L'economia della ciambella

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L’ECONOMIA DELLA CIAMBELLA

sette mosse per pensare come un economista del xxi secolo



Kate Raworth

L’ECONOMIA DELLA CIAMBELLA Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo

QUESTO VOLUME È RACCOMANDATO DA WWF ITALIA­


Kate Raworth l’economia della ciambella sette mosse per pensare come un economista del xxi secolo realizzazione editoriale

Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it

Copyright © Kate Raworth 2017 Kate Raworth has asserted her right to be identified as the author of this Work in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988. First published by Random House Business Books in 2017 traduzione:  Erminio Cella coordinamento redazionale:  Diego Tavazzi progetto grafico:  GrafCo3 Milano impaginazione:  Roberto Gurdo

© 2017, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore ISBN 978-88-6627-209-0 Finito di stampare nel mese di aprile 2017 presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato in Italia – Printed in Italy i siti di edizioni ambiente

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sommario

prefazione di Roberto Barbieri

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l’economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilità di Gianfranco Bologna ed Enrico Giovannini

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chi vuol essere un economista?

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1. cambiare obiettivo

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2. vedere l’immagine complessiva

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3. coltivare la natura umana

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4. imparare a capire i sistemi

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5. progettare per distribuire

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6. creare per rigenerare

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7. essere agnostici sulla crescita

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siamo tutti economisti

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appendice

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ringraziamenti

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crediti

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prefazione

Abbiamo conosciuto Kate Raworth qualche anno fa, in occasione dell’uscita del suo discussion paper A safe and just space for humanity: can we live within the doughnut? nel quale per Oxfam iniziò a sviluppare i temi approfonditi in questo saggio. Già in quel momento il potenziale della doughnut economics apparve chiaro non solo a molti di noi, ma anche a molte istituzioni e soggetti, anche diversi, della società civile globale che di questo tema discussero, con Kate Raworth e con Oxfam, alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile Rio +20 nel 2012 e, in seguito, in altri appuntamenti anche in Italia nel quadro dell’Esposizione Universale 2015 – Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. Cinque anni dopo, crediamo che la teoria economica di Kate Raworth sia ancora più rilevante e opportuna come contributo alla risoluzione delle sfide che ci troviamo ad affrontare. In primo luogo rispetto alla crescita estrema della disuguaglianza economica, che oggi attraversa con forza il dibattito pubblico in ogni paese. In un momento nel quale otto persone possiedono da sole la stessa ricchezza della metà più povera dell’umanità, mentre ancora oggi una persona su nove soffre la fame, quali possono essere gli elementi di opportunità nel costruire un’alternativa positiva, che possa portare a una prosperità condivisa, e non alla crescita delle divisioni? Come fare in modo per esempio che la creazione di valore da parte del mondo dell’impresa sia impiegata a vantaggio di tutti e contribuisca alla creazione di prosperità ed equità sociale? Queste domande ci rendono il senso di quanto sia importante ripensare il modello economico attuale e renderlo adatto a tutelare il pianeta e le sue risorse naturali, e a favorire il benessere degli uomini e delle donne e delle forme viventi che lo abitano. Kate è una vera economista del XXI secolo anche perché accompagna alla capacità profonda di analisi una potente attitudine alla divulgazione di questi mes-


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saggi a coloro che, anche se non necessariamente esperti di economia, sono comunque interessati ad approfondire questi temi. Sono certo che ritroverete questo approccio anche nelle pagine del libro che state per leggere. Roberto Barbieri Direttore Generale, Oxfam Italia




1. cambiare obiettivo

Dal Pil alla Ciambella Una volta all’anno i leader delle più potenti nazioni del mondo si riuniscono per discutere dell’economia globale. Nel 2014, per esempio, si incontrarono a Brisbane, in Australia, per discutere di commerci globali, infrastrutture, occupazione, povertà e riforme finanziarie, accarezzarono koala per i fotografi, e poi si schierarono compatti a sostegno di un’ambizione condivisa. “I leader del G20 si impegnano a far crescere le loro economie del 2,1%” strombazzarono i titoli dei notiziari – aggiungendo che questo rappresentava un traguardo più ambizioso rispetto al 2% a cui avevano stabilito di puntare all’inizio.1 Come si è arrivati a questo? L’obiettivo del G20 fu presentato solo pochi giorni dopo che l’Intergovernmental Panel on Climate Change aveva annunciato che il mondo rischia di dover fronteggiare danni “gravi, pervasivi e irreversibili” causati dall’aumento delle emissioni di gas serra. Non era di grande aiuto che l’ospite australiano del summit, il primo ministro Tony Abbott, avesse cercato di evitare che l’agenda del meeting venisse “incasinata” dai cambiamenti climatici e da altri problemi che potessero distrarre dalla sua priorità assoluta, la crescita economica, altrimenti nota come crescita del Pil.2 Il Pil (Prodotto Interno Lordo), che rappresenta il valore di mercato dei beni e dei servizi prodotti all’interno di una nazione, viene usato da molto tempo come principale indicatore della salute economica. Ma in un’epoca di crisi ecologiche e sociali, com’è possibile che questa singola unità di misura riesca ancora a suscitare un’attenzione internazionale così compatta? Per qualsiasi ornitologo la risposta è ovvia: la crescita è il cuculo nel nido dell’economia. E per capire il perché, dovete sapere una o due cose sui cuculi, perché sono uccelli astuti. Invece di crescere la propria prole, depongono furtivamente le loro uova nei nidi incustoditi di altri uccelli. Gli ignari genitori adottivi covano coscienziosamente l’uovo intruso insieme ai loro. Ma il pulcino del


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cuculo nasce prima, butta fuori dal nido le altre uova, poi imita il pianto affamato della prole del padrone di casa. Questa tattica funziona: i genitori adottivi nutrono alacremente il loro inquilino sovradimensionato a mano a mano che raggiunge dimensioni assurde, debordando dal minuscolo nido che ha occupato. È un avviso potente agli altri uccelli: lasciate il vostro nido incustodito ed esso potrà essere facilmente sequestrato. È un avviso anche per l’economia: perdete di vista i vostri scopi e qualcos’altro potrà insinuarsi al posto loro. Ed è esattamente quello che è successo. Nel XX secolo, l’economia ha perso la voglia di articolare i propri obiettivi: in loro assenza, il nido è stato sequestrato dall’obiettivo-cuculo della crescita. È decisamente ora che questo cuculo lasci il nido e permetta all’economia di riconnettersi con gli obiettivi per cui è stata creata. Quindi: sfrattiamo il cuculo dal nido e sostituiamolo con un chiaro obiettivo per l’economia del XXI secolo, uno che assicuri a tutti dignità e opportunità entro i limiti del pianeta che ci sostenta. In altre parole, entriamo nella Ciambella, il posto in cui umanità può stare comoda.

come ha fatto l’economia a perdere di vista il suo obiettivo Tornando all’antica Grecia, quando il filosofo Senofonte coniò il termine “economia”, descrisse la pratica della gestione domestica come un’arte. Seguendo la sua strada, Aristotele distinse l’economia dalla crematistica, l’arte di acquisire ricchezza – una distinzione che sembra essere valida ancora oggi. L’idea che l’economia, e persino la crematistica, fosse un’arte potrebbe essere stata convincente per Senofonte, Aristotele e il loro tempo. Ma duemila anni dopo, quando Isaac Newton scoprì le leggi del moto, il prestigio connesso allo status di “scientifico” crebbe parecchio. Forse perché, nel 1767 – solo quarant’anni dopo la morte di Newton – l’avvocato scozzese James Steuart creò il concetto di “economia politica” e non la definì più un’arte ma come la “scienza delle politiche domestiche nelle nazioni libere”. Ma il chiamarla scienza non lo trattenne tuttavia dall’esprimere il suo scopo: L’oggetto principale di questa scienza è assicurare un certo fondo per la sussistenza di tutti gli abitanti, per ovviare a qualsiasi circostanza che possa renderla precaria; fornire tutto il necessario per soddisfare i desideri della società, e dare impiego agli abitanti (supponendo che siano uomini liberi) in modo tale da creare naturalmente relazioni reciproche e dipendenze tra di essi, così che i loro molteplici interessi li portino a scambiarsi i reciproci desideri.3


1. cambiare obiettivo

Mezzi di sussistenza e lavoro sicuri per tutti, in una comunità che prospera mutualmente: non male per un primo tentativo (nonostante il tacito disprezzo per donne e schiavi tipico di quei tempi). Dieci anni dopo, Adam Smith provò a dare una sua definizione ma seguì la strada di Steuart nel considerare l’economia politica come una scienza orientata agli scopi. Aveva, egli scrisse, “due distinti oggetti: fornire copiosi introiti o sussistenza per la gente, o più appropriatamente, metterli in grado di procurarsi tali introiti o mezzi di sussistenza da sé; e secondariamente fornire allo stato o al commonwealth introiti sufficienti per i servizi pubblici”.4 Questa definizione non solo demolisce l’immeritata reputazione di Smith come promotore del libero mercato, ma tiene anche lo sguardo fisso sui prezzi articolando un obiettivo per il pensiero economico. Ma era un approccio che non sarebbe durato. Settant’anni dopo Smith, John Stuart Mill ridefinì l’economia politica spostando il punto focale: “Una scienza che delinea le leggi di quei fenomeni della società che sorgono dalle operazioni combinate dell’umanità per la produzione di ricchezza”.5 Così Mill diede inizio a una tendenza che altri avrebbero incoraggiato: distogliere l’attenzione dagli obiettivi dell’economia e, invece, rivolgerla alla scoperta delle sue sedicenti leggi. La definizione di Mill entrò ampiamente nell’uso comune, ma in nessun senso esclusivo. Di fatto per quasi un secolo la scienza emergente dell’economia fu definita in modo piuttosto impreciso. Jacob Viner, uno dei primi economisti che guidarono la Scuola di Chicago negli anni Trenta, si pronunciò in proposito con una semplice battuta: “L’economia è quello che gli economisti fanno”.6 Non tutti la trovarono una risposta soddisfacente. Nel 1932, Lionel Robbins della London School of Economics intervenne con l’intento di chiarire l’argomento, evidentemente irritato dal fatto che “tutti parliamo delle stesse cose, ma non abbiamo ancora stabilito cos’è quello di cui parliamo”. Affermò di avere una risposta definitiva. “L’economia”, disse, “è la scienza che studia il comportamento umano come relazione tra scopi e mezzi scarsi che hanno usi alternativi”.7 Nonostante le sue contorsioni, questa definizione sembrò chiudere il dibattito e rimase: molti libri di testo mainstream iniziano ancora oggi con qualcosa di simile. Ma mentre contestualizza l’economia come una scienza del comportamento umano, essa dedica poco tempo a indagare quegli “scopi”, per non parlare della natura dei mezzi scarsi coinvolti. Nel libro di testo di Gregory Mankiw, Principles of Economics, la definizione è diventata ancora più concisa. “L’economia è lo studio di come la società gestisce le sue risorse scarse”, dichiara – cancellando completamente la questione degli scopi o degli obiettivi.8 È ironico che l’economia del XX secolo abbia deciso di definirsi come una scienza del comportamento umano, e poi abbia adottato una teoria del comportamento – riassunta nella formula dell’uomo economico razionale – che, come ve-

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dremo nel capitolo 3, per decenni ha oscurato qualsiasi vero studio sugli esseri umani. Ma, in modo più determinante, durante questo processo, la discussione sugli obiettivi è semplicemente scomparsa. Alcuni economisti influenti, guidati da Milton Friedman e dalla Scuola di Chicago, hanno dichiarato che questo è un passo avanti importante, una dimostrazione che l’economia è diventata una zona sganciata del valore, che sfugge a qualsiasi affermazione “normativa” su quello che dovrebbe essere e alla fine è emersa come una scienza “positiva” tesa alla semplice descrizione di “quello che è”. Ma questo ha creato un vuoto di obiettivi e valori, un nido evidentemente vuoto al cuore del progetto economico. E, come ogni cuculo sa, un nido vuoto va riempito.

il cuculo nel nido Questo approccio “positivo” all’economia era la teoria alla base del libro di testo che mi ha accolto appena arrivai all’università alla fine degli anni Ottanta. Come molti economisti neofiti, ero così impegnata ad afferrare la teoria dell’equilibrio generale, così concentrata a farmi entrare in testa la definizione di denaro, che non mi accorsi dei valori nascosti che avevano occupato il nido dell’economia. Nonostante affermi di essere slegata dal valore, la teoria economica convenzionale non può sfuggire al fatto che il valore è incorporato nel suo cuore: è avvolto nell’idea di utilità, definita come la soddisfazione o la felicità di una persona ottenuta dal consumo di un particolare insieme di beni.9 Qual è il miglior modo per misurare l’utilità? Lasciamo da parte per un momento la consapevolezza che a miliardi di persone mancano i soldi per segnalare al mercato i propri desideri e bisogni, e che la maggior parte delle cose che apprezziamo di più non sono in vendita. La teoria economica è rapida – troppo – nell’affermare che il prezzo che le persone desiderano pagare per un prodotto o un servizio è un indicatore sufficientemente buono per calcolare l’utilità che ne ricavano. Aggiungete a questo l’assunzione – apparentemente ragionevole – che i consumatori preferiscono sempre il più al meno, e con un breve passo si arriva alla conclusione che un continuo aumento degli introiti (e quindi la crescita della produzione) è un indicatore soddisfacente per il sempre crescente benessere umano. Con questo, il cuculo è uscito dall’uovo. Come le mamme uccello ingannate, noi studenti di economia abbiamo fedelmente coltivato l’obiettivo della crescita del Pil, innaffiandolo con le ultime teorie concorrenti su cosa fa crescere le economie: era l’adozione da parte di una nazione di nuove tecnologie, la crescente disponibilità di macchinari e fabbriche, o addirittura la disponibilità di capitale umano? Sì, queste erano tutte domande affascinanti, ma non una volta ci siamo fermati seriamente a chieder-


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ci se la crescita del Pil fosse sempre necessaria, sempre desiderabile o, effettivamente, sempre possibile. Fu solo quando scelsi di studiare quello che all’epoca era un argomento oscuro – l’economia dei paesi in via di sviluppo – che sorse il problema degli obiettivi. La primissima questione che mi ero posta mi affrontò direttamente: qual è il miglior modo per valutare il successo nello sviluppo? Ero bloccata e sotto shock. Due anni a studiare economia e la domanda sullo scopo mi si era posta ora per la prima volta. Peggio, fino a quel momento non mi ero nemmeno accorta che mancava. Venticinque anni dopo, mi chiedevo se l’insegnamento dell’economia fosse progredito nel riconoscere la necessità di discutere del suo scopo. Così, all’inizio del 2015, la curiosità mi portò ad assistere alla conferenza di apertura sulla macroeconomia – lo studio dell’economia come un unicum – per l’ultimo plotone di studenti di economia della Oxford University, molti dei quali senza dubbio prevedono di essere tra i principali decisori politici e business leader che modelleranno il mondo nel 2050. Appena la conferenza iniziò, l’anziano professore fece apparire sullo schermo quelle che chiamava “Le grandi questioni della macroeconomia”. Le prime quattro? 1. Cosa causa la crescita e la fluttuazione del prodotto economico? 2. Cosa causa la disoccupazione? 3. Cosa causa l’inflazione? 4. Come vengono determinati i tassi di interesse? La sua lista continuava, ma le domande non puntavano mai a incoraggiare gli studenti a considerare o a mettere in questione lo scopo dell’economia. Com’è che questo cuculo ha riempito così bene il nido economico? La risposta va indietro a metà degli anni Trenta – il decennio in cui gli economisti si stavano accomodando su una definizione della loro disciplina che non menzionava un obiettivo – quando il Congresso degli Stati Uniti commissionò all’economista Simon Kuznets il compito di valutare la mole degli introiti nazionali degli Stati Uniti. Per la prima volta, grazie a Kuznets, diventò possibile aggiungere il valore di un singolo dollaro al prodotto nazionale annuale, il Prodotto nazionale lordo, e metterlo a confronto con l’anno precedente. Questo metro di misura si è dimostrato estremamente utile ed è finito in mani ben disposte ad accoglierlo. Subito dopo la Grande depressione, esso diede a Roosevelt la possibilità di monitorare l’andamento dell’economia americana e di valutare così l’impatto e l’efficacia delle politiche del suo New Deal. Pochi anni dopo, mentre gli Stati Uniti si preparavano a entrare nella Seconda guerra mondiale, i dati alla base dei calcoli del Pnl si rivelarono fondamentali per convertire un’economia industriale competitiva in un’economia militare pianificata, mantenendo al contempo consumi domestici sufficienti a generare ulteriore prodotto.10

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Presto si aggiunsero altri motivi per perseguire una crescita infinita del Pnl, e nei vari stati furono adottati calcoli simili su scala nazionale, cosicché alla fine degli anni Cinquanta la crescita economica era diventata l’obiettivo prioritario delle politiche dei paesi industrializzati. Osservando l’ascesa dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti perseguirono la crescita come misura di sicurezza nazionale, ed entrambe le parti si irrigidirono in una feroce gara ideologica per dimostrare quale ideologia economica – il “mercato libero” opposto alla pianificazione centralizzata – potesse in sostanza produrre di più. Secondo Arthur Okun, capo del Council of Economics Advisers del presidente Johnson, la crescita offrì anche l’opportunità per mettere fine alla disoccupazione. Una crescita annua del prodotto nazionale del 2% corrispondeva alla diminuzione dell’1% della disoccupazione – una correlazione così promettente che divenne nota come Legge di Okun. Presto la crescita fu vista come una panacea per molti problemi sociali, economici e politici: una cura per il debito pubblico e gli squilibri nella bilancia commerciale, fondamentale per la sicurezza nazionale, un mezzo per disinnescare la lotta di classe, e una promessa per combattere la povertà senza dover affrontare il problema ad alto valore politico della ridistribuzione. Nel 1960 il senatore John Kennedy si candidò alle elezioni presidenziali con la promessa di un tasso di crescita del 5%. Quando vinse, la prima cosa che chiese al suo capo-consigliere economico fu: “Pensa che possiamo farcela a mantenere la promessa della crescita al 5%?”.11 In quello stesso anno gli Stati Uniti si unirono ad altri paesi industrializzati per fondare l’Organization for Economic Co-operation and Development (OECD), con l’assoluta priorità di raggiungere “la più alta crescita economica sostenibile”. A sostegno di questo obiettivo presentarono delle tabelle sulla crescita del Pnl che mostravano in quale stato fosse più alta.12 Negli ultimi decenni del XX secolo, la popolare misura del reddito nazionale cambiò da Pnl, il reddito prodotto in tutto il mondo dai residenti di un nazione, al Prodotto interno lordo, Pil, il reddito prodotto all’interno dei confini di una nazione. Ma l’insistenza sulla crescita rimase. Di fatto si accentuò via via che governi, società e mercati finanziari arrivarono ad aspettarsi, chiedere e dipendere sempre più dalla crescita continua del Pil – una dipendenza che dura ancora oggi, come vedremo nel capitolo 7. Forse non dovrebbe sorprendere che il cuculo della crescita abbia occupato così abilmente il nido vuoto dell’economia. Perché? Perché l’idea di un’economia sempre in crescita calza a pennello sulla metafora del progresso come movimento “in avanti e verso l’alto”. Se avete mai guardato un bambino che sta imparando a camminare, saprete quanto la cosa possa essere emozionante. Dal gattonare goffamente – di solito le prime volte all’indietro, poi con soddisfazione in avanti – essi si alzano nella posizione eretta e compiono quei trionfanti primi passi. La padronanza di questo movimento – in avanti e verso l’alto – atte-


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sta sì uno sviluppo individuale del bambino, ma riflette anche la storia del progresso che ci raccontiamo come specie. Dai nostri avi quadrupedi saltellanti ci siamo evoluti nell’Homo erectus – finalmente in piedi – che ha dato vita all’Homo sapiens, sempre raffigurato a metà di un passo. Come George Lakoff e Mark Johnson illustrarono vividamente nel loro classico del 1980 Metaphors We Live By, metafore spaziali come “buono è in alto” e “buono è avanti” si sono profondamente radicate nella cultura occidentale, modellando il nostro modo di pensare e parlare.13 “Perché è così giù? Perché ha avuto un arretramento e ha raggiunto il punto più basso di sempre”, potremmo dire. E ancora: “Le cose sembrano mettersi bene (in inglese look up, che significa anche “guardare in alto”, ndT): la sua vita va avanti”. Per forza abbiamo accettato così di buon grado che il successo economico coincida con un reddito nazionale sempre in crescita. Si adatta al convincimento profondo, espresso da Paul Samuelson nel suo libro di testo, che “anche se una maggior quantità di beni materiali non è di per sé la cosa più importante, una società è più felice quando essa progredisce”.14 A cosa assomiglierebbe questa visione del successo se venisse tracciata su un foglio? Curiosamente, gli economisti disegnano di rado gli obiettivi di crescita economica che si sono fissati (torneremo a vedere il perché nel capitolo 7). Ma se lo facessero, sarebbe una linea del Pil in costante crescita: una curva di crescita esponenziale che si sviluppa in avanti e verso l’alto attraverso la pagina, combaciando perfettamente con la nostra metafora preferita riguardo al nostro progresso umano e personale. Lo stesso Kuznets non avrebbe scelto questa come immagine del progresso economico perché fin dal principio era ben consapevole dei limiti del suo ingegnoso calcolo. Sottolineando il fatto che il reddito nazionale comprendeva solo il valore dei beni e dei servizi venduti nell’economia monetaria, egli evidenziò che in questo modo veniva escluso l’enorme valore dei beni e servizi prodotti da e per i nuclei familiari, oltre che dalla società nel corso della vita quotidiana. In aggiunta, egli riconobbe che non rifletteva il modo in cui il reddito e il consumo fossero realmente distribuiti tra i nuclei familiari. E, dato che il Pil è la misura di un flusso (che registra solo l’entità del reddito generato in un anno), Kuznets vide che doveva essere completato con la contabilità per sacche di ricchezza e loro distribuzione. In realtà, quando il Pil raggiunse il picco della sua popolarità nei primi anni Sessanta, Kuznets divenne uno dei suoi critici più accaniti, avendo messo in guardia sin dall’inizio che “il benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto dalla misura del reddito nazionale”.15 Lo stesso creatore dell’unità di misura potrebbe quindi aver sollevato delle obiezioni, ma economisti e politici le misero tranquillamente da parte: il fascino di un singolo indicatore anno-per-anno per misurare il progresso economico era diventato

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Pil

Tempo

La crescita del Pil: in avanti e verso l’alto

troppo forte. In mezzo secolo, la crescita del Pil si è trasformata da un’opzione delle politiche in una necessità politica, e nell’obiettivo de facto delle politiche. Chiedersi se un’ulteriore crescita fosse sempre desiderabile, necessaria o effettivamente possibile divenne irrilevante, o un suicidio politico. Una persona che era pronta a rischiare il suicidio politico era la visionaria studiosa di scienza dei sistemi Donella Meadows – una delle principali autrici del rapporto dal Club di Roma del 1972 I Limiti dello sviluppo – e lei non usò mezze parole. “La crescita è uno degli scopi più stupidi mai inventati da qualsiasi cultura”, dichiarò verso la fine degli anni Novanta, “ne abbiamo avuta abbastanza”. In risposta alla crescente richiesta di ulteriore crescita, Meadows chiese: “Crescita di cosa, perché, per chi, chi paga i costi, quanto può durare, qual è il costo per il pianeta, e quanta ne serve?”.16 Per decenni le sue visioni sono state liquidate dagli economisti mainstream come scioccamente radicali, ma richiamavano quelle di Kuznets, il venerato creatore della misura del reddito nazionale. “Bisogna tenere in mente le distinzioni”, consigliò negli anni Sessanta, “tra quantità e qualità della crescita, tra costi e benefici, tra il breve e il lungo termine... Gli obiettivi dovrebbero essere espliciti: obiettivi di ‘maggiore’ crescita dovrebbero precisare maggiore crescita di cosa e per cosa.”17


1. cambiare obiettivo

sfrattare il cuculo Frastornati dal crollo finanziario del 2008, allarmati dalla risonanza globale del movimento Occupy del 2011, e sotto crescente pressione per agire riguardo ai cambiamenti climatici, è ovvio che i politici abbiano iniziato a cercare parole capaci di ispirare il progresso sociale ed economico. Ma sembrano sempre tornare alla stessa risposta: la crescita, il nome onnipresente, declamato con una splendida successione di aggettivi che fanno fantasticare. Subito dopo la crisi finanziaria (ma ancora nel mezzo della crisi mondiale di povertà, cambiamenti climatici e aumento della diseguaglianza), la visione offerta dai leader politici mi fece sentire come quella volta che entrai in un negozio di Manhattan per avere un sandwich rapido, solo per dover scegliere tra un’infinità di farciture. Che tipo di crescita vuole oggi? Angela Merkel suggerì “crescita sostenuta”. David Cameron propose “crescita equilibrata”. Barack Obama preferiva “crescita duratura a lungo termine”. L’europeo Josè Manuel Barroso faceva il coro con “crescita intelligente, sostenibile, inclusiva, resiliente”. La World Bank promise “crescita verde inclusiva”. Altri gusti in offerta? Forse vi andrebbe che fosse equa, buona, più ecologica, a basse emissioni di carbonio, responsabile o forte. A voi la scelta – a patto che scegliate la crescita. Dovremmo ridere o piangere? Prima piangere, per la mancanza di visione in un momento così critico della storia dell’uomo. Poi ridere. Perché quando i politici si sentono obbligati a perorare la crescita del Pil usando così tanti termini qualificanti per darle legittimità sociale, è chiaro che questo obiettivo-cuculo è pronto a lasciare il nido. Evidentemente vogliamo qualcosa di più della crescita, ma i nostri politici non sanno trovare le parole, e gli economisti hanno da tempo smesso di fornirgliene. Quindi è ora di piangere e ridere, ma, soprattutto, è ora di riparlare di cosa è importante. I padri fondatori dell’economia politica furono impudenti a parlare di quello che credevano fosse importante e ad articolare le loro visioni sullo scopo dell’economia. Ma quando alla fine del XIX secolo l’economia politica venne divisa in filosofia economica e scienza economica, iniziò quello che il filosofo Michael Sandel ha chiamato “vuoto morale” al cuore dei nodi decisionali delle politiche pubbliche. Oggi economisti e politici discutono con baldanzosa facilità di efficienza economica, produttività e crescita – come se questi valori fossero autoesplicativi – mentre esitano a parlare di giustizia, equità e diritti. Parlare di valori e obiettivi è un’arte perduta che aspetta di essere riportata in vita. Con un imbarazzo simile a quello dei teenager che cercano di parlare per la prima volta dei loro sentimenti, economisti e politici – insieme al resto di noi – stanno cercando le parole (e naturalmente le immagini) per articolare un fine economico più grande della crescita. Come possiamo imparare a parlare ancora di

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valori e obiettivi, e metterli al centro dell’approccio mentale economico idoneo al XXI secolo? Un punto di partenza promettente consiste nel guardare alla lunga progenie di pensatori economici rimasti nell’ombra che hanno cercato di riportare l’umanità al cuore del pensiero economico. Nel 1819 l’economista svizzero Jean Sismondi cercò di definire un nuovo approccio all’economia politica che aveva come obiettivo il benessere dell’umanità, e non l’accumulo di ricchezza. Il pensatore sociale inglese John Ruskin lo seguì negli anni Sessanta dell’Ottocento, inveendo contro il pensiero economico dei suoi giorni, e dichiarando che “non c’è altra ricchezza che la vita... Il paese più ricco è quello che cresce il maggior numero di esseri umani nobili e felici”.18 Quando il Mahatma Gandhi scoprì il libro di Ruskin all’inizio del Novecento, decise di metterne in pratica le idee in una fattoria collettiva in India, nel nome della creazione di un’economia che elevasse l’essere morale. Verso la fine del XX secolo, E.F. Schumacher – più noto per il suo “piccolo è bello” – cercò di mettere l’etica e la dimensione umana al centro del pensiero economico, mentre l’economista cileno Manfred MaxNeef proponeva che lo sviluppo fosse incentrato sulla soddisfazione di una serie di bisogni fondamentali dell’uomo – come il sostentamento, la partecipazione, la creatività e un senso di appartenenza – in modi adeguati al contesto e alla cultura di ogni società.19 Pensatori come questi hanno offerto per secoli visioni alternative dello scopo dell’economia, ma queste idee sono state tenute nascoste agli occhi e alle orecchie degli studenti di economia, scartate come eredità della benevola scuola dell’“economia umanistica”. Il loro progetto umanistico ha, finalmente, ottenuto un’attenzione e una credibilità molto più ampie. Si potrebbe dire che cominciò a diventare mainstream con il lavoro di Amartya Sen – per il quale vinse il premio Nobel. L’obiettivo dello sviluppo, sostiene Sen, dovrebbe essere il “miglioramento della ricchezza della vita umana, invece della ricchezza dell’economia in cui gli esseri umani vivono.”20 Invece di dare priorità a unità di misura come il Pil, lo scopo dovrebbe essere quello di aumentare le possibilità delle persone – per esempio di essere sane, responsabili e creative – in modo che possano scegliere di essere e fare cose secondo i loro valori.21 E realizzare queste possibilità dipende dal fatto che le persone possano soddisfare i bisogni elementari della vita – adeguatamente al contesto di ogni società – che vanno da cibo nutriente, sanità e istruzione alla sicurezza personale e a una voce politica. Nel 2008 il presidente francese Nicolas Sarkozy invitò venticinque economisti guidati da Sen e dal suo compagno vincitore del Premio Nobel, Joseph Stiglitz, perché valutassero le misurazioni del progresso economico e sociale usate per orientare le decisioni politiche. Così indagarono lo stato attuale degli indicatori economici e giunsero a una conclusione secca: “Questi tentativi di da-


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re una direzione all’economia e alle nostre società”, scrissero, “fanno pensare a piloti che cercano di tracciare una rotta senza una bussola affidabile”.22 Nessuno di noi vuole stare su un jet che vola senza direzione. Abbiamo urgente bisogno di una bussola che aiuti i decisori politici, i leader delle aziende, gli attivisti e i cittadini a tracciare una rotta intelligente per attraversare il XXI secolo. Ecco quindi una bussola adeguata al viaggio che ci aspetta.

una bussola per il xxi secolo Prima, per orientarci, mettiamo da parte la crescita del Pil e partiamo da capo con una domanda fondamentale: in che mondo prospererà l’umanità? Un

Cambiamenti climatici

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La Ciambella: una bussola per il XXI secolo. Tra la base per il benessere umano e la soglia per le pressioni sugli ecosistemi si trova lo spazio sicuro ed equo per l’umanità

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