La parola accesa. Una mappa di letture, di Davide Rondoni

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Davide Rondoni

la parola a c c e s a una mappa di letture

edizioni di


L’esperienza della poesia

1. Per lei, la poesia, la libertà Che cosa succede quando si apre un libro e ci si trova dinanzi a una poesia? Che tipo di esperienza si avvia in quel preciso momento? Quali valori e quali difficoltà essa comporta? Occorre formulare un giudizio, cioè capire di che esperienza si tratta prima di poterla ricercare o riproporre. Infatti, solo ciò che viene giudicato dal cuore e dalla ragione diviene, tra tutto ciò che capita a una persona, sua vera ‘esperienza’. Questo libro vuol essere anche uno strumento di esperienza di poesia.

1.1. Un’esperienza controcorrente Oggi la lettura di poesia è cosa rara. Finita l’età scolare, la maggioranza non la ritiene un’attività valida da continuare. Evidentemente, il modo con cui in classe l’esperienza della poesia è stata affrontata non ha suscitato interesse, o non ha resistito alla prova del tempo e della vita. La poesia, nel mondo degli adulti, è al massimo una cosa che sarebbe bello coltivare se non ci fossero tante cose più urgenti e importanti. Salvo che, alla fine, tra le co3


se più urgenti e importanti, risultano un sacco di idiozie in cui il tempo si perde e disperde. Non bisogna stupirsene: vedremo tra poco che nell’esperienza della poesia è implicato qualcosa di avventuroso e di drammatico. E tutto ciò, in una cultura e in una società come quella in cui viviamo, è decisamente fuori moda. Al di là di tanti facili slogan o dei modi di dire, è chiaro che viviamo in un’epoca che ha confuso la vera avventura con la bizzarria e che tende a occultare il senso della drammaticità profonda che è connesso ad ogni pensosa esperienza umana.

1.2. Non per evadere ma per guardare meglio Non si tratta di rimpiangere ipotetici ‘bei tempi andati’, ma è certo che anche solo pochi decenni fa, nella formazione dei nostri nonni, persino di quelli meno istruiti, la poesia aveva un proprio posto. Certe poesie mandate a memoria hanno accompagnato la vita intera di molti nostri vecchi. In un certo senso, l’esperienza della poesia era considerata più ‘normale’. Semplicemente, i poeti eran sentiti come coloro che danno una forma memorabile all’espressione di ciò che tutti avvertiamo. Oggi non è più così. Per molte cause, che verranno illuminate anche nel corso di questo libro, oggi la poesia, tranne rari casi, non è più avvertita come forma memorabile di un sentimento, o di un’emozione, o di un’idea personale e condivisa. Per i più, essa è solo un’incompresa complicazione di un discorso in prosa o una forma più difficile per immaginare certe cose già viste in video o ascoltate nei dischi. Eppure... Eppure non mancano occasioni in cui l’esperienza della poesia riaccade con tutto il suo insostituibile gusto e la sua impareggiabile forza. Anche sulla rete di scambio informatico Internet si sono subito trovate poesie e riviste di poesia. Con questo libro non voglio fare come il famoso e ambiguo 4


professore di L’attimo fuggente. Per lui e per i suoi ragazzi la poesia era un modo per ‘uscire’ dalla realtà, mentra per noi vuol essere il contrario: un’irruzione, un maggior approfondimento della vita. La poesia infatti può servire a ‘guardare meglio la vita’. E, come diceva un grande matematico, «molta osservazione» prima ancora che molto ragionamento portano alla verità, alle piccole e alle grandi verità dell’esistenza. Che esista un interesse ‘carsico’ (cioè a volte invisibile, altre volte manifesto) per la poesia lo posso affermare per esperienza, essendo l’impostazione metodologica di questo libro non solo il frutto di studi e di ricerca poetica ormai decennali, ma anche il frutto di innumerevoli seminari nelle scuole, nelle università, in circoli di varia natura e di letture pubbliche. Oltre che il frutto dell’amicizia con alcuni dei migliori poeti italiani e stranieri di questi anni. Ma qui torniamo alla domanda iniziale: cosa succede quando si apre un libro e ci si trova dinanzi a una poesia? Con questa domanda, semplice ma imponente, inoltriamoci nella sezione che segue.

2. Alcune linee di metodo 2.0. Cosa succede Quando apriamo un libro e incontriamo una poesia ci accade una cosa simile a quella che riassumo in una storiella apparentemente banale. «Un dì camminavo per il corso principale della nostra città, svolgendo quella italianissima attività che prende vari nomi lungo la penisola (vasca, struscio, passeggio). Mulinavo i miei pensieri in testa, con l’occhio seguivo alcune signorine, o certe vetrine o solo la punta delle mie scarpe. Intorno a me tutti, con facce più o meno note, facevano più o meno lo stesso. 5


Me ne stavo dunque immerso nei miei pensieri, quando, improvvisamente, mi si para davanti un tizio. Io non faccio nemmeno in tempo a veder bene i tratti del suo viso, a notare che tipo di vestito abbia, e quello subito mi fa: “Davide, devo dirti la cosa più importante per la mia vita in questo momento!”. È un attimo, una frazione di secondo: stavo nei miei pensieri, nei miei problemi ed ecco l’intrusione di un altro uomo con questa specie di appello. Forse non ha nemmeno detto quelle parole, gliele ho solo lette nello sguardo. In quell’attimo posso decidere se tirare avanti, scansarlo, togliermelo di torno, oppure se fermarmi ad ascoltare. Devo decidere, ed è una decisione che avviene in un tempo così breve che quasi non ci si accorge di prenderla. Ma è una decisione: dar seguito a quell’imprevisto incontro, ascoltare quel che urge nella vita di quell’uomo tanto da rivolgersi anche a me, che sono a lui sconosciuto, oppure far sì che egli, con la sua urgenza, per me “non esista” e tirar dritto come prima.» In questa storiella sono contenute, in nuce, tutte le questioni che riguardano l’esperienza della poesia, quelle che evidenzierò in ciò che chiamo «linee generali di metodo».

2.1. Un incontro L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi, qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza (altrimenti non avrebbe scritto e tantomeno pubblicato quel testo). Può trattarsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincon6


trato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza. Così come in campo scientifico, anche nella esperienza della poesia le scoperte, le modifiche e le rivoluzioni avvengono perchè avviene qualcosa. Una cosa è ‘nuova’ anche quando è desiderata, anzi, è tanto più nuova ed entusiasmante quanto più desiderata, seppur confusamente. Così, la lettura di certe pagine di Ungaretti o di Caproni o del ‘vecchio’ Dante suscita un senso di scoperta, di novità che ridisegna tutto quel che si pensava di sapere già prima, eppure si può dire che quelle sono proprio le parole e l’espressione che si desideravano incontrare per dare forma a qualcosa che già avvertivamo. Da questo punto di vista, non importa se l’occasione dell’incontro sia il caso, il dovere da compiere a scuola, o la personale ricerca. Occorre solo che l’occasione sia veramente tale e non, di per sé, ostacolo all’incontro medesimo. Una libera ricerca svogliata o un insegnante poco immedesimato con ciò che comunica possono essere occasioni che, invece di favorire, impediscono l’incontro con la poesia.

2.2. Una questione di libertà L’esperienza della poesia ha in sé qualcosa di avventuroso e di drammatico. Infatti, se io tirassi innanzi di fronte a quel tizio, sicuramente eviterei l’avventura e anche il dramma (oltre alla scocciatura) di prestare attenzione a quel che egli vuol comunicarmi, al ‘mondo’ che verrebbe a incontrarsi col mio. Se in quel brevissimo istante in cui decido cosa fare, prevale la chiusura in quel che penso e so già, ogni possibile avventura, ogni nuovo gusto e ogni nuovo dramma mi saranno preclusi. È una questione di libertà. La poesia, come tutta l’arte, è sempre una questione di libertà a questo livello, non solo quando ne 7


parla o quando i poeti la difendono. Infatti, l’uomo libero è colui che sa aderire alla realtà, colui che non si spaventa del nuovo e che possiede una apertura e una disponibilità ad incontrare ciò che gli succede. L’uomo veramente libero lo si nota da un carattere: la disponibilità, che è il carattere di chi nella ricerca della soddisfazione si perfeziona. Il fermarsi ad ascoltare quell’uomo, a leggere quel testo, o il non farlo, sarà sempre un indice di quanta libertà, di quanta avventurosità abbiamo realmente. Si tratta di una questione drammatica: accettare di mettersi in rapporto con qualcuno e di dar seguito a un incontro non è una cosa banale. Ci vogliono passione e disponibilità, cioè capacità di stare dentro all’azione (dramma, come indica il vocabolo greco) di un rapporto che non sai come andrà avanti e che non ti appartiene. Un’epoca ove vi sia poca esperienza di poesia è perciò sempre un’epoca dove la libertà vera e la capacità di rapporto sono in crisi. Se in quel breve momento in cui devo decidere dinanzi a quell’uomo che mi ferma con quella urgenza sulle labbra o negli occhi, o dinanzi a quella pagina, dico ‘no’, significa che la libertà è strozzata e la capacità di tessere rapporti è sterile. Solo dopo aver aperto la mia disponibilità posso, osservando meglio quell’uomo, e ascoltando quel che dice, giudicare, con più pazienza, se quell’incontro abbia significato qualcosa di importante per me, oppure no. Così, leggendo certi poeti, troverò che è valsa la pena di fermarsi e, anzi, tornerò a frequentarli molte volte, incuriosendomi su quale sia la loro provenienza storica e culturale (così come di un amico ti interessa conoscere dove abita e da dove viene). Mentre, dopo aver letto altri, riterrò che quel che sembrava loro così urgente da comunicare è, a mio giudizio, solo un pavoneggiamento o una cosa incomprensibile o un puro esercizio di mitomania. 8


2.3. La poesia stessa detta il metodo per giudicarla A questo punto occorre comprender bene una cosa, apparentemente facile, tranne che poi, vivendo, ce la scordiamo sempre: le cose, le persone che incontriamo non le abbiamo fatte noi, anzi spesso non sono nemmeno come ce le immaginiamo. Insomma, non possiamo trattare il nostro compagno di banco immaginando che sia un cavallo, e ciò semplicemente perché non lo è, così come non possiamo trattare uno che ha il mal di pancia come se non lo avesse, un signore di settant’anni come se ne avesse sedici, o una donna come se fosse una bambola. Spesso noi trattiamo le cose per come ci paiono e piacciono, non per quel che sono, illudendoci che questa sia la nostra libertà mentre invece è la nostra violenza. Così siamo spesso tentati di trattare anche la poesia, il testo scritto, come se fosse un’altra cosa: una canzone, uno spot, uno slogan, una storia, un video. Invece, è una poesia, un testo di poesia. La parola poesia ha, come capita a molti, un cugino che è una sventura. Suo cugino è l’aggettivo «poetico». È una sventura, pur se a suo modo simpatico. Infatti, molti credono che «poetico» e poesia siano la stessa cosa. Ma, anche appartenendo alla stessa famiglia, sono due entità diverse. «Poetico» è un aggettivo generoso, si è diffuso in tanti campi: poetico viene giustamente chiamato un certo risotto che so io, poetico il modo di giocare a calcio di Maradona, poetico è un panorama, un film, un albero, un vecchio barattolo che teniamo per ricordo. Così, poetico equivale a suscitatore di sentimenti, di emozioni, di piacere. La poesia, invece, pur appartenendo alla stessa famiglia, anzi essendo l’origine di tal generoso aggettivo, bisogna intenderla in modo più ristretto ma con uno ‘scopo’ più ampio. Anch’essa suscita sentimenti ecc., ma è precisamente una cosa, un certo oggetto, non un aggettivo. E il suo scopo non è solo suscitare emozioni, ma, anche attraverso di esse, esprimere la realtà della vita, e suggerirne la conoscenza. 9


Come una buona sedia è quella cosa fatta di legno, di chiodi e di paglia, allo stesso modo la poesia è quella cosa fatta di parole e di ritmo. E qui uno potrebbe obiettare: anche una canzone è fatta di parole e di ritmo. Certo. Lasciamo perdere in questa sede il fatto che l’inizio della lirica, nella Grecia antica e nell’Oriente, si diede come unione divina di poesia e musica (ma di una musica fatta di pochi ritmi, di spoglio accompagnamento, non certo i nostri arrangiamenti orchestrali). Per quel che si intende oggi comunemente, la canzone è un composto di musica e di parole, le quali sono isolabili l’una dalle altre, ma che separatamente non fanno certo lo stesso effetto di prima. Si accompagnano, possono lasciarsi e tornare insieme. Invece, nella poesia, parole e ritmo sono inscindibili, sono fusi in un unico oggetto non scomponibile. Di Leopardi non puoi fare il karaoke. Questo rende la poesia un oggetto al tempo stesso poverissimo (cosa c’è di più modesto che usare la parola? non c’è nemmeno bisogno di saper suonare il piffero) e raffinatissimo (da quanto esercizio escono i capolavori apparentemente semplici dei poeti!). Dunque, ogni accostarsi alla poesia che non tenga conto di tale suo darsi come fusione di parole e ritmo è vano oltre che riduttivo. Spesso nei testi di poesia non c’è un messaggio evidente, come negli slogan; non c’è da capire come va a finire una storia, come nei romanzi o nei film; non c’è una descrizione come in fotografia o in certi quadri o nei video. Spesso c’è anche tutto questo, ma sempre c’è una certa cosa che, appunto, si chiama poesia. Ma come non basta assemblare casualmente chiodi, legno e paglia per fare una sedia, non basta fondere parole e ritmo per fare una poesia. Occorrono una disposizione, una perizia e un lavoro particolari che sappiano infondere a quell’opera ciò che la qualifica come gesto di poesia, accanto e diversamente da tutti gli altri gesti umani. Il gesto di poesia, infatti, è un gesto umano 10


come tutti quelli che compiamo normalmente: come quello di bere, di cambiare un figlio piccolo, di aspettare chi amiamo al solito angolo. Ma, come tutti i gesti d’arte e di genio, ha una particolare proprietà: comunica più potentemente qualcosa che non è solo di chi lo sta compiendo, ma che è di molti o, quando è veramente geniale, che è di tutti. Lo stupore comunicato da Leopardi dinanzi alla «luna in ciel» o di Betocchi dinanzi ai tetti, è una cosa di tutti. Così come sono fusi insieme parole e ritmo, nella poesia sono fusi insieme contenuto e forma. C’è una frase, semplice e pur altissima, di un famoso critico d’arte che sintetizza bene il problema, pur senza risolverlo, poiché il problema di capire i dosaggi del rapporto tra contenuto e forma è come capire se è nato prima l’uovo o prima la gallina. Dice, più o meno, quella frase: «La forma impronta di sé il significato, e il significato di sé la forma». In estrema sintesi, dunque, il consiglio è di evitare un accostamento alla poesia aspettandosi o, peggio ancora, pretendendo che essa sia una cosa diversa da quel che è. Pena cocenti delusioni e pericolosi fraintendimenti. Allo stesso modo, se il tizio in cui mi sono imbattuto nella famosa passeggiata al corso è molto più alto o molto più basso di me, dovrò tendere l’orecchio al livello giusto. E se è francese, non potrò parlargli in dialetto barese stretto o pretendere che lui mi parli in impeccabile italiano manzoniano. Dovrò dar corso a un dialogo a gesti, sforzandomi di capire e di farmi capire. Così non posso leggere una poesia e pretendere di comprendere bene quel che essa esprime, senza tener conto che devo sforzarmi di cogliere il ritmo usato o addirittura inventato dal poeta e il fatto che la sua lingua può essere insolita non perché è un tipo amante delle stranezze, bensì perché è spinta da un’urgenza e da una forza che la modifica e la fa diventare speciale. Ma qui siamo già al quarto punto. 11


2.4. Una questione spinosa e semplice: la parola accesa Sul tipo e sulle proprietà del linguaggio usato in poesia si sono scritti molti e forse troppi libri. Anche i poeti hanno trovato gusto a teorizzare quel che accade loro mentre scrivono, spesso col risultato di complicare le cose più che di aiutare a capirle. Certo, lo sforzo di comprendere quali siano i livelli, i codici e le strutture diverse che animano i tanti linguaggi che formano il nostro linguaggio è utile oltre che meritevole, soprattutto per chi voglia dedicarsi alla apposita scienza linguistica o all’esercizio specifico della critica letteraria, così da poter storicamente contestualizzare con quali idee filosofiche e con quale prassi del linguaggio i poeti si sono via via confrontati. Ma c’è un punto di partenza semplice. Un punto di partenza che non prevede una pre-scienza di tipo linguistico. La poesia, per essere sperimentata, non chiede la laurea in Scienze della comunicazione o in Lettere. Infatti, ciò che qualifica il linguaggio della poesia è innanzitutto una tensione. Una forza, cioè, che attraversa e afferra le parole solite, quelle della normale tradizione linguistica in cui siamo inseriti, e le trasforma trasfigurandole, o meglio, facendo emergere il loro vero potenziale. È una tensione che spinge a trovare parole e forme di parole il più possibile adeguate alla realtà che si vuole comunicare (l’adequatio era il principio che per Tommaso d’Aquino segnalava la giustezza di un pensiero e di un’idea rispetto alla realtà). È quel che nel nostro titolo ho indicato come il divenir ‘accese’ delle parole. Nella poesia si trovano parole che solitamente sono spente e che lì, invece, risultano accese. Ad esempio, il ragazzino che voglia comunicare alla sua prima ‘lei’ la vivacità e la tenerezza del suo amore scriverà su un foglietto o sul suo diario: «Sei bella come un fiore». Poi, pensando che quella frase, un po’ abusata e spentina, non è adeguata alla realtà che sente battergli in petto e alla realtà che è quella ‘lei’, 12


correggerà e scriverà: «Sei più bella di ogni fiore di tutti i giardini del mondo». Non sarà proprio il massimo dell’originalità, ma quella minima correzione corrisponde già a un’operazione di linguaggio poetico. Tende a mettere a fuoco il mistero che nella verità lo ha toccato. Le parole della poesia non sono parole di una lingua diversa, per iniziati o per abitanti di un iperuranico pianeta, ma sono le nostre parole di sempre ‘accese’ da una tensione nuova. Così persino la costatazione – che chissà quanti han fatto –: «Piove. È Mercoledì. Sono a Cesena», nella poesia di Marino Moretti diviene, poiché collocata in un certo modo e con un certo ritmo e per tanti motivi che vedremo, un linguaggio di poesia. E il «mia madre, mia eterna margherita» di Mario Luzi è l’esito felice di una parola e di una metafora che trovano la loro adeguatezza per esprimere il valore della presenza materna nella vita di un uomo. L’inizio è semplice, dunque. Il «primo verso è dato» diceva un grande poeta francese. Allo stesso modo, al lettore è dato lo strumento per iniziare l’esperienza della poesia: è la sua lingua, sono le parole che la natura e la comunità gli hanno posto sulle labbra, e la tensione che anch’egli ha a volte sperimentato volta a trasformare e ad accendere le sue parole perché siano adeguate alla realtà. Ci capita, ad esempio, di dare dei soprannomi a persone care (l’amata, i figli). Li soprannominiamo per ‘mettere a fuoco’, a volte con nomi buffi, la tenerezza, lo stupore, la allegria o la passione che la loro presenza ci fa accadere. Non ci bastano i nomi soliti, d’anagrafe. L’arte mette a fuoco la vita. La poesia è una tensione e una accensione che non finiscono mai: lo testimonia il fatto che poesie di dolore o d’amore continuano ad essere felicemente scritte e a stupirci. Perché sono le parole, le nostre parole che ‘chiedono’ di non restare sempre spente, di essere accese e lanciate come motori che possono andare ai duecento all’ora, mentre solitamente le facciamo trottare ai trenta... 13


2.5. Il lavorio dell’interpretazione Se a quel tizio che mi ha fermato ho accordato la mia disponibilità dimostrando di essere un uomo libero, e se le parole che mi ha detto o scritto hanno meritato la mia attenzione, da questo preciso istante inizia il mio lavorio interpretativo. Esso nasce innanzitutto come curiosità, come serie di domande. Ad esempio: se è Dante, ‘perché parla in quella lingua antica?’; oppure, ‘da dove viene? quali sono i suoi antecedenti storici e culturali? e con chi si confrontava? quali fatti han segnato la vita del suo tempo? e lui come li affrontò? quali poeti ha influenzato?’, ecc. Saranno domande che non possono partire che dal mio stato presente. Non mi devo immaginare diverso da quel che sono ora per iniziare a fare l’esperienza della poesia. Naturalmente, per esprimere ciò che si scopre in un’esperienza di poesia, non occorre aver già la risposta a tutte queste domande. Così, sarà lecito, pur non sapendo nulla di un autore, provare a giudicare un suo testo. Egli infatti, fermandomi per il corso, non mi ha chiesto di leggere e di comprendere (cioè di prendere con me) la sua biografia o la storia dei suoi studi, bensì quel suo testo. Certo, un poeta che scrive in lingua straniera o nell’italiano del Duecento ci chiederà di fare uno sforzo di ‘traduzione’. Ma tale traduzione non è quello che facciamo sempre quando parliamo con qualcuno anche conosciuto o che viene da posti lontani? In fondo, tradurre non è detto che sia per forza tradire: anzi, tradurre somiglia molto a capire. Di quel testo devo dire cosa suscita in me e, perché sia un’esperienza reale, di esso devo tentare un giudizio. Altrimenti è come se non esistesse. Ma, come avviene per tutti gli incontri che incuriosiscono o che qualcuno di cui mi fido mi indica come meritevoli di approfondimento, cresce il desiderio di ‘saperne’ di più, così che il giudizio sia sempre più acuto e sicuro. Dopo anni di studio su un poeta, si può addirittura cambiare giudizio su di lui, oppure confermare il primo immediato giudizio che si era dato. Lo studio, 14


come diceva Goethe, può essere una formidabile forma di arricchimento della nostra persona e quindi della capacità di giudizio. Il lavorio interpretativo, come indicano i maggiori critici, somiglia molto al rapporto di amicizia: si acquisiscono sempre nuovi dati, nuove conoscenze, nuove sfumature: non si finisce mai. Infatti, come nell’amicizia, anche nell’esperienza della poesia il giudizio non è mai definitivo. Solo un uomo crudele e completamente orgoglioso può pensare, di fronte a un amico o a un’opera d’arte: ‘ecco, adesso ti ho capito del tutto, tu sei così e cosà, e stop’. Chiunque di noi si sentirebbe soffocare nel rapporto con una persona del genere. E, infatti, le opere di poesia continuano ad essere oggetto di interpretazione, di lavorio critico. Ancora oggi si scrivono innumerevoli saggi su poeti vissuti più di mille anni fa. Non per arbitrio (anche se il rischio c’è) ma per amicizia. Dunque, non bisogna sottrarsi al compito (e al gusto) di tentare la propria interpretazione, facendo ricorso a tutta l’attenzione e la perizia possibili, ben sapendo che non sarà un giudizio definitivo. Così che la necessità di un giudizio nel presente non precluda il maturare di un giudizio più comprensivo. Già da quanto dicevo circa la proprietà del gesto di poesia, si comprende che può capitare (e a volte capita) che un professore ‘super esperto’ di critica letteraria e di linguistica abbia un’esperienza della poesia meno importante e anche meno affascinante di quella di un nostro zio carpentiere o di un ragazzo di quarta liceo. Il primo sarà certamente più adatto a insegnare alla Facoltà di Lettere la storia della letteratura, ma i secondi comunicheranno a chi li ascolta maggior passione e persuasione sul valore dell’esperienza di poesia.

2.6. La preferenza Come in ogni campo, anche nella poesia non si dà vera esperienza se da essa non nascono preferenze. Diffidate di chi afferma che gli 15


piacciono le donne e non ne preferisce nessuna, così come di chi dice di amare lo sport ma non ne pratica o tifa neanche uno. Avere preferenze non implica l’esclusione o la noncuranza di ciò che preferito non è, ma significa l’esistenza di punti che attraggono di più l’interesse e sollecitano maggiormente l’approfondimento. Se uno studia tutta la storia della letteratura o legge tutta una antologia di poesia e non si accorge di preferire un autore rispetto ad un altro, significa semplicemente... che tutto il tempo passato sopra questi libri non è stata un’esperienza e che li ha letti come si legge l’elenco del telefono (così come ci sono dei matti che se ne imparano a memoria dei pezzi interi). Ma come si fa a preferire un autore ad un altro? Fino a che punto è davvero sensato dire che Montale è più ‘bravo’ di Pascoli, o che D’Annunzio è meno bravo di Luzi? Tutti i poeti che assurgono a un certo livello di fama e di storicizzazione critica sono stati, per quel che riguarda l’uso di questa strana cosa detta poesia, sicuramente bravi. Ma allora sarà lecito preferire D’Annunzio a Pascoli perché su certi temi mi trovo in maggior accordo? Fosse semplicemente così, la poesia sarebbe solo un’occasione per confrontarsi con idee politiche o religiose o estetiche. E poi, i temi dei grandi poeti non sono quasi sempre gli stessi, pur trattati in mille modi (l’amore, l’infinito, la morte, l’esilio, il viaggio, la solitudine, ecc.)? La preferenza è il vertice del lavorio interpretativo. Non può essere accordata solo in base ad elementi immediati (la facilità di comprensione, la ‘vicinanza’ di linguaggio e di sensibilità, ecc.). Essa è l’esito di una certa frequentazione, pena l’esser solo un breve invaghimento estetico o una ‘facile’ comunanza ideologica. Qui mi preme indicare quel che può considerarsi il criterio intorno a cui si attua tale preferenza. È solo una enunciazione, spetta poi al lavorio di ciascuno sperimentarlo. Io dico che si arrivano a preferire i poeti che verso il gesto della poesia hanno il mio stesso tipo di aspettativa. Infatti, ci sono 16


poeti per cui il gesto della poesia rappresenta il vertice di attività umana più alto, altri che da quel gesto si attendono consolazione, altri che intendono la poesia come un cammino sapienziale, altri come strumento per affermare certi contenuti, altri ancora come ‘sonda’ gettata nel mistero umano, altri come puro avvitamento nel proprio mondo interiore, altri come gioco, ecc. Si tratta evidentemente di tipi di aspettativa indicati genericamente e quasi mai presenti in modo univoco e delimitato. È altresì vero che ciascuno o alcuni di essi, a una seria indagine, possono risultare prevalenti in un autore, nella sua poetica e nel suo esercizio, quando non in una corrente o in un certo periodo storico. Rispetto ad essi si posiziona il mio assenso, la mia preferenza. Così, si possono giungere a preferire poeti, come Dante e Baudelaire, che nonostante grandi diversità di mentalità, di epoca, di fede e di formazione, testimoniano nei confronti del gesto della poesia una certa aspettativa, che qui, con massima concisione, chiameremo di ‘sonda’ delle contraddizioni e dell’unità del vivere, e che non pensano che tale gesto sia un atto assoluto, o un gioco, come invece altri intendono. La preferenza non esclude, non censura, non rende parziali. Preferendo Betocchi a Sanguineti non presumeremo di ritirare al secondo la patente di ‘poeta’ (patente del resto vaga e inutile), ma indicheremo nel gesto di poesia di Betocchi un maggior valore rispetto alla aspettativa e ai desideri con cui io guardo alla poesia. Il primo criterio più ‘oggettivo’ di valutazione può essere, paradossalmente, quello più ‘soggettivo’: vale a dire che la ‘mia’ aspettativa di bellezza, di armonia, di significato è in me come è in tutti, è un desiderio che non ho inventato io e che pur mi costituisce. È soggettivo ma è oggettivo! Nell’esperienza dell’arte si mette in questione la rigidità astratta di una divisione del reale tra ciò che è soggettivo e oggettivo, anzi, si annulla il senso di queste finte categorie, in favore di una riconosciuta appartenenza dell’io a qualcosa di altro, di più. Questo primo criterio mi gui17


derà ad una prima mappa di preferenze. E se il mio compagno di banco, seguendo lo stesso criterio, avrà costituito un’altra mappa di preferenze, poco male (a meno che io o lui non si voglia essere dei piccoli dittatori): le mie scelte arricchiranno come stimolo le sue e viceversa, in un dialogo proficuo. Occorre usare continuamente questo primo criterio soggettivo/oggettivo, perché l’uso di criteri successivi e secondari (ad esempio un criterio che corrisponde a una inclinazione di gusto per un gesto di poesia ‘descrittivo’ o ‘impressionistico’ o ‘giocoso’, ecc.) non generi solo una discrezionalità orgogliosa e una sterile confusione. Esercitare una preferenza, anzi, serve a dare un ordine personale alla mappa di ciò che si studia, serve a mettere alla prova i criteri valutativi (che, beninteso, possono cambiare nel corso del tempo o nell’incontro con nuove scoperte) con cui affrontare personalmente il campo di studio. Non bisogna mortificare la preferenza, semmai esaltarla e approfondirla fino al livello in cui essa costitisce un impulso e un vaglio con cui ci si getta volentieri nella scoperta e nell’attenzione a quanto più ci è possibile.

3. Perché vale la pena leggere una poesia Dopo tutto il mucchietto di roba che vi ho rifilato come essenziali ‘linee di metodo’, proviamo ad affrontare la domanda fatidica: davvero val la pena leggere poesia? e perché? Solo ciò che val la pena, che mi costa un po’, ha un vero valore nella vita. Tutto ciò a cui teniamo, infatti, è identificabile come qualcosa per cui vale la pena di... In una sua famosa poesia, Montale dice che tutte le immagini che l’uomo guarda cercando una risposta ai desideri del proprio cuore portano come una scritta che dice: «più in là». E anche Leopardi, cantando l’inno ad una donna di cui s’era innamorato, Aspasia, dice che lei suscita in lui un desiderio che addi18


rittura non s’accontenta di lei, ma aspira a qualcosa ‘oltre’, a qualcosa che però proprio lei è in grado di fargli intravvedere. Anche nella poesia siamo provocati ad assumere lo stesso atteggiamento di Montale e di Leopardi. Leggiamo una parola, vediamo una virgola, notiamo un’assonanza o una pausa e siamo subito a chiederci: ‘cosa vuol dire, che cosa indica?’. La poesia, a un primo elementare ma fondamentale livello, è uno dei modi in cui ci si educa a vedere la realtà come ‘segno’. Infatti, in un testo di poesia un albero, una lacrima, un cielo annuvolato, un silenzio, non sono solo un albero, una lacrima, ecc., ma sono segno di qualcosa d’altro che dobbiamo cogliere. E ogni parola è molto di più che il suo immediato comporsi grafico, fonetico e semantico. E più del suo significato corrente. Basta leggere certi versi, ad esempio l’inizio di Le ricordanze di Leopardi, per comprendere che le parole di una poesia evocano molto di più che una serie di suoni e di significati. Abituarsi a guardare la realtà nel suo valore di segno è la base di ogni serio atteggiamento morale e di ricerca scientifica. Il non accontentarsi di ciò che è immediatamente percepibile abitua l’uomo a riflettere, a trattare le cose e le persone con rispetto e con prospettiva, a valutare la durata e non solo l’effimero, a non smettere mai di indagare e di commuoversi per ciò che ‘rimandando ad altro’ diviene oggetto di stima e di cura. La lettura di poesia, come la lettura di ogni espressione veramente artistica, educa e sviluppa tale attitudine, che costitisce il vertice e la condizione dell’attività razionale. L’uomo che sviluppa l’attitudine a non guardar più la realtà come segno è il fantasma protagonista degli orrori domestici e sociali che abbiamo troppo spesso sotto gli occhi e di cui siamo tutti, tutti protagonisti.

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Indice

Prologo… davanti al mare

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Nota per il lettore

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L’esperienza della poesia 1. Per lei, la poesia, la libertà, p. 3 • 1.1. Un’esperienza controcorrente, p. 3 • 1.2. Non per evadere ma per guardare meglio, p. 4 • 2. Alcune linee di metodo, p. 5 • 2.0. Cosa succede, p. 5 • 2.1. Un incontro, p. 6 • 2.2. Una questione di libertà, p. 7 • 2.3. La poesia stessa detta il metodo per giudicarla, p. 9 • 2.4. Una questione spinosa e semplice: la parola accesa, p. 11 • 2.5. Il lavorio dell’interpretazione, p. 13 • 2.6. La preferenza, p. 15 • 3. Perché vale la pena leggere una poesia, p. 18 Capitolo primo San Francesco. Una lode drammatica Il cantico delle creature, p. 20

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Capitolo secondo Ungaretti e Montale. Altri inquieti cantici 1. Giuseppe Ungaretti. Le occulte mani della nostalgia (I Fiumi), p. 27 • 2. Eugenio Montale. Per l’ultimo segreto (I Limoni), p. 34 209

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Capitolo terzo Dante. L’esperienza, la visione 1. L’entrata in scena («Inferno», canto I), p. 55 • 2. La differenza. Dante e Brunetto («Inferno», canto XV), p. 62 • 3. Con il mento appoggiato sulle braccia. Note sull’«Inno alla Vergine» di san Bernardo («Paradiso», canto XXXIII, 1-39), p. 76 Capitolo quarto Petrarca. Rammarico purissimo e inquieto «Canzoniere», I, p. 87 • «Canzoniere», L, p. 96 Capitolo quinto «Quasi nulla». La vita irrisolvibile in Giacomo Leopardi Cantico notturno di un pastore errante dell’Asia, p. 102 • «Quasi nulla». Riflessioni su alcuni testi dello «Zibaldone», e su una poesia (Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima), p. 113 Capitolo sesto Movimento del mondo e atto libero: l’inizio dei «Promessi Sposi» Il capitolo I dei «Promessi Sposi», p. 122 Capitolo settimo Lo sguardo vedovo di Giovanni Pascoli Capitolo ottavo Charles Baudelaire e la maledizione del due L’albatros, p. 150 • Al lettore, p. 151 • Corrispondenze, p. 154 • Inno alla bellezza, p. 156 • La capigliatura, p. 158 • I Fari, p. 159 • Spleen, p. 161 • Don Giovanni all’inferno, p. 162 • A una passante, p. 164 210

43

87

102

122

137

146


Capitolo nono L’autentica eversione di Arthur Rimbaud Il battello ebbro, p. 172 • Una stagione all’inferno, p. 174 • Mattino, p. 179 • Addio, p. 179

167

Capitolo decimo Il fuoco e la rosa siano uno. Desolazione e fermento in Eliot

184

Capitolo undicesimo Mario Luzi. «Lei lo sa». La vita nella vita

190

Appendice Conversazione tra Roberto Benigni e Davide Rondoni. «Un uomo che ama qualcosa è uno spettacolo»

197

Bibliografia essenziale

205

211


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