Terraa

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TERRAA

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Edizioni Ambiente


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Bill McKibben TERRAA come farcela su un pianeta più ostile realizzazione editoriale

Edizioni Ambiente srl www.edizioniambiente.it titolo originale

Eaarth: Making a Life on a Tough New Planet Copyright © 2010 by Bill McKibben All rights reserved. traduzione

Elisabetta Luchetti coordinamento redazionale

Diego Tavazzi

progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo immagine di copertina: © NASA, National Aeronautics and Space Administration

© 2010, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milano tel. 02.45487277, fax 02.45487333 ISBN 978-88-96238-68-4

Finito di stampare nel mese di settembre 2010 presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg) Stampato in Italia – Printed in Italy Questo libro è stampato su carta riciclata 100% i siti di edizioni ambiente

www.edizioniambiente.it www.nextville.it www.reteambiente.it www.verdenero.it


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sommario

introduzione di Mario Tozzi

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prefazione

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1. un nuovo mondo

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2. alta marea

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3. marcia indietro

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4. in punta di piedi, con cautela, e con rispetto

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bibliografia

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ringraziamenti

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introduzione di Mario Tozzi

Se non leggete questo libro, dovrete prima o poi spiegare il perché ai vostri nipoti. Questo il primo commento che viene in mente dopo aver dato un’occhiata alla nuova Terraa (mi raccomando, con due a) che abbiamo creato nelle ultime migliaia di anni (parafrasando quanto già detto a proposito del lungometraggio di Al Gore Una scomoda verità). È un pianeta nuovo rispetto alla vecchia Terra, un pianeta che offre ai suoi abitanti minori opportunità di vita e di sviluppo e che, anzi, indica strade obbligate sostanzialmente differenti rispetto al passato. Qualsiasi campo vogliate prendere in considerazione, il minimo comune denominatore non potrà più essere la spinta dell’uomo verso nuove frontiere, fisiche o ideali che siano, ma il ritornare a una dimensione locale che contemperi i limiti dello sviluppo. Una clamorosa e inevitabile marcia indietro che tanto più tardi comincia tanto più lunga sarà. Stiamo assistendo a una sostituzione di paradigma rivoluzionaria: dall’uomo vitruviano o, se volete, parmenideo, misura di tutte le cose (una conquista filosofica che si rivela sempre più come un danno, dal punto di vista della Terra) all’uomo tutt’uno con il mondo naturale: non dominatore né demiurgo, solo partecipe. È una scelta scomoda, ma obbligata, quasi una non-scelta, che McKibben spiega bene in un’antologia completa e approfondita dei mali del mondo contemporaneo, dall’agricoltura al sistema produttivo in generale, dall’acqua all’energia. Il global warming lega molti di questi aspetti e il libro è prima di tutto una formidabile arma contro i cosiddetti negazionisti, quelli che ci fanno perdere tempo cincischiando sul fatto che il surriscaldamento dell’atmosfera non dipenderebbe dagli uomini, ma non si sa bene da quale altro processo naturale. E ce ne è un gran bisogno: nonostante la gran mole di dati prodotti, gli uomini sembrano voler ritardare il momento delle scelte scomode. Negare il cambiamento climatico è un esercizio in genere ben pagato dai petro-


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carbonieri, che qualche volta viene fatto anche in buona fede, specie da scienziati che climatologi non sono. È bene ricordare che l’organizzazione intergovernativa per lo studio del cambiamento climatico (IPCC) – che raggruppa tutti i più importanti scienziati del clima attivi sulla Terra – prevede due scenari differenti per il prossimo futuro climatico del pianeta. Il primo è che le temperature medie dell’atmosfera aumenteranno di 1,8 °C nel prossimo mezzo secolo, cosa che comporterà conseguenze traumatiche di vario genere, a cominciare dalla fusione dei ghiacciai continentali e dal conseguente innalzamento del livello dei mari: dal 1965 si è fuso il 42% dei ghiacci artici e il 33% di quelli del Kilimanjaro; per fare un altro esempio, dal 1850 si sono dimezzati i ghiacciai alpini (tra questi uno dei più estesi ghiacciai d’Italia, quello dei Forni, sullo Stelvio, arretra di qualche metro ogni anno). Se la tendenza è questa, nel prossimo secolo le Dolomiti non avranno più nemmeno un ghiacciaio. In questo quadro il livello dei mari crescerà da 10 a 90 centimetri nei prossimi cinquant’anni causando la scomparsa degli atolli delle isole oceaniche, la perdita di gran parte delle barriere coralline, l’invasione di piane costiere da parte delle acque, l’incremento delle aree inondate durante le alluvioni. Aumenteranno le perturbazioni meteorologiche a carattere violento e le grandi inondazioni, che già sono cresciute da 2-3 per anno negli anni Cinquanta a oltre 20 negli anni Novanta del XX secolo. Questo è lo scenario ottimista. Per configurare lo scenario pessimista, quello davvero grave, basta moltiplicare per dieci tutti i fenomeni prima elencati: questo è quello che accadrebbe nel caso in cui l’incremento delle temperature fosse – come pure ipotizzato – di 5,8 °C. Con altrettanta attenzione ai dati, McKibben ci ricorda che è il momento di svegliarsi e ci racconta molte storie interessanti di persone che agiscono localmente per cambiare globalmente, a partire da quel Vermont dove abita, oggi diventato molto diverso dall’immagine oleografica di una chiesa bianca sullo sfondo di un immenso prato verde. Il problema è che ci siamo comportati per secoli come se l’ambiente fosse una risorsa, il mero contenitore fisico dei minerali, del petrolio, dell’acqua o del paesaggio, lo scenario di cui fanno parte le piante e tutti gli animali. Tutti tranne uno (l’uomo), quello che una mano invisibile aveva posto – chissà perché – al centro di un meccanismo evolutivo di cui era l’insostituibile fulcro. Abbiamo creduto che l’ambiente fosse il luogo dove vive l’uomo, non il sistema cui l’uomo indissolubilmente appartiene: una visione distorta che si è tramutata in un tragico errore di prospettiva.


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introduzione

Forse un tempo l’uomo – pur già producendo cultura – è stato parte integrante del sistema Terra, quando la popolazione del pianeta non era ancora arrivata a quasi sette miliardi di individui e non si era ancora dimostrata clamorosamente vera la visione malthusiana: le risorse della Terra si accrescono con una proporzione matematica, meno produttiva di quella geometrica con cui, invece, cresce la popolazione. Ma oggi – diciamo a partire dagli anni Settanta – l’attività produttiva dell’uomo è diventata un vero e proprio assalto che il pianeta non riesce più a sostenere. E pensare che il concetto di biosfera (l’insieme dei viventi) – oggi attaccata e disarticolata dallo sviluppo produttivo dell’uomo moderno – non è certo nuovissimo ed era già stato compreso pienamente da un alunno del famoso chimico russo Mendeleev (quello della tavola periodica degli elementi), Vladimir Vernadskij, ormai diversi decenni fa. Di recente abbiamo comunque pensato che esistesse la possibilità di uno sviluppo sostenibile, che senz’altro è un passo avanti rispetto all’esaurimento delle risorse, ma che non può essere risolutivo. È il sistema economico capitalista a essere esiziale per l’ambiente, perché consuma troppa energia e, da questo punto di vista, può essere solo abbattuto, non riformato, se si vuol sopravvivere. Nel passato geologico è esistita una biosfera senza uomini, ma non può esistere un uomo senza biosfera. Egli contribuisce come un albero o un altro animale qualsiasi, né più né meno: non è, insomma, una componente essenziale come a noi fa piacere credere o come la pretesa esistenza di un’anima ci dovrebbe spingere a pensare. La tecnologia ha ormai sorpassato l’attività della biosfera e l’uomo preleva oltre la metà delle risorse che dovrebbero appartenere a tutti i viventi: è evidente che qualcuno resterà senza. Semplicemente, il nostro modo di vita attuale non è compatibile con il mantenimento dei cicli ecologici necessari alla sopravvivenza delle specie dei viventi, uomo compreso. La macchina produttiva attuale disgrega comunque l’ambiente, per cui – in questo campo – non porta alcun vantaggio lasciare libertà di impresa individuale, se poi si pagano scotti così ingenti e si compromette il bene comune. Non è neppure più sufficiente risparmiare o limitare i consumi – cosa peraltro dovuta – e forse vanno abbandonati i processi di globalizzazione, recuperando invece il piccolo e l’indipendente; tenendo presente che il capitalismo sfruttatore dell’ambiente non crollerà sotto il peso delle sue eventuali contraddizioni interne, ma a causa del prezzo ambientale che sta facendo pagare a tutti.

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Alla fine, questo piccolo uomo ha cambiato i connotati della vecchia Terra e creato un pianeta, Terraa, in cui lo scenario futuro rischia di essere indigesto o addirittura mortale. Non è più questione di distinguere i catastrofisti dagli ottimisti: come altri, McKibben è semplicemente un ottimista bene informato. È soprattutto questione di una nuova cultura che abbia solide basi scientifiche. Lo sanno gli dèi quanto ne abbiamo bisogno.


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A Phil Aroneanu, Will Bates, Kelly Blynn, May Boeve, Jamie Henn, Jeremy Osborn, Jon Warnow, e alle migliaia e migliaia di persone che hanno lavorato con noi a 350.org.


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prefazione

Sto scrivendo queste righe durante un magnifico pomeriggio di primavera, disteso lungo la sponda di un ruscello di montagna nelle Green Mountains, a poco più di un chilometro di distanza dalla mia casa nel villaggio montano di Ripton, nel Vermont. Il torrentello gorgoglia placido, ma a pochi metri da dove mi trovo si apre uno scenario di violenza: la scorsa estate un’alluvione ha provocato uno squarcio nel terreno e ha divelto alberi, rocce e terra, trascinandoli verso il villaggio. Prima di sera, l’unica strada era stata distrutta dalla furia delle acque, una filza di ponti era ormai inagibile e il governatore stava cercando di raggiungere l’area con l’elicottero. Vent’anni fa, nel 1989, scrissi il primo libro destinato al grande pubblico sul riscaldamento globale, quello che all’epoca chiamavamo “effetto serra”. Quel libro, La fine della natura, era sostanzialmente un ragionamento filosofico. Era ancora troppo presto per osservare gli effetti pratici dei mutamenti climatici, ma non per percepirli; nel passaggio più citato del volume raccontavo di una camminata lungo un altro fiume, a un centinaio di chilometri da dove all’epoca sorgeva la mia casa, sui monti Adirondack dello stato di New York. Mi bastava sapere che avevamo iniziato ad alterare il clima per attribuire un significato diverso all’acqua che stavo osservando. “Non potevo più camminare in un mondo dove la pioggia avesse una sua esistenza indipendente e misteriosa. La pioggia era diventata una conseguenza dell’attività umana”, scrivevo. “La pioggia recava un marchio di fabbrica: un manzo, non un cervo [a steer, not a deer]”. Ora quella tristezza ha fatto posto a una paura dai contorni più definiti. Ormai il camminare lungo questo fiume non lascia assolutamente spazio all’immaginazione: le prove della distruzione sono perfino troppo evidenti. Il riscaldamento globale ha drasticamente cambiato, oltre a tante altre cose, anche i cicli idrologici, e lo ha fatto molto più velocemente di quanto avessimo potuto immaginare alla fine degli anni Ottanta.


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Alcune delle caratteristiche più rilevanti del ventunesimo secolo saranno una conseguenza del fatto che l’aria calda trattiene più vapore acqueo di quella fredda. Nelle zone aride ciò aumenta l’evaporazione, e quindi la siccità. Quando poi finisce nell’atmosfera, prima o poi l’acqua torna giù, e nelle aree umide come il Vermont si verifica un incremento delle inondazioni e delle piene. Le precipitazioni totali sul continente americano sono aumentate del 7%,1 e si prevede che questo valore salirà ancora. Quel che è peggio, è sempre più elevato il numero degli acquazzoni;2 non più pioggerelle gentili, ma piogge torrenziali e distruttive: in tutto il pianeta, i danni causati dalle precipitazioni aumentano del 5% l’anno.3 Negli Stati Uniti orientali si registra un’impennata ancora più evidente, pari al 20% o più, degli eventi meteorologici estremi, il tipo di temporale che in un solo giorno rovescia a terra svariati centimetri di pioggia.4 Nel Vermont si sono contate tre alluvioni negli anni Sessanta, due negli anni Settanta, tre negli anni Ottanta, poi dieci negli anni Novanta e altre dieci nel primo decennio del nuovo secolo. Nell’estate del 2008 si sono verificati nella mia cittadina quelli che sono forse i due più grandi nubifragi della sua storia, a sole sei settimane di distanza uno dall’altro. Il secondo, il più intenso, la mattina del 6 agosto in appena 3 ore ha scaricato almeno 15 centimetri di pioggia sui versanti delle montagne. Le foreste che crescono in quella zona sono essenzialmente intatte, l’utilizzo del legname è davvero modesto, ma nonostante questo le piante non sono riuscite ad assorbire tutta l’acqua. Proprio qualche giorno fa stavo passeggiando insieme a una mia vicina, Amy Sheldon, una ricercatrice che si occupa di fiumi. Mi parlava delle precipitazioni di quella mattina di agosto. “Avresti visto la corrente nei ruscelli cambiare da così a così, violentemente”, diceva rovesciando il palmo della mano. “Questione di pochi minuti.” Un anno dopo, i segni sono ancora evidenti: letti dei fiumi erosi fino al substrato roccioso, condutture distrutte, boschi ridotti a distese di bastoncini di shangai. Da allora, i cinquecento abitanti della cittadina stanno affrontando le conseguenze del disastro. Ci siamo impegnati a pagare 400.000 dollari per riparare i danni alle strade e alle condutture della città. (Il costo complessivo è di diversi milioni di dollari, e la gran parte verrà versata dallo stato e dai governi federali.) Ora stiamo utilizzando il nostro denaro per proteggere le sponde dei ruscelli che attraversano il centro della città con una massicciata di pietra lunga 250 metri, un progetto che potrà salvare qualche casa per qualche anno, ma che accelererà la velocità delle acque


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prefazione

e causerà ulteriore erosione a valle. Esiste una complicata equazione che permette di capire quanto diventerà ampio un corso d’acqua nel tempo, considerandone pendenza e geologia; Amy Sheldon me l’ha illustrata mentre ci riposavamo sulle rocce lungo la riva del fiume. La formula definisce matematicamente i fiumi così come noi li conosciamo e individua un limite massimo alla loro dimensione. Può essere utilizzata per elaborare progetti futuri, in modo da capire dove costruire e dove invece è meglio evitare di farlo. Nessuno di questi progetti può però funzionare se all’improvviso piove di più e più rapidamente di quanto sia mai successo prima, ed è esattamente quello che sta accadendo oggi. Piove più forte e l’acqua evapora più in fretta, il livello del mare si alza e il ghiaccio si fonde, e lo fa più velocemente di quanto avevamo previsto. Il primo punto fermo di questo libro è semplice: il riscaldamento globale non è più una minaccia filosofica né una minaccia per il futuro e, anzi, ormai non è più una minaccia. È la realtà in cui viviamo. Abbiamo modificato il pianeta, in modo ampio e sostanziale. Questi mutamenti sono più evidenti nelle zone del globo che già sperimentano condizioni di vita difficili, e proprio lì mettono a repentaglio migliaia di vite ogni giorno. Nel luglio del 2009 Oxfam ha pubblicato un rapporto dal titolo “Suffering the Science”, nel quale si concludeva che se anche oggi stesso abbattessimo drasticamente le emissioni di CO2, “le prospettive resterebbero fosche per centinaia di milioni di persone, la maggior parte delle quali sono già tra le più povere della Terra”.5 Questo libro sarà perciò, per necessità contingenti, meno filosofico del suo predecessore. Dobbiamo capire il mondo che abbiamo creato e dobbiamo – con una certa urgenza – trovare il modo per viverci. Non basta costruire massicciate di roccia contro i cambiamenti che ci piovono addosso da ogni fronte; dobbiamo individuare quali aspetti della nostra vita e delle nostre ideologie vanno abbandonati per proteggere il nucleo essenziale della società e delle civiltà. Le considerazioni che troverete non avranno niente di astratto; al contrario, saranno scomode e faticose. Tutto ciò non significa necessariamente che i cambiamenti che dobbiamo apportare – o il mondo che troveremo dall’altra parte – non offrano vantaggi o non abbiano una loro magnificenza. Realtà e bellezza vanno sempre insieme, a volte più che nella fantasia, e alla fine di questo libro suggerirò dove si trova la bellezza. La speranza deve però basarsi su fondamenta realistiche. Non possiamo aspettare, sperando di scoprire che gli scienziati avevano torto o che Barack Obama riuscirà chissà come ad

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aggiustare tutto. Obama può aiutarci, ma solo se sarà capace di immergersi nella realtà, di capire che viviamo nel mondo in cui viviamo e non in quello in cui vorremmo vivere. La consapevolezza non è l’opposto della speranza. Al contrario, è ciò che la rende possibile. Perché questa consapevolezza sia così necessaria mi è apparso dolorosamente chiaro alla fine del 2009, mentre procedevo alla revisione finale di questo libro. In molti avevano investito grandi speranze nel fatto che la conferenza di Copenaghen avrebbe potuto segnare un punto di svolta nel dibattito sui cambiamenti climatici. Se lo ha fatto, ha segnato una svolta verso il peggio, visto che i paesi più ricchi e potenti hanno definitivamente chiarito che non hanno l’intenzione di intraprendere azioni decisive per risolvere la crisi che abbiamo davanti. Hanno guardato negli occhi le nazioni più povere e vulnerabili, poi si sono girate dall’altra parte e hanno firmato un accordo di facciata, senza darsi obiettivi o scadenze. Vedere che la speranza viene mortificata non è mai piacevole. Nelle prime ore del mattino dopo il rientro di Obama a Washington, un gruppo di giovani si è raccolto nei pressi della sede delle conferenze di Copenaghen. “State decidendo del nostro futuro”, gridavano. La mia unica vera paura è che la realtà che descrivo in questo libro, e che appare sempre più evidente nel mondo che ci circonda, possa rappresentare una scusa per mollare. Quello che serve è esattamente l’opposto: un maggiore impegno. In qualche caso sarà un impegno locale, per esempio costruire comunità ed economie in grado di far fronte a ciò che accadrà. In qualche caso sarà invece globale, e dovrà tendere a evitare che i cambiamenti climatici diventino ancora più incontrollabili, per cercare di proteggere le popolazioni che rischiano di più, che poi sono sempre quelle che hanno fatto di meno per causare il problema. Ho investito in questa lotta gran parte degli ultimi vent’anni della mia vita, negli ultimi dei quali ho sostenuto e guidato 350.org, un grande movimento globale che promuove azioni concrete. È fuori di dubbio che se il nostro obiettivo era quello di conservare il mondo nel quale siamo nati, abbiamo perso la battaglia. Non viviamo più in quel mondo ed è inutile fingere il contrario. Ma anche i danni sono sempre relativi. Fino a oggi abbiamo fatto aumentare le temperature globali di circa un grado, provocando i massicci cambiamenti che verranno analizzati nel primo capitolo. Questi cambiamenti non regrediranno, e se non smettiamo di aggiungere altra CO2 all’atmosfera la temperatura continuerà semplicemente a crescere, fino a quan-


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prefazione

do supererà il punto oltre il quale qualsiasi tipo di adattamento si rivelerà impossibile. Dedico questo libro ai colleghi che mi sono più vicini in questa battaglia, la squadra di 350.org, con l’impegno di non smettere mai di lottare. Non abbiamo altra scelta.

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