Manlio Marinelli
Aristotele teorico dello spettacolo
Indice
Introduzione
7 Parte prima Prima di Aristotele
1. La catarsi e i processi di comunicazione teatrale
13
2. La cultura del vedere e la tematica dell’ὄψις
106
3. L’attore e il performer
131
Parte seconda Aristotele e lo spettacolo 4. La questione dell’ὄψις
169
4.1. La tragedia come arte della visione, p. 170 - 4.2. Ὄψις e spettacolo nella Poetica, p. 191
5. La comunicazione teatrale nel pensiero di Aristotele
247
5.1. La qualità dei processi ricettivi tra percezione visiva e auditiva, p. 248 - 5.2. Cognitivizzazione e lavoro dello spettatore, p. 277 - 5.3. La catarsi tragica come modalità di comunicazione spettacolare, p. 311
6. Aristotele teorico dello spettacolo
341
6.1. La composizione spettacolare, p. 341 - 6.2. L’attore e il performer, p. 363
Bibliografia
427
443
Indice delle cose notevoli
Introduzione
L’intento principale del presente studio è sondare la teoresi spettacolare aristotelica1. Tale tema apre uno spettro molto vasto di tematiche di importanza centrale nell’analisi della civiltà teatrale tout court ed in particolare di quella antica. Nell’accingermi a sviluppare la mia esposizione, può essere utile cominciare con lo schematizzare alcuni degli aspetPresentare in modo completo l’impianto di metodo entro cui mi muovo sarebbe operazione tanto complessa da necessitare di un intero altro studio. Mi limiterò a presentare alcuni rapidi spunti imprescindibili a cui mi capiterà di rimandare nel corso del libro e che nel corso della trattazione avrò modo di approfondire: mi riferirò nella mia esposizione spesso a De Marinis 1994 e Id. 1992. Questi due testi rimangono, ad oggi, gli studi più chiari ed esaustivi in ordine agli statuti delle discipline teatrologiche; ne sposo in larga parte gli assunti e la trattazione. Ampliare a dismisura i riferimenti bibliografici avrebbe significato discutere una serie di aporie disciplinari che avrebbero allontanato il raggiungimento dell’obiettivo da me assunto: definire nelle linee generali i riferimenti in ordine alla mia proposta critico-metodologica tesa ad un aggiornamento delle prospettive degli studi sullo spettacolo antico. Tuttavia vi sono almeno tre punti che voglio sottolineare in avvio: 1. la centralità dell’evento spettacolare e della grammatica della scena rispetto alla letteratura drammatica; 2. la necessità di riferirsi alla scienza dei teatri così come chiarita da Taviani 1990, in particolare p. 180, e De Marinis 1994, pp. 7-10; 3. la necessità che queste, la scienza del teatro e le scienze dell’antichità, si incontrino in una disciplina unitaria che definisca la storia del teatro collocandola al di fuori della dimensione di una storia particolare per porla in quella di una storia globale (De Marinis 1994). Sulla semiotica del teatro è importante ricordare anche il libro di K. Elam, Semiotica del teatro, Il Mulino, Bologna 1987, al quale non mi riferisco per sfuggire ai rischi sopra indicati. Importanti riflessioni a tutto campo sui vari aspetti dello stato della teatrologia in Italia sono contenute nei numeri 54, 2006 e 55, 2007 di Castello di Elsinore che contengono diversi contributi di particolare spessore. Sul concetto di rappresentazione importanti riflessioni marcate da aperture ad altre discipline in Culture teatrali, 18, 2008. Il numero 16, 2007 della stessa rivista è ampiamente dedicato ai Performance Studies in un’ottica che privilegia la questione dello studio della ricezione teatrale. 1
8
Aristotele teorico dello spettacolo
ti principali che tale lavoro investe e che si incontreranno a più riprese nel corso del libro. 1. Per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, con questo autore ci troviamo di fronte ad una trattatistica consacrata ex professo a questioni di poetica e dunque a questioni di teoria del teatro inteso come spettacolo. Tuttavia la totalità delle questioni che questi affronta nella sua teoresi, richiamano idee, spunti e nodi concettuali che erano già stati al centro del pensiero che lo aveva preceduto in particolare nell’ultimo scorcio del V secolo. In Aristotele confluiscono ipotesi e temi che erano stati al centro della riflessione dei sofisti e di Platone in termini analitici. Ma oltre alla teoresi e alle teorie estetiche elaborate nel quadro della riflessione colta, non può sfuggire che il dettato aristotelico va posto nell’ottica di uno studio di Kulturgeschichte: Aristotele si colloca all’interno di una civiltà teatrale in cui la cultura materiale del teatro è assai solida e questo mezzo artistico, nella sua complessa nozione, permea la vita di ogni cittadino. Quanto egli analizza è in realtà parte integrante del mondo concettuale degli uomini del suo tempo. 2. Aristotele si colloca nel solco di una tradizione teoretica e di una civiltà teatrale, assumendo una posizione del tutto personale che non è comprensibile se non ci riferiamo costantemente alla lettura delle opere degli autori che lo precedono e se non collochiamo la sua teoresi nel contesto della civiltà performativa del V-IV secolo. 3. La sua analisi si articola, come già per il suo maestro Platone, su due direttrici: per un verso offre una descrizione fenomenologica del fatto teatrale, facendosi testimone e fonte della cultura teatrale e performativa del suo tempo, per un altro si propone come prescrittore2, avanÈ fondamentale a mio parere operare questa distinzione e non ritenere che si possa lavorare sul testo della Poetica cercandovi le regole di quella che era nel V secolo la «corretta» tragedia. Se è evidente che il trattato è uno straordinario documento per chi voglia collocare la tragedia nel quadro di uno studio di Kulturgeschichte, è altrettanto notevole che alcune delle posizioni del suo autore sono del tutto personali e che, come ho avuto modo di argomentare in alcuni miei contributi (cfr. Marinelli 2016a, Id. 2016b, Id. 2017), troveranno eco solo in ristretti ambienti intellettuali. Si tratta dunque di posizioni minoritarie, elitarie, che non rappresentano il contesto culturale pragmatico in cui si colloca il fenomeno teatrale tragico. Da questo punto di vista è dunque poco proficuo, a mio parere, cercare di rintracciare il grado di congruità del teatro concreto con i precetti aristotelici e, ancora di meno, studiare il fenomeno materiale «Teatro Greco» a partire da tali precetti e dall’aderenza ad essi, come mi sembra faccia Konstan 2013, pp. 2
Introduzione
9
za una proposta di modalità poietica del teatro, definisce una ontologia di esso e della Poetica in generale. Nel quadro della mia analisi la parte del leone sarà ovviamente sostenuta dalla Poetica che è il principale trattato del corpus aristotelico pervenutoci che sia dedicato al nostro tema. Tuttavia all’interno della produzione dell’autore vi sono numerose altre opere che è necessario tenere presente per una completa comprensione della nostra tematica, opere nelle quali si trattano questioni di poetica spettacolare o contingenti a tale soggetto. Infatti non è possibile comprendere a pieno la problematica dello spettacolo nel quadro del pensiero aristotelico se si ritiene di isolarla dalla organicità della sua speculazione. Inoltre molti degli aspetti della sua teoresi vengono dichiaratamente rimandati, nel testo della Poetica, ad altri trattati, soprattutto alla Retorica e alla Politica: dunque sarà necessario assai sovente allargare il quadro dei nostri riferimenti a queste come ad altre opere in cui si discutano questioni organiche alla mia esposizione, non ultima quella del lavoro dello spettatore che ci costringe ad ampliare lo sguardo alla tematica della percezione e della conoscenza così come ci viene consegnata dal De anima e dal De sensu. Ho deciso di articolare la mia esposizione in due blocchi principali: nella prima parte intendo analizzare i nuclei tematici essenziali che egli affronta così come erano stati trattati dagli autori che l’hanno preceduto e così come emergono dalla cultura teatrale greca prima del IV secolo. Il concetto stesso di teatro è nella grecità del tutto altro rispetto alla nostra concezione di moderni. Se non si assume tale posizione fin da subito non si può che cadere in gravissimi fraintendimenti. Se è vero che «una scienza dei teatri [...] non può che basarsi su fatti empirici in una prospettiva operativa»3, il carattere empirico di tale disciplina impone 68 e sgg., per altro operando nel quadro di un metodo molto legato all’uso delle cosiddette didascalie implicite. Marino 1999, pp. 28-30, individua nel testo di Aristotele un’ambiguità legata al fatto che egli si rivolge ora al poeta, che opera fattivamente, ora al pubblico: sulla base di tale ambiguità nasce nella critica antica una sorta di «ricezione rispecchiata», per cui gli scoliasti avrebbero applicato alla loro lettura della tragedia le categorie della Poetica. Su questa tematica, su cui concordo solo parzialmente, tornerò nel corso dell’esposizione. Donadi 1970-71 ha profondamente studiato le letture della Poetica in età rinascimentale e in quale misura esse abbiano influenzato le successive ricezioni e interpretazioni del trattato oltre che il suo ruolo nella cultura teatrale moderna. Simili osservazioni sono state avanzate anche da De Marinis 1991, pp. 9-10. 3 Taviani 1990, p. 189, ma sul concetto di necessaria dialettica tra teorizzazione ed
10
Aristotele teorico dello spettacolo
quindi allo studioso una continua tensione epistemologica, che differenzia assai sovente le strategie di metodo in rapporto all’oggetto teorico4 ma che soprattutto impone di definire costantemente la categoria teatro, cioè per l’appunto tale oggetto teorico. Questo va spesso ridefinito in considerazione di una serie di variabili quali i contesti culturali e spettacolari5, e le strategie di ricezione. È necessario separare questi due momenti, e approfondire l’analisi di ciascuno e le relazioni di entrambi, per assumere quelle due polarità (performance e pubblico-spettatori) che determinano la definizione stessa di spettacolo teatrale6. Quindi è importante muoversi nella costante consapevolezza che, durante lo studio stesso, si definisce l’oggetto studiato, che non si può, pedissequamente, riportare ad una sua totale omologazione alla nostra categoria. In quest’ottica il lettore avrà modo di rintracciare, nel corso della trattazione, gli indizi e i dati necessari alla definizione di uno Spettatore Modello definito a partire dalla condizione dell’uomo greco e non un modello astratto, che in modo «etnocentrico» si possa supporre come polo ricettivo dello spettacolo antico. Tenendo salde tali premesse teoriche sonderò i seguenti nuclei tematici: 1. la catarsi e le teorie della Relazione Teatrale prima di Aristotele; 2. la cultura del vedere; 3. l’attore e il performer: all’interno di questi tre blocchi accennerò anche a due aspetti contingenti ma che emergono gioco forza: la mimesi come performance, la mimesi come elemento destabilizzante dell’istituzione della polis. Nella seconda parte del mio studio mi dedicherò invece a leggere il pensiero aristotelico in merito al teatro come spettacolo che, come vedremo, è un concetto che attraversa inestricabilmente il concetto stesso di Poetica e di mimesis.
empiricità della teatrologia sembra concordare anche uno studioso di formazione semiotica come De Marinis (De Marinis 1994, p. 33), benché qui come altrove si mostri assai più cauto del collega. Sulla fluidità della categoria teatro, Ruffini 1978, p. 10, ha scritto «Forse è giunto il momento di arrendersi all’evidenza che storia del teatro non è storia di una categoria, attraverso la quale selezionare gli oggetti, ma storia di oggetti che, se acquisiti all’indagine, ridefiniscono di volta in volta una categoria [...]». 4 Sulla nozione di oggetto teorico cfr. De Marinis 1992, p. 10. 5 Sulla cui definizione cfr. De Marinis 1994, p. 23. 6 Cfr. De Marinis 1994 e Perrelli 1993, pp. 196-7 che propone alcune distinzioni tra scena perturbante (nozione mutuata da Alonge) e testo logos ordinatore.
3. L’attore e il performer
La questione dell’attore richiede una prima necessaria premessa. Volgerò la mia attenzione alle tecniche del performer nel mondo greco e non all’attore in senso stretto. Questo perché, e lo si evincerà proprio dai termini della mia analisi, nel contesto che sto analizzando le tecniche performative dell’attore (hypokrités), dell’aedo, del corista o del danzatore-pantomimo (orchestés) appaiono essere accomunate da un’unica categoria, come ho già motivato altrove1, assai liminale per tecniche corporee, codici, concezione. Tra le linee che intendo analizzare quella di maggior rilievo concerne le tecniche corporee e gli strumenti espressivi. A questa si aggiunge quella, assai importante, della possessione divina. Non ho lo spazio per dedicarmi approfonditamente a questo secondo tema, quindi vi accennerò brevemente2. Un altro aspetto infine che non è possibile tacere concerne l’espulsione, in particolare in Platone, delle tecniche mimetiche del perfomer dalla polis. Infatti è a Platone che per lo più farò riferimento, soprattutto perché questi è un autore imprescindibile a chi si voglia accostare alla piena comprensione del pensiero aristotelico in ordine al teatro. Parlando di possessione per il perfomer nella grecità del V secolo ci si trova di fronte ad una prima difficoltà: infatti la questione dell’enthousiasmós investe pesantemente il côté della composizione3, ma data la prossimità del momento compositivo con quello esecutivo assistiamo a molte e notevoli sovrapposizioni. Lo testimonia Platone per quanto concerne il rapsodo nello Ione, e vi ho accennato nelle pagine scorse, e lo testimonia Aristofane nelle Tesmoforiazuse. In questa commedia assi-
Marinelli 2015, pp. 27 e sgg.; Id. 2016a, pp. 25 e sgg. Ma al riguardo si veda Marinelli 2015. Avevo ampiamente trattato tale tematica in Id. 2014-15, pp. 338 e sgg. 3 Marinelli 2015. 1 2
132
Parte I. Prima di Aristotele
stiamo evidentemente (vv. 37 e sgg.) ad una lunga scena che descrive satiricamente l’atto della composizione di un poeta tragico, in cui però i momenti di mescolanza tra la condizione del poeta e quella dell’attore sono molti e importanti4. Rimando a miei studi precedenti per quello che riguarda questo segmento. In questa sede voglio proporre una rapida analisi di un momento delle Trachine sofoclee per le quali disponiamo di alcune preziose testimonianze antiche. Voglio proporre all’attenzione dei lettori un brano corale (vv. 205 e sgg.)5. Si tratta di un brano corale che mescola Apollo e il peana (vv. 210 e sgg.), con evidenti riferimenti dionisiaci (vv. 218 e sgg.), creando una mescolanza tra peana e ditirambo che è difatti la mescolanza e l’unitarietà delle due divinità. Il coro delle fanciulle di Trachis, in preda ad un movimentato canto, stimola ad innalzare il canto ad Apollo (vv. 205-215; in particolare si considerino, παῖανα, παῖανα, ανάγετε, v. 211, e βοᾶτε6 τὰν ὁμόσπορον Ἄρτεμιν Ὀρτυγίαν, v. 212). Questa prima parte è dedicata ad Apollo e in particolare al canto e può apparire come un semplice richiamo all’esaltazione del dio. Nella seconda parte il coro si concentra sulla danza (vv. 216 e sgg.): In alto io mi sollevo verso l’aria e non respingerò l’aulós (οὐδ’ἀπώσομαι τὸν αὐλόν), oh tu, che ti impossessi della mia mente (ὧ τύραννε τᾶς ἐμᾶς φρενός). Ecco, evoè evoè, l’edera mi sconvolge trascinandomi subito nella danza bacchica (βακχίαν ἅμιλλαν7).
È necessario soffermarsi a lungo su tutto il brano. È evidente che si parla di possessione. Il coro lancia l’urlo dionisiaco (v. 219, εὐοῖ εὐοῖ)8, l’edera bacchica lo travolge verso la danza corale, ma soprattutto, in preda ad una danza frenetica, l’aulós possiede la sua mente. Qualcuno potrebbe obiettare che si può trattare di una mera descrizione verbale; Ivi, pp. 18 e sgg. Un’analisi del connotato dionisiaco di questo coro in Henrichs 1995, pp. 79-80, e 88 e sgg. L’autore sottolinea in questo articolo come, nelle sue tragedie, «Sophocles locates the Khoreuein of the Chorus in a concrete Dionysiac ambiance» (p. 75). 6 Sul valore di βοᾶτε nel significato di «innalzare un canto», cfr. lo scolio ad v. 212. 7 Che ἅμιλλα, cioè lotta, fosse da intendersi precisamente come danza corale (χορείαν) era già proposto dallo scolista al v. 221. Con diversi argomenti stessa posizione in Henrichs 1995, p. 83. 8 Anche lo scolio alle Troiane, v. 325, associa l’urlo bacchico a fenomeni di possessione divina. 4 5
3. L’attore e il performer
133
per questa ragione voglio soffermarmi sulle condizioni performative di questo segmento e contestualizzarlo onde offrire una lettura globale del rapporto tra coscienza teoretica del poeta e pratica scenica. Una preziosa testimonianza scoliastica offre conferme più che indiziarie al mio discorso. Nello scolio al v. 21 («mi sollevo in alto e non respingerò l’aulós») leggiamo: ΑΕΙΡΟΜ’ Mi sollevo nel danzare verso l’aria, e mi slancio in su. Infatti il breve canto non è uno stasimo. Ma danzano prese dal piacere (ὑπὸ τῆς ἡδονῆς). Ω ΤΥΡΑΝΝΕ. Oh, aulós, oppure oh Eracle, oppure Oh Dioniso. Altrimenti, oh aulós che ti impossessi della mia mente9. Infatti l’aulós eccita le fanciulle alla danza (ἐρεθίζει πρὸς τὴν χορείαν). Cioè, oh tu che assumi il potere della mia mente (κρατῶν τῆς ἐμῆς φρενός). Mentre dicono queste cose, danzano per la gioia (ὑπὸ χαρᾶς).
Lo scoliasta ci informa che la danza è un concitato su e giù e che all’origine di essa vi sono piacere e gioia (secondo il principio del paradosso tragico dolore-piacere). Dunque il danzare è associato a hedoné e chara. È il suono del flauto a guidare, ad eccitare il coro verso la danza, a dominare la mente (phren) dei coreuti, di fatto a possederla. L’aulós è identificato con Dioniso che dunque si impossessa dei coreuti mediante il suo suono: lo strumento è quasi una sua promanazione. Si stabilisce quindi una corrispondenza: Dioniso, suono dell’aulós, danza. Tale danza è concitata, una danza di gioia e di piacere. È importante sottolineare i dati forniti dallo scoliasta in quanto ci consentono di stabilire quale corrispondenza vi sia tra il Testo Verbale (TV) e il Testo Spettacolare (TS), in questo come in altri frangenti analoghi. La descrizione sofoclea corrisponde ad una vera e propria perfomance estatica (cfr. vv. 218-220, «ecco l’edera mi sconvolge»), ad un’autentica possessione nel corso della performance: una descrizione che vale come un’autentica teorizzazione di un dato che concretamente e materialmente aveva, come testimonia la fonte, la sua declinazione sulla scena. Ma la funzione e il dato emozionale hanno un rilievo ancora maggiore se a quanto già visto si aggiunge lo scolio al v. 220. Il com9 Il potere di possessione della musica è testimoniato, in ambito tragico, anche negli Ichneutái, v. 327 (ed. Radt), in cui si sancisce il potere delle variazioni della lira nel produrre uno stato di eccitazione: in questo caso il riferimento è ad Apollo, Ermes è conquistato dal suono dello strumento che egli stesso ha costruito.
134
Parte I. Prima di Aristotele
mentatore, spiegando l’uso del verbo ὐποστρέφων, chiosa: «cioè che produce un cambio dal dolore al piacere (ἀπὸ λύπης εἰς ἡδονὴν μετάγων)». Per questa via chiarisce ulteriormente la presenza di quel paradosso tragico che abbiamo imparato a conoscere sia in termini di fruizione pragmatica sia, soprattutto, di stato emotivo dei performer. Siamo dunque in presenza di una descrizione in presa diretta di una performance estatica, il poeta ce ne illustra la modalità (canto e danza convulsa), le divinità che intervengono (Apollo e Dioniso), mentre gli stati emotivi degli esecutori possono essere evinti più dalla testimonianza scoliastica che non dal Testo Verbale10. Un altro dato di primaria importanza è legato alla suddivisione che Sofocle opera nel testo. La prima parte è dedicata ad Apollo e vi troviamo un incitamento al canto, per essere precisi un incitamento al grido (alalé) che si articola in peana, in canto apollineo. Può essere interessante notare come alalé sia in genere un grido di guerra, oltre che di gioia ma anche di dolore, connesso quindi sia ad Apollo distruttore ma anche allo statuto ambiguo, in termini emotivi, di cui vado argomentando. La seconda parte è dedicata invece a Dioniso ed è una descrizione orchestica. Quindi Apollo è connesso al canto, Dioniso alla danza, in modo similare a Eracle, vv. 673-68611, un’opposizione che sfaccetta l’identità dei due poli divini che troviamo sovente associati nella tragedia, quantomeno quando si tratta di fenomeni legati alla Musa tragica e a questioni di ordine poetico12. Un divisione coerente con quanto definito da Eschilo nelle Bassaridi in cui l’arte dionisiaca, la musa tragica superava l’orfismo senza negarlo, come ha notato bene Untersteiner13. La possessione Può essere utile ricordare che già in Odissea, VIII, vv. 255 e sgg., avevamo assistito ad una danza in cui era leggibile un non secondario intervento divino, così come in altri contesti, per esempio nei frammenti 4, 84, 89 Calame di Alcmane. 11 «Io non cesserò d’unire [di mettere insieme, di mescolare insieme] le Cariti alle Muse (οὐ παύσομαι τὰς χάριτας Μούσαις συγκαταμειγνύς), l’unione più dolce. [...] Il canto, pur se vecchio, fa risuonare Mnemosyne e levo un canto che celebra la bella vittoria di Eracle, presso Dioniso che dà il vino, durante il canto della lira dai sette toni e l’aulós della Libia. Né mai mi separerò [lett. cesserò il mio legame] dalle Muse, coloro le quali mi istruirono alla danza (o mi insegnarono la danza) (οὔπω καταπαύσομεν Μούσας, αἵ μ’ἐχόρευσαν)». 12 Una interessante disamina dell’opposizione ossimorica all’interno della tragedia proprio in rapporto alla lamentazione, al canto e ai culti apollinei e dionisiaci si trova in Loraux 2001, pp. 104 e sgg. 13 Untersteiner 1955 pp. 312 e sgg. 10
3. L’attore e il performer
135
tragica è dunque legata contestualmente al canto, alla musica dell’aulós e alla danza, in sintesi ai culti di Apollo ma soprattutto di Dioniso14. Ad essa conseguono degli stati emotivi che producono il passaggio dal dolore (lype) al piacere (hedoné), quel piacere che, insieme alla gioia, è il vero e proprio stato emotivo che prende i coreuti che danzano, causa e conseguenza dell’intervento corale. Avevamo visto in precedenza simili situazioni e condizioni sentimentali, in particolare in ambito pitagorico. In quel caso i mutamenti emotivi erano partecipati sia dai performer che dagli spettatori e io credo anche in questo caso. Questa condizione crea un legame tra spettatori ed esecutori. A me pare di ravvisare nella teoria dell’embodiment di Gallese-Rizzolati il link che congiunge gli stati emotivi degli emittenti e dei fruitori, il che ci offre ancora un passo in avanti per delineare, prima di giungere ad Aristotele, i contesti, le cause, i prodromi, il più ampio quadro di riferimenti necessario per cogliere più propriamente il senso e l’esegesi di una vexatissima quaestio su cui mi soffermerò nella Parte II (cap. 5): quella della catarsi. Il fenomeno della possessione, e lo abbiamo visto nel capitolo precedente, ha un effetto purificatorio, di passaggio dal dolore al piacere nei coreuti, ma coloro i quali osservano, i theatái, partecipano di questa metatesi emotiva proprio attraverso la sintonizzazione emozionale, la simulazione incarnata che è legata ai neuron mirrors, studiati da Rizzolati e da Gallese e la sua équipe, come arguibile dalle testimonianze sulla Relazione Teatrale fin qui considerate. Ma per addentrarsi più utilmente nell’arte del performer e nelle sue tecniche è importante leggere quanto Platone esprime in merito alla «presenza»15 di quest’ultimo sulla scena, servendomi in particolare delCfr. Henrichs 1995, p. 83. Sulla presenza del performer da intendersi come l’insieme dei processi biofisici che presiedono alla manifestazione attoriale sulla scena, in particolare in relazione al concetto di «pre-espressività», cfr. De Marinis 1994, p. 113, ma soprattutto Barba 1993, in particolare i capitoli II e III, che definiscono i principi transculturali che informano, nelle diverse civiltà teatrali, la presenza dell’attore, i suoi saperi diversamente codificati in tecniche e codici di recitazione; cfr. anche Savarese 1983, un vero e proprio «dizionario di antropologia teatrale» redatto da vari studiosi delle pratiche espressive, molti aspetti del quale sono ripresi in Barba-Savarese 2011: «L’antropologia teatrale è uno studio sull’attore e per l’attore. È una scienza pragmatica, che diventa utile quando fa toccare con mano il processo creativo allo studioso [...]» (Barba 1993, p. 27, corsivi dell’autore). Secondo questa linea di analisi esistono dei «principi che ritornano» biofisici, che, transculturalmente accompagnano il definirsi di tutti i saperi tecnico-esecutivi 14 15
136
Parte I. Prima di Aristotele
le strategie metodologiche proprie dell’antropologia teatrale. Partiamo dal secondo libro delle Leggi, precisamente dal momento in cui l’ateniese vuole definire la bellezza (kalós) in merito a schema, cioè gestualità, melos, cioè canto melodico – melodia in generale senza preciso riferimento al Testo Verbale – ᾠδή, cioè il canto che investe parola e melodia, orchesis, cioè la danza (654e 4-5). In 654e 9 e sgg. si legge: In cosa si può dire che sia bello (καλόν) uno schema e un melos dunque? Per esempio, quando un’anima virile si trova (ἀνδρικῆς ψυχῆς ἐχομένης) in pene che sono le stesse e uguali a quelle in cui si trova un’anima vile (δειλή) capita che ci siano uguali atteggiamenti gestuali (σχήματα) e emissioni vocali (φθέγματα)?
La gestualità e il canto melodico che si ascolta sono da sottoporre a giudizio. Platone ipotizza subito come criterio la condizione di essi come determinazioni di un’anima virile o vile: quando queste anime si trovano ad affrontare una pena, chiede a Clinia, sono uguali o diverse le modalità gestuali o vocali delle loro reazioni? Mi sono già soffermato sul significato di schema da intendersi come manifestazione gestuale che palesa esternamente, attraverso il linguaggio non verbale, i pathe subiti dei performer di ogni civiltà teatrale, pur nelle diversità spesso polarizzate degli esiti di tali tecniche che affondano le radici nei medesimi principi: «[...] gli attori non si assomigliano nelle tecniche ma nei principi» (Barba 1993, p. 30). L’antropologia teatrale è la disciplina che si occupa di definire il comportamento dell’attore, del danzatore, del performer in generale nelle situazioni extraquotidiane dell’esecuzione spettacolare. Si tratta di una disciplina nata all’interno di una comunità di studiosi che vede operare fianco a fianco uomini di teatro ed accademici, all’interno dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology). In merito alle sue tassonomie e agli studi a essa pertinenti esiste un ampio dibattito critico. Riassumo i miei principali riferimenti: Barba 1993, che ne definisce in modo agile e militante gli orizzonti di analisi; Savarese 1983 e BarbaSavarese 2011, che affrontano in modo preciso lo studio dell’arte dell’attore secondo tale ottica disciplinare, parcellizzandolo in precisi segmenti di analisi; Ruffini 1981, che raccoglie diversi punti di vista sul tema della presenza dell’attore, raccolti nella prima sessione dell’ISTA, cioè in una fase iniziale dell’elaborazione di questa disciplina, e il numero speciale di Teatro e Storia (17, 1995) dedicato ad antropologia e transculturalismo che nella premessa proponeva anche una bibliografia aggiornata a quella data. A mio parere è molto utile utilizzarne le strategie di lettura in un’ottica transculturale senza però dimenticare l’incidenza che mi sembra comunque abbiano i contesti culturali nel determinare i comportamenti, i codici gestuali e la loro fruizione nell’ambito del sistema culturale di una società.
3. L’attore e il performer
137
dal soggetto e, attraverso gli schemata16, comunicati allo spettatore. Si rifletta un momento sulla parola phthegma. Tale termine indica la «parola detta», è cioè da riferirsi alla parola come emissione, con riferimento alla sostanza fonica, alla dimensione del suono, del rumore della parola, inteso come percettibile proprio dell’udito, afferibile quindi al piano dell’espressione acustica: emissione vocale appunto, «voce»17. Alla domanda posta dall’ateniese, Clinia risponde di no e il primo incalza (655a 4 e sgg.): Ma nella mousiké ci sono atteggiamenti gestuali (σχήματα) e canti melodici (μέλη) poiché la mousiké ruota attorno a ritmo e armonia (περὶ ῥυθμὸν καὶ ἀρμονίαν18), così che si può dire che è ben ritmata e ben armonica (εὔρυθμον καὶ εὐάρμοστον) non quando raffigura (ἀπεικάσαντα) il canto melodico (μέλος) e l’atteggiamento gestuale (σχήμα) ben colorito (εὔχρων), come la raffigurano i maestri dei cori (χοροδιδάσκαλοι). Ci sono atteggiamenti gestuali (σχήματα) e canti melodici (μέλη) sia dell’uomo vile sia virile (τοῦ δειλοῦ τε καὶ ἀνδρείου) ed è corretto asserire che sono belli (καλά) quelli virili e turpi (αἰσχρά) quelli vili.
Quello di Platone non è un giudizio morale sul contenuto dei canti o su quello dei gesti. Egli sta, al contrario, operando un discorso rivolto agli strumenti attraverso cui si attua una rappresentazione: il piano visivo-gestuale e quello acustico-fonico conseguenti a due codici differenti ma che sono attraversati da ritmo e armonia che trovano la propria declinazione nel movimento della danza e nel canto. Egli si concentra 16 Nel brano che sto analizzando Platone si concentra sugli schemata corali, cioè riferibili alla pratica della danza. Ma le pratiche gestuali definite dal termine schema costituivano tratto comune tra la danza e la recitazione degli attori come ho chiarito in Marinelli 2015, studiando alcune pratiche gestuali ricostruibili attraverso le fonti per l’Aiace e l’Edipo a Colono di Sofocle. Cfr. anche Catoni 2008, pp. 149 e sgg. 17 La questione riguardante origine ed esatto significato del termine e dell’intera famiglia di cui è parte è lunga e di non facile risoluzione (cfr. Laspia 1996, pp. 91 e sgg., per un rapido ma articolato punto della situazione, a partire da Omero, per i termini connessi alla radice di φθέγγομαι come il nostro lemma; cfr. anche Chantraine 1968, s.v.). Di certo il significato varia dall’uso omerico in poi. Che il suo significato indichi la parola articolata o esclusivamente la voce come suono inarticolato, è chiaro che il tratto del suono, del piano percettibile della sua emissione, è in ogni caso la sua precipua connotazione. 18 Si ricordi che il termine in greco non indica la combinazione contemporanea di suoni, ma una serie di scale musicali in cui i toni si susseguono secondo intervalli differenti da quelli su cui si basa il nostro sistema musicale.
138
Parte I. Prima di Aristotele
nel definire due principi su cui risiedono tali aspetti performativi, a ciascuno dei quali corrisponde una peculiare gestualità e vocalità. Il primo principio è quello andreios, cioè virile. Il secondo è quello deilós, cioè vile. Questi due termini non devono apparire come troppo vaghi. Platone tende ad escludere gli aspetti irrazionali che si possono trovare nelle forme rappresentative, e tra essi quelli che si possono fare risalire a principi di tipo femminile, segnatamente il lamento, il compianto, il threnos. In 669c, a fianco degli altri aspetti irrazionali che l’uomo-cittadino deve evitare nella sua mimesi (voci di animali, elementi della natura, cfr. 669d19) si enumera con rilievo il melos delle donne, il quale melos si accompagna sempre allo schema come rilevava lo stesso Platone poco prima (654e)20 e come si è visto trattando di Pitagora. Va notato che in questo segmento, che è parte di un disegno teorico più ampio, egli comincia proprio chiedendo quali possano essere le reazioni del soggetto agente, cioè del performer, in una situazione caratterizzata da «travagli» (πόνοι). Per questa via appare chiaro che nella divisione di Platone il concetto di deilós sia da associare alle manifestazioni deboli, irrazionali e largamente «femminili» messe in pratica dal performer, mentre le manifestazioni virili sono quelle che non indulgono nel compianto ed in simili mollezze, in manifestazioni incontrollabili che sfuggono alla disciplina delle emozioni dettata dal concetto di Stato ideale che l’autore sta costruendo. Può essere interessante, al riguardo, concedersi una breve parentesi da Platone per allargare il nostro orizzonte ad un testo che chiarisce con più precisione il nesso virilità (andreia) e coraggio come elemento che marca il cittadino contro viltà, come aspetto analogo all’atteggiamento femminile e quindi apolis. Il trattato pseudoaristotelico sulla Fisiognomica dedica uno spazio rimarchevole alla descrizione dell’atteggiamento fisico maschile e segnatamente al movimento e alla postura gestuale. Si tratta di un documento di vitale importanza per definire le convenzioni fisiche dall’interno del contesto culturale anche in ambito teatraCfr. la forte analogia con Repubblica, 396d. Leggi, 654e 3-5: «Queste cose dobbiamo fare come cani in cerca di tracce: la bella postura gestuale (σχήμα καλόν), e il canto con melodia (μέλος), e il canto semplice (odén), e la danza (ὄρχησιν)»; 655a: «Ma nella mousiké καὶ σχήματα μὲν καὶ μέλη ἔνεστιν», e in tutto il passo che segue in cui si instaura il rapporto tra musica, ritmo, arte della danza e rappresentazione (mimemata) per il quale rimando all’analisi del testo. 19 20
3. L’attore e il performer
139
le21 e che, nella fattispecie, consente di chiarire il quadro in cui si muove anche Platone. Nel cap. III (807a 32 e sgg.) l’autore descrive le caratteristiche esterne che veicolano la percezione in chi guarda dell’andreia (ἀνδρείου σημεῖα): tra queste spiccano la postura gestuale dritta, eretta (τὸ σχῆμα τοῦ σώματος ὀρθόν) e il fatto di mostrare, nell’uso delle gambe e delle braccia, forza e grandezza (πλευραὶ καὶ τὰ ἀκρωτήρια τοῦ σώματος ἰσχυρὰ καὶ μεγάλα). Le manifestazioni di deilia sono invece l’esatto contrario: ma è da notare la possibilità di associare quest’ultimo concetto, l’assenza di virilità, con la sfera del femminile proprio in termini posturali. In 806b 32 e sgg. infatti si dice: Τὸ δὲ ἄρρεν τοῦ θήλεος μεῖζον καὶ ἰσχυρότερον, καὶ τὰ ἀκρωτήρια τοῦ σώματος ἰσχυρότερα καὶ λιπαρώτερα καὶ εὐεκτικώτερα καὶ βελτίω κατὰ πάσας τὰς ἀρετάς22.
La mancanza di forza nelle estremità, nelle gambe e nelle braccia, connotato di deilia, è caratteristica femminile, è un dato che si evince dall’osservazione posturale come si chiarisce subito dopo (807b 35-38) ricordando che queste osservazioni si traggono dai movimenti e dalle posture gestuali (kineseis kai schemata), cioè dai dati precipui che costituiscono l’arte del performer. Osservazioni analoghe ricorrono assai sovente nel trattato (810b 35 e sgg.; 814a 1 e sgg.), mostrando come questo nesso fosse ben presente all’elaborazione speculativa greca e non a caso in uno scritto di marca peripatetica. La descrizione posturale (busto eretto, gambe forti) tornerà nella nostra analisi proprio in Platone, a proposito della gestione dell’energia del performer e mostrerà ulteriormente quanto l’analisi platonica sia un documento fondamentale per leggere la «presenza» fisica del performer confermato e incrociabile, tra gli altri, proprio con il documento pseudo-aristotelico. La sezione successiva delle Leggi (655c e sgg.) è dedicata all’importanza di una danza e di una mousiké in cui gli schemata rispondano sostanzialmente a quel criterio, tanto che sarà compito del poeta comporne di tali che si ispirino ai connotati di uomini temperanti (sophrones) e 21 Cfr. le giuste notazioni di Raina 1993, p. 37, che osserva il largo impiego che il trattato potrebbe trovare nel quadro di uno studio che vi ricerchi le convenzioni gestuali del tempo. La studiosa si riferisce in particolare agli studi sulla commedia nuova. 22 «Il maschio è più grande e più forte della femmina e le estremità del corpo sono più forti e più grosse e più vigorose e migliori secondo ogni virtù».
140
Parte I. Prima di Aristotele
virili (andreioi)23, prescrizione coerente con la tendenza platonica a depotenziare la forza comunicativa e perturbante dello spettacolo. Ma restiamo alla sua analisi su voci e gestualità come sospesi nell’espressione di due diversi principi presenti nell’anima (cfr. 654e). Platone in 672e 5 e sgg., dopo avere a lungo analizzato il ruolo di Dioniso, di Apollo e delle Muse nei cori, si concentra nello studio della relazione tra phoné e schema, in particolare in rapporto al tema del movimento (kinesis). L’intera choreia [cioè canto e danza del coro] è per noi l’intera formazione (παίδευσις), parte di ciò sono i ritmi (ῥυθμοί) e le armonie (ἁρμονίαι) in merito alla voce (κατὰ τὴν φωνήν). [...] Per altro il ritmo è un elemento comune del movimento del corpo (τὴν τοῦ σώματος κίνησιν) rispetto al movimento della voce (τῇ τῆς φωνῆς κινήσει), specificatamente è lo schema. Invece il melos è il movimento della voce (ἡ τῆς φωνῆς κίνησις).
L’arte del coro è determinata da due aspetti, voce (phoné) e corpo (soma). Entrambi sono elementi dinamici, in quanto legati a kinesis, cioè a movimento, che si manifesta attraverso il ritmo e l’armonia. Il ritmo è comune al movimento, alla dinamica del corpo e al movimento della voce. Nel primo caso parliamo di schemata (body in motion) nel secondo di melos, canto melodico appunto, epifania della voce in quanto sostanza fonica, che penetra «fino all’anima»24, proprio attraverso il ritmo. Al momento in cui egli parla di questi elementi e della loro capacità di incidere sul performer e sullo spettatore, sta svolgendo un duplice discorso: per un verso parla della forza che il movimento, il canto e la gestualità hanno nella formazione dell’esecutore ma per un altro delinea quella che è la qualità della presenza del performer, sia in quanto colui che in scena compie dei movimenti sia in quanto emittente vocale: movimenti vocali e fisici ai quali corrispondono movimenti dell’anima, aspetti che incidono profondamente sul loro percettore, sul fruitore. Dunque, per tornare all’origine del nostro discorso, gli aspetti del piano del contenuto vengono messi in secondo piano, poiché Platone sta proponendo un parallelo tra il piano dell’espressione acustica e visiva e la 23 24
Cfr. Leggi, 660a. μέχρι τῆς ψυχῆς (673a 3).
3. L’attore e il performer
141
sua incidenza sul percettore a partire dal concetto di movimento gestuale e vocale, di schema e melos, dati costitutivi della mousiké, che mediante kinesis colpiscono ed educano il fruitore così come il performer25. Tali schemata e melos devono rispondere ad un principio «virile» e temperante in opposizione ad uno vile, irrazionale che era assimilato alla sfera del «femminile». Per altro l’idea che la danza possa essere una «messa in forma» di principi vitali che prescindono il piano del contenuto per rivolgersi ad un principio vitale e originario è chiarita alcune righe dopo (673d e sgg.): [...] il genere umano, come dicevamo, avendo colto la percezione (αἴσθησιν) del ritmo generò e partorì la danza (ὄρχησιν), e poiché il canto melodico (melos) richiamava e risvegliava il ritmo, questi due elementi messi in comune l’uno con l’altro partorirono l’arte del coro e il divertimento.
Danza e canto, cioè l’arte del coro in generale, pertengono ad un principio vitale, biotico, al momento in cui l’uomo percepisce attraverso i sensi il ritmo e vuole trasformare questa percezione in una forma visibile, esterna da sé e comunicabile agli altri, attraverso se stesso, un mutamento di elementi organici del proprio stato fisico, il che ci rimanda per altro alla questione dell’atto efficace. Tale forma investe il movimento del corpo e il gesto, attraverso la danza, e il suono attraverso il canto. Non è secondario considerare che mentre il gesto è una manifestazione dell’essere tutta esterna, che ha a che vedere con la messa in forma del corpo (lo schema), la voce viene dall’interno di esso, è quindi una maniera di formalizzare verso l’esterno, attraverso il principio vitale del ritmo, l’essere nella sua interezza, esterno e interno, corpo e anima, soma e psyché, come mostrano gli insistiti accenti che proprio in questa sezione Platone pone su quest’ultima dicotomia (cfr. 672c 8, 673a 3). Se volessimo trovare un confronto con analoghi principi in diverse civiltà teatrali, potremmo facilmente trovarle nel principio dello jo-ha-kyu di Zeami, in particolare seguendo la formulazione che ne dà Yoshi Oida al momento in cui spiega la dinamica interpretativa tra interno ed esterno dell’attore26. Al di là dell’intento prescrittivo di Platone, che impone l’elemento 25 Sul contesto ricettivo, cfr. quanto dice in 659a e sgg., che abbiamo riccamente analizzato nelle pagine scorse. 26 Cfr. Oida-Marshall 2000, pp. 43-4, 51-4.
142
Parte I. Prima di Aristotele
«temperante» e «virile», rimane chiara la polarità tra i due principi come modalità attraverso le quali il corpo, gestualmente e vocalmente, mette in forma la percezione del movimento, di un principio vitale che è percepito e presentato per mezzo del ritmo. Volendo isolare i temi principali che emergono da questi passi del II libro se ne possono sottolineare tre in particolare: 1. l’individuazione di due principi – virile (andreios) e vile (deilós) – che presiedono all’espressione gestuale e fonica del performer; 2. la danza si origina dalla percezione del ritmo che trova espressione nella choreia, cioè nella necessaria fusione contestuale della orchesis e dei suoi schemata, con il canto (melos) da intendersi originariamente come esclusiva espressione melodico-vocale priva dell’aspetto del Testo Verbale formalizzato e connessa agli schemata. Questi due temi sono posti nel contesto di un’analisi dell’incidenza pedagogica che l’arte del performer può avere sulla formazione del cittadino della città ideale, il che testimonia l’influenza enorme che la pratica della danza corale aveva, nella concezione greca, sulla emozionalità e sulla formazione stessa della persona intesa come integrazione di corpo-mente (soma e psyché). Il mondo viene percepito non tanto attraverso un’operazione mentale, quanto attraverso un approccio euristico che investe al contempo corpo e mente, anzi in cui non vi è divisione tra i due elementi; a ciò consegue che 3. il principio che informa qualsiasi manifestazione tra quelle viste, sia vocali sia visivo-gestuali, è il movimento (kinesis): il movimento è pensiero (thinking in motion, «[...] un pensiero che non si fa concetto»27), è una modalità di appropriazione del mondo che passa attraverso il corpo sia attraverso le sue manifestazioni visibili (schemata) sia le sue manifestazioni udibili (melos, odé)28. Mi sembra si possa inferire da quanto visto che Platone non sia interessato alla questione del contenuto della mousiké, ma che semantizzi la presenza del performer a partire dal gesto e dal canto, privati di ogni metaforizzazione, si concentri cioè sulla logica del processo (bios dell’attore) e non su quella del risultato (senso). Il corpo di cui parla qui l’autore non è analizzato in quanto vettore di un contenuto da esprimeBarba 1993, p. 135. Cfr. 802a e 816c 6, nei quali Platone chiarisce come le due classi di espressioni della mousiké siano da vedere in stretta relazione. Nell’ultimo passo citato si evidenzia come i principi performativi e «morali» che interessano l’una siano del tutto speculari nell’altra. 27 28
3. L’attore e il performer
143
re: l’analisi si concentra sulla definizione di dinamiche che precedono il senso, ma che hanno a che vedere con la possibilità per la mente-corpo di percepire il mondo ed esprimerlo attraverso operazione pre-espressive, che precedono la formalizzazione verbale del pensiero e sono invece legate all’espressione ritmica, che per l’appunto è una forma preespressiva, che pertiene al concrete thinking , cioè al pensiero del corpo29. Il matrimonio tra azione e significato non è indissolubile, come ha spiegato Barba30, ed è certamente relativo alla percezione del pubblico e alle convenzioni generali di un determinato contesto. Tuttavia mi sembra che qui Platone si stia impegnando a analizzare la questione della presenza del performer, secondo la strategia tipica del suo argomentare: da una parte l’analisi fenomenologica, dall’altra l’intervento prescrittivo. Ma è sulla prima che mi interessa soffermarmi. Un adagio molto popolare negli ambiti degli studi teatrologici vuole che le metafore e le modalità di trasmissione del sapere teatrale siano estranee e incomprensibili per chi uomo di teatro non è31. Se dietro tale asserzione si nasconde un margine di verità, va detto che in una civiltà in cui la comunicazione e le pratiche performative informavano in maniera così stretta la vita delle persone, questo scollamento era forse meno percepibile. Fatto sta che all’interno dell’analisi di Platone mi sembra che l’analisi ontologica della presenza del performer evochi spunti di grande interesse. A leggere con attenzione quanto egli dice ci sono due modalità di analisi possibili, interagenti tra di loro. Per un canto, quanto abbiamo visto e stiamo per vedere è una stringente visione delle tecniche pre-espressive dell’attore, un viatico all’individuazione di alcuni di quei «principi che ritornano» di cui parla l’antropologia teatrale32, di quei principi cioè che si riscontrano orizzontalmente, sincronicamente e diacronicamente, tra tutte le civiltà teatrali di ogni epoca e di ogni latitudine. Ma dall’altro è una testimonianza cruciale che ci introduce ancora più approfonditamente all’interno della cultura teatrale e poetica della Grecia del V-IV secolo. Nel VII libro ritroviamo le stesse tematiche con alcune essenziali 29 Sui concetti teorici a cui mi riferisco in queste pagine (thinking in motion, concrete thinking), cfr. Barba 1993, p. 135 e sgg., ma in generale tutto il capitolo VI. 30 Ivi, p. 134. 31 Ivi, pp. 206 e sgg. 32 Ivi, cap. III.