Max
BELOFF Si può inventare una comunità?
L’EUROPA E GLI EUROPEI EDIZIONI DI COMUNITÀ
Talvolta nasce la tentazione di irrigidirsi nel proprio orgoglio continentale e affermare che è esistita una sola civiltà, buona o cattiva che sia: quella europea. Ma la caratteristica forse più saliente della civiltà europea è proprio quella di essere una civiltà aperta, che può ancora imparare ed evolvere, mentre le ideologie non sanno fare altro che compiacersi di se stesse. MAX BELOFF
MAX BELOFF (1913-1999) nominato barone nel 1981, è stato uno storico e un’importante voce, spesso fuori dal coro, della politica britannica del Novecento. Si interessò in particolare ai rapporti tra Gran Bretagna ed Europa, mantenendo una posizione in molte occasioni critica, ma sempre orientata alla costruzione di nuove possibilità.
In copertina: Vilhelm Hammershøi, The Buildings of the Asiatic Company, seen from St. Annæ Gade (1902) Courtesy of the National Gallery of Denmark
Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.
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Max Beloff, L’Europa e gli europei © 2020 Edizioni di Comunità 1ª edizione, L’Europa e gli europei © 1960 Edizioni di Comunità ISBN 978-88-32005-6-08 Redazione: Angela Ricci, Andrea Crisanti de Ascentiis Impaginazione e ebook: Studio Akhu Layout di collana: BeccoGiallo
Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino www.edizionidicomunita.it
Questa edizione è pubblicata in collaborazione e con il contributo di AICCRE - Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa Federazione regionale del Lazio
Max Beloff
L’EUROPA E GLI EUROPEI
Edizioni di Comunità
Per questa edizione si è deciso di pubblicare solo la prima parte dell’opera originale, dedicata all’analisi della storia e della cultura europee. Nel rispetto della natura del saggio, si è scelto di omettere la seconda parte, che affrontava nel dettaglio vicende politiche ed economiche oggi non più attuali.
Indice
Il problema della definizione dell’Europa Le basi storiche
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Economia e politica
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Il patrimonio culturale
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Conclusioni 241
Il problema della definizione dell’Europa
Il presente libro è il risultato di una serie di discussioni, svoltesi a Roma e a Strasburgo, che trassero la loro origine dalle preoccupazioni ormai diffuse tra molti popoli europei in merito alla loro posizione nel mondo e al loro futuro nella nuova epoca apertasi dopo la Seconda guerra mondiale. Caratteristica comune di queste discussioni fu che i partecipanti a esse non presero come unità di misura né l’umanità nella sua interezza né i loro singoli gruppi nazionali, bensì l’idea stessa dell’Europa, considerata come un oggetto suscettibile di una indagine razionale e come un campo conveniente di azione. Ciò di cui essi si occuparono non fu ovviamente un dato insieme di fatti fisici, ma un certo numero di idee relative sia al passato che al presente e al futuro. Tuttavia proprio perché tali idee erano sovente vaghe e approssimative, sarà forse opportuno prendere le mosse da quel settore della conoscenza in cui l’Europa ha un significato preciso, cominciando cioè dalla definizione geografica di essa: «Fra i compatti e immensi territori dell’Asia e dell’Africa si trova un insieme di terre e di mari, che si intersecano tra di loro, detto Europa. Compreso fra l’Oceano Artico, l’Atlantico settentrionale, il Mediterraneo e le vaste foreste e steppe dell’Asia sovietica, il territorio europeo è formato da zone peninsulari e istmiche e da una corona
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di isole sparse tutto intorno. Per la verità un siffatto territorio non meriterebbe il nome di continente; tuttavia, esso è ed è sempre stato una parte eccezionalmente importante del globo». Secondo questa definizione di Jean Gottmann – un francese che scrive per degli americani – l’Europa ha dunque due caratteristiche fondamentali: la mancanza di omogeneità e l’importanza storica. Tale mancanza di omogeneità è accresciuta, sempre secondo Gottmann, dal fatto che l’Europa, così come egli la definisce, è composta non soltanto da penisole e da isole, ma anche da una parte della grande estensione centrale di territorio del Vecchio Mondo: «Il confine orientale», così scrive «viene fissato tradizionalmente alla “linea degli Urali”, segue cioè lo spartiacque della catena degli Urali, dalle coste artiche fino alla loro estremità meridionale, e quindi il corso del fiume Ural fino alle sue foci nel Caspio. Il confine taglia quindi il Caspio in direzione sud e piega a ovest verso il Mar Nero, lungo lo spartiacque della catena caucasica». Pur portando così a questa massima estensione i confini dell’Europa, essa rimane tuttavia il più piccolo dei continenti, dato che è la metà dell’America settentrionale e soltanto un quarto dell’Asia. Qualcuno vorrebbe rimpicciolirla ancora, escludendo, eccetto che sul piano fisico, tutta o parte della sua grande pianura interna, ritenuta sede di una civiltà molto diversa da quella fiorita nelle terre in contatto diretto con i mari aperti. Questo antico contrasto tra le due metà dell’Europa – la continentale e la marittima – fu certamente accentuato dalle scoperte geografiche dei secoli XV e XVI, sfruttate dai paesi della costa atlantica. Il geografo, tuttavia, prefe-
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risce considerare queste indubbie divisioni subordinate a un concetto più generale e comprensivo dell’Europa come continente, in cui la storia e la civiltà europea siano il prodotto di una tensione esistente tra le parti, piuttosto che ipotizzare una frattura determinata da un’opposizione insormontabile. Per il geografo, inoltre, l’importanza dell’Europa dipende in larga misura da un unico fenomeno: la densità della sua popolazione; infatti il continente europeo che copre solo l’8% della superficie terrestre, è abitato da circa 550 milioni di persone, ossia un quarto della popolazione mondiale. La densità per chilometro quadrato è due volte di più che in Asia, tre volte di più che negli Stati Uniti, otto volte di più che in tutta l’America e dieci volte di più che in Africa. L’incremento e la densità della popolazione europea non sono uniformi, si rivelano nel complesso più scarsi nelle regioni settentrionali e orientali; tuttavia in queste ultime zone i recenti sviluppi demografici tendono a far scomparire il precedente divario. L’incremento demografico dei popoli dell’Europa orientale, e in particolare degli slavi, costituisce soltanto uno dei numerosi mutamenti verificatisi nel corso dell’ultimo mezzo secolo nei rapporti intercorrenti fra Europa orientale ed Europa occidentale, intese nel senso più largo dei due termini. Tale incremento è stato collegato alla rapida espansione dell’industria, così come era avvenuto nell’Europa occidentale nel XIX secolo. Ciò è particolarmente vero per la Russia, dove il mutamento era già in pieno sviluppo prima della Rivoluzione del 1917, che tuttavia gli impresse un’accelerazione consapevole e drammatica. Questi mutamenti nella situazione demografica ed economica, unitamente all’adozione e
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all’adattamento da parte dei russi di una nuova ideologia e alla susseguente estensione della zona sottoposta al loro controllo, hanno avuto effetti profondi sul modo di pensare dei rimanenti popoli europei, che si sono resi conto tanto del declino della posizione dell’Europa nel mondo, quanto del loro proprio declino nell’ambito della stessa Europa. Non si deve infatti dimenticare, fin dagli inizi della nostra indagine, che una considerazione puramente geografica del problema dell’unità europea va incontro a dei limiti assai rigidi, non fosse altro perché esso è stato esaminato e discusso soltanto da un numero limitato di paesi europei, quelli cioè che hanno preso parte all’attività delle due principali organizzazioni europee attualmente esistenti: l’OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica, sorta nell’aprile 1948 per attuare il Piano Marshall, ma concepita fin dagli inizi come un’organizzazione permanente) e il Consiglio d’Europa. Ma poiché solo quest’ultimo ha funzioni politiche, ed è stato il promotore delle discussioni dalle quali è nato il presente libro, si può assumere che il problema europeo, così come è stato formulato verso il 1955, è stato soprattutto sentito dai paesi membri del Consiglio d’Europa. Con ciò, naturalmente, non si vuol dire che esso non interessi, o non debba interessare nel futuro, anche ai paesi non rappresentati a Strasburgo. S’intende solo affermare che – siccome nella maggior parte di questi paesi le autorità governative sono apertamente ostili all’idea sia di favorire qualsiasi forma di integrazione europea, sia di estendere la cooperazione su tale base – i loro popoli sono più o meno esclusi da una qualsiasi partecipazione a discussioni che hanno appunto per oggetto tali fini.
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Invece di 550 milioni di persone, vanno pertanto presi in considerazione soltanto i 270 milioni circa che partecipano attivamente, per mezzo dei loro rappresentanti, alle comuni istituzioni europee. In altre parole, il dibattito, poiché tende a essere soprattutto circoscritto ai paesi facenti parte del Consiglio d’Europa, viene a trovarsi necessariamente limitato. Per quanto concerne i paesi appartenenti al Consiglio, la questione più evidente è quella sollevata dall’inclusione della Turchia, un paese cioè che dal punto di vista geografico fa parte dell’Europa soltanto per un 3% del suo territorio, e che dal punto di vista storico presenta, come vedremo, un problema altrettanto difficile. Venendo a esaminare le esclusioni, va ricordato che le loro cause furono svariate. L’Austria non era membro del Consiglio d’Europa quando venne formata la commissione di studio per il presente libro, ma lo divenne in seguito, dimostrando una mentalità aperta all’idea di Europa quanto quella della maggior parte dei membri originari. La Svizzera è rimasta fuori dal Consiglio, presumibilmente a causa della sua tradizionale neutralità politica, ma non può venir considerata un outsider: non per nulla il presidente della tavola rotonda di Roma e della commissione di studio di Strasburgo fu proprio uno svizzero. Il Portogallo, membro come la Svizzera dell’OECE e, a differenza della Svizzera, anche della NATO, si troverebbe probabilmente a disagio nel Consiglio d’Europa, i cui membri hanno governi di tipo democratico, ed è improbabile che esso entri in organismi politici del genere senza la sua vicina, la Spagna. L’iniziale esclusione di quest’ultima dal Consiglio fu inevitabile: era appena terminata una guerra combattuta contro il nazismo
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e il fascismo, che avevano aiutato l’avvento al potere del suo regime, e verso i quali essa aveva mantenuto fino alla fine una neutralità più che benevola. Il perdurare del regime franchista dimostra palesemente come il problema comunista non sia affatto l’unico a dividere ideologicamente l’Europa. È bensì vero che alcuni storici hanno voluto scorgere nella moderna civiltà della penisola iberica un’impronta così profonda della sua lunga appartenenza politica al mondo musulmano da rendere i suoi legami con l’Africa stretti quanto quelli con l’Europa. Ma la verità è che essa non può essere esclusa dalla storia d’Europa, così come non può esser separata dal continente europeo. Infine, nell’Europa settentrionale, l’assenza della Finlandia da un’organizzazione cui partecipano gli altri tre paesi scandinavi e l’Islanda è dovuta evidentemente alle particolari esigenze cui essa è soggetta, quelle cioè di non porsi in contrasto con l’Unione Sovietica. Gli altri paesi esclusi sono appunto l’Unione Sovietica, gli Stati aventi un regime comunista per l’intromissione totale o parziale della Russia nei loro affari interni, e la Jugoslavia, che apparteneva in origine al gruppo sovietico e ha continuato ad avere con esso stretti legami ideologici. Questo gruppo ovviamente non è affatto omogeneo, eccetto per quanto riguarda la sua odierna situazione politica. Tralasciando per il momento i particolari problemi presentati dall’Unione Sovietica stessa (che formeranno oggetto in seguito di un esame dettagliato) e da alcune delle regioni che la compongono, quali gli Stati baltici, le cui tradizioni storiche e culturali sono prevalentemente non-russe, si possono riscontrare differenze ancor maggiori tra quei paesi del blocco sovietico che mantengono tuttora una certa sovranità politica almeno formale.
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Da un lato vi sono i polacchi, i cechi e i magiari, nazioni delle quali nessuno potrebbe porre in dubbio i titoli a chiamarsi europee e che dal Medioevo in poi hanno svolto una parte importante in quasi tutti i campi in cui si è sviluppata la cultura europea. Incastrate tra queste nazioni si trovano popolazioni minori, il cui sviluppo storico è stato condizionato da quello dei loro vicini più progrediti o più potenti. Da un altro lato vediamo paesi come la Romania, la Bulgaria, l’Albania, i quali durante buona parte della moderna storia europea fecero parte dell’Impero ottomano e i cui legami con l’Europa in tale periodo storico furono necessariamente tenui, anche se non vennero mai del tutto troncati, grazie principalmente all’orientamento religioso delle loro principali istituzioni culturali (salvo che nella musulmana Albania). La Jugoslavia si può dire che si trovi a cavallo tra i due mondi. Ma è chiaro che soltanto a un fatto storico contingente può attribuirsi l’odierno estraniarsi di tutti questi paesi dagli interessi europei. Nessuna definizione dell’Europa che comprenda la Grecia può escludere il rimanente della penisola balcanica: il Danubio è un fiume europeo in tutta la sua lunghezza, e nessuna definizione seria dell’Europa, che comprenda tutta la Germania, può escludere la Polonia o la Boemia. La Germania stessa, un decennio dopo la fine della Seconda guerra mondiale, paga ancora, con la divisione del suo territorio, per le distruzioni arrecate all’edificio europeo dalla follia criminale dei suoi capi nazisti. Soltanto la Germania occidentale e il territorio di Berlino ovest poterono partecipare liberamente alla discussione del problema europeo. Ciò nondimeno, quali che siano i risultati della lunga pressione esercitata sulla
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Germania orientale in conseguenza della sua incorporazione nell’Europa dominata dai sovietici, essa non può rappresentare un’entità nazionale separata. Molte divisioni della Germania potrebbero giustificarsi sul piano storico, ma l’attuale linea di demarcazione, che è quella su cui si incontrarono le vittoriose armate alleate nel 1945, non corrisponde ad alcuna di esse. È lecito ritenere che quando i tedeschi della Repubblica federale parlano di Europa essi interpretino il pensiero anche della Germania orientale, salvo per quanto riguarda il problema del comunismo. Questo, naturalmente, è un problema più generale, dato che le minoranze comuniste non sono state rappresentate né entro gli organi politici del Consiglio europeo, né in discussioni quali quelle della nostra commissione di studio. Ed è naturale che sia così, poiché, sebbene il governo sovietico per scopi puramente politici si sia servito talvolta del concetto di “interessi europei” per contrapporlo all’idea della Comunità Atlantica, l’internazionalismo comunista basato sul marxismo ha di mira problemi che non tengono in alcun conto la realtà geografica dell’Europa. Inoltre, per il mutare della sua prospettiva storica in conseguenza della dominazione russa, il comunismo contemporaneo non si preoccupa neppure di portare il proprio contributo a uno studio specificamente europeo delle questioni storiche e culturali. Ma l’assenza dei comunisti dalla discussione – quand’anche il loro contributo a essa avesse dovuto essere totalmente negativo – presenta un pericolo reale e talvolta sottovalutato. Infatti, qualsiasi cosa si possa pensare del ruolo svolto dalla Russia sovietica negli affari europei o dai partiti comunisti nel mondo non sovietico, rimane pur sempre un fatto indiscutibile
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che il marxismo, anche nel suo adattamento leninista, fa parte della tradizione del pensiero politico e sociale europeo. Se è vero che in alcuni paesi dell’Europa occidentale il partito comunista non costituisce che una piccola cricca tagliata fuori dalle principali correnti della vita nazionale, in altri invece si presenta con tutta una serie di gradazioni che vanno da una rigida accettazione della linea di Mosca fino a una mera posizione di sinistra nelle questioni politiche o culturali. Non si tratta semplicemente della posizione assunta dagli intellettuali. Come avremo sovente occasione di porre in luce, una grave debolezza dell’idea di Europa in questi ultimi anni è stata la sua incapacità di trovare rispondenza in larghi strati della classe operaia organizzata. In alcuni paesi ciò va attribuito indubbiamente al fatto che il marxismo si era già accaparrato l’ubbidienza politica di questi elementi vitali della popolazione. L’opposizione comunista non può venir fronteggiata considerando la tradizione marxista come qualcosa di estraneo. Se è di vitale importanza impedire arbitrarie esclusioni dall’Europa cancellando intere zone geografiche assoggettate al dominio comunista, è ugualmente importante ricordare che non dobbiamo accettare che venga tracciata una linea di demarcazione interna nell’ambito delle nostre stesse società. Una giusta comprensione del concetto di Europa deve tenere conto di tutti i più importanti aspetti intellettuali e sociali dell’intero nostro continente. Pur fatte tutte queste riserve, una definizione basata su un criterio geografico comporta inevitabilmente delle esclusioni. Non soltanto, infatti, esclude regioni che sono vere e proprie proiezioni dell’Europa al di là dei mari, in cui è discutibile che nuove civiltà siano state create o
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siano in fase di formazione, ma esclude pure una nazione indubbiamente europea come Israele. Sebbene la composizione demografica della popolazione di Israele abbia subito recentemente profonde modifiche a favore degli ebrei di provenienza araba, le istituzioni del paese e tutta la sua concezione di vita traggono prevalentemente le loro origini dall’Europa. Il movimento sionista europeo, da cui nacque lo Stato di Israele, fu il prodotto della pressione sugli ebrei europei delle medesime correnti sociali e intellettuali che diedero origine agli altri principali movimenti nazionalisti nell’Europa del XIX secolo. L’unica vera differenza fu che il movimento ebraico trovò la sua espressione e si concretizzò territorialmente al di fuori dell’Europa geografica e non entro di essa come avvenne per gli altri. In seguito all’uccisione di circa sei milioni di ebrei da parte dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale, e alla conseguente distruzione dei principali centri della cultura ebraica in Europa sopravvissuti alla Rivoluzione russa, l’elemento ebraico della storia europea è oggi rappresentato principalmente da Israele e dalle istituzioni culturali là sorte. Escludere Israele significa correre il rischio di trascurare questo elemento essenziale del passato europeo. Infatti, sebbene durante il secolare processo della formazione dell’Europa le persecuzioni inflitte agli ebrei dai loro vicini abbiano impedito loro di dare un contributo importante alla cultura europea, costringendoli a ripiegarsi su se stessi, ciò nondimeno il loro isolamento non fu mai completo. Con la Riforma poi, e più ancora con l’Illuminismo, il contributo ebraico in alcuni campi divenne assai importante, in parte forse perché le continue vicissitudini cui furono soggetti fecero sovente degli ebrei i portatori – sia pur involontari –
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della scienza e della cultura da un paese europeo all’altro. È evidente, pertanto, che neppure le apparenti certezze offerte dalla geografia sono di grande ausilio per lo studioso del problema europeo, anche sotto questo profilo egli si trova dinanzi a problemi incerti e ambigui che lo costringono a rivolgersi altrove per comprendere i concetti che tenta di analizzare. E tuttavia, non appena ci si allontana dalle tradizionali divisioni geografiche si corre il rischio di navigare nell’ignoto mare delle simpatie personali e dei pregiudizi. Arnold Toynbee al convegno di Roma disse: «L’Europa di cui ci occupiamo non è il continente convenzionale dei geografi [...] Quando parliamo di “europei” intendiamo in realtà riferirci, credo, a quegli abitanti della penisola nord-occidentale del Vecchio Mondo, e delle isole adiacenti, che sono, o furono, spiritualmente soggetti al patriarcato di Roma: in altre parole ci riferiamo ai cristiani, cattolici o protestanti, che vivono nella parte nord-occidentale del Vecchio Mondo». È vero che Toynbee era disposto a includere nella sua definizione anche gli «abitanti di parti confinanti del Vecchio Mondo, i quali, in tempi moderni, hanno adottato la secolare civiltà dell’Europa occidentale senza averne adottata la religione», includendo, «tra gli altri, serbi, greci, bulgari, romeni e turchi». Ma ciò non fa che accrescere la confusione, visto che l’unica ragione, in base a tale criterio, per escludere gli abitanti dell’America del Nord o dell’Australia sarebbe precisamente quella convenzione geografica reputata artificiale da Toynbee stesso. La suddivisione dell’umanità secondo le credenze religiose, o secondo le ideologie laiche che a quelle si sono sostituite in alcune zone o presso alcune classi, è senza
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dubbio una base perfettamente accettabile per un tipo di indagine storica e il monoteismo è certo un elemento basilare nella tradizione europea. La storia religiosa è un ramo di studio legittimo quanto la storia politica o quella economica, ma il tentativo di Toynbee di servirsene come base per la storia delle società ha in sé un difetto fondamentale: quello di non tener conto dell’esperienza contemporanea. Se gli europei sentono di far parte di un gruppo a sé, deve essere perché ritengono di avere alcune caratteristiche che li distinguono da altri gruppi umani, perché credono di poter fare una distinzione tra ciò che è europeo e ciò che non lo è (convinzione che ritengono condivisa da altri) e perché sentono che le differenze nascono da qualità o esperienze che essi hanno in comune tra di loro ma non con i membri di altri gruppi umani. In altre parole, se la cultura europea esiste veramente, essa deve poter esser definita sia per contrapposizione sia in base al suo contenuto individuale. E qui si presenta per lo meno una grave difficoltà che va subito affrontata. Per gli abitanti indigeni degli altri continenti, la parola “europei” ha inevitabilmente un significato razziale, intendendo il termine “razziale” nella sua accezione più vasta e non in senso scientifico o pseudo-scientifico. Per l’asiatico, per l’africano o per il nativo americano, l’europeo si distingue per il colore della pelle e per altre caratteristiche fisiche. In molti casi, nei contatti tra europei e non europei nei secoli più recenti, le differenze sono state accentuate dai maggiori progressi tecnici compiuti dai primi, e dal loro più elevato tenore di vita, ma la differenza originaria rimane significativa anche quando le altre diversità tendono a scomparire. E tale distinzione è sentita non soltanto dalle altre razze ma anche
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dagli europei e dai loro discendenti dovunque il contatto continui su vasta scala. L’uso di parole con un contenuto più francamente razziale – come la parola “bianco”, usata nel Sud degli Stati Uniti per distinguere i discendenti dei coloni europei dai discendenti dei loro schiavi neri – può talvolta far perdere di vista le origini della divisione in questione. Ma nell’Africa del Sud, per esempio, la parola “europeo” viene usata per sottolineare la differenza tra la minoranza bianca e gli altri gruppi razziali e addirittura per giustificare la pretesa della prima a occupare una posizione sociale e politica particolare che le permetta di salvaguardare e sviluppare la civiltà europea. Tale atteggiamento da parte degli europei trapiantati in altri continenti, e dei loro discendenti, non coincide certamente con quello della maggioranza degli europei che vivono nel loro paese d’origine. Questi ultimi infatti tendono in genere, malgrado alcuni pregiudizi razziali popolari, a considerare la civiltà europea sufficientemente universalista per superare le differenze di razza. Nel XIX secolo, quando la loro fiducia in sé era maggiore, gli europei usavano addirittura la parola civiltà per significare la civiltà europea, come se questa fosse l’unica, e parlavano per contrasto delle “culture asiatiche e africane”. L’Europa considerava il resto del mondo come destinato ad accettare i suoi insegnamenti e a seguirne l’esempio. Lo statuto della Corte Internazionale dell’Aja, promulgato dopo la Prima guerra mondiale, parlava ancora di “Stati civili” riferendosi agli Stati europei o europeizzati. Gli avvenimenti successivi hanno smorzato questo primitivo ottimismo e i dubbi circa la legittimità di alcuni aspetti della “espansione europea” sono diventati così forti che tali idee, considerate come l’equivalente nel
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campo culturale dell’imperialismo, vengono ormai generalmente respinte. Tuttavia, trovandosi la civiltà europea in un certo senso sulla difensiva persino in Europa, e rendendosi gli europei sempre piu chiaramente conto che lo sviluppo demografico gioca a loro sfavore, può darsi che essi tornino a sentirsi più affini ai loro fratelli d’oltremare e accentuino gli elementi che li distinguono dai popoli di altri continenti. Di tale cambiamento nella posizione dell’Europa nel mondo, che è la principale caratteristica politica del secolo attuale, non ci pare che le masse siano sufficientemente consapevoli perché se ne possano prevedere con precisione gli effetti definitivi. È chiaro tuttavia che la ragione fondamentale del nuovo interesse sorto per l’idea di Europa va ricercata in una serie di pressioni esterne, le quali hanno favorito il diffondersi dell’idea che l’Europa, almeno in una certa misura ed entro limiti non ben definiti, è la sede di una civiltà dissimile da quelle dei Nuovi Mondi chiamati a riportare l’equilibrio nella sua struttura politica, come è dissimile da quelle antiche civiltà che ora ne respingono la pretesa ad assumere il ruolo di guida culturale, dopo averne abbattuto il predominio politico. Alla base di ogni analisi del concetto di Europa sta quindi l’idea di un contrasto, ma poi inevitabilmente si pone la questione del contenuto: esiste effettivamente qualche aspetto della vita europea del quale si possa dire che è essenzialmente europeo e solo europeo? Sebbene questa domanda sembri scaturire logicamente dalla constatazione della ormai raggiunta coscienza europea, essa può venire, e talvolta viene effettivamente, elusa in due modi. Alcuni pensano infatti che questo mutamento nella posizione dell’Europa nel mondo sia
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soprattutto una conseguenza dell’incapacità degli europei di dirigere la vita politica del loro stesso continente. Guerre e preparativi di guerra sono stati la rovina dell’Europa, inoltre, nelle attuali condizioni, la densità stessa della popolazione e delle culture se da un lato è fonte di forza per l’Europa, dall’altro è causa della sua vulnerabilità. L’alternativa alla formazione dell’Europa, sostengono costoro, è l’inammissibile perpetuarsi di Stati nazionali europei del tutto indipendenti. È necessario pertanto, per ragioni pratiche, considerare l’Europa come la realtà e lo Stato nazionale soltanto come un’aberrazione passeggera e pericolosa. Ma tale argomento è un’arma a doppio taglio, perché può indurre a chiedersi come mai, se l’Europa è la realtà, le nazioni sono sempre state così riluttanti ad accettare tale realtà. Chi abbia raggiunto l’età di settant’anni è passato attraverso due guerre immani scatenate da una o più nazioni che negavano tale realtà superiore. La seconda di queste guerre fu iniziata dai tedeschi – da un popolo cioè che si trova al centro stesso della storia e della cultura europea – guidati da capi che sognavano di dar nuova forma a tutto il continente europeo sterminando alcune razze e riducendone molte altre in diverse gradazioni di schiavitù. In tali circostanze è necessario ricordare che l’opinione generale è sensibile non soltanto agli sforzi compiuti per unire l’Europa mediante un’azione volontaria, ma più ancora al ricordo di periodi in cui è stata quasi tutta unita in seguito a una conquista. Sia Napoleone che Hitler riuscirono quasi a creare un’Europa continentale ed entrambi questi tentativi finirono in un’esplosione di nazionalismo. Se non si terrà conto di questi dolorosi ricordi sarà difficile capire perché alcuni considerino tanto
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equivoco l’ideale di una unità europea. Quindici anni fa il termine “europei” era sovente sinonimo di collaborators. Stabilire con precisione il contenuto di questa idea di Europa è impresa così difficile che può sorgere la tentazione di abbandonare completamente la storia per rifugiarsi in una sorta di misticismo storico. Si sente talvolta affermare che l’apparente solidità del concetto di Stato nazionale e il suo apparente predominio sulla scena della storia sono dovuti soltanto a una deprecabile limitatezza della nostra prospettiva storica. Ci colpisce, cioè, soltanto ciò che è avvenuto recentemente. La civiltà europea costituisce un fenomeno relativamente recente se la si considera iniziata con il Rinascimento o con Carlo Magno, ma essa ci appare come la più antica se la si considera l’erede spirituale dei pittori delle caverne di Lascaux e di Altamira, o delle culture neolitiche di Babilonia e dell’Egitto. Ma anche senza risalire tanto lontano, possiamo vedere in essa la discendente diretta di Atene, di Roma e di Gerusalemme. Soltanto tenendo presente queste dimensioni temporali si può apprezzare la vera unità e la vera gloria della civiltà europea; mentre, quando se ne considera unicamente qualche periodo storico convenzionale come il Medioevo, il Rinascimento o la Rivoluzione industriale, non si riescono più a discernere le linee principali della struttura europea e le sue caratteristiche specifiche. Ma alla base di tale argomento stanno sovente delle immagini poetiche di cui non si sono chiariti i legami con la realtà. In primo luogo infatti, chi se ne serve tende a usare le parole “europeo” e “occidentale” come sinonimi, il che di per sé dimostra una certa ambiguità; in secondo luogo, con tale argomento si lascia al tempo stesso intendere che questa “Europa” è in un certo senso distinta
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non soltanto dalle civiltà dell’Asia e dell’Africa, ma anche dalle civiltà degli Stati Uniti e della Russia. Eppure, anche a chi non sia un profondo conoscitore della storia, non può non saltare all’occhio che i rapporti tra l’Europa moderna e l’antico Egitto, o tra l’Europa moderna e la cultura delle caverne di Lascaux, sono infinitamente meno stretti di quelli esistenti tra gli Stati Uniti e l’Europa, dalla quale la Repubblica americana ha tratto i nove decimi della sua popolazione e, quasi al completo, le sue tecniche materiali e sociali. Lo stesso può dirsi dei rapporti intercorrenti tra il resto dell’Europa e il nucleo europeo dell’Unione Sovietica, la quale, in quanto “Russia”, costituisce uno dei membri principali della famiglia europea delle nazioni, e che per la sua eredità bizantina può a buon diritto considerarsi per lo meno altrettanto vicina al mondo mediterraneo quanto i paesi dell’Europa nord-occidentale. Ogni prospettiva storica è sempre in una certa qual misura soggettiva, pertanto il fatto di credersi l’erede di Roma o di Babilonia fa sì che ciò diventi vero almeno in parte. Ma quand’anche lo studio del succedersi delle civiltà e dei loro rapporti di derivazione fosse oggi più progredito, si potrebbe difficilmente giustificare questa tendenza a considerare esclusivamente alcune fasi della storia umana allo scopo di esaltare un particolare aspetto della storia attuale. Si è parlato molto delle deformazioni della storia volte a giustificare l’odierno stato di cose, e gli storici nazionalisti in particolare possono a ragione venir incolpati di aver sostenuto che i fatti importanti della storia sono quelli che hanno contribuito a esaltare la propria nazione; ma altrettanto ingiustificabile ci sembra il sostenere che un nostro determinato obiettivo – per quanto mirabile e perfino nobile,
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come, per esempio, l’unità europea – è un fatto reale e per di più immanente a duecento secoli di storia umana. Per quanto riguarda la storiografia professionale, questo tentativo è veramente anacronistico. Infatti, lungi dal continuare ad accettare le suddivisioni tradizionali della storia in antica, medievale e moderna, e a collocare noi stessi, per così dire, sull’ultimo scalino di una scala allungabile, lo storico odierno si sente sempre più a disagio di fronte a uno schema che così male si adatta al complesso sempre più vasto di fatti di cui egli faticosamente ha imparato a tener conto. È assai più probabile che egli accetti una teoria come quella dello storico polacco Oscar Halecki, secondo il quale quella che si era soliti chiamare età antica o classica andrebbe invece detta età mediterranea, età che durò oltre la caduta dell’Impero d’Occidente ed ebbe termine soltanto con l’avanzata islamica nell’VIII secolo. L’età oscura della barbarie sarebbe quindi costituita dai secoli IX e X e non già da quelli immediatamente successivi alla caduta di Roma, poiché solo dopo quelli i popoli dell’Europa orientale entrarono appieno nel corso della storia europea. Propriamente parlando può dirsi quindi che l’XI secolo sia il primo della storia europea. Benché non si sia mai verificata una netta frattura con il passato e benché i popoli europei abbiano tratto dalla civiltà mediterranea non soltanto le loro credenze religiose, ma anche molti dei loro modi di pensare in questioni secolari, non si può dire che la storia europea cominci veramente prima dell’epoca in cui queste credenze e queste abitudini trovarono la loro dimora in un ambiente che possiamo definire veramente europeo. Anche la suddivisione in periodi della successiva storia europea è oggi sottoposta a un rigoroso processo di re-
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visione. Il concetto di Medioevo – che tanta importanza assume sovente nello studio dell’unità europea – è oggetto di discussione sia da parte di coloro che vorrebbero far iniziare il Rinascimento dai primi secoli dopo il Mille, dissociandolo da qualsiasi forma di rinascita classica, sia da coloro che vogliono vedere il persistere di forme di pensiero medievali nei secoli XVI e perfino XVII, e attribuiscono assai maggior importanza o alla dissociazione avvenuta tra politica internazionale e controversie religiose nella seconda metà del XVII secolo (e alla contemporanea rivoluzione verificatasi nel campo delle scienze naturali), o ancora ai grandi rivolgimenti avvenuti nell’ordinamento sociale e politico d’Europa in seguito alla Rivoluzione francese. Altri vorrebbero spingersi ancora oltre, e, come Halecki stesso, ritengono che la prima metà del secolo attuale abbia segnato una svolta ulteriore, la fine cioè della stessa storia europea, con la fine del predominio degli Stati nazionali europei e della funzione determinante nella politica mondiale dell’equilibrio politico europeo. Saremmo così entrati nell’Età contemporanea, che Halecki definisce atlantica, dominata da due potenze che egli considera extraeuropee. Ma la teoria di Halecki, se offre un metodo per studiare la storia europea, non serve per impostarne i problemi contemporanei. Una teoria meno estremista, e meno influenzata da evidenti preconcetti politici, si può trovare nella serie di saggi in cui lo storico inglese Geoffrey Barraclough ha raccolto le sue riflessioni sulla storia europea e sui limiti di essa. Per Barraclough la storia dell’Europa non è un susseguirsi di avvenimenti, ma una serie di problemi. E secondo lui le svolte principali di questa storia sono assai diverse da quelle fissate da Halecki. Il passag-
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gio tra l’antichità mediterranea e la storia europea propriamente detta è fissato, seguendo lo schema tradizionale, ai secoli IV e V dell’era cristiana. E tuttavia, la divergenza con Halecki è qui più apparente che reale: secondo Barraclough, infatti, la civiltà europea in quei primi secoli non era che abbozzata, mentre per giungere alla sua maturità si deve aspettare la crisi dell’XI secolo, quando i contrasti tra imperatori e pontefici rivelarono il preciso e determinato tentativo (di importanza così vitale per tutta la successiva storia europea) di stabilire un ordinamento basato sui precetti divini. Tale orientamento della Chiesa occidentale – che, sebbene si possano ritrovarne le origini nel pensiero di S. Agostino, rappresenta tuttavia una netta deviazione dal primitivo e tradizionale atteggiamento cristiano di ritiro dal mondo – non fu seguito dalla Chiesa orientale. Ciò spiega, secondo Barraclough, la fondamentale divergenza prodottasi nei secoli successivi tra le due parti dell’Europa. L’ultima tra le grandi svolte della storia sarebbe stata segnata dall’Illuminismo del XVIII secolo, ovvero dal tentativo di trovare un’etica secolare da sostituire a quella religiosa tradizionale, e dal concretarsi in azione della nuova visione universale implicita in esso. In un altro suo studio Barraclough suddivide in periodi la storia d’Europa: «Dapprima si ha la preistoria dei popoli europei, ovvero il periodo in cui questi si trovavano soltanto al margine della conoscenza storica, di cui assai rari sono i documenti scritti, epoca che si estende fino all’800 o al 900 d.C. Abbiamo in seguito il periodo della formazione delle società europee, tra il 900 e il 1300, e quindi il cosiddetto Medioevo d’Europa che, a mio avviso, si estende dal 1300 al 1789. Segue infine la nostra storia moderna».
Nella stessa collana DNA
John Kenneth Galbraith, La società opulenta Michael Young, L’avvento della meritocrazia 3 Richard J. Neutra, Progettare per sopravvivere 4 Jacob Bronowski, Un senso del futuro 5 Lewis Mumford, In nome della ragione 6 Hermann Keyserling, Presagi di un mondo nuovo 7 Jacob Bronowski, L’identità dell’uomo 8 Franco Ferrarotti, Dialogare o perire 9 Simone Weil, La prima radice 10 Alessandro Passerin d’Entrèves, Obbedienza e resistenza 11 Walter Lippmann, Il grande vuoto 12 Denis De Rougemont, Vita o morte dell’Europa 13 Riccardo Musatti, La via del Sud 14 Max Beloff, L’Europa e gli europei 1
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LA CULTURA È ESPERIENZA COMUNE Su cosa si fonda l’unità dell’Europa e a quale titolo popoli tanto diversi possono definirsi “europei”? La risposta a questa domanda è un viaggio all’indietro nella storia e nella cultura, alla ricerca di un elemento comune che giustifichi l’aspirazione all’unità del nostro continente e il tentativo, lungo ormai quasi un secolo, di realizzarla in concreto. L’Europa è il diritto romano, i capolavori del Rinascimento, il sublime kantiano e i romanzi di Dickens e di Flaubert, ma anche le sanguinose guerre di religione, le miserie dei popoli, l’autoritarismo e le tragedie del Novecento. Come tutto questo si combini in un’unica tradizione è una domanda destinata a rimanere aperta, ma fondamentale per tutti gli europei che in quanto tali vogliono immaginare il proprio futuro. In collaborazione con