Gianni Silvestrini, G.B. Zorzoli
LE TRAPPOLE DEL CLIMA E come evitarle
Gianni Silvestrini, G.B. Zorzoli le trappole del clima e come evitarle realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente www.edizioniambiente.it
© 2020 Gianni Silvestrini, G.B. Zorzoli coordinamento redazionale: Arianna Campanile cover: Mauro Panzeri impaginazione: Roberto Gurdo in copertina: La Epic (Earth Polychromatic Imaging Camera) della NASA, montata sul satel-
lite DSCOVR (Deep Space Climate Observatory) ha acquisito questa immagine il 30 maggio 2019, mostrando una fitta coltre di fumo che scorreva dall’Alberta verso est, in Canada. L’immagine è di Lauren Dauphin ©NASA (https://earthobservatory.nasa.gov/images/145119/ an-epic-view-of-smoke-over-canada). © 2020, ReteAmbiente Srl via privata Giovanni Bensi 12/5, 20152 Milano tel. 02.45487277, fax. 02.45487333 Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi supporto senza il permesso scritto dell’Editore ISBN 978-88-6627-285-4 Finito di stampare nel mese di febbraio 2020 presso GECA S.r.l., San Giuliano Milanese (Mi) Stampato in Italia – Printed in Italy
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sommario
premessa
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1. un buco nel cielo
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2. un mondo di plastica
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3. l’effetto serra
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4. tutte le risposte alla crisi climatica
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5. un processo di decarbonizzazione problematico
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6. l’ambiguità della parola sviluppo
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7. chi rema contro
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8. il valore della sobrietà
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9. le condizioni per un diverso modello economico e sociale
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10. cosa potrebbe accadere
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11. il rischio dell’autoritarismo
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conclusione
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By failing to prepare, you are preparing to fail. Benjamin Franklin
premessa
il pessimismo dell’intelligenza Gli incendi che nel 2019 hanno devastato l’Amazzonia, certamente non illuminano il mondo d’immenso e rendono ancor più attuale l’invito al pessimismo dell’intelligenza e all’ottimismo della volontà, come bussole con cui orientarsi nelle situazioni particolarmente difficili. Invito formulato dal Nobel per la letteratura Romain Rolland e non, come si crede, da Gramsci che citando la fonte lo utilizzò per la prima volta in un editoriale del 1920, pubblicato su L’Ordine Nuovo. Questo richiamo non trova più posto in un contesto nazionale e internazionale dove tende a prevalere chi, all’opposto, propaganda soluzioni semplici a problemi complessi, che quindi non richiedono l’impegno e la partecipazione dei cittadini: basta lasciar fare al capo (è questa l’essenza del populismo). Valido sempre, il monito di Rolland-Gramsci non può essere disatteso, se si intende risolvere i numerosi e complessi problemi posti dalla crisi climatica in tempi obbligatoriamente ristretti. Occorre infatti impedire che la temperatura del pianeta arrivi a valori tali da rendere irreversibili fenomeni (come la fusione delle calotte polari) che continuerebbero a far crescere il riscaldamento globale anche se non emettessimo più gas climalteranti. Di fronte a prospettive così drammatiche, il pessimismo dell’intelligenza affronta i problemi prendendo in considerazione l’ipotesi più gravosa tra le diverse sul tappeto che, proprio per questo, richiede di coinvolge-
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le trappole del clima
re al massimo livello il maggior numero possibile di persone. Se invece, per timore di scoraggiare i propri interlocutori, si presentassero in modo riduttivo i problemi da risolvere, la loro volontà sarebbe meno sollecitata, aumentando il rischio di demoralizzarli, perché non si è riusciti a trovare una soluzione adeguata. L’iniziale ottimismo dell’intelligenza porta al pessimismo della volontà. Se vogliamo che la straordinaria mobilitazione per il clima degli studenti in diverse parti del mondo (Fridays for Future), innescata dalla solitaria determinazione di Greta Thunberg, conservi l’iniziale ottimismo della volontà, occorre quindi aiutarli a esercitare anche il pessimismo dell’intelligenza. Persino tra chi, preso lucidamente atto della deriva climatica, ha deciso di impegnarsi per ottenere le trasformazioni necessarie per contrastarla, il pessimismo dell’intelligenza ha troppo spesso sovranità limitata. Raramente vengono infatti presi nella dovuta considerazione i problemi creati dalle perturbazioni dell’attuale assetto economico e sociale durante la transizione a un modello di sviluppo diverso. Si è così creata una situazione surreale, in cui forte è l’impegno per mobilitare i cittadini, illustrando loro i rischi che incombono sulla popolazione del pianeta e le possibili soluzioni per evitarli, mentre difettano analisi sufficientemente approfondite sulle possibili conseguenze di tali scelte. Per essere convincenti, occorre essere capaci di rispondere alle preoccupazioni di chi teme che le trasformazioni richieste per contrastare il cambiamento climatico possano comportare la perdita del posto di lavoro o colpire i propri interessi economici. Non possiamo infatti prendere sottogamba nemmeno il punto di vista di una parte minoritaria dei cittadini, ma più influente della media, la quale ha investito in attività che non potranno avere cittadinanza a transizione completata, nonché dei gruppi dirigenti chiamati oggi a gestirle; o di quanti vivono la stessa condizione a monte, nelle forniture a tali attività e a valle, nella catena di commercializzazione dei loro prodotti. Ne sono esempi emblematici la filiera dell’auto e del petrolio. Avere troppo a lungo trascurato l’elaborazione di risposte razionali a questi problemi ha altresì favorito la tentazione di liquidare le resistenze
premessa
degli interessi lesi, trasformando in nemico da criminalizzare chiunque le manifesti. Questa tendenza, per fortuna ancora minoritaria, potrebbe diffondersi se le resistenze al cambiamento dovessero aumentare, esito inevitabile in assenza di un governo della transizione che se ne faccia carico. Convinti della necessità di porre fine a questa dicotomia, favorendo soluzioni coerenti sul piano sia sociale ed economico, sia ambientale, che rimuoverebbero l’ostacolo maggiore a un cammino spedito verso lo sviluppo sostenibile, abbiamo deciso di utilizzare il pessimismo di cui le nostre intelligenze sono capaci per contribuire a mettere in evidenza come tra il cielo, dove transitano i raggi del sole diretti al nostro pianeta e la terra, dove cresce la produzione di gas che intrappolandone il calore la riscaldano, esistono più cose di quante la filosofia ambientalista, se non guarda oltre se stessa, sappia spiegare. Pessimisti sì, ma proprio per stimolare riflessioni che potenzino l’ottimismo della volontà, unico strumento per realizzare una spinta collettiva in grado di contrastare la crisi climatica. Abbiamo scritto questo libro proprio per individuare come coniugare in modo vincente pessimismo intellettuale e ottimismo nell’azione.
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1. un buco nel cielo
“Stiamo guardando avanti, perché uno dei primi mandati che ci sono stati affidati come capi tribù, è quello di essere sicuri che ogni decisione che prendiamo riguardi l’attuale benessere e il benessere della settima generazione a venire.” Un principio saggio, quello degli indiani irochesi d’America, che dovrebbe essere fatto proprio dai governanti di tutto il mondo, mentre gli ormai evidenti effetti sul clima delle trasformazioni dell’ecosistema ci hanno fatto entrare nell’era geologica dell’Antropocene.1 Proprio questa esigenza rappresenta l’elemento sfidante del recente movimento sul clima, protagonisti i giovanissimi, con la richiesta che i diritti delle generazioni future vengano presi in considerazione da una politica che invece solitamente si muove con orizzonti decisionali molto brevi. Il punto è proprio questo. Dai rifiuti radioattivi alle emissioni di gas climalteranti, dalla perdita di biodiversità alla distruzione delle riserve idriche, stiamo tranquillamente “mangiando il futuro”, lasciando ai posteri eredità pesantissime. Per confrontarci con le sfide globali, a partire dalla crisi climatica, dovremmo invece agire con uno sguardo lungo, come facevano gli indiani irochesi. 1 Termine coniato dal premio Nobel Paul Crutzen per definire il periodo avviato con la rivoluzione industriale, mentre per altri scienziati ci siamo entrati a metà del secolo scorso, quando si sono manifestati i primi effetti irrevocabili sull’ambiente dell’azione degli uomini.
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le trappole del clima
Ma prima di analizzare se sia possibile evitare esiti catastrofici, può essere utile capire come sono stati affrontati due altri gravissimi problemi ambientali globali. La prima sfida ha riguardato un’emergenza planetaria, quella del “buco dell’ozono”. Dagli avvertimenti della scienza alle mobilitazioni dei cittadini, dal ruolo delle istituzioni alle strategie delle imprese, ripercorreremo le dinamiche che hanno consentito di raggiungere un accordo internazionale in tempi molto brevi, evitando gravi conseguenze. La seconda riguarda una sfida dei nostri giorni, quella dell’inquinamento pervasivo della plastica, e verrà analizzata nel capitolo 2. Questi due esempi possono fornire spunti di riflessione molto utili per comprendere meglio perché quella climatica rappresenta una sfida decisamente più drammatica e molto più complessa.
la prima emergenza ambientale globale Il dibattito sulla vulnerabilità dello strato d’ozono stratosferico, che tende ad accumularsi principalmente sopra i due poli e protegge dai cancerogeni raggi ultravioletti, fu sollevato nel 1974 da due scienziati, Mario Molina e Sherwood Rowland, che proprio per queste ricerche nel 1995 presero il premio Nobel. L’immissione in atmosfera di clorofluorocarburi (CFC), dovuta alle perdite di questi gas che si verificavano nel corso dell’allora diffuso utilizzo in una molteplicità di applicazioni (spray, frigoriferi, climatizzatori, materiali isolanti...), poteva ridurre lo strato di ozono. Nei sei mesi di luce continua sopra i poli, la radiazione solare aveva infatti la possibilità di rompere le molecole di CFC accumulatesi negli strati alti dell’atmosfera, liberando atomi di cloro in grado di aggredire l’ozono. Secondo i due ricercatori, queste reazioni avrebbero potuto, nel corso dei successivi decenni, ridurre del 20% lo strato di ozono, con gravi conseguenze per lo schermo protettivo dai raggi ultravioletti: per ogni punto percentuale di riduzione della concentrazione dell’ozono si valutava un aumento dell’1% di tumori mortali e del 3% di forme tumorali benigne.
1. un buco nel cielo
Questa notizia destò ovviamente un forte allarme nell’opinione pubblica. Le industrie che producevano questi gas, inizialmente attaccarono le risultanze scientifiche e lamentarono la mancata disponibilità di alternative. Va sottolineato che non esisteva ancora la certezza della bontà di questa teoria, che solo dati sperimentali avrebbero potuto confermare, ma la pressione degli ambientalisti portò molti stati americani a imporre l’inserimento dell’eventuale presenza dei CFC nell’etichetta dei prodotti. Va inoltre messa in evidenza la pronta reazione del mercato, cioè delle società che utilizzavano i clorofluorocarburi. Scavalcando le decisioni delle istituzioni, nel 1975 diverse grandi imprese bandirono l’uso di questi gas nelle bombolette spray vendute, mettendo in difficoltà la DuPont, principale produttore mondiale. Quest’ultima oppose inizialmente una forte resistenza alla limitazione dei CFC, sostenendo che la loro produzione contribuiva per 8 miliardi di dollari all’economia statunitense e dava lavoro a 200.000 addetti. Ma non ci fu niente da fare e l’azione unilaterale di eliminare l’impiego dei CFC negli aerosol costò alle aziende americane la perdita del 20% del mercato mondiale. Le aziende europee continuarono invece tranquillamente a commercializzare questi prodotti, in assenza di una pressione dell’opinione pubblica e di specifici divieti. A questo punto la DuPont cambiò amministratore delegato, nominando per la prima volta un esponente non proveniente dalla famiglia proprietaria. Una scelta intelligente, visto che il nuovo capo, Irving Shapiro, considerava controproducente la resistenza a oltranza nei confronti di legislazioni più severe. Del resto, malgrado la certezza sugli effetti dei CFC non fosse ancora consolidata, una dozzina di stati americani aveva già deciso di proibire il loro uso negli aerosol. La vera svolta si ebbe dopo che nel 1985 un rapporto di ricercatori inglesi riportò i risultati di misure che dimostravano una forte e inaspettata riduzione della concentrazione di ozono nella stratosfera sopra l’Antartide. L’immagine preoccupante di un “buco nel cielo” (mentre in realtà si stava verificando una graduale riduzione dello strato protettivo di ozono)
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le trappole del clima
ebbe un enorme impatto sull’opinione pubblica. Gli ambientalisti chiesero di tagliare immediatamente la produzione di tutti i CFC. A questo punto le aziende statunitensi si resero conto che era necessaria una trattativa internazionale per non essere spiazzati dalla concorrenza. E c’è anche chi sostiene che il cambio di atteggiamento fu agevolato dalla scadenza nel 1979 dei brevetti della DuPont sul Freon, un diffusissimo CFC.
il protocollo di montreal Si avviarono così i negoziati internazionali, con le imprese europee timorose che gli USA avessero già dei sostituti, un timore più che fondato. Alla fine, si trovò un accordo e nel 1987, a soli 13 anni dal primo allarme, 24 nazioni firmarono a Montreal un Protocollo che prevedeva una riduzione del 50% dell’uso dei CFC entro il 2000. L’anno successivo nuovo colpo di scena: misurazioni eseguite questa volta da aerei misero in evidenza che non solo c’era il “buco” sull’Antartide, ma che nell’intero emisfero Nord si registrava una riduzione della concentrazione di ozono, arrivata fino al 6%. Questa notizia preoccupò ovviamente ancor più la popolazione. A questo punto la DuPont, che aveva già iniziato a lavorare a possibili sostituti, capì che non si poteva temporeggiare e annunciò unilateralmente una progressiva eliminazione della produzione dei CFC, spiazzando la concorrenza e ottenendo il plauso degli ambientalisti. Si erano così create le condizioni per una revisione del Protocollo di Montreal: nel 1990, solo tre anni dopo la sua firma, si decise di bandire totalmente i CFC entro il 2000. Le negoziazioni si svolsero tra i paesi industrializzati, dove si concentrava la quasi totalità della produzione dei clorofluorocarburi; una situazione molto diversa rispetto alle trattative sul clima, che coinvolgono tutti gli stati. La transizione fu quindi meno problematica del previsto, smentendo le valutazioni dell’EPA (Agenzia statunitense per la protezione ambien-
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tale), secondo la quale l’eliminazione dei CFC avrebbe comportato un costo complessivo nel tempo di ben 36 miliardi di dollari.
il mercato del cfc: una reazione inaspettata Separiamo intanto le industrie utilizzatrici dei CFC da quelle dei produttori. Le prime si sono mosse spesso autonomamente, arrivando a eliminare l’uso dei composti pericolosi prima della loro proibizione e influenzando quindi anche le scelte dei fabbricanti. È il caso dell’industria elettronica, che si sbarazzò dei CFC utilizzati come solventi nella produzione dei circuiti stampati. Sul fronte dei produttori, va sottolineata l’interessante anomalia di questa partita, con gli americani favorevoli a un accordo e gli europei in una posizione di retroguardia. L’opposto di quanto si è verificato sulla questione climatica, perlomeno fino alla presidenza Obama. Come affermò l’allora direttore del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), Mustafa Tolba, “le difficoltà negoziali del Protocollo di Montreal non avevano niente a che vedere con i rischi per l’ambiente. Tutto ruotava sul fatto se la DuPont avrebbe o no avuto un vantaggio sulle compagnie europee”. È quindi interessante osservare come le grandi società produttrici abbiano utilizzato il bando dei CFC per aumentare i propri profitti. La DuPont spese oltre mezzo miliardo di dollari nella ricerca di sostituti, concentrandosi nella definizione di una serie di prodotti alternativi specifici per le diverse applicazioni, venduti con prezzi maggiori dei CFC eliminati, e promuovendo una divisione dei ruoli tra le grandi società, in modo da ridurre la concorrenza. Chi si trovò spiazzato da questo nuovo quadro normativo furono i piccoli produttori, non in grado di competere sui nuovi prodotti. La situazione era talmente favorevole che la DuPont fece pressione sul governo americano affinché la fuoriuscita dei CFC venisse anticipata. E così fu. Il presidente Bush annunciò che gli USA avrebbero unilateralmente anticipato l’abbandono a dicembre 1995.
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