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TEMPESTE
il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti, l’urgenza di agire
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TEMPESTE James Hansen
Edizioni Ambiente
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James Hansen TEMPESTE il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti, l’urgenza di agire realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl titolo originale
Storms of my Grandchildren The Truth About the Coming Climate Catastrophe and Our Last Chance to Save Humanity Copyright © 2009 by James Hansen, Bloomsbury USA Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria Illustrations copyright © Makiko Sato traduzione: Erminio Cella edizione italiana a cura di: Stefano Caserini e Luca Mercalli revisione scientifica del testo a cura di: Stefano Caserini, Luca Mercalli,
Guido Barone, Claudio della Volpe, Paolo Gabrielli, Marina Vitullo e Antonio Zecca
coordinamento redazionale: Diego Tavazzi progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: © REHAN KHAN/epa/Corbis
© 2010, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-96238-67-7
Finito di stampare nel mese di settembre 2010 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente
www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.verdenero.it
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sommario
introduzione
di Luca Mercalli
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perché tempeste è un libro importante
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prefazione
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1. la task force sul clima del vicepresidente
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2. l’a-team e l’imbarazzo del segretario
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3. una visita alla casa bianca
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4. salto nel tempo
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5. reticenza pericolosa
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6. il patto con faust
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7. siamo ancora in tempo? un tributo a charles david keeling
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8. obiettivo co2: a quale valore dovrebbe puntare l’umanità?
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9. un percorso credibile ed efficace
201
10. la sindrome di venere
255
11. l’era delle tempeste
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conclusione
305
ringraziamenti
313
appendice 1 differenze con i negazionisti
314
appendice 2 forzanti climatiche e feedback radiativi
316
bibliografia
317
di Stefano Caserini
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introduzione di Luca Mercalli
Ventinove marzo 2001: è da qui che Hansen inizia a raccontare la sua esperienza di climatologo alle prese con la politica in occasione della convocazione a Washington della Task Force governativa sul clima. Due mesi prima anch’io avevo vissuto la mia prima esperienza “ufficiale” con la politica e con lo stesso obiettivo: un modestissimo intervento in Consiglio provinciale di Torino il 30 gennaio, nell’ambito della giornata sui cambiamenti climatici organizzata dall’Unione province d’Italia. Non so quanto di quell’incontro sia rimasto ai distratti amministratori, ma devo dire che a livello locale, qualche traccia si direbbe sia riemersa in numerose azioni che tanto in Provincia di Torino quanto in altre province vengono ora compiute a sostegno dell’efficienza energetica e delle energie rinnovabili, sia pure tenendo conto che, come scrive Hansen, “l’ambientalismo di facciata è la risposta pressoché universale della politica al problema dei cambiamenti climatici”. A differenza di Hansen la mia attività di ricerca non è concentrata sulla modellistica del clima futuro, bensì sulla ricostruzione del clima passato, tramite la salvaguardia di antichi osservatori meteorologici, l’analisi di serie storiche e le campagne di misura sui ghiacciai alpini. Ho sempre dedicato circa la metà dei miei sforzi professionali alla diffusione delle informazioni, fondando la rivista specializzata Nimbus, tenendo conferenze, firmando articoli su quotidiani, partecipando a programmi televisivi, e parlando spesso con i politici, pur senza assumere posizioni di partito. In sostanza, facendo quanto Hansen auspica: “Il paleoclima, e specialmente i cicli delle ere glaciali, è qualcosa su cui dovreste comunque essere informati”. Studiare e informare, stando lontani dalla politica, era ciò che pensavo nei primi anni Novanta, proprio come Hansen: “Quando la politica entra
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tempeste
in una discussione, subito iniziano a reagire un sacco di forze. Io preferisco dedicarmi solo alla scienza. È più piacevole, specialmente quando si stanno ottenendo dei successi nelle proprie ricerche”. Ma un giorno, mentre percorrevo i piccoli ghiacciai del Carro, nel Parco nazionale del Gran Paradiso, capii che la politica aveva qualcosa a che fare con il loro rapido disfacimento. Se la temperatura aumentava per cause umane, per via del modello economico ed energetico, allora era la politica il mezzo per intervenire. Anche Hansen infatti è oggi convinto che “la scienza e la politica non possono essere separate”, ma io sento ancora molti colleghi che preferiscono vivere nella torre d’avorio della ricerca pura, credendo che intervenire in un dibattito politico equivalga a sporcarsi le mani. Ma allora a cosa servirebbe la scienza, almeno quella che ha a che fare con il benessere dell’umanità, che poi è quasi tutta? “Non volevo che i miei nipoti, in futuro, potessero guardarsi indietro e dire: il nonno aveva capito cosa stava succedendo, ma non è riuscito a spiegarlo abbastanza chiaramente”, questo ha spinto Hansen a esporsi. In quegli anni, sebbene la consapevolezza sul problema climatico non mancasse, l’argomento rimaneva tuttavia una curiosità scientifica e non provocava reazioni né da parte della politica, né del pubblico. Sui giornali iniziavano a comparire articoli sul riscaldamento globale, la copertina di Time con il titolo “The heat is on” è del 19 ottobre 1987, e anche in Italia, già nel 1991 su alcuni testi scolastici di fisica, come il noto Dal pendolo al quark di Ugo Amaldi, edito da Zanichelli, si cita il problema dell’effetto serra antropogenico invitando i giovani studenti a ridurre le emissioni di CO2 e a ricorrere alle energie rinnovabili. Vent’anni dopo, e sulla scorta di un’immensa mole di ricerca scientifica, le conclusioni sono sempre le medesime, semmai le conferme climatiche sono divenute via via più evidenti, ultime le alluvioni in Pakistan e gli incendi in Russia dell’estate 2010, che ancora non figurano in queste pagine. Ma sono forse i provvedimenti economici sul mercato dell’energia e delle emissioni emersi con il Protocollo di Kyoto che hanno suscitato e incoraggiato il cosiddetto negazionismo climatico, del quale Hansen è stato bersaglio. Senza peli sulla lingua, egli afferma che “il nostro più grande problema è dovuto all’influenza degli interessi dei gruppi di potere, incarnati da orde di lobbisti che indossano scarpe costose ed eleganti”, e “il più grande ostacolo alla soluzione del problema del riscaldamento globale rimane comunque il ruolo del denaro nella politica”.
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introduzione
Per questo Jim sceglie di testimoniare (non di profetizzare) sui rischi che l’umanità corre per il proprio immediato futuro: “Ero preoccupato: le generazioni future avrebbero potuto guardarsi indietro e chiedersi come avevamo fatto a essere così stupidi da non fare niente”. A questo punto Jim incontra due problemi: la sua scarsa dimestichezza con gli incontri in pubblico (“anche se avevo cercato di migliorare la mia capacità di comunicare, mi sentivo ancora goffo e impacciato”) e il rischio di essere considerato un estremista (“un fattore che rafforza la reticenza potrebbe essere la preoccupazione di essere accusati di essere inutilmente allarmisti”). Ma supera entrambe queste remore concludendo che “gli scienziati possono rendersi utili facendo di tutto per comunicare al pubblico la questione dei cambiamenti climatici in maniera credibile e comprensibile”. Ed ecco che oltre alle sue conferenze, alle interviste e alla militanza contro le centrali a carbone, nasce pure questo libro, che è insieme un manuale sul clima, un vademecum sulla nostra vita futura, un umanissimo sfogo e un’autobiografia un po’ amara. Le soluzioni che Hansen traccia sono note da tempo, ma qui vengono poste in una prospettiva di maggiore urgenza: “La spina dorsale di una soluzione al problema del clima è una tassa uniforme sulle emissioni di carbonio”, in grado di far emergere senza bisogno di incentivi le energie rinnovabili e le buone pratiche di efficienza energetica. Anche la massiccia reintroduzione dell’energia nucleare è particolarmente caldeggiata da Hansen, e forse su questo punto a mio parere è opportuno riflettere ancora un po’, in quanto le scorie nucleari costituirebbero un’eredità lasciata ai nostri nipoti tanto scomoda quanto quella del caos climatico. Ma questa sua veemenza è in parte giustificata dal drammatico scenario che egli traccia con dovizia di dettagli: “Queste domande riguardano il quando, non il se. Se bruciamo tutti i combustibili fossili, le calotte glaciali si fonderanno completamente, con un innalzamento finale del livello del mare di 75 metri, e gran parte di questo processo si svolgerà nell’arco di qualche secolo”. Non è uno scherzo, e quanti fossero tentati di tacciarlo di allarmismo, troveranno in queste pagine la dimostrazione pacata e serena di queste crude affermazioni: non è uno scenario da fantascienza nato nell’immaginazione di Hansen o dei suoi colleghi, bensì il quadro della paleoclimatologia che semplicemente evidenzia che tutto ciò è già successo sul nostro pianeta allorché sono state superate alcune soglie di equilibrio nel sistema geosfera-biosfera. E la rapidità di libera-
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zione di gas serra nell’atmosfera terrestre da parte delle attività umane è un fatto che non ha eguali nella storia nota, al punto che “se bruciamo anche le sabbie bituminose e l’olio di scisto, credo che la sindrome di Venere sarà una certezza matematica”. Il messaggio ottimista di un Hansen, sessantanovenne all’anagrafe ma ventenne nell’animo, è questo: “La resistenza civile potrebbe essere la nostra migliore speranza. È fondamentale che tutti partecipino, specialmente i giovani”. Alla fine dell’estate del 2007 ricevetti un fax dal Senato della Repubblica Italiana che mi convocava a un’audizione presso la XIII Commissione permanente territorio, ambiente, beni ambientali. La commissione della XV Legislatura era presieduta da Tommaso Sodano e la seduta pomeridiana n. 114 si intitolava: “Audizione del Presidente della Società meteorologica italiana nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle problematiche relative ai cambiamenti climatici e alle misure di mitigazione e di adattamento da adottare anche con riferimento agli anni successivi al 2012”. In piccolo, era un po’ come la task force di Washington. L’incontro era fissato per martedì 16 ottobre, il mio soggetto di esposizione era “I cambiamenti climatici: stato dell’arte”. In un tiepido e luminoso pomeriggio romano, arrivai con un po’ di trepidazione a Palazzo Madama, e fui cordialmente accolto tra le boiseries della saletta della Commissione ambiente. Allestimmo una piccola zona proiezioni e qui presentai una trentina di immagini a un gruppetto di senatori, assai pochi devo dire, alcuni scettici, altri convinti, tutti comunque interessati e corretti. Passata una mezz’ora tra curve termiche e ghiacciai in ritiro, conclusi la mia relazione ricordando che ci sono alcune possibilità tecnologiche utilizzabili già da ora per produrre energia senza emettere CO2. È vero, non sono sufficienti e ne dobbiamo sviluppare altre, non bisogna illudersi sul fatto che per esempio oggi si possa fare tutto con l’energia solare; però, molto si può fare con il risparmio energetico e se si imbocca la strada giusta, può anche essere conveniente, possiamo imparare tante buone pratiche prima di averne un’effettiva necessità. Mostrai la foto del mio tetto: la mia casa e il mio ufficio funzionano interamente a energia solare, e ricordai che la presentazione che avevo mostrato era stata scritta completamente a energia solare, come lo sono queste stesse pagine. Dopo aver risposto a alcune domande pertinenti, fui gentilmente congedato e rientrai a Torino in serata. Jim, dopo il suo intervento a Washington annota con un po’ di frustrazione: “La mia presentazione
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introduzione
alla Task Force sul Clima era stata inutile�. In effetti anch’io durante il viaggio da Roma a Torino pensai, sospeso in volo sopra il Tirreno, che quel pomeriggio in Senato non fosse servito a nulla, ma almeno avrei potuto dire ai miei nipoti Marta, Francesco, Lia, Gaia, Nicolò e Jacopo che il loro zio aveva compiuto a fondo il suo dovere di cittadino e ricercatore consapevole e informato dei fatti.
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perché tempeste è un libro importante di Stefano Caserini
Il libro di Jim Hansen non è solo un grande racconto scientifico, è la storia di una vita, la biografia di uno dei più grandi esponenti della scienza del clima. Un racconto umano e schietto, diverso dal classico racconto scientifico, schematico e asettico. Dalle parole di Hansen emerge la passione per la scienza assieme all’amore per i propri nipoti, il gusto per la sfida della comprensione del funzionamento del sistema climatico assieme alla passione civile del cittadino nordamericano. Hansen descrive bene la gravità della situazione climatica, l’evidenza delle responsabilità umane nell’alterazione dell’equilibrio energetico del pianeta, e fornisce alcune indicazioni per cercare di porvi rimedio. Anche se alcune delle posizioni di Hansen possono non convincere, il libro è importante per diversi motivi. Hansen racconta di come per tanti anni ha limitato il suo lavoro ai laboratori e alla scrittura scientifica, evitando per quanto possibile i contatti con il mondo della comunicazione. Davanti al peggioramento della situazione climatica, all’avanzare del surriscaldamento globale e al verificarsi dei primi impatti, e assistendo all’enorme ritardo delle risposte da parte della politica, Hansen ha scelto di reagire e mettersi in gioco in prima persona, scrivendo articoli divulgativi, tenendo conferenze prima delle elezioni politiche, partecipando a manifestazioni pubbliche, contattando i manager delle aziende energetiche, fino a scrivere il suo primo libro, all’età di 68 anni. Hansen ha verificato, in prima persona, come la politica riesca a nascondere la realtà, come possa spudoratamente agire per fabbricarsene una di comodo. Come sappia approfittare dell’ingenuità degli scienziati, che pur se di altissimo livello possono essere strumentalizzati e neutralizzati dagli uffici stampa.
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Il racconto di Hansen è sincero, ammette errori, debolezze, ingenuità. È la “scoperta della politica” da parte di uno scienziato. Parla in primo luogo a tutti gli studiosi della scienza del clima, dice della necessità di testimoniare, di raccontare a tutti quanto si è capito, e di farlo bene. Gli scienziati che comprendono la gravità della situazione climatica, i pericoli che possono correre le specie viventi sul pianeta, non possono solo attendere che le loro previsioni si avverino, cosa peraltro successa negli ultimi 20 anni. Il rapporto fra scienza e politica è certamente delicato, ed è indubbio il rischio che gli studiosi non sappiano distinguere le posizioni che dipendono dai propri valori da quanto obiettivamente emerge dal discorso scientifico. Anche gli scienziati, dopo tutto, sono esseri umani, ed è a questa umanità che parla Hansen, della necessità di tutti, scienziati compresi, di riscoprire il ruolo di cittadini, di sentirsi responsabili del futuro, per sé o per i propri nipoti, per il pianeta. Il libro è poi importante per la chiarezza con cui vengono esposti la situazione climatica del pianeta, le possibili evoluzioni e gli impatti conseguenti. Alcuni passaggi molto complessi della scienza del clima sono spiegati con grande chiarezza da Hansen, in virtù di una profonda conoscenza teorica e una grandissima esperienza. Il quadro della situazione climatica dipinto da Hansen è indubbiamente pesante. Mostra la lentezza ma anche la grande inerzia della perturbazione al sistema climatico, spiegandone i perché, la pericolosità delle possibili “sorprese” che ci potranno essere se il clima del pianeta sarà modificato massicciamente. I motivi di preoccupazione sono tanti e non lasciano spazio a ingenue speranze e illusioni. Un ulteriore aspetto è che Hansen fornisce alcune coordinate su come affrontare il problema. Hansen ha definito un obiettivo di concentrazione di CO2 in atmosfera, 350 ppm, limite a cui si dovrebbe tendere per “mettere in sicurezza” il pianeta. È un numero importante per far capire la vastità del compito che attende, per favorire le azioni sia a livello degli accordi internazionali sia delle azioni dal basso, di mobilitazione dei cittadini. Sulla base della sua esperienza, che gli ha reso evidente la cecità della politica statunitense, condizionata dalla prepotenza degli interessi particolari, Hansen invita a una mobilitazione dal basso da parte di tutti quanti hanno a cuore il futuro del pianeta. Alcune delle proposte e dei giudizi di
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perché tempeste è un libro importante
Hansen possono non essere condivisibili (per esempio la necessità di un blocco immediato della costruzione delle centrali a carbone, la fiducia nell’importanza dell’energia nucleare, la preferibilità di una carbon tax rispetto ai sistemi di scambio dei diritti di emissione di CO2, la scarsa importanza delle azioni “dal basso”); qualcuno storcerà il naso nel sentirgli definire “treni della morte” i treni che portano carbone alle centrali termoelettriche. Altri potranno essere infastiditi dai continui richiami ai possibili disastri per le future generazioni. Ma è per tutti un motivo di riflessione se un grande e schivo climatologo arriva a farsi arrestare durante una manifestazione e a difendere nelle aule dei tribunali chi protesta contro la costruzione delle centrali a carbone, a invocare la necessità della resistenza civile per svegliare il mondo politico. Dopo aver letto il libro, le sue ragioni sono comprensibili.
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A Sophie, Connor, Jake, e a tutti i nipoti del mondo
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prefazione
Il pianeta Terra, la creazione, il mondo nel quale si è sviluppata la civiltà, il mondo con i regimi climatici che conosciamo e con le linee costiere stabili, corre un pericolo imminente. L’urgenza della situazione è diventata chiara solo negli ultimi anni. Abbiamo prove solide della crisi, informazioni sempre più dettagliate su come la Terra ha risposto alle perturbazioni durante la sua storia (con grande reattività, e con un certo ritardo dovuto all’inerzia degli oceani), oltre all’osservazione dei cambiamenti che stanno iniziando a verificarsi in tutto il mondo in risposta ai cambiamenti climatici in corso. La conclusione sorprendente è che il continuo sfruttamento di tutti i combustibili fossili presenti sulla Terra minaccia non solo le specie, milioni, che vivono sul pianeta, ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa – e i tempi sono più brevi di quanto pensassimo. Ma davvero ci troviamo sull’orlo di un precipizio, se i cambiamenti climatici locali sono ancora piccoli se paragonati alle fluttuazioni meteorologiche giornaliere? L’urgenza è legata alla prossimità delle soglie critiche per il clima, oltre le quali le dinamiche climatiche possono causare cambiamenti rapidi e al di fuori del controllo dell’umanità. I punti critici si presentano a causa dei feedback amplificanti – come quando un microfono viene messo troppo vicino a un altoparlante che amplifica ogni minimo suono captato dal microfono, il quale a sua volta capta il segnale amplificato dall’altoparlante, che, captato di nuovo dal microfono, viene trasmesso ancora all’altoparlante, finché, molto rapidamente, il rumore diviene insopportabile. I feedback correlati al clima comprendono la perdita dei ghiacci del Mare Artico, la fusione delle calotte glaciali e dei ghiacciai montani, e il rilascio di metano via via che il permafrost della tundra si degrada. Questi e altri argomenti scientifici verranno chiariti in seguito.
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C’è un altro elemento che contribuisce alla crisi: il greenwashing* dei governi. Spesso, mentre valuto i dati, rimango sconcertato nel vedere la discrepanza tra quanto affermato dal governo e la realtà. Questo atteggiamento, esprimere preoccupazione riguardo al riscaldamento globale o all’ambiente mentre non vengono intraprese azioni mirate a stabilizzare il clima o a preservare l’ambiente, è predominante negli Stati Uniti e in altri paesi, persino in quelli ritenuti più “verdi”. La vera tragedia è che le azioni mirate a stabilizzare il clima, che illustrerò più avanti, non sono solo attuabili ma portano anche svariati benefici. Com’è possibile che non vengano intraprese le azioni necessarie? Potrei suggerire delle spiegazioni – il potere degli interessi privati sui nostri governi, la brevità delle legislature che fa passare in secondo piano le preoccupazioni sulle conseguenze a lungo termine – ma lascerò che siano i lettori a valutarle, basandosi sui fatti che esporrò in seguito. Il mio ruolo è quello di testimone, non di predicatore. Lo scrittore Robert Pool arrivò a questa conclusione quando usò queste metafore religiose in un articolo che riguardava Steve Schneider (un predicatore) e me nel numero di Science dell’11 maggio 1990. Pool definì il testimone come “qualcuno che crede di avere delle informazioni così importanti da non poterle tacere”. Sono a conoscenza delle affermazioni secondo cui negli ultimi anni mi sarei trasformato in un predicatore. Anche se non sono corrette, in effetti qualcosa è cambiato. Ho capito che non posso tacere, non solo su quanto sta accadendo al clima, ma anche sul greenwash. I politici sono felici se gli scienziati forniscono loro le informazioni e poi se ne stanno zitti. Ma la scienza e la politica non possono essere separate. Quello di cui mi sono reso conto è che i politici spesso adottano politiche che sono solamente convenienti; basandosi sui dati scientifici e sulle evidenze empiriche disponibili è però facile capire che nel lungo termine non possono avere successo. Credo che il maggiore ostacolo alla soluzione del problema del riscaldamento globale sia il ruolo del denaro nella politica, l’interferenza indebi* Il termine “greenwashing” indica l’ingiustificata appropriazione di qualità ambientaliste da parte di aziende, industrie, entità politiche o organizzazioni. Il greenwashing viene usato da questi soggetti allo scopo di creare un’immagine positiva per le proprie attività o prodotti, o per distogliere l’attenzione da proprie responsabilità nei confronti di impatti ambientali negativi, ndR.
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prefazione
ta degli interessi privati. Potreste dire: “Ma è impossibile fermare la loro influenza”. Sarebbe meglio se non fosse così, ma le persone, e in particolare i giovani, dovranno essere coinvolti in modo più significativo. “Cosa?” direte voi. Avete già lavorato come matti per l’elezione di Obama. Certo, anch’io (un noto indipendente che negli anni ha votato sia per i Repubblicani sia per i Democratici) ho votato per il cambiamento, e avevo gli occhi lucidi durante il discorso di Obama nell’Election Day a Chicago. Quello fu e sarà per sempre un grande giorno per l’America. Ma lasciate che vi dica una cosa: Obama non può farcela. Lui e i suoi consiglieri sono soggetti a forti pressioni, e fino a ora l’approccio è stato: “Troviamo un compromesso”. Quindi non avete scelta, vi aspetta una gran mole di lavoro. La vostra predisposizione deve essere “yes, we can”. Mi dispiace, ma gran parte di quello che i politici stanno facendo sul fronte dei cambiamenti climatici è puro greenwashing – e anche se le loro proposte sembrano buone, stanno ingannando voi e se stessi. I politici pensano che se un problema appare di difficile soluzione, il compromesso sia un buon approccio. Sfortunatamente, la natura e le leggi della fisica non scendono a compromessi – sono quello che sono. Ogni giorno, politici che non hanno una piena conoscenza scientifica del problema dei cambiamenti climatici deliberano sull’argomento, e queste decisioni sono spesso influenzate da campagne internazionali di disinformazione sostenute da interessi privati. Ho scritto questo libro nel tentativo di cambiare questa situazione. I cittadini devono acquisire familiarità con la scienza, esercitare i loro diritti democratici e prestare attenzione alle decisioni dei politici. In caso contrario, gli interessi privati a breve termine continueranno a prevalere in varie capitali sparse per il mondo – e il tempo sta per scadere. In questo libro descriverò le mie esperienze come scienziato che negli ultimi otto anni ha interagito con i decisori politici, a partire dal mio sessantesimo compleanno nel 2001, il giorno in cui parlai al vice presidente Cheney e alla Task Force sul clima. In ogni capitolo verrà discusso un aspetto della scienza che studia il clima, e spero che la trattazione risulti di facile comprensione. Il capitolo 1 potrebbe essere il più impegnativo. Parla degli agenti forzanti climatici – o, più semplicemente, forzanti climatiche – il soggetto della mia presentazione alla Task Force.
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La definizione di forzante climatica può incutere timore: “Una perturbazione imposta all’equilibrio energetico del pianeta che tende ad alterare la temperatura globale”. Un esempio può chiarirla: se il sole diventasse più luminoso, costituirebbe una forzante climatica che tenderebbe a rendere la Terra più calda. Anche un cambiamento della composizione dell’atmosfera indotto dall’uomo è una forzante climatica. Nel 2001 ero più ottimista a proposito della situazione climatica. Sembrava che gli impatti climatici avrebbero potuto essere tollerabili se la concentrazione di CO2 in atmosfera fosse rimasta entro le 450 parti per milione (ppm; quindi 450 ppm significano lo 0,045% delle molecole nell’atmosfera). Fino a ora, gli uomini hanno provocato una aumento della CO2 dalle 280 ppm del 1750 alle 387 ppm del 2009 (392 nel maggio 2010, ndR). Negli ultimi anni, comunque, è diventato chiaro che una concentrazione di 387 ppm è già nella fascia di pericolo. È fondamentale uno sforzo immediato per ridurre la concentrazione di CO2 in atmosfera entro le 350 ppm per evitare disastri per le generazioni future. Una tale riduzione è tuttora realizzabile, ma abbiamo davvero poco tempo. Richiede una rapida interruzione delle emissioni provocate dall’uso di carbone, e un miglioramento delle pratiche forestali e agricole. Approfondirò questi argomenti nei prossimi capitoli, ma dobbiamo riconoscere fin d’ora l’urgenza di un cambio di direzione. È la nostra ultima possibilità. Io stesso sono cambiato negli ultimi otto anni, specialmente dopo che mia moglie Anniek e io siamo diventati nonni. A volte, all’inizio di questo periodo, durante le mie conferenze sul riscaldamento globale mostravo la foto della nostra prima nipote che vedete nella pagina a fianco. Dapprima lo facevo in parte per sdrammatizzare, e infatti i giornali cominciarono a parlare di me come del “nonno del riscaldamento globale”, e in parte perché ero orgoglioso di questa bambina che era diventata un angelo nelle nostre vite. Ma, gradualmente, la mia consapevolezza di essere un “testimone” è cambiata, e sono arrivato a posizioni più intransigenti. Non volevo che i miei nipoti, in futuro, potessero guardarsi indietro e dire: “Il nonno aveva capito cosa stava succedendo, ma non è riuscito a spiegarlo abbastanza chiaramente”. Se non fosse stato per i miei nipoti e per la mia consapevolezza di cosa potrebbero trovarsi ad affrontare, avrei continuato a concentrarmi sulla scienza pura, e non avrei persistito nel sottolineare la sua rilevanza per le
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decisioni politiche. Quando la politica entra in una discussione, subito iniziano a reagire un sacco di forze. Io preferisco dedicarmi solo alla scienza. È più piacevole, specialmente quando si stanno ottenendo dei successi nelle proprie ricerche. Se devo essere un testimone, intendo comunque testimoniare e poi tornare al laboratorio, dove mi sento a mio agio. Questo è quello che voglio fare quando questo libro sarà terminato. Poiché il libro comincia dal giorno del mio sessantesimo compleanno, farò meglio a dare alcune informazioni sulle mie origini. Ho avuto la fortuna di nascere in un tempo e in un luogo – in Iowa, dove frequentavo le scuole superiori mentre veniva lanciato lo Sputnik – che mi permisero di essere avviato alla scienza in un modo molto speciale. Sono cresciuto nell’Iowa occidentale, in una famiglia con sette figli. Mio padre era un contadino che aveva finito le scuole medie, e i miei genitori divorziarono quando ero ancora giovane. A quel tempo, però, frequentare un college pubblico non era ancora troppo costoso, quindi riuscii a risparmiare abbastanza soldi per potermi iscrivere alla University of Iowa. Mossi i miei primi passi nella ricerca scientifica una sera del dicembre 1963. Il giorno prima io e Andy Lacis, un mio compagno di studi, avevamo spazzato via foglie, ragnatele e topi da un edificio che si trovava su una collinetta in un campo di grano appena fuori Iowa City. La sera successiva, in quell’edificio a cupola, uno studente laureato più vecchio di noi, John Zink, ci aiutò a usare un telescopio per osservare un’eclissi di
La mia prima nipote, a quasi due anni di età. Grazie a lei e agli altri miei nipoti è cambiata la mia percezione del problema del riscaldamento globale.
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luna. Quando l’eclissi cominciò, e la Luna entrò nel cono d’ombra della Terra, fummo sorpresi di non vedere nulla – solo una zona nera nel cielo, senza stelle, nel punto dove avevamo visto la luna piena; la luna era diventata completamente invisibile a occhio nudo. Di solito questo non accade durante un’eclissi. Normalmente la luna diventa meno luminosa ma rimane visibile, perché la luce solare viene rifratta dall’atmosfera terrestre nella zona d’ombra. Nove mesi prima, nel marzo del 1963, si era però verificata una grande eruzione vulcanica dal Monte Agung nell’isola di Bali, che aveva emesso polvere e biossido di zolfo nella stratosfera terrestre. Il biossido di zolfo si era combinato con l’ossigeno e l’acqua formando una nebbia di acido solforico, le cui particelle, sospese nella stratosfera, bloccavano la maggior parte della luce solare che viene normalmente rifratta nella zona d’ombra proiettata dalla Terra. Misurammo la luminosità della luna con un fotometro collegato al telescopio, e l’anno successivo riuscii a valutare la quantità di materiale che doveva essere stato presente nella stratosfera terrestre per rendere la luna così scura. Dovetti leggere alcuni articoli (in tedesco) scritti dall’astronomo cecoslovacco František Link, che aveva elaborato le equazioni per la geometria dell’eclissi, e fu necessario scrivere un software per eseguire i calcoli. Il risultato fu il mio primo articolo scientifico, pubblicato dal Journal of Geophysical Research – la mia prima esperienza di testimone, quantomeno di testimone della scienza. Per nostra fortuna, al Physics and Astronomy Department incontrammo un uomo straordinario, James Van Allen. Un professore di astronomia del dipartimento di Van Allen, avendo notato che Andy e io eravamo studenti dotati, ci convinse ad affrontare al nostro ultimo anno l’esame di ammissione alla scuola per laureati in fisica. Fummo i primi non laureati a superare l’esame e ci venne offerto un tirocinio per laureati alla NASA, che coprì interamente i costi della frequenza alla scuola per laureati. Ero così timido e insicuro che evitai di frequentare i corsi di Van Allen, per non rivelare la mia ignoranza. Ma Van Allen mi notò comunque – probabilmente perché avevo superato l’esame con uno dei voti più alti. Mi raccontò dei dati ricavati dalle ultime osservazioni di Venere, che suggerivano che la sua superficie fosse molto calda o che la sua atmosfera fosse altamente ionizzata e che irradiasse microonde. Quando cominciai a lavorare sui dati riguardanti Venere per una tesi di dottorato, Van Allen si elesse presidente della commissione che avrebbe valutato la mia tesi. Se non fosse stato per l’attenzione di questo uomo gentile, dalla voce sua-
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prefazione
dente, dal quale nessuno studente era mai stato intimidito, probabilmente non mi sarei fatto coinvolgere dagli studi planetari. Nel 1978 stavo ancora studiando Venere. In quel periodo ero il responsabile di un esperimento che si sarebbe svolto su quel pianeta, a bordo della missione Pioneer Venus. Nei cinque anni trascorsi da quando avevo proposto l’esperimento per misurare le proprietà delle nubi di Venere avevo lavorato ottanta ore alla settimana. Anniek, che avevo incontrato mentre ero in un periodo di post dottorato alla University of Leiden Observatory in Olanda, continuò a credermi, ogni anno, quando le dicevo che l’anno successivo avrei avuto più tempo. Poi dovetti dirle che, dopo tutti quegli sforzi, avevo intenzione di ritirarmi dalla missione Pioneer prima che questa arrivasse su Venere, lasciando l’esperimento nelle mani di Larry Travis, un altro amico e collega all’Iowa. Il motivo: la composizione dell’atmosfera del nostro pianeta stava cambiando sotto i nostri occhi, e stava cambiando sempre più rapidamente. Di sicuro questo avrebbe influenzato il clima della Terra. Il cambiamento più rilevante riguardava la concentrazione di CO2, che veniva emessa in atmosfera bruciando i combustibili fossili. Sapevamo che la CO2 aveva determinato il clima di Marte e Venere. Decisi che sarebbe stato più utile e interessante provare a dare un aiuto alla comprensione di come sarebbe cambiato il clima del nostro pianeta, piuttosto che studiare lo strato di nubi che circonda Venere. La progettazione di un modello del clima globale della Terra avrebbe comportato un ulteriore aggravio di lavoro. Come sempre, Anniek cercò di credere alla mia promessa che si sarebbe trattato di un’ossessione temporanea. Dieci anni più tardi, il 23 giugno 1988. Questa volta ero un testimone ufficiale, quando intervenni a una seduta della commissione del Senato presieduta da Tim Wirth, del Colorado. Dichiarai, con una certezza del 99%, che era ora di smetterla di parlare a vanvera: la Terra stava subendo gli effetti dei gas serra immessi nell’atmosfera dall’uomo, e il pianeta era entrato in un periodo di riscaldamento a lungo termine. Grazie alla combinazione di un’estate insolitamente calda e secca e grazie anche alla maggiore attenzione che il problema del riscaldamento globale stava assumendo a livello nazionale e internazionale, il mio annuncio ebbe un’ampia risonanza. Divenne presto evidente, comunque, che la mia testimonianza, combinata con la situazione meteorologica, rischiava di creare un’impressione sbagliata. Il riscaldamento globale aumenta effettivamente l’in-
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tensità delle siccità e delle ondate di calore, e quindi accresce le zone soggette a incendi boschivi. Tuttavia, dato che un’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo, il riscaldamento globale fa anche aumentare gli altri estremi del ciclo dell’acqua – il che significa piogge più abbondanti, inondazioni di entità superiore e tempeste più potenti scatenate dal calore latente, inclusi i temporali, i tornado e le tempeste tropicali. Mi resi conto che avrei dovuto sottolineare con più forza il fatto che con il riscaldamento globale entrambi gli estremi peggiorano. Cercai così un’altra sede in cui rendere la mia testimonianza. Il senatore Al Gore mi fornì quell’opportunità in un’udienza nella primavera del 1989. Quando mandai al senatore Gore una nota prima dell’udienza, in cui spiegavo che il documento che avevo preparato era stato alterato dall’Office of Management and Budget della Casa Bianca per fare in modo che le mie conclusioni sui pericoli del riscaldamento globale apparissero incerte, egli allertò i media, assicurando che alla mia udienza fosse presente il maggior numero di giornalisti possibile. Sfortunatamente, il messaggio che riguardava il versante della piovosità e delle tempeste si perse nella confusione. Madre Natura, comunque, rispose quattro anni dopo con un’inondazione “centennale”, una di quelle che si verificano una volta in un secolo, che sommerse lo Iowa e larga parte del Midwest. Entrambe le aree vennero colpite da un’altra inondazione “centennale” nel 2008. Dopo la mia testimonianza all’udienza di Gore, ero fermamente deciso a tornare alla scienza pura e a lasciare l’interazione con i media a persone come Steve Schneider e Michael Oppenheimer, persone che si esprimono meglio di me e che sembravano trovarsi a loro agio in queste situazioni. Ma nel 1998, dopo altri dieci anni, decisi di fare un’eccezione e accettai di sostenere dei dibattiti con i negazionisti Dick Lindzen e Pat Michaels, perché avevo un chiaro obiettivo scientifico: volevo presentare una tabella comparativa delle differenze tra la mia posizione riguardo al riscaldamento globale e quella dei negazionisti. Ritenevo che la specificità della tabella avrebbe consentito di valutare le nostre posizioni e, di fatto, la usai al meeting con la Task Force del vicepresidente Cheney nel 2001. Così, per più di un decennio dopo l’udienza di Gore nel 1989, potei tornare a immergermi nella scienza, rifiutando molte opportunità di apparire in documentari e altri programmi televisivi. Di quella scienza avrei discusso con la Task Force sul clima.
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