani è inconcepibile che gli infedeli resistano per propria volontà; se rifiutano la conversione, è opera del diavolo, al momento incarnato nell’ex dittatore dell’Iraq. Come spiega Clifford Longley nel libro Chosen People, i padri fondatori degli Stati Uniti, sebbene a volte professassero altro, sentivano di essere guidati da una finalità divina.3 Thomas Jefferson sosteneva che il Grande Sigillo degli Stati Uniti avrebbe dovuto raffigurare i figli di Israele, “guidati da una nube di giorno e da una colonna di fuoco di notte”.4 Nel suo discorso inaugurale, George Washington dichiarava che ogni passo verso l’indipendenza era “contraddistinto da qualche segno della divina provvidenza”.5 Longley sostiene che alla formazione dell’identità americana ha contribuito un processo di sostituzione. La chiesa cattolica affermò di aver preso il posto degli ebrei come popolo eletto, dopo che questi furono ripudiati da Dio. I protestanti inglesi accusarono i cattolici di dividere la fede, e dichiararono che loro erano diventati adesso i prediletti di Dio. I rivoluzionari americani accusarono gli inglesi di aver a loro volta infranto il patto; gli americani erano diventati ormai il popolo eletto, con l’obbligo divino di consegnare il mondo al dominio di Dio. Sei settimane fa, a dimostrare che questo credo ancora persiste, George Bush ha citato una considerazione di Woodrow Wilson. “L’America”, ha detto, “ha in sé un’energia spirituale che nessuna altra nazione è in grado di offrire per la liberazione dell’umanità”.6 Piano piano il suo concetto di elezione si è fuso con un’altra idea, forse ancor più pericolosa. Gli americani non sono soltanto il popolo scelto da Dio; è l’America stessa a essere percepita come un progetto divino. Nel suo discorso d’addio alla presidenza, Ronald Reagan parlò del proprio paese come di una “città collocata sulla cima di un monte”, riferendosi al Sermone della montagna.7 Quella che Gesù descriveva però non era una Gerusalemme temporale, ma il regno dei cieli. Nel discorso di Reagan oltre al regno di Dio che sta negli Stati Uniti d’America, c’è anche il regno del demonio: “l’impero del male” dell’Unione Sovietica, contro il quale i suoi santi guerrieri devono ergersi. Dopo l’attacco a New York, questa nozione di divina America è andata ampliandosi e raffinandosi. Nel dicembre del 2001 Rudy Giuliani pro-


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nunciò il suo ultimo discorso da sindaco della città nella Chiesa di Saint Paul, nei pressi delle macerie delle torri gemelle. “Ciò che conta”, sosteneva, “è abbracciare l’America e comprenderne gli ideali. Abraham Lincoln diceva sempre che la prova dell’essere americani è... la misura in cui si crede nell’America. Perché nei fatti siamo una religione, una religione secolare”.8 La cappella dalla quale parlava non era stata consacrata solo da Dio, ma dal fatto che George Washington una volta vi aveva pregato. È un “territorio sacro per la gente che sa cos’è veramente l’America”.9 Gli Stati Uniti non hanno bisogno di chiedere l’intervento di Dio; sono Dio, e gli americani che vanno all’estero per portare la luce lo fanno nel nome del regno celeste. La bandiera è sacra come la Bibbia; il nome della nazione è santificato quanto il nome di Dio. La presidenza si sta trasformando in un sacerdozio. Perciò quelli che mettono in dubbio la politica estera di George Bush non sono semplicemente dei critici; sono blasfemi, sono “anti-americani”. Gli stati stranieri che tentano di cambiare questa politica sprecano il loro tempo: si può negoziare con i politici, ma non con i preti. Gli Stati Uniti hanno una missione divina, come ha affermato Bush a gennaio: “difendere... le speranze di tutta l’umanità”,10 e guai a chi spera in qualcosa di diverso dall’American way of life. Il pericolo che la divina nazione cela non ha bisogno di tante spiegazioni. Il Giappone è entrato in guerra nel 1930 convinto, come George Bush, di essere affidatario di una missione celeste per liberare l’Asia ed estendere il regno del divino impero. Nella predizione del teorico fascista Kita Ikki, avrebbe “illuminato le tenebre di tutto il mondo”.11 Ma quelli che cercano di portare il paradiso sulla terra sono destinati solo a resuscitare l’inferno. 29 luglio 2003

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