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LA CONDANNA DEL PIANOFORTE di Angelo Foletto
“cosa” che so fare». Non sono molte le frasi attribuibili a Fryderyk Chopin. A ripeterla nella mente, anche a (ri)leggerla, semplicemente, mette paura. L’affermazione appiana e inviluppa insieme il pensiero che custodisce. Vi alitano rimpianti. Per non aver potuto dedicarsi ad altro (musicalmente, per esempio, Chopin adorava l’opera italiana non meno delle sue più celebri interpreti e dei suoi autori) o di non aver continuato sulla strada della composizione per orchestra. Si manifesta il disagio di una vita in cui il pianoforte era (stato) una meravigliosa ma implacabile condanna. Personale e artistica. Una ragione d’ess(ist)ere nel mondo, e presso la società del suo tempo. Quella presente e galvanizzata ai (rari) concerti e ai cimenti spettacolari sponsorizzati dai grandi costruttori di strumenti a tastiera di cui, tra gli altri astanti eccellenti, fu testimone e cronista di gran penna il poeta Heinrich Heine (fu lui ha chiamarlo «Il Raffaello del pianoforte»). E l’altro/alto consorzio arruolato dalle meno rare e più remunerative esibizioni private orchestrate dai circoli europei degli aristocratici concittadini polacchi che, abbandonata la patria, alleviavano la nostalgia e assolvevano i residui obblighi patriottico-libertari, tamburellando con le dita sullo schienale delle poltrone il rampante ritmo delle Polacche pianistiche che un tempo avevano ballato nei saloni dei palazzi nobiliari di Varsavia. L’affermazione «Suonare il pianoforte è l’unica “cosa” che so fare» non insabbia la delusione di Chopin, uomo libero ma in terra straniera, avvelenato dai ricordi e i rimpianti oltre che nel cuore e nei polmoni. Pianista ambito e richiesto ma compositore non altrettanto compreso e apprezzato, Chopin non fu reputato un autore rivolto al futuro – come oggi quasi tutti gli interpreti avvertiti sostengono: a parole anche, ma soprattutto con esecuzioni intente a indagarne minuziosamente il tessuto armonico e l’originale tessitura timbrica –bensì un fornitore di incantevoli pagine da salotto, di album musicali da compitare nelle mattinate uggiose delle damigelle di buona famiglia e da esibire nelle serate di gala. Tuttavia i soliti ritmi danzanti e i giri armonici d’uso erano stati da Chopin trasfigurati in musiche e forme d’arte assolute; distanti dalle musiche dozzinali o di squisito virtuosismo digitale prima di allora impiegate solo per sgranchire le gambe in vista dei cotillons.
Chopin non fu una controparte strumentale del gusto spettacolare e mondano della pratica belcantistica dei cantanti dell’epoca. Era un compositore al pianoforte, e fiero di esserlo. Ma pochi lo capirono. La stima dei musicisti amici non risarcì un’esistenza quotidiana di cui si ricordano le malattie, le delusioni affettive e il carico di sofferenze spirituali che lo resero distante, se non assente, e spesso ingiustamente esasperato da un mondo che invece lo amava. Tutto scritto, leggibile al primo sguardo, nel ritratto fotografico scattato nel gennaio del 1849 da Louis-Auguste Bisson nel suo studio*. Lì, del quasi trentanovenne Fryderyk Chopin osserviamo, in anticipo, la maschera mortuaria. Così come nella sua musica, solo in superficie tersa e “romanticamente” sognante, sentiamo l’eco di quella spietata immagine e delle cronache dei funerali veri, cui Parigi partecipò in massa alla Madeleine pochi mesi dopo. Le note uscite dal cuore rocambolescamente trafugato dalla sorella e murato, secondo le sue volontà, in una colonna della chiesa di Santa Croce a Varsavia. Ma che risuonava ancora delle voci e dei volti degli artisti che l’accolsero a Parigi, ne rinfrancarono amichevolmente e intellettualmente lo spirito, aizzarono l’estro poetico e sperimentale e la vocazione a dettare la storia del pianoforte moderno. * La foto di Bisson è a pagina 62
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