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NIENTE FU COME PRIMA

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LA VITA

LA VITA

di Angelo Foletto

Caro agli dei, che se lo presero presto, Wolfgang Mozart sicuramente fu. Ci volle di più perché lo fosse anche agli uomini. I viennesi lo celebrarono con postuma ammirazione e lo lasciarono morire solo. Pochi seguirono le esequie, non era consuetudine assistere ai funerali privati. E alla sepoltura, com’era usuale per i defunti non aristocratici né abbienti, non seguì una tomba identificabile. Però per decenni l’industria più diffusa della città natale, il turismo mozartiano, ha esposto come reliquia del maestro un cranio qualunque. Ma importa poco. Cambierebbe la nostra nozione di Mozart se visitassimo, uno per uno, gli appartamenti impazientemente cambiati a Vienna? O sapessimo quale dei ritratti è il più fedele? In fondo di Mozart sappiamo, tranne il luogo esatto della sepoltura, tutto. Perché abbiamo la musica. Le esecuzio - ni e edizioni musicali, e l’ampio epistolario, oggi ci riconsegnano l’uomo e la sua arte con la completezza di cui nessun secolo poté godere.

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Così Mozart è nostro contemporaneo. Mentre del più grande musicista del tempo, il suo tempo si accorse solo quando la precocità alla tastiera e al violino era ragione di stupore e cronaca. Quelli successivi alternarono idolatrie e sconcerto. Fu il successo planetario del pluripremiato Amadeus di Miloš Forman (1984) a datare la fama popolar-globale “moderna” prima frenata dalla preponderante, «eccessiva» personalità di Beethoven. Se ne scoprì, al di là delle profuse falsità cinematografiche (comunque calamitanti: negli Stati Uniti, il Requiem usato come profana e hollywoodiana colonna sonora vendette a sei zeri) e per merito della costanza nei cartelloni e della nozione storico-critica degli esecutori, l’inquietudine e la drammaticità delle opere e della biografia già scopertamente romantica.

Secondo una pittoresca maldicenza popolare Mozart fu avvelenato da un collega invidioso: in realtà morì di «febbre reumatico-infiammatoria acuta». Di veleno non c’era bisogno: il fisico si era intossicato da solo. Per effetto di una vita bruciata (per)correndola da adulto e in modo irrequieto fin da bambino – altro che «eterno bambino» o simili agevolazioni critiche da televisione per ragazzi – dopo aver imparato il linguaggio delle note insieme a quello dei giochi. La pienezza della precocità di Mozart getta ombra su altri artisti predestinati dalla culla: la nozione di bambino-prodigio è un pretesto per tentare di circoscrivere la dismisura e permeabilità artistica. Dal punto di vista musicale nessun genere è rimasto tale e quale dopo essere stato intrapreso da lui, anche se non ne inventò; tranne il concerto per pianoforte che nel giro di pochi anni passò dallo stato di timida eccezione alla vocazione protagonistica dell’Ottocento. Mozart ha cambiato la musica e insieme il modo di comporla, di eseguirla, di ascoltarla. Del suo mondo musicale ci rapisce la commistione di fragilità e impudenza, di levità e dolore, l’ardimentosa irruenza cantabile, la gioiosa capacità di prendere in contropiede gli ascoltatori, la tenerezza incontenibile dell’invenzione melodica (spesso rifusa negli Adagio strumentali). Canto e armonie con lui hanno svelato la competenza segreta e unica a raccontare i sentimenti. Perfezionando quell’idea di universalizzazione del linguaggio musicale – senza priorità né preconcetti, anche se la regola settecentesca della “commissione” e della convenienza sociale non poteva essere del tutto scantonata – cui il “progetto didattico” di Leopold Mozart aveva indotto il bambino. Ma senza che nemmeno l’amor di padre musicista, ragionando da procacciatore di mestiere fisso e ruolo prestigioso nella cupa e provinciale Salisburgo su cui solo dopo Mozart (e Herbert von Karajan, due secoli più tardi) si sarebbero accese le luci della ribalta mondiale, avesse capito a fondo il talento e la personalità unica.

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